VIII domenica TO (A) Is 49,14-15; Sal 62; 1Cor 4,1-5; Mt 6,24-34 Prima Lettura Is 49, 14-15 Io non ti dimenticherò mai. Dal libro del profeta Isaìa Sion ha detto: «Il Signore mi ha abbandonato, il Signore mi ha dimenticato». Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se costoro si dimenticassero, io invece non ti dimenticherò mai. Seconda Lettura 1 Cor 4, 1-5 Il Signore manifesterà le intenzioni dei cuori. Dalla prima lettera di san Paolo apostolo ai Corìnzi Fratelli, ognuno ci consideri come servi di Cristo e amministratori dei misteri di Dio. Ora, ciò che si richiede agli amministratori è che ognuno risulti fedele. A me però importa assai poco di venire giudicato da voi o da un tribunale umano; anzi, io non giudico neppure me stesso, perché, anche se non sono consapevole di alcuna colpa, non per questo sono giustificato. Il mio giudice è il Signore! Non vogliate perciò giudicare nulla prima del tempo, fino a quando il Signore verrà. Egli metterà in luce i segreti delle tenebre e manifesterà le intenzioni dei cuori; allora ciascuno riceverà da Dio la lode. Vangelo Mt 6, 24-34 Non preoccupatevi del domani. Dal vangelo secondo Matteo In quel tempo Gesù disse ai suoi discepoli: «Nessuno può servire due padroni, perché o odierà l’uno e amerà l’altro, oppure si affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro. Non potete servire Dio e la ricchezza. Perciò io vi dico: non preoccupatevi per la vostra vita, di quello che mangerete o berrete, né per il vostro corpo, di quello che indosserete; la vita non vale forse più del cibo e il corpo più del vestito? Guardate gli uccelli del cielo: non séminano e non mietono, né raccolgono nei granai; eppure il Padre vostro celeste li nutre. Non valete forse più di loro? E chi di voi, per quanto si preoccupi, può allungare anche di poco la propria vita? E per il vestito, perché vi preoccupate? Osservate come crescono i gigli del campo: non faticano e non filano. Eppure io vi dico che neanche Salomone, con tutta la sua gloria, vestiva come uno di loro. Ora, se Dio veste così l’erba del campo, che oggi c’è e domani si getta nel forno, non farà molto di più per voi, gente di poca fede? Non preoccupatevi dunque dicendo: “Che cosa mangeremo? Che cosa berremo? Che cosa indosseremo?”. Di tutte queste cose vanno in cerca i pagani. Il Padre vostro celeste, infatti, sa che ne avete bisogno. Cercate invece, anzitutto, il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta. Non preoccupatevi dunque del domani, perché il domani si preoccuperà di se stesso. A ciascun giorno basta la sua pena». 1 La prima lettura (Is 49,14-15) ci propone un passo molto noto del capitolo 49 del Secondo Isaia o Isaia babilonese (cc. 40-55), capitolo in cui troviamo anche il secondo canto del Servo di Adonay (49,1-7). Il testo ci rimanda all'epoca dell'esilio. Nel 586 a.C. Gerusalemme è stata conquistata e distrutta da Nabucodonosor, che deporta a Babilonia la classe dirigente della città, tra cui il nostro «profeta della consolazione». Il brano odierno ci presenta il dialogo drammatico tra la desolata Gerusalemme e il suo Dio. Is 49,14: Sion ha detto: «Il Signore mi ha abbandonato, il Signore mi ha dimenticato» (vattó'mer tziyyon 'azaváni hashem wa'donay shekecháni). - Il Signore mi ha abbandonato ('azaváni hashem). Una delle regole principali della poesia ebraica è il parallelismo, che può essere sinonimico, antitetico o sintetico. Nel nostro caso ci troviamo di fronte a un parallelismo sinonimico; le due proposizioni sono parallele ed esprimono la stessa realtà: l'abbandono e la dimenticanza. I verbi azav «abbandonare» e shakach «dimenticare» sono utilizzati per esprimere lo stato d'animo degli esiliati ormai privi di speranza. Azav denuncia una separazione voluta che provoca uno stato di lutto; shakach esprime invece una dimenticanza non voluta, causata in genere dalla lontananza fisica. La situazione tragica degli esiliati viene elaborata e tradotta in un'affermazione teologica carica di pessimismo: abbiamo perso tutto perché Dio ci ha abbandonati, ci ha ripudiati. Si noti che Sion parla con verbi al passato e ha solo obiezioni da porre. Come una donna abbandonata dal marito e indifesa, Sion non ha potuto proteggere i suoi figli; il nemico li ha trascinati via come prigionieri di guerra ed è rimasta sola. Nella solitudine rumina la propria disgrazia, rimproverando lo Sposo assente; e quando ascolta parole di consolazione, vi frappone i dubbi del suo dolore. 49,15: Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se costoro si dimenticassero, io invece non ti dimenticherò mai (hatishkach 'ishah 'ulah merachem ben-bitnah gam-'élleh tishkáchnah we'anoki lō' eshkachek) - io invece non ti dimenticherò mai (we'anoki lō' eshkachek). La risposta di Dio è al futuro e risuona con accenti di passione materna con una formula densa e commovente. Dio risponde con promesse che fanno appello alla fiducia. Io non ti dimenticherò non può essere oggetto di constatazione immediata, ma solo di fiducia nella promessa di Dio. Il vero tema del brano diventa la speranza. Come una mamma non può dimenticarsi del frutto delle sue viscere, così Dio assicura il suo amore incondizionato. La parola «amore» tradotta a volte con misericordia, in ebraico è resa con rachamim, le viscere che si commuovono (v. 15: merachem). Lo stesso significato lo troviamo in Paolo: Vi esorto per la misericordia di Dio (Rom 12,1: διὰ τῶν οἰκτιρμῶν, dià tỗn oiktirmỗn), che usa il linguaggio della tenerezza materna di Dio. L’amore materno assurge così a simbolo dello stesso amore di Dio (cf Nm 11,12; Os, Ger e Dt). È un amore che non si basa sulla risposta del bambino, ma interviene gratuitamente. La parola di Dio diventa così rassicurante. Disse il Maggid di Kosnitz: «Un giovane fidanzato regalò alla sua promessa sposa un anello con un diamante incastonato, di valore incalcolabile. Esclamò la sposa: Amato mio, tu mi lasci per recarti nella tua patria, non sia mai che tu mi dimentichi e sposi un’altra! Rispose il promesso sposo: Finché tu porterai il mio anello, che non ha prezzo, io non ti dimenticherò, né ti lascerò. Ti ho dato questo anello come pegno del mio eterno amore. Allo stesso modo, Israele dice: “Il Signore mi ha abbandonato, Adonay mi ha dimenticato”. Ma Dio risponde: Finché osserverete la mia Torah e i suoi comandamenti, io non vi abbandonerò, né vi dimenticherò. La Torah è il pegno del mio eterno amore». Nella seconda lettura (1Cor 4,1-5) Paolo ribadisce che il vangelo è il più grande dono che si possa ricevere, ma bisogna assolutamente evitare ogni vanto o spirito di rivalità che provocano divisioni nella comunità. Perciò Paolo parla al plurale: «Ognuno ci consideri come servi (ὑπηρέτας, hypērétas) di Cristo e amministratori (οἰκονόμους, oikonómous) dei misteri di Dio» (v. 1). Gli annunciatori del vangelo sono pertanto ὑπηρέται, hypērétai, servi e οἰκονόμοι, oikonómoi, economi e non padroni. Chi annuncia il vangelo deve avere un'unica preoccupazione: trasmettere il messaggio del Maestro, attualizzando nel presente ciò che la Parola indica. Successivamente Paolo risponde alle critiche dei corinzi, dichiarando che non è per nulla preoccupato dei giudizi pronunciati su di lui, siano essi di approvazione o di condanna. Non è ai corinzi che deve rendere conto del proprio operato, ma a Dio. Non si fida nemmeno del giudizio della sua 2 coscienza, anche se, onestamente, non gli rimprovera nulla (v. 4). Tiene presente questo giudizio, ma non lo considera definitivo, in attesa che il Signore venga. 1Cor 4,1: Ognuno ci consideri come servi di Cristo e amministratori dei misteri di Dio (οὕτως ἡμᾶς λογιζέσθω ἄνθρωπος ὡς ὑπηρέτας Χριστοῦ καὶ οἰκονόμους μυστηρίων θεοῦ). - servi … amministratori (ὑπηρέτας … οἰκονόμους). Il titolo ὑπηρέτης che nell'intero epistolario paolino ricorre solo qui, indica nei vangeli e negli Atti degli Apostoli «servi e guardie di bassa categoria» (cf Mt 5,25; 26,58; Mc 14,54.65; Lc 4,20; Gv 7,32; At 5,22.26) ed è applicato anche ai predicatori cristiani (Lc 1,2; At 13,5) e a Paolo stesso (At 26,16). Pur essendo consapevole dell'alta missione ricevuta da Cristo di amministrare i misteri di Dio, Paolo desidera essere considerato «servo di Cristo» (ὑπηρέτης Χριστοῦ). In effetti, il sostantivo οἰκονόμος designa negli scritti greci l'«amministratore», ossia uno schiavo che riceve dal padrone l'incarico di prendersi cura della conduzione della sua casa, della sua servitù (Lc 12,42) o di una sua proprietà. Ma può indicare anche un uomo libero che media i rapporti contrattuali tra un datore di lavoro e i suoi dipendenti (Mt 20,8). Nella Prima lettera ai Corinzi, come in altre opere del NT (Tt 1,7; 1Pt 4,10), viene definito così l'evangelizzatore (9,17) e il responsabile di una comunità cristiana. Paolo qui invita ἄνθρωπος, ogni «uomo» a riconoscere che i predicatori e i pastori sono totalmente subordinati a Cristo e a Dio. I due vocaboli ὑπηρέται, hypērétai, «servi» e οἰκονόμοι, oikonómoi, «amministratori» indicano perciò subordinazione e responsabilità. 4,2: Ora, ciò che si richiede agli amministratori è che ognuno risulti fedele (ὧδε λοιπὸν ζητεῖται ἐν τοῖς οἰκονόμοις ἵνα πιστός τις εὑρεθῇ). - fedele (πιστός). L'aggettivo pistós «fedele» va considerato in rapporto a colui che ha dato l'incarico, cioè a Dio, come lascia capire la forma passiva dei verbi ζητεῖται (ind. pres. pass. di ζητέω) «si richiede», εὑρεθῇ (cong. aor. pass. di εὑρίσκω) «sia trovato». 4,3-4: A me però importa assai poco di venire giudicato da voi o da un tribunale umano; anzi, io non giudico neppure me stesso, 4perché, anche se non sono consapevole di alcuna colpa, non per questo sono giustificato. Il mio giudice è il Signore! (ἐμοὶ δὲ εἰς ἐλάχιστον ἐστιν, ἵνα ὑφ’ ὑμῶν ἀνακριθῶ ἢ ὑπὸ ἀνθρωπίνης ἡμέρας• ἀλλ’ οὐδὲ ἐμαυτὸν ἀνακρίνω. 4οὐδὲν γὰρ ἐμαυτῷ σύνοιδα, ἀλλ’ οὐκ ἐν τούτῳ δεδικαίωμαι, ὸ δὲ ἀνακρίνων με κύριος ἐστιν) - A me però importa assai poco di venire giudicato da voi (ἐμοὶ δὲ εἰς ἐλάχιστον ἐστιν, ἵνα ὑφ’ ὑμῶν ἀνακριθῶ). Alla lettera: «a me però è cosa minima che da voi sia giudicato»; oppure: «per me però è di pochissima importanza essere giudicato da voi». - da un tribunale umano (ὑπὸ ἀνθρωπίνης ἡμέρας, lett. «da un giorno umano»). Il sostantivo ἡμέρα va inteso nel senso di «tribunale», dato che quest'ultimo emette la sentenza in un giorno ben determinato (cf At 17,31). L'antitesi istituita da Paolo è tra un foro umano e quello del Signore, che si pronuncerà nel giorno del giudizio finale. - non sono consapevole (4οὐδὲν γὰρ ἐμαυτῷ σύνοιδα, lett. «di nessuna (colpa) infatti per me stesso sono consapevole»). Dal verbo σύνοιδα «sono d'accordo, sono consapevole, ho coscienza» usato qui da Paolo deriva il sostantivo συνείδησις «coscienza, sindèresi» (cf 8,7.10.12). - non per questo sono giustificato (οὐκ ἐν τούτῳ δεδικαίωμαι). Il contesto lascia intendere che il verbo δεδικαίωμαι (perf. ind. pass. di δικαιόω) significa qui «essere riconosciuto innocente». Non ha, quindi, il significato tecnico con cui Paolo lo utilizza specialmente nelle lettere ai Galati (cf 2,16-17; 3,8.11.24; 5,4), ai Romani (cf 3,20.24.28) e in 1Cor 6,11: «essere giustificato», ossia perdonato da Dio, in virtù della fede in Cristo e non delle opere fatte in osservanza alla Legge di Mosè. In termini molto decisi Paolo afferma l'incompetenza giudiziaria di ogni tribunale umano nei suoi confronti. Egli rivendica per sé l'immunità, perché deve rispondere solo al tribunale del Signore. Quello che gli sta a cuore è mettere fuori gioco i suoi critici o accusatori di Corinto che contestano il suo annuncio di Gesù Cristo crocifisso privo di «sapienza di parola». Paolo dichiara che riguardo al proprio metodo di evangelizzazione egli in coscienza si sente a posto. Ma per un amministratore, dice Paolo, non conta l'autoassoluzione, ma il verdetto del Signore. 3 4,5: Non vogliate perciò giudicare nulla prima del tempo, fino a quando il Signore verrà. Egli metterà in luce i segreti delle tenebre e manifesterà le intenzioni dei cuori; allora ciascuno riceverà da Dio la lode (ὥστε μὴ πρὸ καιροῦ τι κρίνετε ἕως ἂν ἔλθῃ ὁ κύριος, ὃς καὶ φωτίσει τὰ κρυπτὰ τοῦ σκότους καὶ φανερώσει τὰς βουλὰς τῶν καρδιῶν• καὶ τότε ὁ ἔπαινος γενήσεται ἑκάστῳ ἀπὸ τοῦ θεοῦ). - Non vogliate perciò giudicare nulla prima del tempo (ὥστε μὴ πρὸ καιροῦ τι κρίνετε, lett. «perciò non prima del tempo qualcosa giudicate»). L'invito a «non emettere giudizi prima del tempo» si rivolge ai membri della comunità corinzia, perché in ogni caso il loro sarebbe un «pre-giudizio». Solo il Signore che verrà è il protagonista del giudizio di Dio. - Egli metterà in luce i segreti delle tenebre e manifesterà le intenzioni dei cuori (ὃς καὶ φωτίσει τὰ κρυπτὰ τοῦ σκότους καὶ φανερώσει τὰς βουλὰς τῶν καρδιῶν, lett. «egli anche illuminerà le cose nascoste della tenebra e manifesterà le intenzioni dei cuori»). L'accento è posto sulla illuminazione delle «cose nascoste» e lo svelamento delle «intenzioni dei cuori» (cf Lc 2,35: affinché siano svelati i pensieri di molti cuori). Le due frasi sono simmetriche. L'una dice in forma metaforica - «luce/tenebre» - quello che l'altra esplicita in termini più realistici. In breve si passa dal problema del giudizio relativo all'operato degli amministratori di Dio, al tema del giudizio che riguarda ognuno che deve rispondere del proprio operato davanti a Dio (cf 2Cor 5,10). Rapporti pastorali autentici dei Corinzi con i ministri. Precisate l'identità dei missionari e la loro funzione ecclesiale, Paolo torna a considerare più da vicino le loro relazioni così problematiche con i Corinzi. Poco prima ha detto che i missionari come lui non sono altro che «servitori» (diákonoi, 3,5) e «collaboratori (synergoí) di Dio» (3,9). Ora lo ribadisce in altri termini per spiegare come dovrebbero essere le relazioni dei fedeli di Corinto nei confronti dei ministri della Chiesa, che, come lui, sono «servi (ὑπηρέται, hypērétai) di Cristo» e «amministratori (οἰκονόμοι, oikonómoi) dei misteri di Dio» (4,1). È evidente che l'apostolo cerca di ristabilire un buon rapporto con la Chiesa corinzia, dopo le tensioni createsi tra lui e i destinatari. La comunità cristiana eviti pregiudizi sui ministri (4,1-5). L'esortazione rivolta da Paolo a ciascuno dei destinatari della sua lettera a considerare lui stesso e gli altri ministri come servi di Cristo e di Dio non è una rivendicazione d'autorità, perché il dovere che scaturisce dal ministero, vale a dire l'affidabilità del servo (4,2) non può essere confusa con l'arbitrarietà del padrone. Quindi Paolo inizia a parlare di ciò che gli sta più a cuore: le proprie relazioni problematiche con i Corinzi. Ma lo fa con un certo riserbo. Con un tocco d'ironia, l'apostolo designa l'eventuale tribunale che dovrebbe giudicarlo con il termine greco ἡμέρα, hēméra, che significa alla lettera «giorno»: allude, così, al giorno del giudizio finale (cf 1,8; 3,13; Rm 2,5.16). Ma questo organo, che s'arroga il diritto di giudicarlo in nome del Signore, in realtà è semplicemente umano. Considerando che egli sta svolgendo una missione ricevuta proprio da Dio, la comunità dovrebbe sentirsi inadeguata a giudicare lui o qualche altro autentico ministro di Dio. L'unico che può chiedergli conto del suo operato, come di certo farà, alla fine dei tempi, è il Signore (vv. 4-5). Lui sì che metterà allo scoperto ogni atto, anche quello più nascosto, e ogni intenzione (v. 5). Per accentuare quanto gli prema unicamente il giudizio di Dio, Paolo dichiara di non voler nemmeno giudicare se stesso. Ciò nonostante: «Non per questo sono giustificato» (v. 4). L'apostolo non cerca d'evitare subdolamente qualsiasi critica o rimprovero che la comunità cristiana potrebbe legittimamente e utilmente fargli. Pare piuttosto che egli voglia insegnare ai Corinzi a non scivolare in un atteggiamento sospettoso nei suoi confronti, dettato dalla sapienza mondana. Le conseguenze sarebbero deleterie non solo per lui, ma soprattutto per loro. Il vangelo (Mt 6,24-34), dopo aver confermato i «tre pilastri del mondo»: Torà, culto e opere di misericordia, come affermato da Simeone il Giusto alla fine III sec. a.C. (Pirqè Avot I,2), a cui l'evangelista fa corrispondere le tre «opere buone» (ma'asim tovim) della pietà giudaica: elemosina, preghiera e digiuno (6,118), riporta l'insegnamento di Gesù sul valore della ricchezza e il rapporto con la Provvidenza. 4 Mt 6,24: Nessuno può servire due padroni, perché o odierà l’uno e amerà l’altro, oppure si affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro. Non potete servire Dio e la ricchezza (Οὐδεὶς δύναται δυσὶ κυρίοις δουλεύειν ἢ γὰρ τὸν ἕνα μισήσει καὶ τὸν ἕτερον ἀγαπήσει ἢ ἑνὸς ἀνθέξεται καὶ τοῦ ἑτέρου καταφρονήσει. οὐ δύνασθε θεῷ δουλεύειν καὶ μαμωνᾷ). - due padroni (δυσὶ κυρίοις). La Vulgata traduce domini «signori», e non «padroni». Matteo conosce un altro vocabolo per «padrone», οἰκοδεσπότης, «padrone di casa» (cf 10,25; 13,27). - o odierà l’uno e amerà l’altro (ἕνα μισήσει καὶ τὸν ἕτερον ἀγαπήσει). Il verbo μισέω (cf 5,43) significa «odiare», ma tale traduzione potrebbe ingenerare confusione. Il suo significato, che veicola un'idea di quantità o intensità, può essere compreso a partire dal detto di Gesù in 10,37: Chi ama padre o madre più di me, non è degno di me, ma anche dal suo uso nella Settanta, in Gen 29,33; Dt 21,15-17; Pr 13,24, dove appunto significa «non amare» o meglio «amare di meno». Gli scritti rabbinici (b. Qidd. 90a; m. Gitt. 4,5; m. 'Eduy. 1,13) in alcuni casi prevedevano la possibilità che uno schiavo potesse appartenere a diversi padroni. - oppure si affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro (ἢ ἑνὸς ἀνθέξεται καὶ τοῦ ἑτέρου καταφρονήσει). Per un domestico «servire» voleva dire anche appartenere al suo κύριος, kýrios, «signore», per il semplice motivo che il lavoro prestato non può prescindere dalla personalità del servo, che vive una sua affettività. - la ricchezza (μαμωνᾷ, lett. «a mammona»). Il termine μαμωνᾶς, «mammona» è usato in alcuni testi ebraici e aramaici col significato di «ricchezza, denaro, proprietà». Probabilmente deriva dal verbo 'aman, «credere, aver fiducia» e quindi «ciò in cui qualcuno ripone la propria fiducia». Altri lo fanno derivare da mwn, «provvedere il nutrimento». Il termine assume una connotazione negativa solo in determinati contesti (come qui) o in combinazione con altri termini (cf Lc 16,9: «mammona disonesta»). Soltanto l'evangelo smaschera il mammona come idolo, oggetto di una fiducia mal riposta e alienante. Esiste infatti un nesso profondo tra la "fiducia" dell'uomo e la sua "ricchezza". Negli scritti rabbinici il mamon non ha mai una connotazione negativa e l'interpretazione dello Shemà ancora attuale precisa che amare Dio «con tutta la tua forza» (Dt 6,5: uvekol-me'odéka), corrisponde a «con tutto il tuo mamon». Gesù ci ricorda che la qualità filiale della nostra relazione con Dio, 'Padre nostro', dipende anche dal modo con cui ci rapportiamo con i beni della terra. Per questo egli è così perentorio: «Non potete servire Dio e la ricchezza». È il servizio reso a mammona che provoca preoccupazione e induce all'avarizia. Gesù, invece, invita ad amare le persone e a usare le cose. 6,25: Perciò io vi dico: non preoccupatevi per la vostra vita, di quello che mangerete o berrete, né per il vostro corpo, di quello che indosserete; la vita non vale forse più del cibo e il corpo più del vestito? (Διὰ τοῦτο λέγω ὑμῖν• μὴ μεριμνᾶτε τῇ ψυχῇ ὑμῶν τί φάγητε ἢ τί πίητε μηδὲ τῷ σώματι ὑμῶν τί ἐνδύσησθε. οὐχὶ ἡ ψυχὴ πλεῖόν ἐστιν τῆς τροφῆς καὶ τὸ σῶμα τοῦ ἐνδύματος;) - Perciò io vi dico: non preoccupatevi (Διὰ τοῦτο λέγω ὑμῖν• μὴ μεριμνᾶτε). La preposizione διὰ «perciò» stabilisce un nesso con quanto precede e introduce il comando μὴ μεριμνᾶτε «non preoccupatevi». Il verbo μεριμνάω, merimnáō ritorna sei volte in questa pericope, e un'altra volta in 10,19, mentre il sostantivo ἡ μέριμνα, hē mérimna, «la preoccupazione del mondo» ricorre in 13,22. Qui si potrebbe tradurre anche con «non siate ansiosi», «non affannatevi». Tuttavia si può essere preoccupati, o meglio solleciti, «per le cose del Signore» (1Cor 7,32 ss.): essenziale è dunque non nutrire sollecitudini contrastanti che dividono il cuore e gli impediscono di essere «semplice». La preoccupazione del mondo e la seduzione della ricchezza (13,22) soffocano la parola del regno e quindi anche quella giusta preoccupazione che Paolo chiama «la cura degli uni per gli altri» (1Cor 12,25). Nella «preoccupazione» è implicita l'idea di «compiere uno sforzo» in vista di un certo fine, uno sforzo che gli uccelli del cielo e i fiori del campo non fanno. Gli uccelli sono presentati come esempio non di pigrizia, ma di libertà dall'ansia. Ad essi vengono associati i lavori maschili: seminare, mietere, raccogliere in granai. Mentre ai gigli dei campi è associato un lavoro femminile: filare. In tal modo si lascia intendere che sia gli uomini come le donne non vivono per lavorare, ma la vita vale più del lavoro e del denaro. - la vita non vale forse più del cibo e il corpo più del vestito? (οὐχὶ ἡ ψυχὴ πλεῖόν ἐστιν τῆς τροφῆς καὶ τὸ σῶμα τοῦ ἐνδύματος;). Si suppone un ragionamento a fortiori: se Dio ci ha dato le cose più grandi, l'anima e il corpo, non ci darà anche le più piccole, il cibo e il vestito? Si noti che ciò che noi chiamiamo «vita», in ebraico è la nefesh, «soffio» e in greco biblico la ψυχή, psyché, «psiche». Non c'è alcuna distinzione, nella Bibbia, tra vita biologica e spirituale. 5 6,26: Guardate gli uccelli del cielo: non séminano e non mietono, né raccolgono nei granai; eppure il Padre vostro celeste li nutre. Non valete forse più di loro? (ἐμβλέψατε εἰς τὰ πετεινὰ τοῦ οὐρανοῦ ὅτι οὐ σπείρουσιν οὐδὲ θερίζουσιν οὐδὲ συνάγουσιν εἰς ἀποθήκας καὶ ὁ πατὴρ ὑμῶν ὁ οὐράνιος τρέφει αὐτά• οὐχ ὑμεῖς μᾶλλον διαφέρετε αὐτῶν;) - gli uccelli del cielo (τὰ πετεινὰ τοῦ οὐρανοῦ). È interessante che Lc 12,24 abbia τοὺς κόρακας, «i corvi»: se Matteo e Luca condividono la stessa fonte dei detti, allora qui Matteo ha evitato di nominare il corvo, che è un animale impuro (cf Lv 11,15). 6,27: E chi di voi, per quanto si preoccupi, può allungare anche di poco la propria vita? (τίς δὲ ἐξ ὑμῶν μεριμνῶν δύναται προσθεῖναι ἐπὶ τὴν ἡλικίαν αὐτοῦ πῆχυν ἕνα;)? - può allungare anche di poco (δύναται προσθεῖναι ἐπὶ τὴν ἡλικίαν αὐτοῦ πῆχυν ἕνα, lett. «può aggiungere sulla statura di lui cubito uno?» oppure «può aggiungere alla sua altezza un cubito»). Il πῆχυς, pễchys, «cubito» originariamente corrispondeva alla misura di un avambraccio, ossia dal gomito alla punta delle dita (circa 45 cm). Il «cubito» si riferisce a ἡλικία, hēlikía che può significare durata della vita (età) o statura corporea (altezza). Perciò il detto può riferirsi sia all'età che alla statura. 6,28: E per il vestito, perché vi preoccupate? Osservate come crescono i gigli del campo: non faticano e non filano (καὶ περὶ ἐνδύματος τί μεριμνᾶτε καταμάθετε τὰ κρίνα τοῦ ἀγροῦ πῶς αὐξάνουσιν οὐ κοπιῶσιν οὐδὲ νήθουσιν). - Osservate come crescono i gigli del campo (καταμάθετε τὰ κρίνα τοῦ ἀγροῦ πῶς αὐξάνουσιν). Il codice Sinaitico anziché αὐξάνουσιν (da αὐξάνω «crescere»), legge οὐ ξαίνουσιν (da ξαίνω, «cardare») così la frase greca τὰ κρίνα τοῦ ἀγροῦ οὐ ξαίνουσιν andrebbe tradotta «osservate i fiori del campo che non cardano». Mentre diversi esegeti pensano che possa essere la lezione originale (poi corretta da una seconda mano perché ritenuta incomprensibile), altri la ritengono una svista, poi giustamente corretta. La prima ipotesi, αὐξάνουσιν «crescono» in quanto lectio difficilior, sembra la più probabile. - i gigli del campo (τὰ κρίνα τοῦ ἀγροῦ). Nella Bibbia si parla spesso di gigli (ebr. shoshan, gr. krínon, lat. lilium) con forte carica poetica e simbolica. Il termine generico non consente di identificare esattamente a quale fiore si fa riferimento, poiché esistono almeno 40 specie di piante della famiglia liliacea. È probabile che i capitelli delle due grandi colonne del Tempio di Salomone ne riproducessero la forma (1Re 7,19.26). Nel Cantico dei Cantici l'amata è cantata come un giglio delle valli o come un giglio tra le spine. Anche le sue labbra sono come shoshannim «gigli» (2,1-2.16; 4,5; 5,13; 6,2-3; 7,3). Os 14,6 parla di Israele che fiorirà come un giglio. Alcuni Salmi hanno come titolo al shoshannim (45,1; 60,1; 69,1; 80,1). I gigli del campo di cui parla Gesù potrebbero essere gli anemoni, simbolo di vitalità, che fioriscono lungo corsi d'acqua nella pianura di Genezaret. - crescono … faticano … filano (αὐξάνουσιν … κοπιῶσιν … νήθουσιν). Il codice di Cipro (K), il codice Regio (L), il codice di Washington (W) e altri manoscritti trasmettono i verbi al singolare anziché al plurale, probabile correzione scribale dovuta al caso neutro di τὰ κρίνα, «gigli». In ogni caso i lavori di cui si parla sono lavori caratteristici femminili. 6,29: Eppure io vi dico che neanche Salomone, con tutta la sua gloria, vestiva come uno di loro (λέγω δὲ ὑμῖν ὅτι οὐδὲ Σολομὼν ἐν πάσῃ τῇ δόξῃ αὐτοῦ περιεβάλετο ὡς ἓν τούτων). - Salomone (Σολομὼν). Per le descrizioni delle ricchezze di Salomone (Σολομών) cf 1Re 10,4-5; 2Cr 9,13-22, sebbene in questi passi non vi sia alcun accenno allo splendore del suo abbigliamento. 6,30: Ora, se Dio veste così l’erba del campo, che oggi c’è e domani si getta nel forno, non farà molto di più per voi, gente di poca fede? (εἰ δὲ τὸν χόρτον τοῦ ἀγροῦ σήμερον ὄντα καὶ αὔριον εἰς κλίβανον βαλλόμενον ὁ θεὸς οὕτως ἀμφιέννυσιν οὐ πολλῷ μᾶλλον ὑμᾶς, ὀλιγόπιστοι;) - l'erba del campo (τὸν χόρτον τοῦ ἀγροῦ). Per la transitorietà dei fiori e dell'erba cf Is 40,6-8: «Secca l'erba, il fiore appassisce». - gente di poca fede (ὀλιγόπιστοι). L'aggettivo ὀλιγόπιστοι che ricorre qui e in 8,26; 14,31; 16,8 (il sostantivo correlato ὀλιγοπιστία in 17,20), è in pratica esclusivamente matteano (con l'eccezione del parallelo a questo versetto in Lc 12,28). Apparentemente sembra un rimprovero, ma a guardar meglio non è così: Matteo, 6 anzi, probabilmente per incoraggiare la sua comunità, attenua le espressioni più dure che trova in Marco, dove invece il Maestro si rivolge ai suoi dicendo che «non hanno» fede (Mc 4,40 // Mt 8,26; Mc 16,14) o hanno il cuore indurito (Mc 8,17 // Mt 16,8). I discepoli, nel primo vangelo, sono piuttosto chiamati a far leva sul poco che hanno. Il termine qui è inserito in un contesto più ampio ove viene ripresa una figura retorica rabbinica, chiamata qal wa-chomer (da una cosa "leggera" a una "pesante"), erba-voi. 6,31: Non preoccupatevi dunque dicendo: “Che cosa mangeremo? Che cosa berremo? Che cosa indosseremo?” (μὴ οὖν μεριμνήσητε λέγοντες• τί φάγωμεν ἤ• τί πίωμεν; ἤ• τί περιβαλώμεθα;) 6,32: Di tutte queste cose vanno in cerca i pagani. Il Padre vostro celeste, infatti, sa che ne avete bisogno (πάντα γὰρ ταῦτα τὰ ἔθνη ἐπιζητοῦσιν• οἶδεν γὰρ ὁ πατὴρ ὑμῶν ὁ οὐράνιος ὅτι χρῄζετε τούτων ἁπάντων). - vanno in cerca (ἐπιζητοῦσιν). Vi è una lieve differenza tra ἐπιζητέω, «ricerco, desidero», che ricorre qui (e in 12,39; 16,4) e ζητέω, «cerco» che si trova invece nel versetto seguente. La Vulgata traduce ἐπιζητέω con inquiro, e ζητέω con quaero. - i pagani (τὰ ἔθνη). Il termine éthnē, «nazioni» si riferisce a tutti quelli che sono al di fuori di Israele. 6,33: Cercate invece, anzitutto, il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta (ζητεῖτε δὲ πρῶτον τὴν βασιλείαν [τοῦ θεοῦ] καὶ τὴν δικαιοσύνην αὐτοῦ καὶ ταῦτα πάντα προστεθήσεται ὑμῖν). L'evangelo sostiene che l'ansia per il domani dipende dalla piccolezza della nostra fede: ὀλιγόπιστος, oligópistos è un vocabolo che non esisteva in greco, ma Matteo lo ha introdotto ricalcando l'ebraico qetan emunà, «piccolo di fede». Che cosa vuol dire «aver fede» per Matteo? Vuol dire cercare prima di tutto il regno di Dio e la sua giustizia (ζητεῖτε δὲ πρῶτον τὴν βασιλείαν [τοῦ θεοῦ] καὶ τὴν δικαιοσύνην αὐτοῦ, 6,33). Notiamo che il pronome è maschile e quindi τὴν δικαιοσύνην αὐτοῦ, «la giustizia di lui», del Padre e non femminile della βασιλεία, basileía, «regno». La giustizia del Padre, quella giustizia che provvede ugualmente a buoni e malvagi, a giusti e ingiusti (5,45), è il modo in cui il suo regno si inscrive quotidianamente nelle nostre vite. Fede è dunque avere fiducia nella giustizia del Padre, che non è antitetica alla sua misericordia. Ma la misura di questa fede è l'oggi, come si afferma nel versetto finale (v. 34), che è una specie di commento alla petizione centrale del Padre nostro: «Dacci oggi il nostro pane del giorno». Tale, del resto, è anche il commento di Rabbi El'azar all'espressione equivalente di Es 16,4: «Ecco, io sto per far piovere pane dal cielo per voi: il popolo uscirà a raccoglierne ogni giorno la razione di un giorno». «Rabbi El'azar dice: Chiunque ha da mangiare per oggi, e si domanda che cosa mangerà domani, è un uomo che manca di fede» (Mekhilta' de Rabbi Jishma'el su Es 16,4). L'invito di Gesù è ad alzare lo sguardo per contemplare la Bellezza da cui tutto deriva. Cercare il regno di Dio e la sua giustizia significa anche riconoscere che la propria vita, come quella del cosmo intero, è custodita da Dio e dal suo volere che è la misericordia e la salvezza di tutti e di tutto. Chi cerca il regno di Dio torna ad accogliere in modo nuovo e diverso ogni altra persona e ogni altro bene o realtà, poiché tra se stesso e tutto ciò che incontra, o con cui si relaziona, riconosce la presenza stessa del Padre, che conferisce significato e consente di vivere in modo giusto i rapporti di cui la nostra esistenza quotidianamente si intesse. La giustizia superiore del discepolo del Regno è la giustizia del figlio, di colui che sa che la propria vita trova il suo stabile fondamento non nell'opera delle proprie mani, ma in ciò che riceve da Dio. 6,34: Non preoccupatevi dunque del domani, perché il domani si preoccuperà di se stesso. A ciascun giorno basta la sua pena (μὴ οὖν μεριμνήσητε εἰς τὴν αὔριον, ἡ γὰρ αὔριον μεριμνήσει ἑαυτῆς• ἀρκετὸν τῇ ἡμέρᾳ ἡ κακία αὐτῆς). - del domani (τὴν αὔριον). L'aforisma ha qualche parallelo negli insegnamenti sapienziali: «Non vantarti del domani, perché non sai neppure che cosa genera l'oggi» (Pr 27,1; cf Qo 2,23). La signoria di Dio è per la nostra libertà e ci libera dagli affanni e dalle preoccupazioni angoscianti. L'affanno dal quale Gesù ci mette in guardia, o sul quale ci sollecita a vigilare, non deriva tanto da un modo sbagliato di cercare o di gestire i beni, il denaro, i propri desideri. La sua radice è da ricercare nell'autosufficienza di chi pensa di dover 7 badare a se stesso senza altri riferimenti, e si illude di poterlo fare. Potremmo dire che è l'affanno di chi cerca se stesso nei propri possessi. Relazionarsi da figli con un Dio che ci è padre ci conduce ad avere un rapporto diverso con tutti i beni della terra. Non si tratta di non cercarli più, ma di non cercarli con affanno e con preoccupazione. Un cuore pre-occupato è appunto un cuore occupato prima e da altro, soprattutto da uno sguardo ricurvo su di sé, sui propri bisogni, sulle proprie mancanze, sulle proprie autonome possibilità. - A ciascun giorno basta la sua pena (ἀρκετὸν τῇ ἡμέρᾳ ἡ κακία αὐτῆς, lett. «sufficiente al giorno la pena di se stesso»). Il termine greco κακία, kakía tradotto con «pena» potrebbe anche essere inteso in senso morale: «male, iniquità, cattiveria, malizia, malvagità». La provvidenza e le preoccupazioni. Non deve essere casuale il fatto che dopo aver parlato della preghiera e del digiuno venga toccata la questione delle preoccupazioni, che impegnano così tanta parte della vita, e riguardano la relazione con i beni e col domani. Dio e il denaro (6,19-24). La ricchezza non è condannata nella Bibbia (cf 19,16-26), ma quando essa diventa motivo di sicurezza - un tesoro su cui poter contare - allora rappresenta un pericolo. Può trasformarsi, infatti, in «mammona», ovvero nella personificazione del denaro. Poiché però questa parola forse deriva dal verbo ebraico 'aman, «fidarsi, credere», ecco allora che Gesù sta dicendo che non solo il denaro, ma tutto ciò in cui si ripone la fiducia può essere concorrenziale a Dio: il denaro, e ogni altra sicurezza. Queste cose mostrano presto la loro fallacia, perché sono destinate a consumarsi. Gli affanni della vita (6,25-34). In questi versetti emerge chiaramente il verbo merimnáō, «affannarsi» (sei volte), che ritornerà poi nella parabola del seminatore, insieme al sostantivo corrispondente, mérimna, «preoccupazione» (13,22). Gesù non sta invitando i suoi a non occuparsi delle cose quotidiane necessarie per la sopravvivenza: il problema è la modalità in cui questo avviene, affannandosi eccessivamente, con quell'atteggiamento che oggi chiameremmo «ansia». Secondo le teorie psicologiche moderne essa è un'emozione (o un pensiero), che rientra nella famiglia primaria della paura (insieme al timore, al nervosismo, alla preoccupazione, alla tensione ecc.). Gesù sembra dire che i sentimenti - soprattutto se negativi e dannosi - si devono controllare, perché se questo non accade e si assommano le ansie del giorno presente a quelle del domani (cf 6,34), il peso che deriva risulta insopportabile. Il rimedio proposto da Gesù per arginare l'ansia è dato da una cura in due tempi: 1) anzitutto «guardare/osservare» (6,26.28) la provvidenza che ognuno può trovare intorno a sé, e che ordinariamente è nascosta in realtà piccole (come i fiori del campo o gli uccelli del cielo); 2) «cercare» il regno di Dio secondo la logica del vangelo (6,33). Per far questo, è necessario convertirsi, ossia cambiare mentalità e idea (metanoéō, 4,17). Poi non si può far altro che attendere: ciò di cui si ha bisogno sarà dato dal Padre in aggiunta (cf 6,33). Come Gesù chiede di impegnarsi e di lavorare sulle altre famiglie di sentimenti che possono turbare il discepolo, la collera (cf 5,22) e l'odio (cf 5,43), così è possibile guarire dall'ansia e dalle preoccupazioni. La stessa idea ritornerà nella parabola dei semi gettati dal seminatore: «La Parola del Regno è parola efficace che cura l'ansia e l'affanno dell'uomo per tutto ciò che non procura un tesoro nel cielo (6,19-21). Se il discepolo respira la Parola del suo maestro, allora riesce a superare il pericolo del soffocamento e a vivere da figlio. La sua prima vera occupazione è un ascolto attento della Parola e una condotta di vita profondamente ispirata a essa» (Andrea Andreozzi). 8
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