Scarica Allegato - Digital Magics

18
Martedì 25 Novembre 2014
COMMENTI & ANALISI
CONTRARIAN
L’INNOVAZIONE DIGITALE
MANDA CHIARI SEGNALI
DI RISVEGLIO IN EUROPA
Che l’innovazione digitale in Italia sia ancora
da venire lo testimoniano le cifre: gli investimenti
in venture capital, punto di riferimento per le
start-up che alimentano questo segmento (tra
business angels, family office, incubatori e
acceleratori d’impresa), nella Penisola nel 2013
non sono andate oltre lo 0,003% del pil, contro
lo 0,024% della media europea (la Germania
si è attestata allo 0,026%, la Gran Bretagna lo
IL VENTURE CAPITAL DIGITALE
Finanziamenti in società europee
2,50
2,00
Capitale in mld di $
(scala sx)
N° operazioni
500
400
1,50
300
1,00
200
0,50
100
0
0,00
3° 4° 1° 2° 3° 4° 1° 2° 3° 4° 1° 2° 3°
2011
trim 2012
trim 2013
trim 2014
Fonte: Dow Jones Venture, 3° trimestre 2014
GRAFICA MF-MILANO FINANZA
0,029%). Ma proprio perché il settore accusa un
vistoso ritardo, visto dall’angolazione opposta ciò
significa che i margini di crescita sono davvero
ampi, tanto più in un momento in cui l’interesse
per il settore dell’innovazione digitale in Europa
sta attraversando un evidente risveglio. Nel terzo
trimestre di quest’anno il capitale investito in
operazioni di venture capital su società di questo
tipo è ammontato a 2,3 miliardi di euro, il livello
più alto degli ultimi tre anni, il 36% in più rispetto
allo stesso trimestre del 2013. E sempre tra luglio e
settembre in Europa si sono svolte 16 operazioni di
collocamento di società del comparto, per un totale
di 447 milioni, rispetto alle sole tre (per 26 milioni)
dell’analogo trimestre 2013. Altri due segnali molto
indicativi che qualcosa si sta muovendo: in ottobre
Rocket Internet, colosso tedesco dell’incubazione
d’impresa, fondato dai fratelli Samwer nel 2007,
è sbarcato alla borsa di Francoforte con una
capitalizzazione da 7,2 miliardi di euro. Mentre è
di poche settimane fa il lancio da parte di Deutsche
Telekom di un’iniziativa di venture capital da
500 milioni. Certo, l’Europa è una cosa e l’Italia
un’altra. Secondo il rapporto 2014 dell’Unione
internazionale delle telecomunicazioni (Itu), da
cui peraltro emerge che sono oltre 3 miliardi nel
mondo le persone che si possono definire online,
la Danimarca ha scavalcato la Corea del Sud al
primo posto della classifica dei Paesi più connessi.
Ma ai primi posti, accanto a Honk Kong, Giappone
e Australia, figurano anche Svezia, Islanda,
Gran Bretagna, Norvegia, Olanda, Finlandia,
Lussemburgo. Insomma, tutto il Nord Europa da
questo punto di vista può dirsi all’avanguardia.
In generale lo scorso anno l’utilizzo di internet
è aumentato dell’8,7% anche nei Paesi in via di
sviluppo, dove vive ancora il 90% dei 4,3 miliardi
di persone che non dispongono di una connessione
a internet. A conferma di quanto premesso, l’Italia
figura solo 36esima dietro a Paesi come Emirati
Arabi, Qatar e Barbados, ben distante dal resto
dell’Europa occidentale. Ma il legislatore italiano
qualcosa ha fatto per favorire lo sviluppo delle
start-up e con il Decreto sviluppo è stata introdotta
una deduzione fiscale del 19% sugli investimenti in
start up innovative, un accesso facilitato al Fondo
centrale di garanzia, normative speciali per il lavoro
e la possibilità per le start up di remunerare soci
e fornitori di servizi copn stock option. A livello
privato, invece, tra le iniziative più recenti
c’è quella dall`incubatore Digital Magics e
di Epic sim per l’avvio di una piattaforma per
strutturare le attività dei finanziatori delle startup e delle scale-up, imprese innovative che
vivono una fase di espansione in vista delle loro
cessione e/o quotazione in borsa.
La miopia dell’Eba dà alle banche un alibi
perfetto per non riaprire i rubinetti del credito
D
all’Ue giungono notizie di incerta attesa o suscitanti preoccupazione, a seconda che si tratti
della Commissione o delle autorità
di controllo sulle banche. Slitta da
oggi, giorno in cui era prevista la
discussione dopo un primo rinvio
per l’indisponibilità di Juncker impegnato in Parlamento sulla mozione di sfiducia nei suoi confronti, a
venerdì 28 la formalizzazione delle
decisioni della prima sulle leggi di
stabilità dei Paesi membri, anche per
la laboriosità della valutazione sulla
manovra della Francia che, come noto, presenta un deficit/pil per il 2015
oltre il 4%. La Francia potrebbe ricevere un giudizio molto più drastico
di quello, di mero rimando a marzo
del prossimo anno, che sarà dato per
l’Italia, stando alle previsioni e alle notizie informali raccolte sabato
scorso dopo la riunione nella capitale
belga dei capi di gabinetto dei Commissari. Di conseguenza slitteranno a
dicembre anche le importanti riunioni, forse conclusive del semestre di
presidenza italiana dell’Eurogruppo
e dell’Ecofin. Quanto alla situazione
della Francia, le posizioni dei rigoristi si confronteranno con quelle di
chi si oppone all’austerity, fra i quali
il governo italiano, e poi con le posizioni tedesche, composte da un lato
dai propugnatori di una linea dura e,
dall’altro, dai fautori di un atteggiamento meno rigido in funzione dei
tradizionali rapporti con la Francia.
Se non si arriverà a una bocciatura,
l’Italia avrà molto da riflettere sul
fatto che lo sconfinamento dal 3%
non avrà prodotto una reazione dura
e che allora, tutto sommato, avrebbe potuto essere promosso anche dal
nostro esecutivo, con il vantaggio di
una vera spinta propulsiva su domanda e investimenti. Contemporaneamente, nella prossima riunione della
Commissione si discuterà del piano
di Angelo De mattia
di investimenti per 300 miliardi, ormai noto, ma solo per l’intitolazione.
Come si è scritto su queste colonne,
il piano dovrebbe incarnare la famosa flessibilità nell’applicazione delle
regole di cui tanto si è discusso senza
arrivare ad alcuna concreta conclusione. Qualcuno ha parlato del piano
come di un libro dei sogni, ma, allo
stato, nemmeno così lo si può etichettare in quanto i sogni avrebbero
trasmesso semmai l’esigenza di un
programma per una mobilitazione di
investimenti di importo complessivo
almeno doppio e con un’eventuale
leva nettamente inferiore a quella
che si ipotizza, dopo la costituzione di un fondo ad hoc, di 1 a 10 o,
nella migliore delle ipotesi, di 1 a 7.
Nascerà poi il problema dell’esposizione dei singoli Paesi nei confronti
del costituendo fondo e dell’impatto della stessa su deficit e debito, a
meno che non si preveda – e sarebbe
un primo passo verso la golden rule
che dovrebbe essere accompagnato
da un’analoga decisione per i cofinanziamenti – l’espunzione di tale
esposizione dal calcolo dei parametri. Verificheremo venerdì prossimo,
ma la proroga di qualche giorno delle
decisioni conclusive – le prime che
saranno adottate dalla nuova Commissione che aveva suscitato in
molti, non in chi scrive, grandi speranze - dovrebbe essere utilizzata da
un lato per rafforzare l’opposizione
all’austerità talebana e, dall’altro,
per rendere meno aleatorio il piano
Juncker. Se la Bce il 4 dicembre farà
un effettivo passo verso il quantitative easing, non più a parole o con
i moniti, il quadro complessivo potrebbe migliorare, anche se resterà la
non corrispondenza all’espansione
monetaria di politiche economiche
restrittive causa i non abbastanza
allentati vincoli comunitari. Se poi
si passa alle banche, si registrano le
notizie circa una decisione che l’Eba
sarebbe in procinto di prendere stabilendo che uno sconfinamento del
2% sui crediti concessi (e non più
del 5%) per tre mesi comporta l’automatico passaggio del prestito nella
categoria dei crediti non performing,
con la conseguenza di un maggiore
accantonamento da disporre da parte
delle banche e, quindi, con generale
impatto negativo sulla capacità di
erogare prestiti. Se a ciò si aggiungono le altre notizie diffuse su ulteriori
extra-rettifiche che sarebbero richieste
dalla Bce a seguito dell’asset quality
review – e per ora non si sa quante
di queste corrispondano alle misure
già prese nel corso o dopo la prova
approfondita e quanti siano provvedimenti da prendere ex novo – e
il più elevato livello di capitale che
verrebbe imposto alle Sifi, le banche
di rilevanza sistemica (in Italia solo
Unicredit) ma con il pericolo di effetti
imitativi, ne scaturiscono la pericolosità della china che si sta imboccando e, ancora una volta, l’assoluta
inadeguatezza dell’Eba, il cui vertice
andrebbe radicalmente rinnovato, se
proprio non si vuole sopprimere un
ente che non è solo inutile, ma sta diventando dannoso. I banchieri hanno
molto da correggere e da innovare,
ma proseguendo per questa via si
forniranno loro alibi inattaccabili,
dovuti alla miopia dei regolatori comunitari. Siamo al cupio dissolvi, con
atteggiamenti paradossali da parte –
concordiamo con Renzi – di burocrati
che inconsapevolmente finiscono con
il danneggiare la stessa spinta verso
un’ulteriore integrazione europea.
Sarebbe allora non solo opportuno
ma necessario che questi problemi
fossero affrontati dal Parlamento di
Strasburgo. (riproduzione riservata)
La Pa è allergica alle possibilità del web
L
a Pubblica amministrazione è
soltanto uno dei tanti intermediari della vita collettiva. Certo,
gode del privilegio che è la legge
a imporla ai cittadini, mentre gli
intermediari privati sono risultato
dell’andamento delle forze di mercato: la domanda di un bene e di
un servizio e la capacità di organizzarne un’offerta. Ma anche la
burocrazia resta un intermediario,
cioè una organizzazione che si interpone tra il bisogno o l’interesse
di un singolo e il risultato finale
della sua azione. E come tutti gli
intermediari è stata rivoluzionata
da internet e dalla rete che ha stravolto le logiche che favorivano la
nascita, l’utilità e la stessa redditività delle organizzazioni prima
dell’avvento del web.
La rete ha ucciso ogni forma di
intermediazione abilitando collegamenti tra individui che prima
dell’avvento di internet non erano
possibili. Il peer to peer, ovvero
la possibilità di dialogo diretto
tra persone per scegliere e consumare un servizio, come capita per
esempio con Skype o Uber, oppure
di Edoardo Narduzzi
l’eliminazione degli intermediari
fisici nella commercializzazione
di un prodotto, come ha fatto per
esempio con successo Ryanair con
le agenzie di viaggio, rappresentano le modalità concrete tramite le
quali il web ha rottamato gli intermediari.
E la Pa? In un mondo che perde
strati e si apre alla disintermediazione estrema del servizio, come
può la burocrazia restare ferma
alle modalità organizzative antecedenti a internet? La pubblica
amministrazione italiana è stata
lentissima, un autentico bradipo del web, nell’attuare modelli
organizzativi che eliminassero
la necessità dell’incontro fisico
allo sportello per chiedere un
certificato o un servizio pubblico.
Nessuna vera riorganizzazione
profonda è stata fatta per ripensare il servizio, che a tutt’oggi
non prevede contatti innovativi
via Skype o via web chat con gli
uffici pubblici.
Il massimo del cambiamento
possibile è stato raggiunto con
la comunicazione via Pec, posta
elettronica certificata, un modo
per imporre al mondo del web una
particolarità a uso e consumo della sola burocrazia (infatti nei Paesi dove il web è sovrano come gli
Usa di Pec non si sente neppure
parlare, ndr.). Eppure il premier,
Matteo Renzi, è stato soprattutto
scelto dalla maggioranza relativa
degli italiani per rottamare in profondità l’organizzazione della Pa:
vissuta e avvertita come il principale freno alla competitività del Bel
Paese. Dopo nove mesi di lavoro
i risultati su questo fronte non ci
sono. Il ministro Marianna Madia
ha saputo soltanto produrre l’ennesima esondazione parlamentare
di testi di legge, anche in molte
materie dove bastava adottare una
circolare, che, come ha ammesso
lo stesso esecutivo verso la Eu, difficilmente produrranno risultati a
breve. Renzi, invece, deve produrre
una Pubblica amministrazione peer
to peer ora. Domani l’astensionismo si sarà fatto pericolosamente
cronico. (riproduzione riservata)