L’evoluzione dei welfare states e l’eurocrisi Anton Hemerijck VU University di Amsterdam Nel dissesto provocato dalla crisi economica più profonda dai tempi della Grande depressione, il welfare state suscita qualche preoccupazione. Negli Stati membri dell’Unione Europea dove la tutela collettiva contro i nuovi rischi sociali è completa e la spesa per il welfare rappresenta fra il 16 e 30 per cento del PIL, le ricadute socio-economiche di lungo periodo della crisi finanziaria del 2008-2012 costituiscono un vero e proprio ‘stress test’ per le prestazioni socio-assistenziali del XXI secolo. L’onda lunga della Grande recessione offrirà una nuova occasione per riconfigurare e rilegittimare la politica sociale, come già avvenne dopo la Grande depressione e la Grande stagflazione nel XX secolo? O, piuttosto, i welfare states europei diventeranno vittime della crisi nell’escalation delle violente scosse di assestamento economico, sociale e politico generate dalla crisi finanziaria mondiale? A partire dagli anni ottanta, varie tendenze hanno modificato radicalmente l’ecosistema politico dei welfare states europei. A ragione di una maggiore mobilità dei capitali e di un’integrazione economica europea accelerata si è registrato un aumento delle pressioni fiscali. L’invecchiamento della popolazione e la diminuzione dei tassi di natalità, insieme alla tendenza a un’uscita anticipata dal mercato del lavoro da parte della generazione del baby-boom, gravano pesantemente sui sistemi pensionistici, mentre i rapidi cambiamenti tecnologici hanno ridotto la domanda di lavori a bassa e media qualificazione in seno alle economie avanzate. Lo spostamento verso un mercato post-industriale del lavoro ha creato nuove opportunità per l’impiego femminile, ma la de-industrializzazione ha prodotto un calo nei posti di lavoro stabili e una crescente precarietà occupazionale per donne e giovani. Il cambiamento della famiglia nucleare e dei ruoli di genere, con l’allungamento dei tempi dedicati all’istruzione, la maternità ritardata e la monogenitorialità, hanno provocato nuove tensioni fra lavoro e vita familiare, determinando nuove richieste di erogazione di prestazioni sociali, soprattutto a favore dell’infanzia e degli anziani più deboli. Allo stesso tempo, il profilo dei “nuovi” rischi di esclusione sociale, sia all’interno che all’esterno dei mercati del lavoro, ha innescato una crescente polarizzazione economica fra le famiglie a doppio reddito, ad alta qualificazione e forte occupabilità e i nuclei scarsamente qualificati, costituiti da un maschio percettore di reddito e/o un solo genitore, a rischio di povertà nonostante il lavoro. Sebbene le leve alla base dei cambiamenti socio-economici di lungo periodo siano comuni a tutto il territorio europeo, le pressioni esercitate sui mix delle attuali politiche sociali, nonché le relative risposte politiche, variano da paese a paese. Mentre alcuni sistemi di welfare sono riusciti relativamente bene ad adeguare il proprio policy mix alle trasformazioni sociali che hanno preceduto la crisi finanziaria mondiale, altri sono stati meno bravi a causa di una serie di motivi economici e politici. Se a ciò si aggiunge il differenziale d’impatto della crisi finanziaria mondiale, appare chiaro che gli Stati assistenziali europei sono entrati in una nuova era di continui cambiamenti, grandi riforme e adattamenti all’insorgere di mutamenti sociali a lungo termine e ricadute economiche e politiche a breve e medio termine. Alti tassi di disoccupazione (giovanile) in costante crescita, pensioni concesse con il contagocce e pacchetti di consolidamento fiscale, sanciti dai recenti accordi dell’UE, sottopongono a enormi pressioni i politici eletti in ambito nazionale nella maggior parte degli Stati membri dell’UE dove i cittadini continuano ad avere grandi aspettative in materia di protezione sociale contro le incertezze economiche. I risultati delle elezioni tenutesi nella primavera 2012 in Francia, in Grecia e nei Paesi Bassi testimoniano del crescente malcontento popolare nei confronti del regime di fiscal austerity promosso dalla Commissione Europea, dalla BCE e dai governi di centro-destra di molti Stati membri dell’UE a partire dal 2010. I vuoti politici originati da maldestre strategie di gestione della crisi sono stati più e più volte colmati da misure poco ortodosse della BCE, al servizio dei paesi indebitati e della banche nazionali, nel tentativo di allontanare il contagio del debito sovrano e scongiurare una possibile uscita ellenica dall’area dell’euro. Io sono dell’avviso che sia possibile evitare l’imminente scontro fra l’austerità dell’Unione Europea e le ripercussioni populistiche e social-sciovinistiche nazionali. A mio parere, vi è ampio spazio per un ritmo più realistico (più lento) di aggiustamento fiscale, associato a riforme sociali per il rilancio della partecipazione e della produttività, fondato su evidenze prontamente disponibili sul confine fra efficienza ed equità. 2 Le dinamiche delle riforme europee del welfare degli ultimi decenni sono difficili da catalogare in base a un criterio dicotomico assoluto fondato sul grado di ridimensionamento, poiché la portata complessiva delle riforme sociali attuate negli Stati membri dell’Unione Europea è stata assai eterogenea, irregolare e a macchia di leopardo. Dal punto di vista delle politiche sostanziali, le riforme sociali si sono prevalentemente incentrate sull’occupazione, puntando verso una maggiore flessibilità del mercato del lavoro e mirando a rendere il lavoro più vantaggioso (‘make work pay’) delle prestazioni socio-previdenziali. La spinta verso l’occupazione ha assunto due forme di massima: l’una ispirata dal ridimensionamento sociale e dalla deregolamentazione del mercato del lavoro, l’altra basata su una proattiva politica sociale “produttivista” volta a incrementare l’offerta e la produttività della manodopera tramite servizi ‘capacitanti’ (ovvero improntati a uno sviluppo di autonomia e di opportunità di scelta, N.d.T.) destinati alle famiglie, alla formazione e all’impiego. I dati disponibili suggeriscono che quest’ultima (la strategia ‘più alta’ di riforme sociali incentrate sull’occupazione) è riuscita a far aumentare i posti di lavoro più produttivi, competitivi e sostenibili, mentre la prima (la strategia ‘più bassa’ di ridimensionamento sociale e deregolamentazione del mercato del lavoro) ha generato lavori meno produttivi, sottoremunerati e scarsamente qualificati. La forza competitiva delle economie scandinave, prima e dopo la stretta creditizia del 2008, è fondamentalmente ascrivibile al varo di riforme sociali attive e ‘capacitanti’. Per contro, i vuoti competitivi legati al welfare nella periferia meridionale dell’eurozona, specialmente in Grecia e Italia, sembrano derivare intrinsecamente dai rispettivi contratti sociali (antiquati, passivi e sbilanciati a favore dei pensionati) nonché da mercati del lavoro segmentati su due livelli che inibiscono sia opportunità occupazionali di qualità che tutela e prestazioni sociali adeguate a favore di donne altamente scolarizzate, giovani e famiglie monoparentali. I programmi di politiche sociali possono avere dei ritorni importanti. Tanto per cominciare, le spese per la protezione sociale agiscono da stabilizzatori efficaci dell’attività economica in quanto contribuiscono a sostenere la domanda effettiva nei periodi di recessione. Questo tipo di keynesianesimo di ritorno ha continuato a dimostrarsi estremamente funzionale per rispondere alla stretta creditizia immediatamente susseguente al fallimento della Lehman Brothers avvenuto nell’autunno 2008. Un’adeguata protezione sociale sotto forma di 3 integrazione salariale nei periodi di disoccupazione di breve durata può abbattere i costi sostenuti per cercare nuovi posti di lavoro, favorendo abbinamenti lavorativi più efficienti. In particolare, una protezione sociale universale ha la possibilità di aumentare, anziché distorcere, la flessibilità del mercato del lavoro. Allo stesso modo, un sistema onnicomprensivo di contrattazione collettiva permette una determinazione macroeconomicamente dinamica dei salari. È importante sottolineare che al giorno d’oggi una “politica sociale produttiva” deve tenere conto di molte più condizioni demografiche sfavorevoli di quante non ce ne fossero ai tempi della diffusione delle previdenza sociale nel secondo dopoguerra. Le riforme del mercato del lavoro finalizzate a promuovere maggiori livelli di occupazione, insieme a quelle pensionistiche volte ad alzare l’età di pensionamento (effettivo) e a scoraggiare il pensionamento anticipato, sono state strategie rilevanti per affrontare l’incombente sfida demografica. La sostenibilità economica dell’odierno Stato sociale dipende quindi dal numero e dalla produttività dei contribuenti futuri. In base a questa lettura, la politica sociale deve contribuire a mobilitare il potenziale produttivo dei cittadini al fine di attenuare i rischi del lavoro atipico, della disoccupazione di lunga durata, dei lavoratori poveri, dell’instabilità familiare e della mancata partecipazione al mercato del lavoro derivanti da responsabilità di cura o competenze obsolete. Uno dei motivi fondamentali per cui oggi il welfare state ‘attivo’ deve fornire prestazioni sociali abilitanti e capacitanti è anche legato all’erosione dell’efficacia del principio di assicurazione sociale su cui si fondava lo Stato sociale del dopoguerra, improntato sul modello del maschio breadwinner e sbilanciato verso i trasferimenti monetari. Finché il rischio di disoccupazione industriale era prevalentemente ciclico, aveva senso amministrare i fondi collettivi di assicurazione sociale per mantenere costanti i consumi durante i periodi di disoccupazione caratterizzati da un calo della domanda. Da quando il rischio di disoccupazione ha assunto caratteristiche strutturali, provocate da variazioni radicali nella domanda e nell’offerta di manodopera, l’assicurazione contro la disoccupazione non può più funzionare come cuscinetto di riserva reddituale fra impieghi simili. Per meglio collegare la politica sociale a un’economia e società più dinamiche, i cittadini devono essere sostenuti da prestazioni capacitanti ex ante, sviluppate su misura per i loro specifici bisogni sociali nel corso dell’intera vita. 4 Le scelte politiche non vengono mai compiute in una situazione di isolamento istituzionale. Le caratteristiche istituzionali si riferiscono al modo in cui determinate prestazioni sociali sono dirette ai gruppi a rischio, a come vengono finanziate e ancorate alla fiscalità e a come vengono gestite da attori pubblici e/o privati. Alcuni ordinamenti politici riescono meglio di altri a incorporare delle innovazioni negli investimenti sociali. È impossibile giudicare la qualità dell’’istruzione e dell’assistenza alla prima infanzia in maniera separata dalle opportunità offerte alle madri di partecipare al mercato del lavoro e di fruire della formazione rese possibili da politiche di uguaglianza di genere e da schemi di congedo parentale. Rapporti d’impiego flessibili, sostenuti da intese adeguate sui congedi parentali, permettono un migliore equilibrio fra sfera lavorativa e sfera familiare. D’altro canto, i sistemi fiscali che penalizzano le coppie bireddito compensano le opportunità di maggiore partecipazione al mercato del lavoro da parte dei genitori di bimbi piccoli. Dal punto di vista delle capacità amministrative, il maggiore orientamento ai servizi imboccato dai welfare states richiede un’amministrazione e professionalizzazione pubblica decisamente superiori, anche in materia di esazione tributaria e lotta alla corruzione. Per la riuscita della politica sociale contemporanea è cruciale prestare attenzione alla coerenza dei mix di politiche sostanziali e del coordinamento istituzionale fra servizi e trasferimenti sociali, in stretto collegamento con la governance del mercato del lavoro. Riusciranno gli Stati sociali europei a sopravvivere alla contagiosa crisi dell’euro e, in caso affermativo, in che condizioni verseranno a seguito delle decisioni prese? L’aggravamento della crisi dell’euro rivela quanto siano ormai profondamente intrecciati negli ultimi decenni i destini europei sotto il profilo economico, giuridico e politico. Come rivelano anche i successivi sviluppi della eurocrisi, questa nuova Europa più integrata è pure più complessa e più incerta. Dall’altronde, la maggiore incertezza alza la posta in gioco nell’elaborazione di accordi efficaci di governance sia dentro che fuori dai confini nazionali. Allo stesso modo diventa sempre più importante comprendere meglio le capacità di sviluppo delle istituzioni europee, degli Stati membri e degli attori privati per far fronte alle condizioni di maggiore interdipendenza e incertezza. 5 In seguito alla forte esposizione alla crisi finanziaria mondiale, le economie dell’eurozona sono ora più interdipendenti e interconnesse che mai. Un’integrazione così stretta implica che la competenza (o incompetenza) di un paese nelle politiche di welfare rafforza la crescita (o la stagnazione) dell’intera economia dell’UE, e viceversa. Considerando una spesa pubblica socioassistenziale che si aggira mediamente fra il 16 e il 30 per cento del PIL, i welfare states europei fungono da efficaci cuscinetti macroeconomici. Lo spazio di manovra delle politiche macroeconomiche si è rimpicciolito drasticamente da quando è scoppiata la crisi del debito greco sovrano nel 2010. Oggi come oggi, le reali conseguenze economiche di un’austerity preventiva appaiono sempre più controproducenti, considerati i dati di crescita negativa in Grecia, Portogallo, Spagna, Italia, Belgio e Francia. Nelle economie in sofferenza sta inoltre salendo, anziché scendere, il rapporto fra debito pubblico e prodotto interno lordo. Di conseguenza continuano ad aumentare le divergenze dell’economia reale fra il Nord concorrenziale, che paga tassi quasi azzerati su modesti livelli di debito e disavanzo pubblico a tassi di disoccupazione ragionevoli, e il Sud poco competitivo, che si confronta con spread altissimi su un forte debito e disavanzo pubblico, oltre a un tasso di disoccupazione a due cifre e livelli politicamente inaccettabili di disoccupazione giovanile. Eventuali ‘riforme strutturali’ tardive non offrono alcun sollievo ai processi di adattamento asimmetrici. In mancanza di solidarietà fiscale, le economie dell’eurozona, afflitte da tassi d’interesse insostenibilmente elevati, non hanno alcuna possibilità di manovra. La buona notizia è che l’unione bancaria non è più un tabù e si sta finalmente iniziando a prendere sempre più sul serio l’ipotesi di un’unione bancaria, essenziale per la sopravvivenza dell’UEM. Insieme ai colleghi belgi e francesi sostengo da tempo che l’UE necessita urgentemente di un “patto di investimento sociale”. Sia la sopravvivenza dell’eurozona che la necessaria ricalibratura delle politiche del welfare pongono una questione democratica di dimensioni nazionali ed europee. Le conseguenze sociali della crisi del debito sovrano intensificano le pressioni esercitate sui governi nazionali nell’ambito della politica sociale interna e delle politiche economiche sovranazionali. Un mix superiore di politiche sociali potrebbe conferire un certo vantaggio all’Europa, mentre una soluzione ordinata della crisi del debito sovrano rappresenta conditio sine qua non per la sopravvivenza del welfare state, e viceversa. Inoltre, 6 qualora le riforme sociali venissero giudicate eque, vi sarebbero forti probabilità di un maggiore séguito politico. Nel corso dell’ultimo decennio è apparso sempre più chiaro che le economie del Nord Europa, caratterizzate da imposte e spese elevate, hanno ottenuto risultati migliori, persino della Germania, sotto il punto di vista di quasi tutti gli indicatori del patto di stabilità e dell’agenda di Lisbona. Questo dato rivela che gli ordinamenti politici europei possono anche permettersi un sistema capillare di protezione sociale a condizione di concepire le relative politiche in un’ottica di investimento sociale. Sul fronte negativo, però, va constatato che la scarsa competitività dell’Europa meridionale è intrinsecamente legata all’arretratezza negli investimenti sociali. La sfida delle politiche socio-economiche è nel far sì che gli investimenti sociali a lungo termine e il consolidamento fiscale a medio termine si sostengano a vicenda in un clima di migliorata governance economica, seguendo la logica di un’unione fiscale. Dal punto di vista di una politica economica problem-oriented, il riequilibrio del Mezzogiorno europeo non può essere perseguito solo da Spagna, Grecia, Italia e Portogallo. Prendendo atto che tale riaggiustamento risponde a un interesse comune, tutti i membri dell’eurozona dovrebbero farsene carico. La Germania dovrebbe tollerare maggiori livelli di inflazione per rendere realistiche le variazioni di prezzi e salari in Spagna, sempre che rimanga garantita la stabilità dei prezzi in tutta l’area dell’euro e a condizione che la Spagna eserciti maggiore clemenza nell’applicazione delle riforme strutturali. In base alla stessa logica, i governi dell’Europa settentrionale dovrebbero evitare un eccesso di austerità in materia di politica di bilancio. Sotto il profilo politico, ciò che conta è che i cittadini europei non sono ancora pronti a rinunciare a programmi nazionali di welfare popolare. In termini di efficacia delle politiche, una strategia di investimenti a impatto sociale vanta un’efficienza paretiana migliore di un regime puro di austerità fiscale. Inoltre, dal punto di vista della sostanza delle politiche, la costruzione degli investimenti sociali è perfettamente in linea con la strategia politica Europa 2020, basata esplicitamente sull’impegno verso una “crescita inclusiva” atta a “promuovere un'economia con un alto tasso di occupazione che favorisca la coesione sociale e territoriale”. A causa dei severi vincoli di bilancio imposti dalla crisi, ai governi risulta difficile barattare le minori entrate a 7 breve con un incremento della competitività a lungo tramite tagli selettivi alle aliquote d’imposta. Per dare più mordente alla strategia Europa 2020 si potrebbero concedere Fondi strutturali agli Stati membri vincolati sul versante fiscale a patto che gli aiuti vengano destinati alle priorità delle politiche d’investimento sociale. In questo frangente è importante non liquidare le grandissime conquiste di oltre mezzo secolo di integrazione regionale europea e di sviluppo dello Stato sociale. L’approfondimento e l’allargamento senza precedenti dell’integrazione regionale da sei a ventisette Stati membri, con la creazione di una comunità di circa 500 milioni di individui, è stato accompagnato dall’istituzione e dall’espansione di sistemi di welfare globali che favoriscono il benessere e il progresso sociale senza rinunciare a promuovere la democrazia e assicurare la pace, su una scala pressoché inimmaginabile all’inizio del periodo di ricostruzione postbellica. Un “patto di investimento sociale”, project bonds per investimenti di rilevanza sociale e un accesso più generoso ai Fondi strutturali per la promozione del capitale umano, scontati nei bilanci nazionali, potrebbero costituire un passo importante verso una “Europa assistenziale” contraddistinta da maggiore equità ed efficienza. 8
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