Cap. 10 – Luigi, mio fratello Il secondogenito di mio padre e primo

Cap. 10 – Luigi, mio fratello
Il secondogenito di mio padre e primo figlio maschio, è stato mio fratello Luigi, ha portato il nome di mio
nonno paterno, era un puntello.
Nella cultura contadina e tradizionalista del sud, al primo figlio maschio viene dato il nome del nonno
paterno ed alla prima figlia femmina quello della nonna paterna. Questa consuetudine o obbligo viene detta
– puntellare.
Per onorare questa atto di rispetto, i primi due componenti della mia famiglia sono stati chiamati Angelina
e Luigi.
Da ragazzo mio fratello aveva avuto i reumatismi e per curarlo mia madre lo portava a fare i fanghi a
Casamicciola, che si trova ad Ischia. Malgrado le cure, il cuore di mio fratello rimase malato.
Prossimo ai quarant’anni, sposato e con due figlie, le sue condizioni peggiorarono. Passava molto del suo
tempo tra un ospedale e l’altro. Era l’epoca di Barnard, le prime operazioni di trapianto di cuore e mio
fratello partì per Città del Capo in Sudafrica, insieme a sua moglie e me, suo fratello, per essere operato dal
primo medico che ha eseguito un trapianto di cuore. Questo è successo nel febbraio del 73, ero da poco un
giovane ingegnere, con qualche conoscenza dell’inglese.
Di questo evento luttuoso della mia vita non ho conservato ricordi anche se l’ho vissuto da protagonista.
Del viaggio di andata ricordo che facemmo scalo a Yoannesburg, dove mio fratello stette male e dovette
servirsi di una sedia a rotelle e la bombola di ossigeno per il cambio aereo. Tutto il viaggio venne
organizzato da un prete dal Sud Africa, con il quale mio fratello era in contatto. Non ricordo quanti giorni
siamo stati in quel paese, la sensazione che mi è rimasta è quella di un automa che viene preso e portato,
che vede ma non percepisce. I pochissimi ricordi che ho sono di un pranzo che io e mia cognata facemmo in
una famiglia di emigrati italiani. Anche la famiglia che ci ospitò era di origine italiana. Ci prepararono
spaghetti al sugo talmente cotti da essere immangiabili, ci furono serviti persino in piatti riscaldati per
tenerli sempre caldi, era il massimo delle attenzioni che potevano riservarci.
Ricordo poi il bip, bip della macchina che registrava il battito del cuore nuovo di mio fratello, dopo
l’operazione. Della città non ho ricordi anche se ci portarono un paio di volte a fare un giro ed un giorno
sono uscito anche da solo, ho preso il treno e sono stato fuori tre o quattro ore. Ricordo di essere entrato in
un cinema. Ma ricordo di non aver visto i neri. Mi era stato detto di fare molta attenzione alla scritta “only
white” e così non ho visto l’altra città, quella nera, parallela alla bianca che, come i binari del treno, pur
così vicini, non si incontrano.
Pensando a tutto quanto è successo, mi sento di dire che la morte di mio fratello è stato un atto da lui stesso
atteso e consapevole: Non ha voluto consumarsi in un letto di ospedale ed aspettare la morte, ma ha voluto
andargli incontro con questo viaggio. Non so quanta speranza ci fosse in lui di ritornare vivo, ma ho visto
la sua determinazione a tentare e farsi operare ed anche noi, che gli stavamo vicino, acconsentimmo per
amore e pietà verso di lui. Dopo che mio fratello fu operato non riprese conoscenza ed io non lo vidi più,
sentivo solo quel bip, bip del cuore estraneo che gli era stato impiantato, al posto del suo grande cuore, così
grande da aver deformato la sua cassa toracica. Poi un giorno, andando in ospedale, ci dissero che Luigi
D’Antuono era morto, potevamo tornare a casa, lui sarebbe stato preparato per il lungo viaggio e sarebbe
arrivato dopo.
Così sua moglie ed io tornammo vuoti e muti. Quando si parla di un proprio dolore, lo si fa per rendere
partecipe altri di quello che si prova, altri che non lo sentono, lo si fa per alleviarlo, sicuri di ricevere la
consolazione di chi ti ascolta. Di noi due, uniti in quella sorte, ogni uno sentiva il suo dolore e l’uno non
sapeva consolare l’altra. Unica forza, la rassegnazione.
Passarono alcuni giorni tra il nostro ritorno e l’arrivo della salma di mio fratello. Giorni strani, non vissuti,
se non nell’attesa dell’evento, in un silenzio irreale, con qualcosa che man mano si gonfiava dentro ed
intorno a noi, in attesa di scoppiare e portare tutto alla normalità, anche se era la normalità della morte,
con i pianti, i fatti della vita raccontati per farli rivivere, nella consapevolezza che non ce ne potranno
essere altri. Cercando e trovando il sostegno di chi ti sta vicino e che invita alla rassegnazione ed
all’accettazione.
Quando arrivò la bara tutto il paese venne a vedere. Su di essa c’era una finestra con il vetro che lasciava
vedere la faccia di mio fratello, sembrava di cera come le reliquie dei santi. Il suo corpo aveva subito una
specie di mummificazione, infatti, quando, venti anni dopo, andammo ad esumarlo, per riporre le ossa nella
cappella superiore del cimitero, il suo corpo era intatto e dovemmo ritumularlo.Questa operazione ruppe la
sigillatura della bara, facendo iniziare il processo di decomposizione che ha permesso, dieci anni dopo, di
ripetere l’operazione e riporre le ossa nell’ossario, tra quelle di sempre e quelle che nel frattempo si erano
aggiunte.