Capitolo secondo Le determinanti della (de)crescita. Italia a confronto 1. Specializzazione produttiva e dimensione delle imprese Il ritmo di crescita del prodotto pro capite e della produttività è influenzato dall’articolazione e dalla specializzazione dell’apparato produttivo e industriale di un paese. Se guardiamo all’Italia, il sistema delle imprese presenta due criticità di lunga durata che lo contraddistinguono rispetto a quello delle altre economie avanzate: la particolare specializzazione produttiva del settore industriale e la frammentazione dimensionale delle imprese. 1.1 Specializzazione L’Italia resta, seppure con crescenti difficoltà, il secondo paese manifatturiero tra quelli europei dopo la Germania. Questa posizione del settore industriale va però sempre più deteriorandosi. In Italia, esso rappresenta oggi circa il 16,7% del totale del valore aggiunto, rispetto al 22,3% della Germania, all’11,5% della Francia, e al 16,6% dell’eurozona. Tuttavia, il peso dell’industria italiana è diminuito nel tempo: era pari al 26% del valore aggiunto e dell’occupazione nel 1990, ma nel 1999 il peso dell’industria scende al 23% sia del valore aggiunto che degli occupati. Inoltre, il calo si accentua con la crisi del 2008: la produzione industriale scende di oltre un quinto tra il 2007 e il 2012, e il numero netto delle nuove imprese industriali in Italia è negativo per tutti gli anni duemila. 45 Dai dati della Commissione europea (2012) risulta che nel 2009 una quota significativa del valore aggiunto manifatturiero dell’Italia è stata prodotta dai settori industriali tradizionali, a basso valore aggiunto e bassa intensità tecnologica. In Italia, questi settori rappresentano circa il 31% del valore aggiunto, mentre in Germania non vanno oltre il 18% e in Francia il 29%. Tra le maggiori economie continentali europee risulta peggiore solo la Spagna, con il 36%. Complessivamente, nel 2009 la quota del valore aggiunto manifatturiero italiano nei comparti a basso e medio-basso contenuto tecnologico ammontava al 62%, rispetto al 44% della Germania, al 59% della Francia e al 64% della Spagna. La restante quota è prodotta nei settori manifatturieri a tecnologia alta e medio alta. Qui, le debolezze italiane emergono ancora più nettamente. La quota di questi settori è difatti pari al 38%, contro il 56% in Germania, 41% in Francia e il 35% in Spagna. È da notare, inoltre, che negli ultimi due decenni la specializzazione dell’Italia è rimasta sostanzialmente stabile: il settore ad alta tecnologia rappresentava il 6,7% del valore aggiunto totale del manifatturiero nel 2011, rispetto al 6,5% nel 1992, un incremento trascurabile in un lasso di tempo di quasi vent’anni. All’inizio dello scorso decennio la dinamica dell’economia italiana si è, difatti, separata nettamente sia da quella tedesca sia da quella dalle migliori economie del Centro europeo. Su questo punto torneremo in seguito. Per ora, basti osservare che l’effetto di questa frattura nei diversi comparti industriali italiani è stato sempre negativo anche se diversificato. In alcuni, la perdita produttiva si è innestata su una tendenza declinante di lungo periodo. È questo il caso dei settori tessile e calzaturiero del made in Italy che nel 2007 registravano già un calo del 25 e del 55% circa rispetto alla seconda metà degli anni novanta, e che oggi hanno ridotto di un ulteriore 50 e 70% il loro livello produttivo. Sebbene questa tendenza recessiva sia condivisa anche dalla Germania e dalla Francia, il freno che ne è derivato per l’economia italiana è stato più grave in quanto il peso di questi settori sull’aggregato dell’industria è maggiore rispetto ai restanti paesi europei. 46 Anche nelle produzioni dei settori tecnologici più elevati, e caratterizzati da rilevanti economie di scala, come quelle dell’elettronica e degli autoveicoli, si è manifestata una tendenza recessiva di lunga durata. Precisamente, rispetto alla metà degli anni novanta, questi comparti hanno perduto, rispettivamente, circa il 40 e il 60 per cento dei propri livelli produttivi. Per esempio, in quello automobilistico, sostanzialmente la Fiat, nel 2011 sono state prodotte in Italia 490 mila autovetture, quasi un milione in meno del 2007. Nello stesso arco temporale la produzione tedesca è aumentata di 700 mila unità, con un contributo notevole della Volkswagen. Come è stato già osservato da Gallino (2003), un’idea della situazione in cui versa l’industria italiana è fornita dall’elenco delle maggiori 500 società del mondo, per grandezza di fatturato e occupazione, pubblicato annualmente dalla rivista «Fortune». Poiché l’Italia mantiene ancora, per il momento, la posizione di ottava economia del mondo, ci si attenderebbe che in questa speciale classifica siano presenti un numero adeguato di imprese industriali italiane. Invece, nell’anno 2012 ne compare una sola, l’Eni, che opera nel campo dell’energia, al 17° posto. La Fiat, simbolo della grande industria automobilistica italiana, che nel 2003 era in 49a posizione, sebbene in discesa di 16 posti rispetto al 2000, è ora assorbita dall’Exor Group, in 26a posizione, controllato dalla famiglia Agnelli. Nel portafoglio del gruppo Exor però la Fiat è solo una quota partecipativa, benché importante. Scorrendo la classifica di «Fortune» non troviamo nessun’altra azienda italiana della chimica, farmaceutica, informatica, meccanica, e nessuna azienda del settore dell’aeronautica civile e della cantieristica. Ovvero, sono assenti tutti quei comparti industriali, insieme a quello dell’auto, che restano in ogni paese, sia nella fase di sviluppo che nella maturità, tra i più importanti per numero di dipendenti, fatturato, innovazione e ricerca. Al contrario, troviamo tra le prime dieci società del mondo – oltre alle grandi aziende di estrazione petroli e produzione di energia (sette in tutto, come è noto) – la Volkswagen (e la Toyota) che era molto lonta47 na dal vertice solo un decennio fa. L’unica altra società solo parzialmente industriale italiana presente nella classifica è l’Enel (52a). Le altre italiane (poche, rispetto agli altri paesi di nuova e vecchia industrializzazione) sono tutte società finanziarie e dei servizi, anche se queste ultime sono configurate più come contenitore finanziario che come imprese industriali (Assicurazioni generali 49a, Unicredit Group 188a, Intesa Sanpaolo 221a, Telecom Italia 281a, Poste italiane 368a). È facile capire che il processo di de-industrializzazione dell’economia italiana condiziona negativamente sia la produttività e l’accumulazione che la nostra competitività internazionale. In effetti, la specializzazione dell’Italia nei prodotti a basso e medio-basso contenuto tecnologico implica un mix di merci per l’esportazione molto simile a quello delle altre economie emergenti (i così detti paesi Bric, Brasile, Russia, India e Cina) che possono beneficiare di manodopera a basso costo. La similarità tra le esportazioni italiane e quelle cinesi è tra le più elevate tra i paesi dell’Unione Europea, e questa sovrapposizione aumenta al diminuire dell’intensità tecnologica. Parimenti, nelle esportazioni ad alto contenuto tecnologico i paesi Bric hanno costruito negli ultimi due decenni una posizione molto più forte dell’Italia. Pertanto, il crescente ruolo di questi paesi nel commercio mondiale ha sottratto quote di mercato alle merci italiane (Comito, 2012). In prospettiva, va tenuto presente che il costo del lavoro sta aumentando nei paesi Bric da diversi anni. Oggi, per esempio, quello medio mensile di un operaio cinese si colloca intorno agli 825 dollari. Le previsioni sono per un’ulteriore crescita nei prossimi anni. Tuttavia, il livello degli investimenti diretti verso i paesi di nuova industrializzazione non ne sta soffrendo in quanto i fattori che attraggono le imprese, tra cui quelle italiane, sono ormai oggi per la gran parte diversi e complementari rispetto al solo costo del lavoro. Pesano sempre di più la presenza di vaste economie di scala, di una ricca articolazione nelle reti di sub-fornitura e di una loro capacità di risposta rapida alle mutevoli richieste dei clienti, di una rilevante qualità delle sue infrastrutture, di una forza lavoro istruita, flessibile, di una bu48 rocrazia molto efficiente (quando vuole), soprattutto di un mercato interno che sta diventando il più importante del mondo in moltissimi settori. Per contro, nel contesto europeo il vantaggio competitivo della Germania rispetto all’Italia, e ad altri paesi dell’Europa meridionale, sia in termini di competitività di costi che di specializzazione nelle esportazioni a medio e alto contenuto tecnologico, ha determinato una forte domanda di beni tedeschi (soprattutto macchinari e apparecchiature tecnologiche) da parte delle economie emergenti e dei paesi produttori di petrolio. La Germania è stata, inoltre, maggiormente in grado di sfruttare le opportunità offerte dall’allargamento dell’Unione Europea del 2004, tramite consistenti investimenti diretti nei nuovi paesi dell’Europa centrale e orientale per sfruttare i vantaggi derivanti dal basso costo della manodopera e dagli elevati rendimenti del capitale. Nel 2012 la Germania ha esportato la cifra record di 1110 miliardi, seconda solo alla Cina: si tratta di un quarto delle esportazioni di tutta l’eurozona, e dell’8,7% di quelle mondiali. Un risultato francamente eccezionale, che ha contribuito a circa la metà del tasso di crescita del Pil tedesco nello stesso anno. 1.2 Dimensione Per formarci un’idea della dimensione delle imprese italiane prendiamo in considerazione i settori dell’industria e dei servizi. Congiuntamente questi due settori coprono i due terzi dell’occupazione totale in Italia e costituiscono il nucleo della struttura produttiva dell’economia reale (Saltari e Travaglini, 2009). Secondo i dati Istat, in questi due settori operano circa 4,3 milioni di imprese che occupano più di 16,3 milioni di addetti. Se adottiamo come misura dimensionale il numero degli addetti per impresa, la quasi totalità di queste imprese ha dimensioni piccolissime. In media la dimensione di impresa in Italia, calcolata come rapporto tra addetti e numero di imprese, è pari a quattro. Nella classe delle microimprese (che occupano cioè meno di 10 addet49 ti) si concentrano poco meno di 4,1 milioni di unità, ossia il 95% del totale, con un’occupazione pari a quasi 8 milioni di addetti, vale a dire il 48% dell’occupazione complessiva. Se a queste aggiungiamo le imprese di piccole dimensioni, intendendo con ciò le imprese che occupano fino a 49 addetti, arriviamo al 99% di tutte le imprese presenti nei due settori e a poco meno del 70% dell’occupazione. Naturalmente, ciò significa che le medie imprese (da 50 a 250 addetti) sono poche – lo 0,5% del totale e il 13% dell’occupazione; e le grandi imprese pochissime – non arrivando allo 0,1% del totale e al 20% dell’occupazione. È normale che i sistemi produttivi siano caratterizzati dalla presenza delle piccole imprese. L’aspetto peculiare dell’economia italiana rispetto a quella dei paesi più industrializzati è però determinato dal fatto che in Italia vi sono «troppe» micro imprese. Come abbiamo osservato, in Italia la dimensione media d’impresa è inferiore a quattro: vi sono cioè in media meno di quattro addetti per impresa. In Spagna, la dimensione media è maggiore di cinque, in Francia è maggiore di sei, in Germania di dodici. Naturalmente, questo non è niente altro che il riflesso del fatto che in Italia le micro imprese costituiscono il 95% del totale, mentre l’analogo valore per l’Europa (a 27 paesi) è del 64%. Per di più, nell’arco degli ultimi anni questa specificità dimensionale si è accentuata con la deindustrializzazione e la crisi economica. La questione delle piccole dimensioni è centrale per l’economia italiana perché si ripercuote negativamente sulla produttività del lavoro dell’intero sistema. Definendo la produttività media del lavoro come rapporto tra valore aggiunto e numero di addetti, si osserva che nel passaggio dalla piccola alla grande impresa, la produttività del lavoro aumenta di un fattore compreso tra 2 e 3: nelle microimprese il valore aggiunto prodotto da ogni addetto è in media pari a 27 mila euro, mentre nelle grandi imprese arriva a 61 mila. Una quota importante della produttività viene assorbita dal costo del lavoro, che comprende, oltre alla retribuzione, anche gli oneri sociali (previdenza e sanità). Il rapporto tra queste 50 due grandezze, produttività e costo del lavoro, definisce l’indice di competitività di costo delle imprese. Essa cresce all’aumentare della dimensione dell’impresa: nelle micro imprese essa è pari al 126%, ovvero per ogni 100 euro di costo del lavoro ne vengono prodotti 126 di valore aggiunto; nelle grandi imprese la competitività sale al 161%. Attualmente, in Italia vi sono deboli segnali di una ristrutturazione industriale a favore dei settori tecnologicamente avanzati e di dimensioni crescenti delle imprese. Per fronteggiare la concorrenza dei paesi emergenti, una parte delle imprese industriali italiane, in particolare le medie imprese, hanno tentato di innalzare il livello della qualità dei beni prodotti. Tuttavia, questi mutamenti non sembrano sufficienti per recuperare in breve tempo il livello della competitività del paese disperso negli ultimi due decenni almeno. In effetti, i dati della Commissione europea (2012) sulla variazione del valore aggiunto per intensità tecnologica del settore manifatturiero italiano mostrano che i settori a basso o medio-basso contenuto tecnologico sono stati quelli più duramente colpiti dalla crisi. In questi settori si è passati da un tasso di crescita annuale del valore aggiunto reale del 2,9% sul periodo 19931998 al -4,1% del 2008-2011. In quelli a tecnologia medio alta la variazione non è stata, comunque, molto diversa passando dal 2,6% al -3%, che sommata al -2,5% del settore ad alta tecnologia manifesta le drammatiche difficoltà attuali del manifatturiero italiano. 2. Produttività e accumulazione La dimensione delle imprese e la specializzazione produttiva influenzano il modo in cui il lavoro e la sua produttività si combinano nel processo produttivo, e contribuiscono alla creazione del valore aggiunto. Come abbiamo accennato sopra, l’occupazione e la produttività ricoprono oggi ruoli diversi rispetto a quelli che hanno avuto nel passato. Fino agli anni ottanta il principale contributo alla 51 crescita veniva dalla produttività del lavoro, che in Italia era tra le più elevate del mondo. Dagli inizi degli anni novanta al 2007 abbiamo invece assistito ad un ribaltamento dei ruoli. Con la crisi, infine, si sono registrate variazioni negative sia della produttività che dell’occupazione. Il combinato disposto di questo drammatico mutamento rende oggi molto complessa sia l’individuazione di policy per far crescere la produttività che la sintesi di una nuova politica del lavoro che sappia promuovere una occupazione di alta qualità, e perciò produttiva e duratura. In linea di principio, la produttività del lavoro dipende positivamente dagli investimenti in beni strumentali e dal progresso tecnico. Difatti, ciò che conta ai fini dell’andamento della produttività non è il solo lavoro, ma anche il capitale e il progresso tecnologico incorporato nei mezzi di produzione, materiali o immateriali, di cui ciascun lavoratore dispone, o che scaturisce dalle innovazioni di processo e di prodotto a livello di impresa. L’insieme di questi fattori, che vanno oltre l’apporto diretto del lavoro e del capitale, è denominato Produttività totale dei fattori (Ptf) e misura il contributo alla produttività di tutto ciò che gli inputs del processo produttivo non riescono a catturare. Perciò, la dinamica della produttività riflette in ogni periodo sia quella dell’occupazione e dell’accumulazione che quella della Ptf. Per l’Italia, se guardiamo a orizzonti sufficientemente lunghi, risulta che dal 1960 ad oggi l’occupazione è cresciuta ad un tasso medio annuo del 0,39% e lo stock di capitale ad un tasso del 2,81% per anno. Quindi, la crescita media della produttività del lavoro di 2,19% per il medesimo periodo è da ricondurre al contributo sia dell’occupazione che del capitale. Ma quanta parte della crescita della produttività dipende dalla Ptf? 2.1 La contabilità della crescita Una scomposizione, conosciuta nella letteratura economica come «contabilità della crescita» (Solow, 1957), fornisce una misurazione di questo contributo. Il tasso di crescita della produtti52 vità del lavoro può essere scomposto nella somma del tasso di variazione della Ptf, che approssima il contributo del progresso tecnologico, e del tasso di variazione dell’intensità di capitale, cioè del servizio fornito alla produzione dal rapporto capitale/lavoro. Utilizzando questo schema è possibile ricavare informazioni sui cambiamenti che hanno causato il vero e proprio crollo della produttività del lavoro in Italia a partire dagli anni novanta (Saltari e Travaglini, 2006, 2008, 2009). Due sono stati i cambiamenti principali: il rallentamento dell’intensità di capitale, cioè della variazione del rapporto capitalelavoro; e il rallentamento della Ptf, ossia della (de)crescita delle componenti tecnologiche. Vediamo in dettaglio. La figura 4 mostra una significativa diminuzione del tasso di accumulazione del capitale che si è riflesso nella diminuzione del tasso di variazione dell’intensità di capitale (differenza tra il tasso di variazione del capitale e quello dell’occupazione) visibile nella figura 5, la cui media è passata dal 2,1% del periodo 1980-1993 allo 0,96% del periodo 1994-2012. Dalla figura 5 emerge quindi che la caduta dell’intensità di capitale si è associata alla rilevante flessione della produttività del lavoro (figura 4), la cui media è passata dal 1,65% del periodo 1980-1993 allo 0,39% del periodo 1995-2012. Questa relazione è statisticamente significativa, ed è caratterizzata da una correlazione positiva (45%) per l’intero periodo 1980-2012. Anche la Ptf ha sofferto un drammatico calo e ha rallentato il suo ritmo di crescita, la cui media è passata dallo 0,88% del periodo 1980-1993 allo 0,07% del periodo 1994-2012. Insomma, un andamento tendenziale complessivamente negativo con un evidente break strutturale a partire dal 1993 che travolge il ritmo tendenziale di crescita della produttività del lavoro e delle sue componenti. La tabella 3 riassume i dati medi di questa scomposizione per i due sottoperiodi 1980-1993 e 1994-2012. Nel leggere la tabella si tenga presente che i valori indicati sono valori medi per ciascuno dei due intervalli. Il dato più eclatante è che nell’ultimo decennio 53 si è registrato un ridimensionamento degli investimenti in capitale tangibile e intangibile (-1,1%), ed una riduzione del tasso di crescita dell’intensità di capitale (-1,14%), testimoniando che il nostro sistema produttivo è scivolato verso la parte bassa della competitività internazionale, con merci a basso contenuto di capitale rispetto al lavoro, e a ridotto valore aggiunto. E questo proprio durante la fase di applicazione delle riforme nel mercato del lavoro, e della contestuale politica di moderazione salariale, che nelle intenzione delle istituzioni avrebbero dovuto agire automaticamente come volano della crescita e della ristrutturazione industriale. È importante sottolineare, inoltre, che le riforme italiane del mercato del lavoro si sono fondate sulla moltiplicazione del precariato e la flessibilità «esterna» (Ciccarone e Saltari, 2009). Con la legge Treu prima (1997) e la legge Biagi poi (2003), e i successivi dispositivi (vedi la parte terza curata da Paci) si è privilegiata, difatti, una particolare forma di flessibilità che si articola nell’introduzione di forme contrattuali a tempo determinato e parasubordinato, nell’impiego temporaneo di collaboratori e consulenti, nell’utilizzo di lavoro interinale e, più in generale, nella riduzione dei vincoli che disciplinano assunzioni e licenziamenti. Questa forma di flessibilità esterna ha certamente influenzato in negativo le scelte di investimento delle imprese italiane, e conseguentemente la composizione della domanda e dell’offerta di lavoro, nonché della struttura produttiva. Dunque, la flessibilità del lavoro e la moderazione salariale non hanno risolto il problema della produttività in Italia, ma l’hanno aggravato. In questo scenario, non è da sottovalutare che il crollo della produttività si è manifestato nella stessa fase storica in cui l’adozione dell’euro, ossia di un sistema di cambio fisso tra i paesi europei, imponeva all’economia italiana la necessità di avviare una drastica ristrutturazione e riconversione industriale non più procrastinabile. Ma, la ristrutturazione funzionale, organizzativa e settoriale del sistema-impresa non è avvenuta – né oggi se ne colgono significativi segnali premonitori – così che il ritmo di crescita della produttività continua a decelerare, segnando arretramenti sempre più marcati. 54 Figura 4 - La produttività del lavoro e il tasso di accumulazione in Italia Fonte: elaborazioni su dati Eurostat. 55 Figura 5 - L’intensità di capitale e la Ptf in Italia Fonte: elaborazioni su dati Eurostat. 56 Tabella 3 - La crescita della produttività del lavoro e le sue componenti Tasso di crescita medio annuo (in %) Produttività del lavoro Capitale Intensità di capitale Progresso tecnologico 1980-1993 1,65 2,61 2,10 0,88 1994-2011 0,39 1,51 0,96 -0,07 Differenza -1,26 -1,10 -1,14 -0,95 Fonte: elaborazioni su dati Ameco. Da questa analisi emerge perciò un dato significativo. All’origine di questa sorprendente eterogenesi dei fini – una riforma del mercato del lavoro che invece di favorire lo sviluppo e gli investimenti ha penalizzato l’accumulazione e la crescita – c’è un «errore» tanto clamoroso quanto grave da risultare incomprensibile: la decisione di riformare il solo mercato del lavoro, anziché procedere nella parallela riconversione strutturale dell’apparato economico-produttivo italiano perché si fosse in grado di rispondere positivamente alla sfida della globalizzazione e della moneta unica. Così, in questo vuoto politico e strategico, si è prodotta una drammatica divaricazione tra salari e profitti, tra occupati e disoccupati, tra investimenti reali e finanziari e tra l’economia italiana e quella dell’eurozona. Salvo rari casi, il sistema imprenditoriale italiano ha privilegiato comportamenti passivi e spesso irresponsabili. Non ha visto nella flessibilità del lavoro l’occasione di rilancio industriale e di nuovo sviluppo; e ha mancato nell’investire le risorse recuperate attraverso la moderazione salariale, per riallineare la produttività e la competitività italiana a quella europea. Insomma, al capitalismo «reale» della produzione con visione di lunga durata si è sempre più sostituito un capitalismo «finanziario», speculativo e dal respiro corto. 3. Flessibilità del mercato del lavoro È spesso sostenuto che in Italia vi è il più rigido mercato del lavoro tra i paesi economicamente avanzati, e tra quelli europei in 57 particolare. E che questa rigidità mina alla base la capacità di fare impresa. Possiamo misurare e comparare il grado di flessibilità del lavoro nei diversi paesi? L’indice sintetico Employment Protection Legislation (Epl), calcolato dall’Oecd, misura il grado di regolamentazione del mercato del lavoro relativa alla protezione dell’impiego nei diversi paesi occidentali. L’Epl è compreso in un intervallo di valori tra 0 e 6, dove ai livelli più bassi corrisponde una minore rigidità del mercato del lavoro. Gli andamenti della figura 6 sono molto espliciti. Tolte le economie anglosassoni (e il Giappone), l’Italia è tra le economie europee quella con il minore Epl, ossia è il paese europeo dove attualmente più elevata è la flessibilità del lavoro. Figura 6 - L’indice Employment Protection Legislation, Epl Fonte: elaborazioni su dati Oecd. In Italia la riduzione dell’Epl durante gli ultimi venti anni (l’indice era 3,57 nel 1992; mentre, per esempio, in Francia era 2,98 nello stesso anno, ossia inferiore a quello odierno, pari a 3,04) è principalmente il risultato dell’applicazione delle riforme Treu 58 (1997) e Biagi (2003) che hanno facilitato l’ingresso e l’uscita dal mercato del lavoro attraverso l’uso di forme contrattuali atipiche e con bassa tutela. Tra le implicazioni di questo mutamento è utile segnalarne almeno due. In primo luogo, la nuova flessibilità esterna ha riguardato principalmente i nuovi occupati. Il mercato del lavoro italiano è perciò divenuto sempre più duale, facendo preferire alle imprese quote crescenti di lavoro atipico, sovente non specializzato e sotto pagato, utilizzato in attività di bassa qualità e valore aggiunto. In secondo luogo, nella fase di passaggio dalla vecchia alla nuova disciplina del lavoro si è assistito ad un parallelo decadimento della quantità e qualità degli investimenti associati alla ricomposizione dell’offerta di lavoro. Questo cambiamento non è stato contrastato da politiche industriali atte a sostenere la produttività, la qualità dell’occupazione e dunque i salari. Infine, a questo deterioramento si è unita una netta riduzione della quota dei redditi da lavoro sul Pil. Questo aspetto è analizzato in dettaglio più avanti. Tuttavia, è bene ricordare che a questa trasformazione nella distribuzione del reddito dai salari ai profitti, e alle rendite, non ha corrisposto la ripresa degli investimenti materiali e immateriali, quanto piuttosto l’allarmante caduta complessiva della competitività economica nazionale. 4. Una prima conclusione Si potrebbe avanzare una prima conclusione: la deregolamentazione del mercato del lavoro e la moderazione salariale, quando non accompagnate da una profonda ristrutturazione del sistema industriale, da investimenti e da ricerca, possono essere fortemente dannose per la produttività e lo sviluppo. L’opinione, troppo spesso presentata come assioma, che la flessibilità del lavoro e la moderazione salariale siano le precondizioni imprescindibili che spingono le imprese ad investire e a promuovere inter59 venti per la produttività non è confermata dai fatti stilizzati, da cui emerge, invece, l’assenza di una relazione sistematica, di causa ed effetto, tra le rinunce delle categorie lavoratrici e le decisioni di investimento delle imprese. Come abbiamo mostrato, in Italia il fallimento di questo progetto di politica economica è da ricondurre alla mancanza di un piano complessivo di politica industriale per la ristrutturazione dei settori produttivi, e alla fuga delle imprese dal rischio, dalla produzione e dagli investimenti, verso le posizioni di rendita finanziaria e reale. La centralità del mercato del lavoro nella produzione e nello sviluppo, e il suo funzionamento, occupa gran parte del dibattito economico e politico degli ultimi trent’anni. Ma questa centralità non sembra spiegare da sola né il miracolo degli anni sessanta né il declino attuale. Le imprese rispondono a incentivi che nascono nei diversi mercati, non solo in quelli del lavoro, e sono influenzate nelle loro decisioni di investimento dal cambiamento di norme e istituzioni oltre che dal costo del lavoro. L’interazione tra questi elementi determina le strategie di investimento, l’accumulazione, la specializzazione tecnologica, e le sue ricadute sulla produttività e l’occupazione. In questa prospettiva «laica» il costo del lavoro non costituisce solo, se molto elevato, un fattore di perdita di competitività ma anche, se basso, un minore incentivo al dinamismo dell’investimento. Il costo del lavoro è difatti una componente non trascurabile della pressione competitiva che spinge le imprese ad acquistare nuovi beni strumentali e tecnologie, e a sviluppare innovazioni di processi e di prodotto. Tuttavia, altri costi di produzione incidono ancora più pesantemente sulla produzione e sulla competitività. Tra questi, i costi dell’energia che sono cresciuti in modo straordinario nell’ultimo ventennio, e condizionano in misura crescente la competitività delle imprese italiane (i costi dell’energia in Italia sono superiori di circa il 30% rispetto alla media europea), la cui domanda di energia si è progressivamente ridotta. All’aumento internazionale dei prezzi delle materie prime energetiche, e agli effetti scarsa60 mente positivi delle liberalizzazioni nazionali sul costo dell’energia, si sono aggiunti i nuovi dispositivi normativi europei del Pacchetto clima-energia 2020, divenuto oramai parte integrante della strategia verde europea, per favorire la crescita sostenibile (Rugiero e Travaglini, 2010). I cambiamenti richiesti del mix energetico verso le energie rinnovabili, e i mutamenti dei dispositivi di legge per favorire l’efficientamento energetico del sistema produttivo (risparmio nel consumo di energia per unità di Pil), hanno, però, nell’immediato, accresciuto i costi delle imprese industriali che utilizzano l’energia come fattore di produzione; e condizionato lo sviluppo del comparto nazionale dell’energia, che ha un peso rilevante nel sistema produttivo italiano, e che include, come abbiamo visto sopra, alcune delle poche imprese industriali di grandi dimensioni. Sotto questo profilo, la moderazione salariale e le riforme del lavoro, unite alla discutibile, per modalità e risultati, liberalizzazione dei mercati dei beni e dei servizi degli anni novanta, hanno frenato il rinnovamento industriale e hanno, infine, contribuito a conservare un sistema produttivo inefficiente, e una specializzazione tradizionale in cui sono sopravvissute le imprese marginali di piccola dimensione non più in linea con i cambiamenti dei mercati internazionali e della globalizzazione. Un’economia che presenti insieme un basso costo del lavoro, una bassa occupazione un basso tasso di investimento, una bassa produttività e un basso indice di innovazione tecnologica tradisce una debolezza strutturale che blocca inevitabilmente i processi di rinnovamento e la emargina progressivamente nel contesto economico internazionale. Altre strade sono possibili. In Germania, la moderazione salariale e la flessibilità (interna) degli anni novanta, abbinata ad una coerente politica industriale, è riuscita a realizzare una gigantesca riconversione economica e produttiva, che dà oggi i suoi frutti facendo crescere la produttività e i salari. In Francia, la relativa rigidità nell’impiego del lavoro non ha impedito all’industria manifatturiera di avere prestazioni migliori di quelle italiane. 61 L’Italia è invece sprofondata in una crisi senza precedenti, ed ha mancato nel proporre nuovi indirizzi di politica industriale, scegliendo di smantellare il sistema pubblico delle imprese, deregolamentando il lavoro senza ridisegnare il rapporto tra capitale e lavoro, e demandando ai mercati «l’allocazione ottimale» delle risorse reali e finanziarie. Purtroppo, il fallimento di questa politica economica è sotto gli occhi di tutti. 62
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