XVII domenica TO A 1Re 3,5.7-12; Sal 118; Rom 8,28-30; Mt 13,44-52 Prima Lettura 1 Re 3, 5. 7-12 Hai domandato per te di comprendere. Dal primo libro dei Re In quei giorni a Gàbaon il Signore apparve a Salomone in sogno durante la notte. Dio disse: «Chiedimi ciò che vuoi che io ti conceda». Salomone disse: «Signore, mio Dio, tu hai fatto regnare il tuo servo al posto di Davide, mio padre. Ebbene io sono solo un ragazzo; non so come regolarmi. Il tuo servo è in mezzo al tuo popolo che hai scelto, popolo numeroso che per la quantità non si può calcolare né contare. Concedi al tuo servo un cuore docile, perché sappia rendere giustizia al tuo popolo e sappia distinguere il bene dal male; infatti chi può governare questo tuo popolo così numeroso?». Piacque agli occhi del Signore che Salomone avesse domandato questa cosa. Dio gli disse: «Poiché hai domandato questa cosa e non hai domandato per te molti giorni, né hai domandato per te ricchezza, né hai domandato la vita dei tuoi nemici, ma hai domandato per te il discernimento nel giudicare, ecco, faccio secondo le tue parole. Ti concedo un cuore saggio e intelligente: uno come te non ci fu prima di te né sorgerà dopo di te». Seconda Lettura Rm 8, 28-30 Ci ha predestinati ad essere conformi all'immagine del Figlio suo. Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Romani Fratelli, noi sappiamo che tutto concorre al bene, per quelli che amano Dio, per coloro che sono stati chiamati secondo il suo disegno. Poiché quelli che egli da sempre ha conosciuto, li ha anche predestinati a essere conformi all’immagine del Figlio suo, perché egli sia il primogenito tra molti fratelli; quelli poi che ha predestinato, li ha anche chiamati; quelli che ha chiamato, li ha anche giustificati; quelli che ha giustificato, li ha anche glorificati. Vangelo Mt 13, 44-52 (Forma breve 13, 44-56) Vende tutti i suoi averi e compra quel campo. Dal vangelo secondo Matteo [ In quel tempo Gesù disse ai suoi discepoli: «Il regno dei cieli è simile a un tesoro nascosto nel campo; un uomo lo trova e lo nasconde; poi va, pieno di gioia, vende tutti i suoi averi e compra quel campo. Il regno dei cieli è simile anche a un mercante che va in cerca di perle preziose; trovata una perla di grande valore, va, vende tutti i suoi averi e la compra. ] Ancora, il regno dei cieli è simile a una rete gettata nel mare, che raccoglie ogni genere di pesci. Quando è piena, i pescatori la tirano a riva, si mettono a sedere, raccolgono i pesci buoni nei canestri e buttano via i cattivi. Così sarà alla fine del mondo. Verranno gli angeli e separeranno i cattivi dai buoni e li getteranno nella fornace ardente, dove sarà pianto e stridore di denti. Avete compreso tutte queste cose?». Gli risposero: «Sì». Ed egli disse loro: «Per questo ogni scriba, divenuto discepolo del regno dei cieli, è simile a un padrone di casa che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche». 1 La prima lettura (1Re 3,5.7-12) riporta il sogno del re Salomone, asceso al trono dopo la morte di Davide. In ebr. Šəlōmōh, «pacifico», in ar. Sulaymān, in gr. Σαλωμῶν, in lat. Salomon è stato il terzo re d'Israele. Il suo regno è datato circa dal 970 al 931 a.C. e fu l'ultimo dei Re che governò il regno unificato di Giuda e Israele. Era figlio di David e Bath-Sheva «Betsabea», moglie di Uria l'Ittita. Alla sua morte, gli succedette il figlio Roboamo, avuto dalla moglie ammonita Naamà (1Re 14,21), che provocò la scissione del regno a causa della sua politica arrogante. Geroboamo e le tribù del Nord si costituirono in regno separato, il regno di Israele. A Roboamo rimasero solo le tribù di Giuda e di Beniamino, che costituirono il regno di Giuda. L'epoca di Salomone è considerata come un'età ideale, simile a quella del periodo augusteo a Roma. La sua saggezza fu proverbiale. Si dedicò alla costruzione del Tempio di Gerusalemme (Mikdash), divenuto leggendario. Giudicare con giustizia nell'antico Vicino Oriente era la prima qualità del re. Questa è la richiesta che Salomone rivolge a Dio. 1Re 3,5: [In quei giorni] a Gàbaon il Signore apparve a Salomone in sogno durante la notte. Dio disse: «Chiedimi ciò che vuoi che io ti conceda» (begiv'on nir'ah hashem 'el-shelomoh bachalom halláylah vayyó'mer 'elohim she'al mah 'etten-lak, lett. «In Gabaon fu visto Adonay da Salomone nel sogno di notte e disse Dio: Chiedi cosa darò a te»). - Gàbaon (Ghibon). Gàbaon, che significa «collina», è un'antica città cananea (odierna el-Gib, a circa 6 chilometri a nord-ovest di Gerusalemme) annessa alla tribù di Beniamino e abitata dagli Evei (Gs 11,19). Divenne una delle 48 città levitiche, tirate a sorte per i Keatiti, discendenti di Keat uno dei tre figli di Levi (Gs 21,17; 1Cr 6,1; gli altri due erano Gherson e Merari). Dal 1012 a.C. fu sede del Mishkan «Tabernacolo o Tenda», fino al 957, quando forse si inaugurò il Tempio di Gerusalemme. La notizia del matrimonio politico di Salomone con la figlia di un faraone (3,1a), forse Psusennes II della XXI dinastia (959-945 a.C.) o il predecessore, Siamun (978-959?), colloca immediatamente il nuovo re sullo scenario internazionale. Dopo la morte di Davide, la lotta per la successione provoca un regolamento di conti truce che si traduce in esecuzioni eccellenti (Adonia, Ioab, Simei), narrate in 1Re 1-2. A questo punto il prevalere di Salomone sembra che abbia bisogno di una legittimazione da parte di Dio stesso, perciò si reca a Gàbaon «per offrirvi sacrifici, perché vi sorgeva l'altura più grande» (1Re 3,4). Il popolo, non essendoci ancora il tempio, celebrava il suo culto su luoghi chiamati bamot «alture», secondo le usanze dei cananei (cf Tal Ben-Hinnom, Ger 7,31; 19,5-6; 32,35). L'A. racconta questi usi in chiave teologica anziché storica. Le bamot, prima della riforma centralizzatrice del re Giosia (649-609 a.C.), costituivano un luogo comune di culto sincretistico, non necessariamente idolatrico (cf 1Sam 9,13-14.19; 10,5). Anche Salomone offriva sacrifici e bruciava incenso sulle alture (3,3b). Salomone, divenuto re, si reca a Gabaon per offrire un iperbolico sacrificio: mille olocausti (3,4). L'autore sacro non esita a mostrare le sue riserve su queste abitudini del re, fino a divenire aperto disprezzo, dal cap. 11 in poi. - il Signore apparve a Salomone in sogno durante la notte (nir'ah hashem 'el-shelomoh bachalom halláylah). Nel mondo antico, racconti di sogni e di apparizioni divine rispondevano spesso a esigenze di ideologia politica. Il sogno perciò è una costruzione letteraria, presente anche nei personaggi mitici dei patriarchi, di Mosè, corrispondente alle fiabe della letteratura universale. Così il sogno, forma classica di rivelazione divina (cf Gn 20,3; 28,16; 31,10-13.24; 40,5; 46,2-4; 1Sam 3) qui ha la funzione di una investitura regale con connotazione profetica (cf Es 3; Is 6; Ez 1). In questo episodio, è chiaramente riconoscibile l'ideologia regale, secondo cui nella persona di Salomone devono convergere la componente istituzionale, profetica e sapienziale (cf 1Re 3,9.12). 3,7-8: [Salomone disse:] Ora, Signore, mio Dio, tu hai fatto regnare il tuo servo al posto di Davide, mio padre. Ebbene io sono solo un ragazzo; non so come regolarmi. 8 Il tuo servo è in mezzo al tuo popolo che hai scelto, popolo numeroso che per quantità non si può calcolare né contare (we'attah hashem 'elohay 'attah himlákta 'et-'avdeka táchat dawid 'avi we'anoki ná'ar qaton lo 'eda' tze't wavo'. 8 we'ávdeka betok 'ammeka 'asher bacharta 'am-rav 'asher lo'-yimmaneh welo' yissafer merov, lett. «E adesso, Adonay Dio mio, tu facesti regnare servo tuo al posto di Davide padre mio. E io ragazzo piccolo, non conosco uscire ed entrare, 8 E servo tuo in mezzo a popolo tuo che scegliesti, popolo molto che non si conta e non si calcola per moltitudine»). 2 - Ebbene io sono solo un ragazzo (we'anoki ná'ar qaton). Salomone eleva la sua preghiera in nome del «servo di Dio» David; denominazione usata anche per Abramo, Mosè e il «servo» sofferente di Isaia. Egli chiede che quel Dio che ha mostrato chesed «benevolenza, misericordia, lealtà» a David, per aver «camminato davanti a Dio» con 'emet «fedeltà», tzedaqà «giustizia» e yishrat lebab «cuore retto», ora consideri la sua giovane età: ná'ar qaton «ragazzo piccolo» incapace di assumersi un così gravoso compito, qual è quello di governare un popolo così numeroso come Israele che Dio stesso si è eletto (1Re 3,7b-8). 3,9-10: Concedi al tuo servo un cuore docile, perché sappia rendere giustizia al tuo popolo e sappia distinguere il bene dal male; infatti chi può governare questo tuo popolo così numeroso?». 10 Piacque agli occhi del Signore che Salomone avesse domandato questa cosa (wenatatta le'avdeka lev shomea' lishpot 'et-'ammeka lehavin ben-tov lera' ki mi yukal lishpot 'et'ammeka hakkaved hazzeh. 10wayyitav haddavar be'ene 'adonay ki sha'al shelomoh 'et-haddavar hazzeh, lett. «E darai a servo tuo cuore ascoltante per giudicare popolo tuo, per intendere tra bene e male, poiché chi potrà giudicare popolo tuo pesante questo? 10 E fu bene la cosa in occhi del Signore mio, poiché chiese Salomone la cosa questa»). - Concedi al tuo servo un cuore docile (wenatatta le'avdeka lev shomea', lett. «E darai a servo tuo cuore ascoltante»). Salomone chiede a Dio un lev shomea' «un cuore in ascolto», un cuore vigile e sensibile. Il verbo shome'a è participio di shamà «ascoltare», da cui l'imperativo shemà «ascolta!». Un tale dono è imprescindibile per governare un popolo numeroso: lehavin ben-tov lera' «e sappia distinguere il bene dal male» (v. 9). Le espressioni lev shomea' «cuore docile» (v. 9) e lev chakam wenavon «cuore saggio e intelligente» (v. 12) appartengono alla terminologia sapienziale, già presente in Gn 2-3 (cf Adamo ed Eva; l'albero della conoscenza del bene e del male, Gn 2,17; la facoltà di distinguere il bene dal male, Gn 3,22). 3,11: Dio gli disse: «Poiché hai domandato questa cosa e non hai domandato per te molti giorni, né hai domandato per te ricchezza, né hai domandato la vita dei tuoi nemici, ma hai domandato per te il discernimento nel giudicare, (wayyó'mer 'elohim 'elayw ya'an 'asher sha'álta et-haddavar hazzeh welo'-sha'álta lleka yamim rabbim welo-sha'álta lleka 'ósher welo' sha'álta néfesh 'oyveýka wesha'álta lleka havin lishmoa' mishpat, lett. «E disse Dio a lui: "Poiché chiedesti la cosa questa e non chiedesti per te giorni molti e non chiedesti per te ricchezza e non chiedesti vita nemici tuoi, ma chiedesti per te l'intendere per ascoltare giudizio»), - ma hai domandato per te il discernimento nel giudicare (wesha'álta lleka havin lishmoa' mishpat, lett. «ma chiedesti per te l'intendere per ascoltare giudizio»). Dio si mostra compiaciuto della richiesta di Salomone, perché il giovane re non ha scelto egoisticamente lunga vita, ricchezza e la nefesh «alito di vita», la vita dei nemici, bensì l'havin lishmoa' mishpat «il discernimento nel giudicare», Dio gli concede sia questo e sia ciò che non ha chiesto. 3,12: ecco, faccio secondo le tue parole. Ti concedo un cuore saggio e intelligente: uno come te non ci fu prima di te né sorgerà dopo di te (hinneh 'asíti kidvareýka hinneh natátti leka lev chakam wenavon 'asher kamóka lo'-hayah lefaneýka we'achareýka lo'-yaqum kamóka, lett. «ecco farò secondo parole tue. Ecco darò a te cuore saggio e intendente che come te non ci fu (nessuno) davanti a te e dietro di te non sorgerà (nessuno) come te»). - Ti concedo un cuore saggio e intelligente (hinneh natátti leka lev chakam wenavon). Ancora una volta si parla di lev «cuore», inteso come la sede dell'intelligenza e della sapienza, che conduce alle giuste decisioni. La saggezza e la gloria di Salomone saranno uniche. La frase usata kamóka lo'-hayah lefaneýka we'achareýka lo'yaqum kamóka «non ci fu prima di te né sorgerà dopo di te» è stereotipata e iperbolica. Si ritroverà ancora per rilevare l'importanza unica di un valore o di una persona (cf 2Re 18,5). Unica condizione è che Salomone si attenga alle norme e ai comandamenti divini (cf Dt 12,1), alla stregua del padre David. I capitoli di 1Re 1-2 costituiscono il vertice e la conclusione del racconto delle lotte per la successione al trono, ma hanno anche la funzione di introdurre alla storia del regno illuminato di Salomone (1Re 3,1 - 11,43). In realtà, la narrazione è orientata in senso teologico. Il narratore lascia 3 supporre che quanto egli espone sia il frutto di una selezione da lui operata nelle fonti disponibili, le quali dovevano contenere molto più di quanto è raccontato in 1Re. Difatti, mentre nella sezione 1Re 3,1 - 5,14 si dà un quadro generale dello splendore del regno salomonico, a partire da 1Re 5,15 fino a 9,25 invece il redattore si dilunga sulla costruzione del tempio di Gerusalemme. Salomone e il tempio che egli finalmente edifica, sono l'asse attorno a cui ruota la narrazione della seconda parte del dittico: Giosuè-2Re. In realtà, la storia del regno di Salomone non vale per se stessa, ma rientra invece nell'economia teologica del redattore, il quale rivela le sue ben note intenzioni critiche a partire da 1Re 11, testo che dà una svolta al tripudio della narrazione fatta finora e prepara nella forma di un'amara conclusione del regno di Salomone la premessa alla storia seguente, una storia di scisma religioso ancor prima che politico. Il filo conduttore del racconto è il gradimento presso Dio dell'accesso al trono di Salomone e conseguentemente la descrizione del regno splendido a lui concesso. La struttura dell'istituzione statale viene disegnata con elenchi precisi di funzionari e di funzioni, come richiede l'importanza del personaggio e come anticipo della prossima descrizione ancora più pedantemente dettagliata, di sapore «costituzionale», del tempio di Gerusalemme. La seconda lettura (Rom 8,28-30) prosegue col c. 8 della lettera ai Romani. Nei versetti proposti (vv. 28-30) ritroviamo una metafora architettonica: per delineare il piano della salvezza che Dio ha tracciato nella storia, Paolo immagina una piramide che sale verso il vertice della gloria di Dio. Innanzitutto Dio «conosce da sempre» con amore l’umanità, la «predestina» a un «destino» grandioso, quello della «conformità» al suo Figlio (1Cor 15,49; 2Cor 3,18), la «chiama» attraverso la vocazione alla fede, la «giustifica» salvandola attraverso la sua grazia e la conduce alla «glorificazione» piena della comunione eterna con Dio. Rom 8,28: Del resto, noi sappiamo che tutto concorre al bene, per quelli che amano Dio, per coloro che sono stati chiamati secondo il suo disegno (Οἴδαμεν δὲ ὅτι τοῖς ἀγαπῶσιν τὸν θεὸν πάντα συνεργεῖ εἰς ἀγαθόν, τοῖς κατὰ πρόθεσιν κλητοῖς οὖσιν, lett. «Sappiamo ora che per gli amanti di Dio tutte le cose cooperano al bene, per secondo deliberazione coloro che chiamati essenti»). - noi sappiamo che tutto concorre al bene (Οἴδαμεν … πάντα συνεργεῖ εἰς ἀγαθόν). La Vulgata traduce: «...Omnia cooperantur in bonum». L'ultima parte della dimostrazione paolina sulla relazione paradossale tra le sofferenze e la gloria, è dedicata al disegno di Dio, com'è tipico del genere apocalittico: Paolo allarga lo sguardo sulla rivelazione della volontà divina per coloro che amano Dio. In base al contesto, πάντα «tutte le cose» si riferiscono alle molteplici situazioni di sofferenza e di impotenza nelle quali si trovano i credenti. Queste, invece di porre in discussione il disegno elettivo di Dio, devono rafforzare la perseveranza di coloro che lo amano. Il bene di fatto rappresenta la partecipazione alla gloria divina. Contro qualsiasi interpretazione individualistica, il disegno elettivo di Dio assume per Paolo sempre una dimensione comunitaria, passando attraverso il dinamismo dell'elezione. 8,29-30: Poiché quelli che egli da sempre ha conosciuto, li ha anche predestinati a essere conformi all’immagine del Figlio suo, perché egli sia il primogenito tra molti fratelli; 30quelli poi che ha predestinato, li ha anche chiamati; quelli che ha chiamato, li ha anche giustificati; quelli che ha giustificato, li ha anche glorificati (ὅτι οὓς προέγνω, καὶ προώρισεν συμμόρφους τῆς εἰκόνος τοῦ υἱοῦ αὐτοῦ εἰς τὸ εἶναι αὐτὸν πρωτότοκον ἐν πολλοῖς ἀδελφοῖς• 30οὓς δὲ προώρισεν, τούτους καὶ ἐκάλεσεν• καὶ οὓς ἐκάλεσεν, τούτους καὶ ἐδικαίωσεν οὓς δὲ ἐδικαίωσεν, τούτους καὶ ἐδόξασεν, lett. «Poiché coloro che ha pre-conosciuto anche ha predestinato conformi all'immagine del Figlio suo, per essere egli primogenito tra molti fratelli. 30 Coloro che poi ha predestinato, questi anche ha chiamato; e coloro che ha chiamato, questi anche ha giustificato; coloro che poi ha giustificato, questi anche ha glorificato»). - quelli che egli da sempre ha conosciuto (οὓς προέγνω). Il verbo προέγνω è ind. aor. di προγινώσκω «conosco in precedenza, prescelgo». Il disegno divino è delineato in cinque fasi: si procede dalla preconoscenza alla predestinazione, alla chiamata, alla giustificazione e alla glorificazione. L'identificazione del climax «scala» (o gradatio figura retorica in cui il messaggio principale si trova non nella parte centrale ma all'inizio o alla fine della scala) permette di cogliere gli aspetti che meritano maggiore attenzione: la preconoscenza e la glorificazione. 4 Il disegno di Dio consiste prima di tutto nella preconoscenza per coloro che lo amano, che significa, di fatto, l'amore di Dio per noi. Paolo utilizza il verbo προγινώσκω, proginóskō soltanto qui e in Rm 11,2 per indicare la preconoscenza o conoscenza elettiva di Dio verso il suo popolo (cf Ger 1,5: Am 3,2; Sal 1,6; 1QH 1,7-8: CD 2,8; 1Cor 8,3; 1Pt 1,20; 2Pt 3,17). Amare o conoscere Dio significa prima tutto essere amati e conosciuti da lui (cf Gal 4,9). - li ha anche predestinati a essere conformi all’immagine del Figlio suo (καὶ προώρισεν συμμόρφους τῆς εἰκόνος τοῦ υἱοῦ αὐτοῦ). Il verbo προώρισεν è ind. aor. di προορίζω «prestabilisco, predetermino». La preconoscenza di Dio è riconoscibile nella predestinazione riservata a tutti con e nella persona del Figlio suo. La predestinazione è rapportata sempre a Gesù Cristo e non alla questione etica di bene e male (cf 2Cor 2,7; Ef 1,5.11). Poiché Gesù Cristo è il Figlio di Dio sin dall'eternità, la predestinazione consiste: 1) nel partecipare alla figliolanza divina (cf Ef 1,5), 2) nell'essere conformi all'immagine del Figlio suo; 3) nell'essere conformi all'icona di Cristo (cf 2Cor 4,4; Col 1,15); 4) nella partecipazione alla sua morte e risurrezione (cf Fil 3,10); 5) nella condivisione della sua gloria (cf Fil 3,21). Con questa spiegazione, che interrompe per un attimo il movimento del climax, Paolo vuole dire che la partecipazione alle sofferenze di Cristo è la via per condividere la sua figliolanza ed è già inclusa nella nostra stessa predestinazione: la protologia e l'escatologia coincidono. Il concetto di predestinazione nella Bibbia è espresso con una varietà di termini che fanno riferimento ai progetti e ai propositi di Dio: ay-tsaw' «consiglio, proposito» (cf Ger 49,20; 50,45, Mi 4,12); yâ‛ats «proposito deliberazione, risoluzione» (cf Is 14,24; 26-27; 19,12; 23,9); bâchar «scegliere» (cf Nm 16,5-7; Dt 4,37; 10,15; Is 41,8; Ez 20,5). Nel NT i termini col significato di «predestinare» sono: προορίζω, proorízō (cf Rom 8,29-30; Ef 1,5-11); αἱρέομαι, hairéomai, «preferisco, scelgo» (cf 2Tes 2,13); ἐκλέγομαι, eklégomai «scelgo, sono scelto» (cf 1Cor 1,27ss, Ef 1,4); ἐκλεκτός, eklektós, «eletto, scelto» (cf Mt 24,22ss; Rom 8,33; Col 3,12). - il primogenito tra molti fratelli (πρωτότοκον ἐν πολλοῖς ἀδελφοῖς). In virtù della predestinazione, Gesù Cristo è il primogenito fra molti fratelli (cf Col 1,15.18; Eb 1,6; 2,10; Ap 1,5): con la nostra adozione filiale egli non è più l'unigenito ma diventa il πρωτότοκος, prōtótokos, «primogenito», in quanto molti sono diventati suoi fratelli, attraverso il dono del suo Spirito. Questa parentesi del climax serve quindi a sottolineare che, in tutte le fasi del disegno divino, l'orizzonte è sempre quello cristologico (cf Rm 16,25-27). - li ha anche chiamati (τούτους καὶ ἐκάλεσεν). Il verbo ἐκάλεσεν è ind. aor. di καλέω «chiamo per nome, invito, convoco». In questo contesto, essere chiamati significa essere eletti a far parte della sua alleanza o partecipare alla comunione con suo Figlio (cf 1Cor 1,9); per questo, anche la chiamata di Dio non è individualistica ma universale. - li ha anche giustificati (τούτους καὶ ἐδικαίωσεν). Il verbo ἐδικαίωσεν è ind. aor. di δικαιόω «rendo giusto, riconosco come giusto, proclamo la giustizia, scuso, annullo il debito». Il terzo gradino del climax ascendente coniuga la chiamata con la δικαιοσύνη «giustificazione»: Dio giustifica non a prescindere ma sempre per mezzo di Cristo (cf Rm 3,24; 5,1), perché Paolo ha già dimostrato che neppure per mezzo delle opere della Legge sarà mai giustificato qualcuno (cf Rm 3,20). Quest'unicità della giustificazione divina è dovuta al fatto che si è realizzata soltanto con il sangue di Cristo (cf Rm 5,9). Tuttavia, quest'unicità non esclude la figliolanza d'Israele. - li ha anche glorificati (τούτους καὶ ἐδόξασεν). Il verbo ἐδόξασεν è ind. aor. di δοξάζω «lodo, esalto, glorifico, onoro». L'ultimo gradino della scala è occupato dalla relazione tra la giustificazione e la glorificazione: se gli esseri umani non hanno glorificato Dio (cf Rm 1,21), da Dio sono stati glorificati con e nella persona del Figlio: la glorificazione in Cristo si identifica con la piena partecipazione alla figliolanza divina. Non soltanto le sofferenze dei credenti non intralciano la partecipazione alla gloria finale ma sono incluse nel disegno divino, nella partecipazione alla sua gloria. Il vangelo (Mt 13,44-52) ci propone la conclusione del cap. 13, con tre parabole molto brevi ed esclusive di Matteo: il tesoro, la perla e la rete, tutte introdotte dalla formula ὁμοία ἐστὶν ἡ βασιλεία τῶν οὐρανῶν «il Regno dei cieli è simile a...» (13,44.45.47). Accogliere il Regno equivale a divenire γραμματεὺς μαθητευθεὶς τῇ βασιλείᾳ τῶν οὐρανῶν «scriba, discepolo del regno dei cieli», capace di estrarre ἐκ τοῦ θησαυροῦ αὐτοῦ καινὰ καὶ παλαιά «dal suo tesoro cose nuove e cose antiche». 5 Mt 13,44: Il regno dei cieli è simile a un tesoro nascosto nel campo; un uomo lo trova e lo nasconde; poi va, pieno di gioia, vende tutti i suoi averi e compra quel campo (Ὁμοία ἐστὶν ἡ βασιλεία τῶν οὐρανῶν θησαυρῷ κεκρυμμένῳ ἐν τῷ ἀγρῷ, ὃν εὑρὼν ἄνθρωπος ἔκρυψεν, καὶ ἀπὸ τῆς χαρᾶς αὐτοῦ ὑπάγει καὶ πωλεῖ ὅσα ἔχει καὶ ἀγοράζει τὸν ἀγρὸν ἐκεῖνον). - Il regno dei cieli è simile a un tesoro nascosto nel campo (Ὁμοία ἐστὶν ἡ βασιλεία τῶν οὐρανῶν θησαυρῷ κεκρυμμένῳ ἐν τῷ ἀγρῷ). Le due parabole del tesoro e della perla costituiscono una coppia. Sono state incluse nel «giorno delle parabole» di Matteo a causa della parola di richiamo ἀγρός «campo» usata nella prima parabola. Data l'instabilità politica della Palestina e la continua minaccia di invasioni, nascondere sotto terra i propri preziosi era il mezzo migliore per proteggerli. Qui si suppone che l'attuale padrone del campo non sia a conoscenza di ciò che vi è nascosto. I rabbini discutevano proprio su questo punto: se chi acquista un campo ha diritto al tesoro che vi può trovare. La parabola presuppone che poteva farlo. - compra quel campo (ἀγοράζει τὸν ἀγρὸν ἐκεῖνον). L'enfasi di questa parabola è posta sul grande valore di ciò che uno trova: ἡ βασιλεία «il regno» e sull'incondizionata reazione che provoca. Lo stato d'animo è ἀπὸ τῆς χαρᾶς «pieno di gioia». La scoperta è fortuita, suscita stupore e produce una grande soddisfazione. 13,45-46: Il regno dei cieli è simile anche a un mercante che va in cerca di perle preziose; 46trovata una perla di grande valore, va, vende tutti i suoi averi e la compra (Πάλιν ὁμοία ἐστὶν ἡ βασιλεία τῶν οὐρανῶν ἐμπόρῳ ζητοῦντι καλοὺς μαργαρίτας• 46 εὑρὼν δὲ ἕνα πολύτιμον μαργαρίτην ἀπελθὼν πέπρακεν πάντα ὅσα εἶχεν καὶ ἠγόρασεν αὐτόν). - perle preziose (καλοὺς μαργαρίτας). L'aggettivo καλός significa «bello, buono, opportuno, conveniente»; è una delle parole favorite da Matteo (20x in Mt, 11x in Mc, 7x in Lc). La ricerca delle perle preziose presenta una dinamica diversa dalla parabola del tesoro. In quest'ultima l'oggetto prezioso era una sorpresa, mentre qui è il risultato di una ricerca fatta di proposito. - una perla di grande valore (ἕνα πολύτιμον μαργαρίτην). L'associazione delle perle con altre pietre preziose (cf Ap 17,4; 18,12.16; 21,21) indica il grande valore che veniva loro attribuito nel mondo greco-romano. Alla luce dello Shemà, ci si riferisce all'amare Dio «con tutta la tua forza» (me'od) cioè: «con tutti i tuoi beni» (mamon). Le due parabole spiegano come si faccia ad amare Dio rinunciando a tutti gli altri beni: ciò è possibile solo se si considera il Regno come un tesoro infinitamente più prezioso del denaro, per il quale vale gioiosamente la pena di rinunziare a tutte le altre cose. Non si tratta affatto di una perdita, bensì di un guadagno (cf 6,19-21). Le prime due parabole, quella del θησαυρός, οῦ, ὁ «tesoro» e del μαργαρίτης, ου, ὁ «perla» sono accomunate dall'idea di un ritrovamento e descrivono non tanto l'oggetto che viene scoperto, ma la reazione di chi lo scopre. Tre sono i denominatori comuni delle parabole. Il primo è dato dall'opposizione «sopra-sotto»: il tesoro, la perla, i pesci, sono nascosti, cioè «sotto» la terra, sotto altre perle di minor valore, sotto il mare. «Sopra» c'è la superficie, l'apparenza, uno strato che impedisce di vedere fino in fondo. Vi è però anche una realtà più profonda, sommersa, un mondo che c'è, ma nemmeno si immagina. Per trovare il tesoro, scovare la perla preziosa, pescare dei buoni pesci, bisogna cercare «sotto» e con sapienza. Il secondo denominatore è dato dalle conseguenze del ritrovamento. Chi trova un tesoro o una perla deve rinunciare a tutto il resto e vendere quanto possiede; chi ha visto i pesci sotto la superficie del mare non può fermarsi a contemplarli ma subito deve tirare le reti prima che i pesci scappino. Il terzo dipende dalla precedente: la gioia. Se è espressamente citata solo nel caso del ritrovamento del tesoro (cf 13,44), possiamo immaginarci che anche gli altri sono contenti. Se si deve rinunciare ai propri beni, è per la gioia, perché il Regno porta una ricompensa infinitamente più grande di quanto si deve lasciare per entrarci: la stessa logica è usata da Gesù per spiegare che chi lascia i beni o gli affetti per il Regno avrà già in questo mondo la gioia del centuplo (cf 19,29). Infine, sotto i simboli del tesoro e della perla si cela forse una realtà che è quella della sapienza. La ë|šet-Hayìl «la donna forte» (Pr 31,10) è paragonata alle perle: «una donna forte chi potrà trovarla? Ben superiore alle perle è il suo valore» (LXX: γυναῖκα ἀνδρείαν τίς εὑρήσει τιμιωτέρα δέ ἐστιν λίθων πολυτελῶν ἡ τοιαύτη). Il verbo greco usato dalla LXX e da Matteo per il tesoro e la perla è εὑρίσκω «trovare». Perciò la figura della «donna forte» probabilmente corrisponde alla sapienza personificata. Le parabole che chiudono questo capitolo dicono come sia molto più saggio rinunciare al poco per avere il molto, come sia molto più intelligente aprire le mani (cf Pr 31,20) piuttosto che tenere stretto un tesoro per paura di perderlo. 6 13,47-48: Ancora, il regno dei cieli è simile a una rete gettata nel mare, che raccoglie ogni genere di pesci. 48 Quando è piena, i pescatori la tirano a riva, si mettono a sedere, raccolgono i pesci buoni nei canestri e buttano via i cattivi (Πάλιν ὁμοία ἐστὶν ἡ βασιλεία τῶν οὐρανῶν σαγήνῃ βληθείσῃ εἰς τὴν θάλασσαν καὶ ἐκ παντὸς γένους συναγαγούσῃ• 48 ἣν ὅτε ἐπληρώθη ἀναβιβάσαντες ἐπὶ τὸν αἰγιαλὸν καὶ καθίσαντες συνέλεξαν τὰ καλὰ εἰς ἄγγη, τὰ δὲ σαπρὰ ἔξω ἔβαλον). - una rete gettata nel mare (σαγήνῃ βληθείσῃ εἰς τὴν θάλασσαν). La parabola della rete si trova anche nell'Evangelo di Tommaso: «Egli disse: L'uomo è simile a un pescatore saggio che gettò la sua rete in mare, e dal mare la tirò carica di piccoli pesci: in mezzo a essi il pescatore saggio scorse un pesce grande e buono; allora gettò via in mare tutti i pesci piccoli e scelse senza fatica il pesce grande. Chi ha orecchi per ascoltare ascolti!» (8). La rete è evidentemente quella da pesca, più esattamente la σαγήνη «sagèna, rete a strascico», che o vien trainata tra due barche oppure viene calata con l'aiuto di una barca e poi tirata a riva con una lunga corda. - Quando è piena (ὅτε ἐπληρώθη). Il verbo ἐπληρώθη è ind. aor. pass. di πληρόω «riempio, colmo, completo, compio». La dinamica di questa parabola è la stessa di quella del grano e della zizzania (Mt 13,24-30); le due parabole formano una coppia. Come il grano e la zizzania devono giungere a maturazione, così la rete deve essere riempita prima che possa avvenire la cernita. Il termine «piena» è affine al «numero pieno» applicato a «tutte le genti» in Rm 11,25. Qui però non c'è nessuna distinzione tra Giudei e pagani, ma piuttosto tra i giusti e i malvagi, ossia tra coloro che ascoltano la parola di Gesù e coloro che non l'ascoltano. - i cattivi (τὰ δὲ σαπρὰ). L'aggettivo σαπρός significa «putrido, marcio, cattivo, corrotto» (cf 7,17-18; 12,33). Il plurale σαπρά, saprá si riferisce 1) agli animali marini non commestibili; 2) ai pesci impuri (cf Lv 11,10-12) che non hanno «né pinne né squame». Come nella parabola del grano e della zizzania, il momento della separazione dei buoni dai cattivi verrà quando sarà raggiunta una certa pienezza. I «cattivi» vengono buttati via, non ributtati in mare. La parabola della rete, quale la leggiamo in Matteo, fa piuttosto coppia con la spiegazione della parabola della zizzania, sebbene non siano contigue. Si tratta, infatti, di una parabola di discernimento fra i pesci buoni e quelli cattivi (vv. 47-48), seguita da uno sviluppo apocalittico sul giudizio finale che mutua gli stessi termini della spiegazione della parabola della zizzania (vv. 49-50). 13,49-50: Così sarà alla fine del mondo. Verranno gli angeli e separeranno i cattivi dai buoni 50 e li getteranno nella fornace ardente, dove sarà pianto e stridore di denti (οὕτως ἔσται ἐν τῇ συντελείᾳ τοῦ αἰῶνος ἐξελεύσονται οἱ ἄγγελοι καὶ ἀφοριοῦσιν τοὺς πονηροὺς ἐκ μέσου τῶν δικαίων 50 καὶ βαλοῦσιν αὐτοὺς εἰς τὴν κάμινον τοῦ πυρός• ἐκεῖ ἔσται ὁ κλαυθμὸς καὶ ὁ βρυγμὸς τῶν ὀδόντων). - Così sarà alla fine del mondo (οὕτως ἔσται ἐν τῇ συντελείᾳ τοῦ αἰῶνος). La spiegazione della parabola della rete è simile a quella del grano e della zizzania. L'idea degli angeli che operano la separazione è espressa anche in Mt 13,41. In entrambi i casi il loro ruolo è stato probabilmente suggerito dalla pluralità dei mietitori e dei pescatori. Il linguaggio figurativo sconfina in quello morale-apocalittico di Matteo: gli angeli sono gli agenti del giudizio finale e gli empi sono destinati alla κάμινον τοῦ πυρός «fornace di fuoco» e al κλαυθμὸς καὶ ὁ βρυγμὸς τῶν ὀδόντων «pianto e stridore dei denti». - buoni (τῶν δικαίων). I δίκαιοι «giusti» non sono semplicemente i «buoni», ma quelli di cui è stato detto: Allora i giusti splenderanno come il sole nel regno del Padre loro (13,43). - nella fornace ardente (εἰς τὴν κάμινον τοῦ πυρός). Viene ripresa un'espressione già usata in Mt 13,42. Anche in questo caso l'idea della tolleranza e della paziente attesa implicita nella parabola ha ceduto il posto ai temi del giudizio e della punizione. Tra la parabola della zizzania e quella della rete vi è una lieve differenza di accento. L'accento della prima parabola è posto sulla presenza inquietante del male nel mondo (la zizzania), mentre nella seconda cade sulla separazione dei buoni dai malvagi: «quando la rete fu piena», può porsi in relazione col «fino a quando saranno entrate tutte le genti» di Rm 11,25. Entrambe sono parabole di separazione, ma la parabola della zizzania si preoccupa di più della sorte degli empi, mentre quella della rete si interessa soprattutto al destino finale dei giusti, quando "splenderanno come il sole nel regno del Padre loro" (13,43, con allusione alla resurrezione finale, descritta nei termini di Dn 12,3). La parabola della zizzania risponde alla domanda: Come mai Dio sopporta gli empi in questo mondo e non affretta il giudizio? La parabola della rete, invece, risponde alla 7 domanda: Quando i giusti riceveranno la loro ricompensa? Il riferimento a Rm 11,25 e al «pleroma delle genti» nella rete di Israele risulta dunque del tutto giustificato. 13,51-52: Avete compreso tutte queste cose?». Gli risposero: «Sì». 52Ed egli disse loro: «Per questo ogni scriba, divenuto discepolo del regno dei cieli, è simile a un padrone di casa che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche» (Συνήκατε ταῦτα πάντα; λεουσιν αὐτῳ• ναί. 52 ὁ δὲ εἶπεν αὐτοῖς διὰ τοῦτο πᾶς γραμματεὺς μαθητευθεὶς τῇ βασιλείᾳ τῶν οὐρανῶν ὅμοιος ἐστιν ἀνθρώπῳ οἰκοδεσπότῃ, ὅστις ἐκβάλλει ἐκ τοῦ θησαυροῦ αὐτοῦ καινὰ καὶ παλαιά.). - Tutte queste cose (ταῦτα πάντα). L'espressione si riferisce ai μυστήρια τῆς βασιλείας τῶν οὐρανῶν, ai «misteri del regno dei cieli» (13,11), alle κεκρυμμένα «cose nascoste» (13,35) ma rivelabili in parabole. Queste cose sono allusive ma non sono incomprensibili e i discepoli capiscono la presenza del regno, i suoi umili inizi, le diverse reazioni, la straordinaria pienezza del vangelo e il giudizio finale. - Gli risposero: «Sì» (λεουσιν αὐτῳ• ναί). Il discorso parabolico si conclude con una sottolineatura positiva sulla comprensione da parte dei discepoli. - ogni scriba, divenuto discepolo (πᾶς γραμματεὺς μαθητευθεὶς). Alcuni interpretano l'espressione come un autoritratto dell'evangelista. Originariamente incaricati di redigere documenti legali, gli scribi sono diventati esperti in questioni legali e nell'interpretazione della Torah. Il verbo μαθητευθεὶς, mathēteutheìs, part. aor. pass. di μαθητεύω «rendo discepolo, ammaestro» fa assonanza col nome di Μαθθαῖος, «Matteo» (ebr. Mattanyah o Mattityah, composto dai termini mattan «dono» e Yah, «dono di Adonay»). - simile a un padrone di casa (ὅμοιος ἐστιν ἀνθρώπῳ οἰκοδεσπότῃ). Lo scriba è paragonato a un padrone di casa, a un uomo ricco che estrae dal suo tesoro καινὰ «cose nuove» (il vangelo) e παλαιά «cose antiche» (l'eredità ebraica). Sia il nuovo che l'antico ha grande valore; il nuovo non rende inutile il vecchio. - che estrae dal suo tesoro (ὅστις ἐκβάλλει ἐκ τοῦ θησαυροῦ αὐτοῦ). Qui e in 12,35 il verbo ἐκβάλλω è reso con «estrarre, togliere». Recentemente P. Phillips ha avanzato l'ipotesi che il senso di ἐκβάλλω in questa frase debba essere precisato meglio, tenendo conto che viene usato per esprimere l'azione di «espellere» (come si «fanno uscire» i demoni da un corpo). Questa interpretazione è antica e tradizionale, presente già nei Padri della Chiesa. In Lc 6,45 è detto: L’uomo buono dal buon tesoro del suo cuore trae fuori il bene; l’uomo cattivo dal suo cattivo tesoro trae fuori il male: la sua bocca infatti esprime ciò che dal cuore sovrabbonda. Però qui il verbo usato è differente: προφέρω «traggo fuori». Girolamo (347 - 419/420) traduce allo stesso modo, in Lc 6,45 // Mt 12,35 e in Mt 13,52, con profert (da profero), due verbi ben diversi, προφέρω ed ἐκβάλλω. Anche Origene (185-254) confonde e nel suo commento a Matteo in 13,52 si trova προφέρει e non, invece, l'universalmente attestato ἐκβάλλει. Restituendo invece al verbo il suo pieno significato di «espellere», lo scriba-discepolo dovrebbe comportarsi esattamente come l'uomo della parabola di 13,44 che, trovato un tesoro, vende tutto per acquistare il campo, ovvero per lasciare spazio alla sequela di Gesù: dovrebbe, insomma, liberarsi di tutto ciò che ha imparato, da molto tempo («cose antiche») o da poco («e cose nuove»), per prepararsi così ad accogliere il Regno dei cieli. Da anni ormai, in ogni caso, si è voluto vedere in questa descrizione dello scriba l'autoritratto di Matteo, e ciò non sembra accordarsi con l'interpretazione di Phillips ora riportata. «Matteo sa bene che non si cuce una pezza di panno nuovo su un abito vecchio, che non si mette del vino nuovo in otri vecchi (9,16). Non si tratta di associare cose disparate. Ma Matteo è anche l'uomo che non parlerà mai di una legge "nuova", di un comando "nuovo", perché sa troppo bene che Gesù non è venuto ad abolire l'antico ma a compierlo. In questo senso, è lo stesso antico che diventa nuovo e il nuovo non è valido se non è ri-espressione dell'antico. Il nuovo non abolisce l'antico, non si sostituisce all'antico: lo compie. Ma "antico", "nuovo" che cosa rappresentavano concretamente per Matteo? Sarebbe un po' poco pensare che i due termini ricoprano esattamente l'AT e la rivelazione nuova ricevuta in Gesù Cristo. L'insegnamento dato da Gesù e trasmesso dalla tradizione è già, in un certo senso, "antico" per Matteo, di quella antichità che richiede una riattualizzazione in funzione dei bisogni nuovi della chiesa del suo tempo. Lo sforzo che egli ha fatto in questo senso rimane esemplare per la realizzazione dei compiti pastorali di ogni tempo: nova et vetera» (Jacques Dupont). 8
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