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Flessibilità e Rigore: tanti errori ed equivoci.
di Enzo Moavero Milanesi
(Corriere della Sera, 8 luglio 2014)
In Europa, la parola «flessibilità» suscita sentimenti divergenti.
Chi vede nel rigore normativo un baluardo a difesa dell’euro, teme che la «flessibilità» ne sottenda
un affievolimento tale da suscitare nuovamente, sui
mercati, dubbi verso la moneta unica e l’affidabilità
dei meccanismi che la reggono. Al contrario, chi ritiene che le regole approvate per fronteggiare la crisi
eccedano in severità e inibiscano gli interventi favorevoli a una piena ripresa, ne auspica un’applicazione
elastica.
A mio parere, il postulato dualismo concettuale
non c’è, per almeno due ragioni fondamentali.
In primo luogo, siamo di fronte a elementi complementari, ambedue vocati a garantire il successo
all’eurozona. Lo testimonia, sin dalle origini, la stessa
denominazione dell’accordo preposto al suo funzionamento: patto di Stabilità e di Crescita. La crisi economica e finanziaria globale, nel manifestarsi in Europa, ha assunto caratteristiche peculiari, minacciando
la tenuta del sistema dell’euro e di alcuni degli Stati
che lo adottano. Corroborare e integrare le regole, gli
strumenti era ineludibile e occorreva dare priorità all’urgenza maggiore: garantire la stabilità. In quest’ottica, sono stati varati i regolamenti UE che rendono
più cogente il rispetto dei parametri relativi a deficit
annuale, debito pubblico e equilibrio del bilancio (il
cosiddetto Six Pack, poi ripreso dal trattato Fiscal compact) e che prevedono l’esame preventivo delle leggi
di Stabilità dei vari Stati (il cosiddetto Two Pack). Peraltro, il secondo obiettivo non veniva dimenticato.
Già nel febbraio 2012, su iniziativa di Italia, Regno
Unito e Paesi Bassi, dodici Stati propongono una lista
di concrete azioni europee a favore della crescita e
dell’occupazione; ne scaturisce un apposito accordo
al Consiglio europeo del giugno 2012. Queste azioni
sono tuttora in corso — benché abbiano un’efficacia
variabile — e le ritroviamo puntualmente riprese nel
documento strategico dell’ultimo vertice UE di qualche giorno fa. Dunque, «rigore» e «crescita» non si
elidono a vicenda, ma si supportano reciprocamente,
quali parti di un’armonica diade.
In secondo luogo, le regole di cui tanto si parla
non sono rigide o manichee. Al contrario, sono assortite di precisazioni che le rendono duttili e delle quali
va tenuto conto al momento della loro applicazione.
La «flessibilità» è intrinseca alle stesse regole: all’interprete spetta il compito di individuarne i margini
reali, a fronte delle diverse situazioni concrete. Come
dovrebbe essere noto, questo vale sempre, per ogni
norma giuridica e quindi, anche per quelle dell’unione economica e monetaria europea. Del resto, ci sono
già stati esempi di una loro applicazione flessibile.
Vale la pena di ricordarne tre, rilevanti: al nostro
Paese è stato riconosciuto di poter aumentare il debito
pubblico, una tantum, per pagare i crediti delle imprese nei confronti delle Pubbliche amministrazioni; a
svariati Stati, sotto procedura per disavanzo eccessivo dovuto al deficit annuale (per esempio, Francia,
Paesi Bassi e Spagna), è stato dato più tempo per
rientrare sotto il limite prescritto del 3% del Prodotto
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interno lordo (Pil); mentre, agli Stati che mantengono
il deficit sotto detto limite, è consentito di spendere
la quota di cofinanziamento nazionale degli investimenti sostenuti dai fondi strutturali UE, in sostanziale
deroga all’impegno di portare il bilancio annuale in
equilibrio (è la cosiddetta «clausola per gli investimenti produttivi» — frutto di un negoziato italiano
nel 2012 — che permette, ad esempio, con un deficit
del 2,5% del Pil, di spendere fino allo 0,5% di risorse
nazionali, cui se ne aggiungono altrettante europee).
Inoltre, non dimentichiamo che un’eventuale procedura per debito pubblico eccessivo (dovuta, per
esempio, alla sua mancata riduzione di 1/20 l’anno, prevista dal Six Pack) è soggetta a disposizioni
più aperte rispetto alla procedura per deficit eccessivo; bisogna, infatti, vagliare numerosi «fattori rilevanti» (come richiesto dall’Italia, nell’ottobre 2011) e
l’apertura della procedura stessa dipende dal voto
favorevole della maggioranza degli Stati.
L’Unione Europea attribuisce, da sempre, una nodale importanza alla crescita dell’economia e alla creazione di posti di lavoro; senz’altro pari all’importanza
tributata, parallelamente, alla stabilità e all’integrità
dell’eurozona. In questo quadro, è auspicabile intensificare proposte e negoziati volti ad affinare e ben
coordinare le iniziative europee e nazionali dirette a
conseguire tutti questi obiettivi. Alcune sono in atto o
in discussione da diverso tempo, altre possono essere
lanciate, costruendo l’indispensabile consenso.
Fra quelle in atto, è il caso di richiamare: il completamento del mercato unico digitale e dei servizi, con
il suo alto potenziale di crescita; le politiche comuni
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dell’energia e dell’ambiente, per un’economia verde
e sostenibile; i project bond della Banca europea degli
investimenti; gli accordi commerciali con i Paesi non
membri dell’Unione. Fra le iniziative in fieri, evocherei
i «partenariati per le riforme». L’idea è stata discussa a fondo al Consiglio europeo nel dicembre 2013,
con l’intento di decidere al successivo vertice dell’ottobre 2014. Si tratta di favorire le riforme strutturali
nazionali, accordando specifici incentivi, incluse opportune forme di flessibilità. In sostanza, uno Stato
assumerebbe un impegno, volontario e dettagliato,
a varare più speditamente determinate riforme, positive per l’economia e l’occupazione, in cambio dei
maggiori margini nei conti pubblici, consentiti dalle
regole vigenti. Una flessibilità, motivata e limitata nel
tempo, volta a fiancheggiare la fase attuativa delle riforme che, grazie a essa, sarebbero realizzate prima e
in più gran numero.
La presidenza semestrale italiana dell’Unione, appena iniziata, è l’occasione per stimolare passi avanti.
In particolare, penso che l’interesse nazionale e l’interesse comune europeo a una più rapida realizzazione
delle riforme strutturali siano evidenti. Infatti, il costo delle non-riforme in alcuni Stati e le divaricazioni
che ne conseguono, minano gli equilibri nell’Unione
Europea e rappresentano un vero problema comune,
da risolvere insieme.
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