VEDI - TorinoMedica.com

Cari Colleghe e Colleghi,
lunedì pomeriggio vi avevo mandato le mie prime impressioni per la morte del Collega MMG di
Genova, travolto da una piena improvvisa mentre tornava da una visita domiciliare. Il giorno dopo,
martedì 21, sono andato per lavoro a Genova, dove leggendo il quotidiano locale, il Secolo XIX, ho
potuto sapere di più della vicenda. Il Collega KASSABJI era stato chiamato da un paziente che
abita – da quel che se ne capisce – in un piccolo gruppo di case alle quali si accede traversando un
piccolo corso d’acqua (credo che in condizioni normali chiamarlo torrente sia troppo) su di un
ponticello che è poco sopra il pelo dell’acqua. Per fargli strada, anche a causa del maltempo, il
padre del paziente gli era andato incontro, l’aveva guidato a casa e poi, finita la visita, lo stava
riaccompagnando, quando la piena improvvisa li travolse. L’anziano riuscì ad aggrapparsi ad un
masso, ed a farsi sentire da una persona lì vicino, mentre il dott. KASSABJI fu immediatamente
portato via dall’acqua che poi lo abbandonò, verosimilmente già morto, poco meno di mezzo
chilometro più a valle; da quel che ho letto sembra probabile che egli abbia subito un primo,
violento trauma cranico ed abbia perso subito conoscenza, o forse sia addirittura morto
immediatamente.
Per esperienza di vita e di professione, so molto bene che davanti alla morte di una persona degna
noi abbiamo a disposizione solo due strumenti: la parola ed i gesti. Questi ultimi non li posso – non
li possiamo – fare, perché siamo lontani, ed anche se volessimo andare a salutare la moglie e gli
altri famigliari, ci troveremmo in un mare di persone – inclusi i suoi ex assistiti – a lui molto più
vicini di noi. Rimangono le parole, che bisogna saper maneggiare: e per questo ci sono soprattutto i
poeti. Voi sapete, cari – veramente cari – Colleghe e Colleghi, che mi piace la poesia, tant’è che ne
ho messo una citazione nella mia “firma” elettronica, e così ho cominciato a cercare, cominciando
da Apollinaire ovviamente, che però questa volta non è riuscito a darmi nulla. Alla fine ne ho
trovate due: la Gacela de la muerte oscura di Federico GARCIA LORCA, ed Lu Tistamentu (il
Testamento) di CUCCHEDDHU (al secolo Matteo Pirina, Telti [Olbia], 1843 – 1905), pastore con
la III elementare che scriveva poesie. Però di quest’ultimo non ho trovato una traduzione decente, e
poi era troppo italiano per poter essere usato per una persona che veniva da quella “Asia Minor”
con la quale siamo legati da almeno 5000 anni, ma che ha una sua specificità. GARCIA LORCA,
quindi, e questo morto che non vuole che gli si raccontino le solite cose cadaveriche sui defunti, o
venire informato su quanto sia fastidiosa l’erba che cresce sulla terra sopra di lui, ma vuole che si
sappia che non è in realtà scomparso, e – soprattutto che c’è dell’oro sulle sue labbra.
E cioè – così penso io - l’oro delle parole adatte, delle frasi che aiutano e magari anche spronano
quando sia il caso: che è uno dei due strumenti fondamentali del lavoro del MMG, che però e
giustamente si continua a chiamare il “medico di famiglia”. Perché è lui quello che va nelle case e
davanti al quale le famiglie (non solo le persone) mettono a nudo se stesse e le loro difficoltà. Il
“MMG” porta la tecnica, la Cochrane, le linee-guida, la EBM e tutte le astruserie non sempre utili;
il “medico di famiglia” porta un uomo che parla con altri uomini. Dimenticavo l’altro strumento
fondamentale: le scarpe con le quali scarpinare per scale senza ascensore (oppure perché
l’ascensore si è guastato), stradine o viali di ville per andare a fare il proprio lavoro.
Virginio Oddone
Gacela de la muerte oscura Gazzella della morte oscura Quiero dormir el sueño de las manzanas alejarme del tumulto
de los cementerios.
Quiero dormir el sueño de aquel niño que quería cortarse el
corazón en alta mar.
Voglio dormire il sonno delle mele, allontanarmi dal tumulto dei cimiteri. Voglio dormire il sonno di quel bambino che voleva spezzarsi il cuore in alto mare. No quiero que me repitan que los muertos no pierden la
sangre; que la boca podrida sigue pidiendo agua.
No quiero enterarme de los martirios que da la hierba, ni de la
luna con boca de serpiente que trabaja antes del amanecer.
Non voglio sentirmi ripetere che i morti non perdono i
sangue; che la bocca imputridita continua a chiedere acqua. Non voglio conoscere i martìri che dà l’erba né la luna con la bocca di serpente che lavora prima dell’alba. Quiero dormir un rato,
un rato, un minuto, un siglo;
pero que todos sepan que no he muerto;
que haya un establo de oro en mis labios;
que soy un pequeño amigo del viento Oeste;
que soy la sombra inmensa de mis lágrimas.
Voglio dormire un momento, un momento, un minuto, un secolo; ma che tutti sappiano che non sono morto; che c’è una stalla d’oro sulle mie labbra; che sono il piccolo amico del vento di ponente che sono l’ombra immensa delle mie lacrime. Cúbreme por la aurora con un velo,
porque me arrojará puñados de hormigas, y moja con agua dura
mis zapatos
para que resbale la pinza de su alacrán.
Porque quiero dormir el sueño de las manzanas para aprender
un llanto que me limpie de tierra; porque quiero vivir con aquel
niño oscuro que quería cortarse el corazón en alta mar.
Coprimi all’aurora con un velo, perché mi verserà sopra pugni di formiche; e bagna con acqua forte le mie scarpe perché faccia scivolare la pinza del suo scorpione. Perché voglio dormire il sonno delle mele per conoscere un pianto che mi tolga la terra; perché voglio vivere con quel bambin oscuro che voleva spezzarsi il cuore in alto mare. Traduzione italiana a cura di CARLO BO, in: Poesie di Federico Garcia Lorca, Parma
1954, pp. 210-213