Lenostrecose

Le nostre cose
Pubblicazioni Profili antropologici costruiti sull’analisi degli oggetti che ci circondano
e che parlano di noi in un libro di Daniel Miller
Stefano Vassere
«Leggendo questo libro scoprirete
che, in molti casi, le relazioni con gli
oggetti che possediamo sono spesso
molto profonde e, di norma, più vicini
siamo alle cose, più vicini siamo alle
persone».
Daniel Miller, ci dice il risvolto di
copertina (ma è la copertina stessa che
è molto bella, di questo libro), è docente allo University College di Londra e, soprattutto fiero «fondatore dell’antropologia del consumo». Ha pubblicato in traduzione italiana cose decisamente curiose: una Teoria dello
shopping nel 1998 e Per un’antropologia delle cose l’anno scorso. A comperare e leggere un libro come questo
Cose che parlano di noi. Un antropologo a casa nostra, viene per qualche ora
(ma per qualche ora solamente, per
carità!) il sospetto di avere sbagliato
mestiere, e che in cuor nostro avremmo dovuto dedicarci al sognante e immaginifico mondo dell’antropologia
culturale, dell’etnografia urbana in
modo particolare: studi su quartieri
delle città, abitudini alimentari delle
società, che ci dicono tutto sulle loro
componenti etniche e sociali, l’osservazione sulla metropolitana, la scuola
di Chicago, quella di Palo Alto.
Questo libro parte da un’asserzione molto «antropologica»: accompagnarsi a oggetti è pratica comune ed è
pure piuttosto diffusa l’idea che circondarsi di beni di consumo renda
tutti più superficiali e meno attenti; di
fatto però, detto appunto molto antropologicamente, gli oggetti comunicano al di là della loro essenza e non è vero per esempio che vestire la propria
casa ci isoli dal mondo e dalle relazioni
con il prossimo, anzi. Così Miller e la
sua squadra hanno deciso di andare a
casa di una serie di persone, single e famiglie di una strada scelta a caso in un
quartiere di Londra; di parlare con loro, di vedere come le loro case erano
arredate e di dedurre le loro faccende e
la loro vita.
Anche i titoli dei capitoli sono
molto «antropologici» e quindi gradevoli e accattivanti: scelti a caso, «Paperelle di plastica», «Fantasmi», «Parla
col cane», «Gli Happy Meal e la felicità». Metodo ed esposizione testuale
sono sorprendenti e in un certo senso
molto british. Nella storia di Harry e
del suo cane Jeff (qui Jeff è l’oggetto),
l’inquilino accoglie i ricercatori con ritrosia e diffidenza, non tanto perché
non ha fiducia in loro ma semplicemente perché «pensava che non c’era
nulla di interessante su di lui da scoprire e che quindi noi stavamo perdendo inutilmente il nostro tempo». E
poi ci sono i primi due capitoli, che
più che a oggetti specifici e al loro tipo
volge lo sguardo alla loro densità: si
intitolano «Vuoto» e «Pieno» perché
osservano e descrivono l’appartamento di George, sconcertante perché non
contiene nulla, «fatta eccezione per un
tappeto e qualche mobile», e quello dei
Clarke, che colpisce per la sua pienezza, che sembra una scena dello Schiaccianoci e dove «dal centro di ciascun
soffitto pende un elaborato congegno
di cerchi e raggi, su cui sono sospesi
un centinaio di minuscoli pacchetti,
ricoperti di cartapesta rossa o verde».
Tra gli oggetti, interessano Miller
La copertina del libro di Miller.
anche quelli così intimi e personali da
finire per coincidere con la persona
stessa: come nel capitolo dedicato alla
tenerissima storia di Charlotte, ragazzina ventenne, segnalata per l’abbon-
danza di tatuaggi e piercing sul suo
corpo. È una ragazza giovane ma saggia, come succede ogni tanto, e gli interventi sulla pelle non sono ammassati a casaccio: i piercing sono associati
a determinati ricordi, «a cui si può
guardare per tornare alle proprie origini». Ci sono quelli felici e colorati e
poi ci sono anche quelli tristi, come felici e tristi sono le fotografie che conserva. Le prime sulla parete, le seconde, una serie di immagini scattate nel
periodo della partenza per il Brasile
del suo ragazzo, stanno in una scatolina che tiene in alto, sopra l’armadio: sa
che sono lì ma non le può raggiungere
senza un qualche sforzo.
«Queste persone riflettono sui beni accumulati, per considerare il grado
in cui la loro vita è stata o non è stata
degna di essere vissuta; o, come si è
detto qui, è stata piena o vuota».
Bibliografia
Daniel Miller, Cose che parlano di noi.
Un antropologo a casa nostra, Bologna,
il Mulino, 2014.