Nota (28 novembre 2014) Piano Juncker di investimenti europei: solo un piano “virtuale” La proposta di un piano europeo di investimenti da consegnare alla nuova Commissione europea emerge in corso di Ecofin, sotto la Presidenza italiana del Semestre europeo, a Milano lo scorso 11 settembre. Sin da allora, il candidato e ora Presidente della Commissione europea Jean Claude Juncker annunciava l’elaborazione di una strategia di rilancio della crescita, da completare entro dicembre per essere attuata già dal 2015. Con anticipo, dettato soprattutto dalla ricerca di consenso nel PSE, il 26 novembre il Presidente dell’esecutivo comunitario ha illustrato all’Aula di Strasburgo del Parlamento europeo il tanto atteso piano di investimenti (Comunicazione della Commissione europea, “An Investment Plan for Europe. Together, we invest in Europe’s future”). Si tratta di costituire un “Fondo europeo per gli investimenti strategici” (EFSI, acronimo in inglese di European Fund for Strategic Investments), con una dotazione di appena 21 miliardi di euro che, per effetto della “leva” finanziaria, dovrebbero moltiplicarsi circa 15 volte cumulando prestiti e investimenti privati per un ammontare complessivo di «almeno 315 miliardi di euro» nel triennio 2015-2017. Appare subito evidente la natura irrealistica e, dunque, illusoria del progetto. A detta della Commissione europea, l’effetto leva dovrebbe consentire di raggiungere tre obiettivi principali: mobilitare gli investimenti senza creare debito pubblico, supportare progetti in settori “chiave” e infine rimuovere gli ostacoli, finanziari e non, agli investimenti in ogni specifico settore. A questo punto, secondo Bruxelles, entreranno in gioco nuovi investitori privati che, stimolati dal sostegno pubblico, dovrebbero partecipare al finanziamento dei progetti contribuendo a moltiplicare i fondi disponibili. Il fondamento logico dell’EFSI è di intercettare «i progetti più rischiosi e soffermarsi su attività che sono di maggiore interesse strategico»: BEI e UE si dovrebbero assumere la parte più rischiosa dell’investimento (facendosi carico della «garanzia sotto forma di debito subordinato»), inducendo i privati a partecipare alla parte meno rischiosa dell’investimento, cioè le tranche di debito “garantito” del progetto di finanziamento. L’ingegneria finanziaria a cui si affida la moltiplicazione delle risorse è consegnata per buona parte alla finanza privata e si continua ad aumentare la liquidità delle banche senza garanzia di investimenti reali. Il capitale pubblico iniziale di 21 miliardi di euro dovrebbe essere composto come segue: 5 miliardi già a disposizione della Banca Europea degli Investimenti, il soggetto istituzionale che dovrebbe mobilitare gli investimenti; 1 8 miliardi dal Bilancio UE, di cui 6 miliardi da fondi europei già previsti (Connecting europe per 3,3 miliardi e Horizon 2020 per 2,7 miliardi) e 2 miliardi di liquidità già a margine di bilancio (fondi non utilizzati); 8 miliardi di nuove erogazioni (garantite dai suddetti 8 miliardi). Le risorse pubbliche, nuove e non, messe a disposizione per rilanciare gli investimenti, la crescita e l’occupazione dei paesi europei sono pochissime. Per mobilitare liquidità privata sui mercati, perciò, per ogni miliardo di euro messo nel fondo si conta su tre miliardi di prestiti e 11 miliardi di investimenti privati. Siamo in presenza di una grande mistificazione: la Commissione porta a discutere solo di un obiettivo finale (315 miliardi di euro), evidentemente iperbolico, in presenza di risorse soli 13 miliardi di risorse effettive. Le direttrici entro cui finanziare i progetti nei diversi Stati membri sono due: progetti strategici per 240 miliardi di euro (dai 16 miliardi di Bilancio UE), soprattutto in infrastrutture (energia, trasporti e banda larga) e in istruzione, ricerca e innovazione. piccole e medie imprese (PMI) per 75 miliardi di euro (dai 5 miliardi della BEI), soprattutto in termini di partecipazioni in start-up, microprestiti e prestiti per R&S. Risultato finale: nella migliore delle ipotesi, 105 miliardi di euro l’anno da dividere per i 28 paesi europei, ovvero mediamente 3,75 miliardi di euro l’anno a disposizione di ogni paese europeo. Secondo l’Istituto Bruegel gli investimenti perduti nell’Unione europea, dall’inizio della crisi a oggi, corrispondono a circa 280 miliardi di euro l’anno. Pertanto, le risorse complessive del Piano Juncker – anche se funzionasse davvero – rappresenterebbero meno del 40% di tale caduta degli investimenti europei. La Commissione europea stima un impatto positivo del Piano Juncker sul PIL dell’Unione europea nel lungo termine che varia da 330 a 410 miliardi di euro (circa il 2% del PIL europeo), che in termini di nuova occupazione si tradurrebbe nella creazione di 1-1,3 milioni di posti di lavoro in un triennio. La stima appare inverosimile e, comunque, insufficiente a uscire dalla crisi, sia in termini di nuova crescita, sia in ordine ai 24,5 milioni di disoccupati (ufficiali) attualmente registrati nei 28 stati dell’Unione europea. Questo vale ancora di più per l’Italia che conta oltre 3,2 milioni di disoccupati (e quasi altrettanti potenziali, ma “scoraggiati”), in presenza di un calo degli investimenti e della produzione industriale di oltre il 25% dall’inizio della crisi. Anche ammessa la praticabilità del piano di investimenti, l’attuazione non è immediata e si perde altro tempo per rispondere alla congiuntura economica negativa, senza peraltro risolvere alcun nodo strutturale della crisi europea, né ridurre le divergenze e gli squilibri economici e sociali tra gli Stati membri, né decretare il fallimento delle politiche di austerità e colmare i vuoti della domanda effettiva. Anzi, le “responsabilità di bilancio” e le cosiddette “riforme strutturali” dei singoli strati europei costituiscono la condizione necessaria per accedere alle risorse del piano di investimenti. Per giunta, nel programma del Presidente della Commissione gli Stati 2 membri possono contribuire al Fondo per gli investimenti, ma solo i «contributi volontari» saranno tenuti fuori dal calcolo del deficit e del debito pubblico ai fini dei vincoli imposti dal Patto di Stabilità e Crescita e dal Fiscal Compact. Se, invece, un Paese cofinanzierà uno dei progetti strategici selezionati, il finanziamento resterà sottoposto alle regole vigenti e, dunque, ai parametri di Maastricht. La logica del Piano Juncker, quindi, rientra nella recente e insufficiente torsione della politica economica europea verso la cosiddetta “austerità flessibile”, che però non funziona e non restituisce all’Europa il necessario protagonismo per uscire dalla crisi globale1. Anche se il Piano Juncker dovesse funzionare, sarebbe troppo poco e troppo tardi. Anche contribuendo al fondo EFSI, uno Stato non ha nessuna garanzia che i soldi vengano poi usati per finanziare progetti nel proprio Paese. La selezione dei progetti avverrà non prima di giugno 2015 e sarà svolta «senza quote nazionali», a prescindere dall’entità del co-finanziamento pubblico e dalla numerosità dei progetti presentati. Gli investimenti privilegiati sono quelli nel settore «infrastrutture strategiche» e delle PMI. L’obiettivo finale resta il rafforzamento della competitività, che per Juncker si gioca sulla capacita dell’Europa di catalizzare investimenti privati. Ancora una volta, la logica è liberista e mercantilista, agendo solo sulle «condizioni di contesto» ed escludendo politiche industriali e sociali, con il preciso scopo di favorire l’iniziativa privata e limitare l’iniziativa pubblica dei singoli stati. In tal senso, il Piano Juncker rientra nei prevalenti, soprattutto in Italia, schemi della “politica degli annunci”, tanto roboante quanto inconsistente. Non a caso, il Governo Renzi, al di là delle dichiarazioni, ha rinunciato ad aprire una “vertenza” con l’Europa per cambiare le politiche economiche e ha formulato una Legge di Stabilità dentro le linee dell’austerità, scommettendo su nuovi investimenti privati e sull’attrazione di investimenti esteri, mentre taglia gli investimenti pubblici e ridimensiona il welfare. Le misure, per ora solo annunciate, che il Presidente BCE Mario Draghi vuole mettere in campo rappresentano una linea di politica monetaria indispensabile per contrastare la deflazione (anche se da sole, ormai, poco utili a rilanciare l’economia europea). La CGIL lo sostiene da tempo. Tuttavia, tale approccio della BCE appare sconnesso, nei tempi e nei modi, dal Piano Juncker: tra le tante, la proposta di Eurobond per mutualizzare parte del debito sovrano avanzata dalla CES, invece, nello stesso spirito delle politiche proposte da Jacques Delors, prevede un legame tra BCE e BEI, ossia tra titoli europei e investimenti di lungo periodo, proprio per generare misure espansive ridimensionando l’esposizione dei debiti pubblici europei. Nel Piano Juncker non c’è alcuna modifica dei Trattati europei, delle politiche monetarie, economiche e fiscali. Non è ancora chiaro, inoltre, come verranno distribuite le risorse e selezionati gli investimenti. A Bruxelles sono arrivati oltre 1.800 progetti dai diversi paesi europei (i tecnici del MEF ne hanno inviati 400 per l’Italia, anche se principalmente legati alla realizzazione di grandi infrastrutture, come la TAV Torino-Lione o l’autostrada Napoli-Bari) per una richiesta complessiva di 1.100 miliardi di euro. Una “task force” composta da tecnici della BEI e della Commissione europea avrà il compito di passare al setaccio i 1 Ne sono dimostrazione le politiche espansive intraprese da tutte le altre principali economie avanzate per affrontare la crisi (a partire dagli USA e dal Giappone). Vedi Nota CGIL del 18 novembre 2014 http://www.cgil.it/News/Default.aspx?ID=22652. 3 potenziali progetti «fattibili e corretti», individuare eventuali barriere interne e attivare gli investimenti. Vengono elusi i normali percorsi democratici e istituzionali con i quali un paese sceglie priorità ed entità degli investimenti. Per giunta, non c’è l’orientamento a sostenere i paesi in maggiore difficoltà (in cui proprio l’euroausterità ha aggravato la crisi), tanto meno un vincolo di solidarietà economica o finanziaria per gli stati più “in salute”. In sostanza, il Piano Juncker non modifica le scelte di austerità e appare inadeguato e sostanzialmente propagandistico. Per questo produrrà solo effetti marginali e nessun cambiamento sostanziale nelle politiche di sviluppo e di creazione di lavoro. Al contrario, il Piano del Lavoro della CGIL prevede un nuovo intervento pubblico in economia per creare lavoro, investimenti e innovazione, redistribuendo reddito e ricchezza, in funzione dei beni comuni e dello sviluppo locale, contando anche su un rinnovato protagonismo sociale e un rafforzamento della democrazia e delle istituzioni. Anche l’iniziativa dei Cittadini Europei “New Deal for Europe”, in opposizione alla politica della governance economica europea, promuove un piano straordinario europeo per lo sviluppo sostenibile e l'occupazione, soprattutto giovanile, per la produzione e il finanziamento di beni pubblici europei e dell’economia della conoscenza, anche introducendo una carbon tax2. Il Piano della CES (“Un nuovo corso per l’Europa”), a cui ha dato un notevole contributo l’elaborazione della CGIL e quella della DGB (con il New Marshall Plan for Europe), anche per l’uso intelligente della leva fiscale, prevede 10 anni di rilancio degli investimenti con 250 miliardi di euro l'anno da destinare a politiche industriali, sociali e ambientali, chiedendo agli Stati membri il 2% del PIL, utilizzando i fondi europei dell’Industrial Compact o per lo Sviluppo e la Coesione, introducendo la Tassa sulle transazioni finanziarie a livello internazionale e una nuova imposizione patrimoniale a livello nazionale3. Il Piano della CES, quindi, non è sostenuto solo dai mercati finanziari ma, al contrario del Piano Juncker, prevede una redistribuzione del reddito e della ricchezza, nonché l’emissione di obbligazioni a lungo termine, che possono essere acquistate da investitori istituzionali, a partire dai paesi di recente sviluppo. 2 http://www.newdeal4europe.eu/it/ 3 http://www.etuc.org/new-path-europe. 4
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