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IL MANGIATESTE
SAMUEL GIORGI
IL MANGIATESTE
La citazione di pp. 159-160 di Lamentazioni 1, 8-9.20-21 è tratta da La Sacra Bibbia,
CEI-UELCI, 2008.
© 2011 by Samuel Giorgi
Per accordo con Thésis Contents S.r.l., Firenze - Milano
ISBN 978-88-566-2502-8
I Edizione 2013
© 2013 - EDIZIONI PIEMME Spa, Milano
www.edizpiemme.it
Anno 2013-2014-2015 - Edizione 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10
Piccolo amore, dolce angelo.
Dormi.
La tua mamma è qui con te.
Nessun mostro verrà a portarti via.
Nessuno.
Dormi tranquillo, nessuno ti sveglierà.
Sogna solo cose belle, questa notte.
E domani e domani ancora.
Dormi angelo, dormi ti prego.
Nessun altro morirà.
Nessun altro.
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1
Per quella sera poteva bastare.
Gloria se ne era appena andata, salutando da sotto la
serranda con quel modo simpatico che aveva di farlo, con
il salto in scivolata e la testa che tornava dentro per lanciare un bacio.
Lei e Luca erano entrambi esausti, come sempre quando
si decideva di fare l’inventario. O meglio, quando Marino
Severi, il loro capo, decideva di farlo fare a loro due. Accadeva solo una volta l’anno, ma era comunque una tortura
visto che toccava stare con la schiena piegata a riempire e
svuotare scatoloni, in cima allo sgabello per almeno due
giorni interi, dalle sette del mattino fino alle nove di sera.
Perlomeno, quei due giorni, Severi usava loro la cortesia
di lasciare il negozio chiuso. Di per sé la cosa non era complicata: si tirava fuori tutto, i capi esposti e quelli in magazzino, si compilavano i registri con modello, taglia e colore,
e alla fine si confrontavano le liste con i tabulati di tutta la
stagione. Doveva tornare tutto alla virgola.
Ma al diavolo, ora avevano finito.
Luca doveva solo sistemare i due scatoloni rimasti in
mezzo al negozio, sciacquare i bicchieri e ripulire il bancone dai resti delle pizze.
Che strano, però. Aveva sete. Ancora.
Si sentiva la gola in fiamme. Gloria aveva bevuto solo
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una birra piccola, ma cavolo, lui si era scolato quasi un
litro e mezzo di Coca e non era bastato lo stesso. Cosa
avevano messo quei deficienti nelle pizze? Peperoncino
di Cayenna? Carboni ardenti?
Al momento non gli era sembrata cattiva, non era nemmeno piccante o troppo salata. La sete e il caldo erano
venuti dopo, all’improvviso, mentre Gloria si stava già
preparando a uscire. Lei non aveva detto niente, si vede
che la sua non era così... saporita.
Che diavolo era allora?
Non resistette. Andò di nuovo in bagno e si attaccò al
lavello. La terza volta in dieci minuti.
Non passava.
Se avesse bevuto ancora gli sarebbe scoppiato lo stomaco, ma per assurdo aveva ancora più sete di prima.
Doveva uscire e andare di corsa da Giuseppe a prendere un gelato, una granita, qualsiasi cosa per togliere quell’arsura.
Ci fosse stato, avrebbe ingoiato anche un secchio di
ghiaccio.
Ma forse un altro po’ d’acqua dal rubinetto non gli
avrebbe fatto male. Solo un poco.
Scoprì che non riusciva a staccarsi: solo quando l’acqua gli entrava in gola sentiva un minimo di sollievo. Solo in quel modo. Che male poteva fare in fondo un po’
d’acqua?
Non avrebbe più mangiato pizza per il resto della vita.
Al diavolo la pizza e chi l’aveva inventata.
Acqua, acqua, acqua perdio.
Adesso anche l’aria era diventata calda, faceva un caldo insopportabile, afa secca.
Un caldo d’inferno.
Sembrava una fornace, non una boutique.
Si tolse i vestiti, finché rimase in mutande, e senza quasi rendersene conto immerse la maglietta nera nel lavandino per usarla come fosse una spugna.
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Alla fine capì: ecco che cos’era, era la pelle che bruciava. C’era qualcosa sotto che friggeva. Corse fuori dal
bagno e si diresse verso il bancone del negozio lasciando
pozze d’acqua per terra. Trovò quello che cercava: il coltello della pizza.
Iniziò dalle braccia e quindi passò al petto e alle gambe. Doveva toglierla. Sotto c’era qualcosa che bolliva. Il
sangue che usciva era fresco. Lo sentiva sulle braccia, sul
ventre.
Sì, così sembrava meglio. Oppure no?
Oddio, ricominciava di nuovo a bruciare.
Allora non era la pelle. C’era qualcosa più dentro, più
in fondo che alimentava le fiamme e lo faceva stare male.
Doveva tirarlo fuori, non poteva aspettare, faceva troppo
male.
Solo un attimo e avrebbe gustato un bel gelato, tanto
gelato, da Giuseppe, e magari anche un’altra Coca ghiacciata, sì un’altra.
E sarebbe passato tutto.
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2
Ormai ci ero abituata. Non mi dava nemmeno più fastidio. Era diventato un gioco.
Quando sei fatta come me hai solo due possibilità: ti
rodi il fegato per tutta la vita, oppure ti ci diverti.
La questione è che per strada la gente mi fissa.
Non è come succede alle fotomodelle, altrimenti non
starei qui a raccontarlo. Ma non è niente di straordinario,
non questo perlomeno. Sono solo un po’ insolita. Direi
una specie di cencio scolorito, un panno da pavimenti lavato con candeggina concentrata. Sono smunta, magra e
pallida molto più del normale, tanto da confondermi facilmente con i tizi che vado a trovare sui lettini di metallo
degli obitori. Ho anche i capelli sbiaditi (e questo forse è
un po’ colpa di come li tratto), ma non bianchi, che al limite sarebbe anche intrigante. Sbiaditi e basta. Su di me è
come se in un tempo lontanissimo i colori ci fossero stati,
ma avessero deciso di scivolar via lasciandosi dietro poco
più di un’ombra.
Era evidente che facessi una certa impressione, un po’
come quei vecchi seduti sulle panchine dei parchi che si
fatica a capire se siano vivi o morti, immobili con gli occhi
fissi e la bocca socchiusa, come se la vita e il sangue avessero cessato di scorrervi dentro.
Come dicevo, ci ero abituata. Solo che, adesso erano in
tre a fissarmi. Anzi in quattro, considerando anche il vec-
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chio paralitico che avevano piazzato nel posto riservato,
alla destra della porta dello scompartimento. E, in quel
momento non avevo molta voglia di giocare.
Avevo troppe cose per la testa.
Soprattutto dovevo ripassare il programma, le istruzioni di Widmann e le note raccolte in quelle settimane
attraverso il lavoro degli altri ragazzi.
La cosa importante, tuttavia, era non perdermi la fermata giusta: rischio sempre di finire nei depositi di tram o
treni, quando “mi spengo” per concentrarmi. Oltretutto
mi succede spesso, considerato che viaggio quasi solo con
i mezzi pubblici. Non uso quasi mai né aereo né macchina, mi fanno entrambi troppa paura.
Widmann dice che le mie stranezze, persino le mie paranoie, sono perfette così, che è tutto coerente col quadro generale, che non devo cambiare una virgola di come
sono. Se lo dice lui.
Comunque, era la prima volta che Widmann mi mandava fuori da sola. Fino ad allora mi ero sempre mossa
unicamente in coppia, con un altro dei ragazzi (siamo tutti giovani al laboratorio). C’è da dire che quella di mandarmi da sola non era stata una scelta intenzionale: alla
fine, per un motivo o per l’altro, si erano tirati tutti indietro e, considerato che nelle fasi preliminari Widmann
rimaneva sempre in disparte, e che comunque era un caso
interessante, mi aveva fatto comprare un solo biglietto.
Loro sarebbero arrivati qualche giorno dopo.
Lo dico non perché io sentissi il bisogno di compagnia
(Dio me ne scampi), ma perché al momento mi ero fatta
l’idea che i miei cari colleghi avessero un po’ di remore
(se non timore) nell’affrontare una situazione del genere.
Vista la natura del nostro lavoro, la cosa mi sorprendeva
parecchio: noi siamo gli esperti dei “casi strani”, il nostro
intervento è richiesto proprio per le situazioni più insolite
e complicate. Siamo un team esterno di ricercatori e ana-
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listi specializzato in misteri insolubili al limite del “normale”. O almeno questo era quello che avevo capito del
mio mestiere nei pochi mesi trascorsi da quando avevo
cominciato.
Per questo all’inizio feci davvero fatica a giustificare la
loro reazione. Perché tanta apprensione?
Ovviamente nessuno di loro lo ammise mai, ma è ben
difficile che io mi sbagli in certe cose. Le loro scuse, seppure ben motivate, non riuscivano a celare del tutto il timore di doversi tuffare nella melma stagnante dei tredici
suicidi di Grazzeno.
Il suicidio è di per sé quanto di più semplice l’uomo
possa compiere nel corso della propria misera esistenza,
sempre che sia in possesso delle facoltà fisiche per farlo. Per questo è anche una delle cose che l’uomo sceglie
meno volentieri.
Ho sempre pensato che se l’umana specie è quello che
è, lo deve al fatto che per istinto ricerca in ogni cosa la
complicazione piuttosto che la semplicità. Ci deve essere
sempre un “altro”, un “oltre”, dietro a quello che si sta
vivendo: la volontà divina, la fortuna, il destino, gli spiriti,
il giudizio del mondo, le presenze occulte, le ombre.
Per questo è difficile staccare la spina da soli. Cosa
potrebbe accadere? Cosa penserebbero di noi? Cosa sarebbe dei nostri cari? Cosa sarà di noi dopo un atto del
genere?
Solo la follia è uno stato di pura semplicità. E forse è
proprio per questo che, da sempre, i pazzi sono quelli che
si ammazzano più volentieri.
Quello che ai ragazzi faceva paura a Grazzeno, credo,
era l’idea che una specie di delirio collettivo o di maledizione si fosse abbattuta sul paesino della Val d’Ossola,
inducendo in poco meno di un anno tredici persone a
togliersi la vita.
Erano a tutti gli effetti dei veri e propri suicidi, tutte
le prove lo confermavano. Non poteva esserci nessun so-
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spetto che qualcun altro, oltre alle vittime stesse, avesse
causato i decessi. Le indagini della Polizia non avevano
condotto a nessun’altra spiegazione. Eppure non poteva
essere. In poco più di cinque chilometri quadrati, così
tante persone, in un tempo così ravvicinato (una, anche
due al mese), avevano deciso di togliersi la vita, in modo
tanto cruento. E senza che sulle scene dei decessi si fosse rinvenuto il minimo collegamento tra i tredici eventi.
Cosa più sbalorditiva: a quanto pareva (ma questo era ancora tutto da dimostrare), nessuna delle vittime soffriva di
particolari turbe psichiche.
Considerate queste premesse, era facile comprendere
per quale motivo quella mattina sul treno per Grazzeno
avessi poca voglia di giocare a fare il mostro.
In più, una palla di lardo di bambino non la smetteva di assillarmi. Di solito, a non dargli retta e rimanendo
fissa e immobile, se ne andavano via, magari richiamati
dalla madre. Quello invece se ne stava lì attaccato alle mie
ginocchia a fissarmi con la merendina di cioccolato che gli
si sbriciolava tra le dita (e sulla mia gonna), a chiedermi
qualcosa che cercavo di ignorare. Le sue labbra dicevano
ciao e qualche altra cosa confusa dal gigantesco boccone
che stava masticando.
Dovevo togliermelo di torno.
Non ho niente contro i bambini, anche se credo che
non ne avrò mai di miei. I tipi come me è meglio che rimangano in originale, senza che siano costretti a liberare in
giro delle brutte copie di se stessi. Ripeto, non ho proprio
niente contro i bambini e di solito sono abbastanza innocua e pacifica col prossimo. Presa però dallo sfinimento,
mi avvicinai lentamente alle orecchie paffute e giallastre
della palla di lardo, e dolcemente sussurrai: «Se non la
smetti di starmi addosso e non te ne torni bravo bravo
dalla mammina, apro quella valigia là sopra, la vedi quella
lì rossa? Ecco, lì dentro tengo un mio piccolo amico. Devi
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sapere che lui ha la coda molto lunga, i denti molto aguzzi e tanta tanta fame. Sai cosa farà il mio amichetto? Lui
uscirà dalla valigia, scenderà giù e ti ingoierà in un boccone, sì tutto intero prima che tu abbia finito quella schifosa
merendina al cioccolato, ci siamo intesi, amore?».
Non era granché come minaccia, lo so, eppure bastò a
levarmi di torno il fastidio. Gli altri, finché se ne stavano
al loro posto, potevano fissarmi quanto volevano. Per me
neanche esistevano.
Stavo ragionando sull’intervallo. Quei trenta giorni tra
un suicidio e l’altro.
Cosa accadeva tra un evento e quello successivo?
Magari il legame tra le vittime c’era e nessuno l’aveva
ancora trovato. Chissà che non si fossero messe d’accordo, come in una specie di catena suicida a rilascio prolungato: ognuno aspettava che quello che lo precedeva
trovasse il coraggio per farla finita, per poi attivare a sua
volta il conto alla rovescia verso la definitiva, tragica, uscita di scena.
Difficile, improbabile. Cose del genere in passato erano accadute, ma la gente aveva sempre deciso di ammazzarsi simultaneamente. Sarebbe stato complicato considerare quello di Grazzeno un atto collettivo, presentava
delle anomalie davvero troppo evidenti.
I suicidi di gruppo o di massa non erano una novità.
Prima di partire avevo fatto una piccola ricerca, niente di
che, mi era bastato andare in rete. Avevo trovato che eventi di questo genere erano un fatto globale e relativamente
recente nella storia dell’uomo, quasi sempre collegati a
questioni religiose. Uno per tutti quello del 19 novembre
1978, il suicidio di massa più impressionante di tutta la
storia: in Guyana si tolsero la vita col cianuro i novecentoundici membri della setta del Tempio del popolo, guidati
dal fondatore, il reverendo Jim Jones. Le vittime furono
duecentonovantatré donne, trecentonovantotto uomini e
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duecentodiciannove bambini. Ci furono poi decine di casi
fino agli anni Novanta, e al tragico epilogo della storia degli adepti del Tempio del Sole.
Quindi, una prima cosa da verificare era se Grazzeno
non fosse stata scelta come base da una setta di quel tipo,
da qualche santone nostrano, o qualcos’altro del genere.
Certo, all’inizio dovevo soprattutto misurare le forze
in campo. Mi spiego. Si tratta della fase iniziale del mio
lavoro. Devo stare nel luogo dove sono avvenuti i fatti,
parlare con la gente, osservarla nel suo ambiente naturale,
respirare la sua stessa aria e mettermi in ascolto di qualsiasi segnale utile. Che si tratti o meno di parole.
Tanto per evitare fraintendimenti, ci tengo a precisare che la sottoscritta non è una sensitiva. O almeno non
nell’accezione classica del termine.
Non leggo nelle pieghe del pensiero del prossimo, non
vedo il passato o il futuro, non ho le stigmate e nessun’altra diavoleria del genere. Credo anche che Widmann non
mi avrebbe mai preso nella squadra se non fosse stato
così.
Intuizioni e sogni. Sono questi i miei contributi alle indagini. È la capacità di vedere oltre la tela nera della menzogna dell’uomo, e scoprire il mondo nascosto al di sotto
di essa. Io le chiamo le mie “epifanie”. Sono una specie
di dono, credo.
All’inizio, da bambina, era una particolare dote intuitiva, riuscivo a “vedere” i racconti della gente, ad aggiungerci i pezzi mancanti, a percepire le incongruenze. Forse
allora non sembrava tanto eccezionale, semplicemente
era qualcosa che avevo sempre avuto, e alla quale nessuno
aveva mai prestato troppa attenzione. Faceva sorridere il
modo in cui riuscivo a raccontare eventi o situazioni accaduti ad altri. Quando cominciavo, la gente aveva l’impressione che quelle storie io le avessi vissute in prima
persona e non solo sentite da altri: emozione, entusiasmo,
dettagli che solo chi c’era stato avrebbe potuto riferire.
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Ma questo era solo l’inizio. Con gli anni, la cosa si è
evoluta. Adesso funziono quasi come una macchina della verità, è praticamente impossibile che non smascheri
qualcuno che mi sta mentendo. Quando credono che io
non li senta, i miei colleghi mi chiamano Pentotal.
Alla stazione di Domodossola uscii dall’ingresso frontale, quello dei taxi, e mi fermai sotto la pensilina a fissare
lo scorcio di città che si intravvedeva oltre i giardini, e ad
ascoltare le voci della gente che mi stava intorno. Faccio
sempre così quando arrivo per la prima volta in una stazione, magari finendo il fondo della bottiglietta d’acqua
che lascio apposta per quel momento: i miei sensi funzionano meglio mentre bevo e dopo essermi tolta di dosso gli
odori e i rumori del treno.
Subito dopo andai a ritirare l’auto a noleggio (non avevo alternative, ero costretta a guidare) e mi diressi a est,
verso Gagnone e Orcesco.
Una strada tutta curve e boschi. Soprattutto curve.
Dopo pochi minuti la città era già alle mie spalle, piccina
ai piedi della valle sempre più profonda.
C’è solo una cosa che odio più che guidare: guidare
in montagna. È pieno di imbecilli che devono dimostrare quanto sono bravi al volante, e come se non bastasse
il mio fisico non regge le risalite, gli sbalzi improvvisi di
pressione e di altitudine, i continui tornanti a gomito. È
anche una delle ragioni per le quali evito di volare e mai
prenderò il brevetto da sub.
Dopo il quinto tornante da vomito, mi fermai a rimettere. Acqua, più che altro. Stupendo. Il senso di nausea
mi accompagnò fin oltre la pala di legno intarsiata che
dava il benvenuto alle porte di Grazzeno, paese gemellato
con il comune di Avery-sur-Mer in Francia.
L’arrivo al paese della frutta antica (così c’era scritto
su un altro cartello) non aiutò a dar pace al mio stomaco.
Grazzeno si era sviluppato intorno a due colline al centro
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di una conca abbracciata dai monti: la collina più a ovest,
quella su cui sorgeva il centro abitato, era tutta una spirale
a salire fino alla cima che aveva come cappello un antico
convento e, appunto, il centro storico, Piazza Alta. L’altra,
più modesta per altitudine, era l’altare alberato di un vecchio castello. Tutt’intorno casupole e palazzine sparse o
ammucchiate sul fondo della conca.
Per arrivare nei pressi di Piazza Alta, dove avrei trovato
il mio albergo, dovetti percorrere almeno altri tre o quattro
tornanti, attraverso stretti passaggi tra le case, sfiorando i
balconi più bassi. Grazzeno era il tipico paesino di montagna con quattro residenti nelle loro vecchie dimore sbilenche e centinaia di turisti, che ci avevano portato le loro
finte baite colorate per passarci tranquilli i fine settimana,
stravolgendo così il vecchio borgo di pastori e taglialegna.
Dopo quella tortura, avevo bisogno di appoggiare i piedi sulla terra ferma e respirare a fondo per qualche ora.
Il programma per i giorni seguenti era relativamente
semplice. Dovevo sfruttare al massimo il tempo che avrei
trascorso da sola, prima dell’arrivo del resto della squadra: avrei sbrigato le formalità facendo visita alle autorità
locali, mi sarei annotata quello che avevano da dirmi sulla
faccenda e avrei cominciato il giro di colloqui con i parenti delle vittime.
Dovevo cominciare a prendere le misure al paese e alla
sua gente, registrare gli eventuali rumori di fondo, le voci
sottotraccia nascoste dai discorsi formali, i non detti mal
trattenuti dai gesti e dalle posture.
In un posto del genere, non mi aspettavo granché dalle
autorità, non più di un sindaco settantenne, un prete malconcio e al limite un capo dei vigili in odore di pensione.
Scoprii presto che mi sbagliavo.
La mattina seguente, dopo una notte passata in bianco
(e già, ho omesso il piccolo particolare che la sottoscrit-
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ta non dorme praticamente mai), al Palazzo del Comune
fui accolta dalla solita diffidenza della gente che mi ferma
all’ingresso di un ufficio pubblico turbata dal mio aspetto.
La pantomima varia da quello che ti deve soccorrere
offrendoti a forza un bicchiere d’acqua perché ti vede deperita e pallida, all’altro che ti blocca spaventato e chiama
la sicurezza dato che assomigli a un’aliena o a una specie
di zombi, e quindi solo per questo devi essere pericolosa
o sospetta.
Come al solito, comunque, anche qui alla fine riuscii
a parlare con il primo nome della mia lista: un ragazzino
ipernutrito vestito da prima comunione messo a fare da
controfigura al sindaco di Grazzeno.
«Una consulente investigativa, quindi. Interessante, in
cosa posso esserle utile, signorina?»
Odio quando mi danno della signorina, ma me ne stetti
buona buona.
«Signor sindaco, stiamo cercando nuovi elementi per
far procedere le indagini. Mi fermerò qui almeno una settimana. Avrò bisogno di qualche indicazione e, se possibile, della sua autorizzazione a bussare alle porte del paese.»
Era stato Widmann a dirmi di essere così formale.
«Non so proprio cosa pensiate di trovare ancora. Senta
signorina: qui siamo tutti sconvolti, nessuno si aspettava
una cosa del genere, è davvero più grande di noi, è qualcosa che non riusciamo a comprendere e tanto meno a
fermare. È come se ci avessero presi a legnate in testa.
Qui tutti, anziani, giovani, tutti, siamo come paralizzati
dal dolore.»
«Non ne dubito.»
«Sembra che questa maledizione non si debba fermare
mai più. È come se non si potesse fare altro che aspettare,
sperare che nessun altro, svegliandosi, decida di farla finita. Mi scusi se le parlo così schiettamente.»
«Non si preoccupi, è proprio quello di cui ho bisogno.»
L’uomo era sincero, sembrava davvero spaventato.
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«Le confesso che da qualche giorno sto meditando di
rimettere il mandato di sindaco. Mi chiedo però a cosa servirebbe? Dubito che le morti si fermerebbero per
questo.»
«Non saprei.»
«Non posso lasciare sola la mia gente. Non posso. Qui
ci conosciamo tutti, sa? Siamo cresciuti insieme, abbiamo
lavorato insieme, molti sono persino parenti.»
Gli concessi qualche istante nel caso avesse avuto altro
da aggiungere e poi gli chiesi: «Non c’è davvero niente,
secondo lei, che possa spiegare queste morti?».
«Sono suicidi... no?»
«Sì, certo. Almeno così pare.»
«No, nessuna spiegazione, ne ho parlato un po’ con
tutti, anche con i parenti, ma non...» si bloccò, non sapeva come andare avanti.
«Vorrei incontrare alcuni di loro, se non le dispiace,
anche se sono consapevole che dovrò ripetere domande
alle quali hanno già risposto. Ritiene possa essere un problema?»
«È proprio necessario? Questa gente ha già sofferto
abbastanza.»
«Temo di sì. Mi sono fatta una lista.» Gliela mostrai.
«Vorrei iniziare con questi nomi e poi sapere da lei chi
altro varrebbe la pena sentire, qualcuno anche non direttamente colpito dai fatti, ma con informazioni che potrebbero contribuire a fare un po’ di luce.»
Scrisse qualcosa ai piedi del mio elenco, ci rimise sopra
la penna e lo spinse avanti con le dita, come se si fosse tolto un peso. Pochi secondi dopo lo salutai con un sorriso,
lasciandogli intendere che ci saremmo visti di nuovo.
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«Mamma, mamma!»
«Sì, cucciolo?»
«Non voglio andarci, mamma.»
«Ma dove, amore?»
«Dice che dobbiamo andare, per forza.»
«Ma dove? E chi è poi che ti dice queste cose?»
«Ho cercato di dirgli di no, che non voglio più...»
«Amore, senti, non devi spaventare la mamma, di cosa
stai parlando?»
«È sempre lui, mamma, il signore brutto...»
«Non ti preoccupare, tesoro, è stato solo un altro brutto
sogno, stai tranquillo, prima o poi passeranno. Vieni qui,
sotto alle coperte, stanotte dormi con la mamma, tranquillo
cucciolo. Dormi, adesso.»
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3
Fuori dal municipio, l’aria era calda, sapeva di fiori e di
terra bagnata. Non aveva piovuto, qualcuno doveva aver
innaffiato le aiuole.
Tutto sommato, quel posto non era così male. Forse un
po’ troppo preciso, ordinato, svizzero, quasi innaturale.
Il paese stava tutto nel giro di uno sguardo. In un’ora
del giorno nella quale altrove (soprattutto da dove venivo
io) macchine e persone si rubano lo spazio e l’ossigeno, lì
c’erano solo quattro anime che sfilavano lungo i muri in
pietra.
Decisi di iniziare con Aldo Interlenghi, il proprietario dell’unico bar della parte bassa e popolare del paese,
quello frequentato dai residenti più anziani. Ce n’era un
altro, in Piazza Alta, più piccolo. Interlenghi non era il
primo della lista e nemmeno uno dei parenti, ma avevo
sete e ci stava una piccola variazione di programma.
Era uno dei nomi aggiunti al mio elenco dal sindaco.
L’aveva sottolineato con una smorfia, commentando che
in quel loro paese dimenticato da Dio il barista aveva preso il posto del prevosto, e non solo perché dopo la morte
per infarto di don Valerio Stecconi era arrivato un prete
più giovane, don Sirio Alberti, uno sbarbato che né parlava né mangiava come la gente del posto.
Interlenghi, però, non era un vecchio. Tutt’altro.
Premetto che a me non piacciono gli uomini (o le don-
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ne) nel modo classico di concepire i rapporti: dal punto di
vista sessuale mi ritengo un’agnostica. Sono però in grado
di valutare l’aspetto fisico della gente.
Interlenghi non era affatto un brutto esemplare di maschio.
Solo che lui e il suo bar si trovavano nel posto sbagliato.
Sarebbero stati perfetti nel centro di una grande città, o sul lungomare di una riviera turistica, non lì in un
paesino sperduto tra le montagne. Radio a volume alto,
specchi e foto alla moda, eleganti vetrinette con cornetti e brioche dietro a piccoli cartelli colorati e, soprattutto, profumo di nuovo e di giovane. La prima cosa che
pensai fu che pareva strano che vecchi montanari col
bastone e il berretto sbilenco di paglia, che puzzavano
di vino e di rancido, potessero essere i clienti abituali.
Eppure.
«Buongiorno» feci all’uomo dietro al bancone.
«Ciao, in cosa posso esserti utile?»
«Un bicchiere d’acqua e due chiacchiere, per favore.»
«Non è mica carnevale.»
Lo guardai storto e continuai a dargli del lei, come faccio sempre con gli estranei più vecchi di me.
«Hai ragione, scusa. Cosa vuoi sapere? Ecco l’acqua.»
«Ci possiamo sedere un attimo?»
«Mi dispiace, devo servire i clienti» rispose lui seccamente. Si doveva essere risentito. Il locale, a parte noi due,
era vuoto e fuori cantavano i grilli. Dovrei sapere che non
si deve mai castrare l’iniziativa comica di un uomo che si
ritiene spiritoso e dal quale vuoi ottenere informazioni.
Ma ormai era tardi.
Mi sedetti su uno degli sgabelli al bancone. Gli spiegai
chi ero e perché mi trovassi lì. Mentre parlavo continuò a
pulire e riordinare. Si limitò a dire: «La Polizia è già stata
in giro a fare un sacco di domande a tutti».
«Lo so.»
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«Non si capisce ancora niente, vero?»
«Sinceramente no. Lei che idea si è fatto?»
«Cosa vuoi che ti dica, io faccio il barista. Non sono
nemmeno di queste parti. Vengo tutti i giorni da Veronno.
Venti chilometri.»
«I suoi clienti non ne parlano?»
«All’inizio sì, per un po’ è stato l’unico argomento. Poi,
quando la cosa è degenerata, con tutti quei morti, la gente
ha cominciato a uscire meno di casa, e quelli che venivano
lo facevano per non restare da soli, per paura, per non
pensare, per far finta che fosse tutto normale e che non
stesse accadendo nulla. Sai però cosa ti dico?»
«Cosa?»
«Ho idea che questa gente non si riprenderà tanto facilmente. Sempre poi che sia finita.»
«Ma lei come si spiega una tragedia del genere?»
«Io una teoria ce l’avrei, ma forse non è proprio...»
«Non si preoccupi.»
Si appoggiò al bancone con i gomiti e abbassò la voce.
«Lo so che forse vedo troppi film, ma l’unica cosa che
mi è venuta in mente è che si tratti di una specie di... come
dire, epidemia.»
«Un’epidemia? Mi potrebbe spiegare meglio?»
A quel punto si deve essere innescato uno dei meccanismi dei quali sono dotata. La mia attenzione nei confronti
di chi mi sta parlando diventa totale. Entro improvvisamente in uno stato ipnotico nel quale smetto di percepire
ogni altro stimolo e le parole mi giungono ammorbidite
e quasi al rallentatore. È uno dei modi (forse nemmeno il
più spettacolare) con i quali capisco se mi stanno raccontando balle oppure no.
«Com’è possibile» cominciò a spiegare «che così tante
persone decidano di uccidersi senza apparente motivo e
senza alcun evidente legame tra di loro? Ci deve essere
qualcosa sotto, magari una sostanza di qualche tipo, una
droga, un virus. Non sono un medico ma ci dovrà pur
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essere una causa scatenante, qualcosa che li fa andare in
cortocircuito...»
«In effetti non lo escluderei.»
Sembrava sincero.
«E se alla fine si scoprisse che qualcuno ha ipnotizzato
questi poveracci, che li ha convinti a uccidersi contro la
loro stessa volontà?»
«Anche questa potrebbe essere una strada.»
Lo dissi tanto per dirlo, non perché lo pensassi veramente.
«Chissà quante altre ipotesi avranno formulato i clienti
del suo bar.»
«Ma sai, in questi casi, quando il dolore non ti sfiora
solamente ma ti investe in pieno, la fantasia può lasciare
il passo al delirio.»
Ci mancava solo il barista psicologo.
«Ovvero?»
«Ne ho sentite di tutti i colori, giuro, l’ultima proprio
ieri sera. Stavo tirando giù la serranda e mi sento toccare
la spalla. Era Evelina Agosti. Non l’hai ancora incontrata, vero? Per la gente di qua Evelina è una specie di
monumento storico, una vecchina che è sempre stata a
Grazzeno e che per quel che si sa resterà sempre qui, anche dopo che tutti noi ce ne saremo andati al creatore. È
lei che si prende cura degli animali del paese. Quelli abbandonati o che vivono come bestie selvatiche. Uccelli,
cani, gatti e topi. Sì, anche i topi, e ce ne sono parecchi
da queste parti, sai? Ieri è venuta per il solito mezzo
bicchiere di Coca-Cola. Impazzisce per la Coca, anche
se ne prende solo mezzo bicchiere. Be’, insomma, Evelina quando beve Coca, si mette a parlare. E non puoi
immaginare quanto. Quel mezzo bicchiere lo fa durare
almeno mezz’ora, ogni volta. Guai a metterle fretta. Ma
ieri, diversamente dalle altre volte, Evelina ha cominciato a delirare sul serio. Diceva che prima o poi toccherà a
tutti fare la fine di quei poveretti, che il Grande Albatro
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si abbatterà su di noi e che il giorno dopo ci ritroveranno tutti a penzolare da un albero di frutta. Le ho chiesto
(grave errore) cosa sia l’Albatro e lei mi ha risposto che
sono fortunato a non averlo mai visto, che è una vecchia
leggenda che raccontavano i nonni del paese quando
pioveva e non si poteva stare fuori a giocare. Una storia
di uomini e animali dove i primi non sono più intelligenti o furbi dei secondi, dove anche gli animali parlano e
decidono, e sono le incarnazioni degli spiriti buoni, altri
degli spiriti cattivi e possono regolare l’esistenza degli
uomini dispensando premi e punizioni. E questo che
stiamo vivendo, ha aggiunto, è di nuovo il tempo della punizione. Il male e l’egoismo hanno sostituito ogni
altro valore, l’uomo ha ormai rinunciato alla salvezza e
alla saggezza. Ecco perché morte e disperazione saranno
il nostro comune destino. E ha cominciato a ripeterlo
così: morte e disperazione, nessuna redenzione, nessuna
redenzione. Dovevi sentirla. Morte e disperazione, nessuna redenzione. E lo diceva con una voce strana, non
da cattiva o da strega. No. Era la voce di una bambina,
con quella sciocca cantilena che le viene quando parla
con gli animali. Ecco, sì, sembrava una bambina spaventata.»
«Per quale motivo, secondo lei, ha detto queste cose?»
Non rispose subito. Si girò chinandosi a prendere qualcosa da uno dei frigoriferi che stavano sotto i ripiani con
le bottiglie e i bicchieri, e poi passò la spugna sul lavello.
Stava riflettendo. Non gli misi fretta, aspettai.
«Non lo so, qui i maligni dicono che è fuori di testa,
nessuno vuole averci a che fare. Io sono uno dei pochi,
forse l’unico escludendo un paio di sue vicine, a rivolgerle la parola. Il fatto è che di solito quando parliamo,
o meglio quando lei parla e io ascolto, non sembra così
sbarellata come dicono, anzi. È una grande osservatrice, nonostante l’età, non le sfugge niente di quello che
avviene in paese. Molte cose che so della gente di qui le
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ho apprese da Evelina. E ti assicuro che è la prima volta
che la sento parlare di cose strane come spiriti, maledizioni o...»
«Albatri.»
«Già.»
«Non avevate ancora parlato della tragedia?»
«Direi di no. Ci eravamo incrociati poche volte in questi mesi, forse è venuta anche a bere qualcosa, ma in effetti non si è mai parlato di quello.»
«Le è parso che la signora fosse particolarmente nervosa o spaventata?»
«No, assolutamente. Come ti ho detto aveva quella
strana voce così serena, infantile. Ripeteva cose terrificanti con il tono di una che racconta la più dolce delle
fiabe ai nipotini. Non credo fosse spaventata. Rassegnata,
piuttosto.»
Ovviamente Evelina Agosti avrebbe presto ricevuto una
mia visita. Ma non subito. Quel livello di indagine poteva
essere rimandato ancora di qualche giorno. Ora avevo altro di cui occuparmi: dovevo scambiare due chiacchiere
con i defunti.
Non prendetemi per matta. Ribadisco che non sono
una medium, e neppure ci tengo a diventarlo. Quello che
di solito faccio nei cimiteri si avvicina di più a una rimpatriata tra vecchi compagni di classe che a una ridicola seduta spiritica. Non mi interessano le fotografie sulle lapidi. Devo passeggiare nei vialetti e lasciarmi invadere dalle
vibrazioni che riesco a captare attraverso la terra fresca.
Non ho bisogno di osservare i ritratti funebri: le immagini
che mi interessano le vedo al laboratorio. Sono le prime
cose che arrivano insieme ai verbali della Scientifica e alle
trascrizioni degli interrogatori. Di solito sono almeno un
paio di foto per ogni vittima: una da viva, recuperata tramite i parenti, e una scattata appena dopo il ritrovamento. Oltre ai rilievi fotografici ambientali. Per questo ne
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avevo fatte delle copie e me le ero messe in valigia, per lo
specchio del bagno.
Giusto, lo specchio. È una tecnica che usavo già da un
po’, ancor prima di iniziare a lavorare con Widmann, da
quando avevo fatto pratica da un detective privato. Le
attacco con lo scotch, soprattutto se lo specchio è davanti
al gabinetto. Seduta sulla tazza del cesso, per guardarle
sono costretta in una postura scomoda, e la scomodità
mi stimola l’attenzione. So che non è il massimo dell’eleganza, ma a me è l’efficacia che interessa. Se mi trovo in
albergo, ogni volta devo chiedere che non facciano le pulizie o riassettino il letto per tutta la durata del mio soggiorno. Spesso e volentieri sono costretta ad assicurarmi
riservatezza e privacy elargendo laute mance al direttore
e al personale. Per fortuna quel tipo di costi sono previsti
nel budget per la trasferta. Ovviamente, quando le immagini diventano troppo esplicite o macabre, devo premurarmi di coprire lo specchio con un telo. Mediamente, la
gente è più sensibile di quanto lo sia io alla morte e alla
violenza.
Uscii dal bar e mi diressi verso il cimitero. Dieci minuti a piedi, a passo lento. Da lontano notai subito che
non aveva l’aspetto di un classico cimitero, ma sembrava
piuttosto il giardino di una villa, con aiuole e cespugli
fioriti, muretti a secco e fontanelle artistiche. Si sviluppava circolarmente intorno a una chiesetta bianca intonacata a buccia d’arancia, con il tetto in legno e ardesia.
Tutto l’insieme mi faceva venire in mente una torta nuziale.
Fu semplice trovare quello che stavo cercando. Le vittime erano state sepolte tutte insieme in un quadrato di
terra nuova ai piedi di una collinetta. Possibile che nel
frattempo non fosse morto nessun altro a Grazzeno? Di
malattia, morte naturale o semplicemente di vecchiaia?
Mi pareva improbabile.
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Perché avevano volutamente raggruppato i suicidi?
In realtà non erano proprio tutti lì. Ne mancavano
tre. Due erano stati collocati nelle tombe di famiglia, e
li avevo individuati con facilità grazie ai fiori freschi e al
cartello plastificato con nome e date. L’ultimo forse era
stato mandato altrove, da parenti che non vivevano più
in paese.
I rimanenti erano stati disposti in base alla data del decesso.
Dieci, su due file parallele.
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