Leggi il primo capitolo

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L’arresto
«Guardia di Finanza, apra subito.»
Cinque del mattino. La voce dal citofono mi scuote mentre sono ancora immerso nello spaesamento del dormiveglia. In questo momento di percezioni stralunate, non posso neanche lontanamente immaginare che sta iniziando un
incubo destinato a durare oltre tre anni.
Torno in camera, mia moglie Sophie continua a dormire. «È la Guardia di Finanza, stanno salendo» spiego senza spiegare, e ancora oggi non so dire se in quel momento
mi ha sentito, se ha capito.
Intanto la cicala del citofono va avanti a suonare, perentoria, impaziente.
«Apra o dobbiamo sfondare la porta!», perché ho aperto,
sì, il cancello esterno, ma poi la squadra è arrivata al palazzo e ha trovato un altro portone chiuso.
«Scendo, scendo, il secondo ingresso non si può aprire
da sopra!»
In pigiama, pianerottolo, ascensore, androne. Di là dal
vetro, li vedo: sono sei, in borghese, il capo ha il documento di riconoscimento in mano. Apro.
«Dobbiamo fare una perquisizione.»
Sul momento non ho neanche la prontezza di chiedere
perché. Mentre saliamo mi riprendo: «Scusi, ma di cosa si
tratta?».
«Fastweb!»
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Io non avevo l’avvocato
Rimango senza parole, ma adesso sono completamente sveglio.
Appena entriamo in casa, scoppio in una risata isterica.
Il maresciallo mi guarda di traverso.
Tre anni fa ho subito un unico interrogatorio, da inquisito, tre ore di domande e risposte senza storia, nessuna sensazione di pericolo reale, più che altro fastidio per la scarsa competenza che avvertivo. Da allora non ho più saputo
niente di quell’inchiesta, nonostante abbia chiesto periodicamente aggiornamenti all’avvocato della società. E adesso salta di nuovo fuori... Fastweb!
L’ultimo dei miei pensieri.
Il drappello si dispone tra l’ingresso e il salotto, e tutti
iniziano a guardarsi attorno. Io rientro in camera da letto e
dico a Sophie di vestirsi. Poi torno fuori.
«Maresciallo, mi può spiegare meglio?»
«C’è un mandato di cattura nei suoi confronti, e nei confronti di altre persone» spara.
Una mazzata in pieno stomaco. Mi trovo immediatamente proiettato in una realtà deformata e mi sento venir
meno. Di cosa stanno parlando? Cerco di capire, ma la testa mi gira a vuoto.
«Ci sono altri arrestati?»
«Sì» risponde il maresciallo, e mi consegna la mia copia
dell’ordinanza di custodia cautelare: 1700 pagine. Sbircio le
prime e vedo una lunga lista di nomi sconosciuti, fra i quali
riconosco qualche mio ex collega di Fastweb.
«Cosa devo fare?» balbetto.
«Se crede, può chiamare un avvocato.»
Solo sei ore fa, la sera del 22 febbraio, ho brindato con mia
moglie e due carissimi amici, Paolo e Giovanna, alle promettenti prospettive della mia nuova società, Kenergy. Nel
pomeriggio avevamo raggiunto un accordo che prevedeva l’acquisizione delle attività di Pirelli Ambiente per promuovere un ambizioso programma nel campo delle energie rinnovabili. Avremmo firmato il contratto nei giorni
successivi. Una serata bella e allegra. Siamo rientrati di ot-
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timo umore, stava iniziando una nuova fase della mia vita
professionale: da manager a imprenditore. I primi risultati erano positivi, i miei soci contenti. Tutto sembrava procedere per il meglio.
Poi, quel citofono.
E realizzo che io, figlio di carabiniere e carabiniere a mia
volta, nato e cresciuto nelle caserme, fra divise e alamari, non ho la più pallida idea di cosa significhi avere a che
fare con la giustizia. Chiamare l’avvocato? E chi chiamo?
Posso contattare quello che mi ha seguito quando ero indagato, ma sono le 6 del mattino, non ho il suo numero
di casa e non trovo quello del cellulare. Più tardi imparerò che quando uno sa di poter essere arrestato, quando il
carcere rientra tra le eventualità più probabili della sua
esistenza, si organizza in anticipo: ha sempre un avvocato da chiamare, ha sempre del contante da parte che non
verrà sequestrato.
Io invece brancolo nel buio. Penso e ripenso, ma non so
a chi rivolgermi. Alla fine, un’illuminazione provvidenziale. Mi viene in mente Lucio, uno che la mattina corre
con me nel parco. Ci siamo scambiati il cellulare per accordarci quando vogliamo correre insieme.
Provo a cercarlo. Risponde: tiene il telefono sempre acceso perché nel suo lavoro gli capita di ricevere telefonate
anche all’alba. Lucio comprende subito la situazione senza
fare domande inutili e si precipita da me. Alle 6.30 è a casa
mia, legge il mandato, si incupisce, mi dice: «È pesante».
Intanto gli agenti perquisiscono ogni stanza, palmo a palmo. Io e mia moglie chiediamo di fare piano per evitare che
i bambini sentano, ma inutilmente: i miei figli si svegliano
per il trambusto e si spaventano. Li confortiamo come possiamo, vengono da me, mi danno il bacio del mattino. «Preparatevi per la scuola, state tranquilli, non preoccupatevi.»
In fondo non sto mentendo, non ho ancora capito in che
razza di guaio mi trovo.
Lucio mi informa che il mandato di arresto prevede cinque giorni di isolamento giudiziario: non potrò vedere nessuno, neanche lui. Altra mazzata.
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Io non avevo l’avvocato
Mentre gli agenti aprono e chiudono i cassetti della mia
vita, imperturbabili, formali, sbrigativi, cerco di riordinare
le idee. Mi ricordo all’improvviso che devo avvisare i miei
genitori. Chiedo al maresciallo di poterli chiamare davanti a lui.
Quando parlo con mio padre, mi trema la voce. Lui ha
un colpo al cuore, ma dissimula, mi rassicura, dice che verrà a Milano in mattinata. Ci salutiamo. È un generale dei
carabinieri in pensione: quando ho fatto il servizio di leva,
ovviamente nell’Arma, mi ha voluto mettere lui gli alamari. Come dicono i carabinieri, gli alamari si mettono sulla pelle, non sulla divisa. E dovergli dire: «Guarda, papà,
che mi stanno arrestando, ma è un errore, tutto si chiarirà
presto» è una cosa priva di senso. La vivi e non ti sembra
possibile. E mentre parlo con lui, penso a tutti i marescialli e agli appuntati che lavoravano con papà di cui ero stato e sono amico: quello che mi aveva insegnato a guidare,
quello che mi aveva accompagnato a scuola qualche mattina, quelli con cui avevo giocato a pallone e tutti gli altri.
E intanto guardo i finanzieri che sono venuti ad arrestarmi.
Inizia una lunghissima trafila di verbalizzazioni, firme,
passaggi formali, un lavoro lento e complesso che non riesco
a capire. Probabilmente la squadra che si occupa di me fa
parte di un gruppo che sta eseguendo in contemporanea
altri arresti: sento, infatti, gli agenti in borghese parlare al
telefono con i colleghi, scambiarsi informazioni.
Frugano ovunque, cercano droga, armi, che naturalmente
non trovano, e sequestrano tutti gli oggetti di valore. Tutti,
comprese le catenine d’oro dei bambini, quelle su cui sono
incise le dediche: «Dai nonni per Giorgio», «Dai nonni per
Louise». Capirò solo più tardi cosa significhi «sequestro
preventivo per equivalente»: lo Stato, per difendere i suoi
potenziali diritti futuri, si prende i tuoi beni oggi, anche se
non provenienti dai reati contestati. Poi si vedrà. E soprattutto si vedrà come farai tu a mantenere la famiglia, a pagare gli avvocati, a esercitare il tuo diritto di difesa in una
situazione di equilibrio con l’accusa, come prevede l’articolo 111 della nostra Costituzione («Ogni processo si svol-
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ge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità,
davanti a giudice terzo e imparziale»).
Poco alla volta mi riprendo dallo stordimento e mi pongo il problema del bagaglio per il carcere. Chiedo consiglio alle due donne maresciallo del drappello. Mi rispondono di portarmi una tuta e un accappatoio per la doccia.
Niente che abbia valore, ammesso che non me lo abbiano
già sequestrato. Non l’orologio che ho al polso, al massimo uno Swatch.
Ho riacquistato un po’ di lucidità, ma più razionalizzo
più mi sento risucchiato in un gorgo. Mi monta dentro una
rabbia impotente. Sono frustrato, mortificato e furioso, mi
sento violato nei miei diritti fondamentali di cittadino: la
libertà e la famiglia. Sono uscito da Fastweb da più di tre
anni, non lavoro più nelle telecomunicazioni, mi occupo di
tutt’altro, sono stato interrogato una sola volta tre anni fa,
ho spiegato, sgolandomi, che non ne sapevo niente, che non
potevo sapere niente della vicenda in cui venivo chiamato in causa, che non ne avevo la più pallida idea... Allora
perché mi arrestano? Degli altri citati nel mandato conosco
solo i miei ex colleghi, con cui non comunico dai tempi di
Fastweb. Come si spiega allora questa accusa di associazione
a delinquere transnazionale? Io associato di chi, e perché?
Eppure non sono arrabbiato con quei sei agenti. Non li
sento estranei, anzi, sono persone come me, dalla mia parte, mi verrebbe da dire loro: «Bravi, prendeteli questi mascalzoni». Solo che, secondo i documenti che li hanno portati fino a me, tra i mascalzoni ci sono anch’io.
È una situazione surreale: mi stanno arrestando, sono furioso, ma contemporaneamente mi sento solidale con loro.
Sono stato io stesso un carabiniere, ho conosciuto quel tipo
di organizzazione, ne capisco tutti i problemi, le difficoltà
nello svolgimento del lavoro quotidiano, in cui rientrano
il blitz a casa mia, la perquisizione, il mandato. Immagino
il disagio del maresciallo, totalmente estraneo all’indagine, nell’eseguire un provvedimento senza neanche avere
un’idea precisa della persona indagata. So che sono i mec-
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canismi demenziali della pubblica amministrazione a far
lavorare male le forze di polizia, prescrivendo montagne di
passaggi burocratici totalmente inutili. Una perquisizione
in una casa solitamente richiede otto ore, perché si devono scrivere cinque verbali distinti che nessuno leggerà mai:
verbale d’arresto, di perquisizione, di contestazione e altri
due che nemmeno ricordo.
Guardo mia moglie Sophie, pallida, più arrabbiata che
angosciata: ci stanno sequestrando tutto, anche le sue cose.
E questo solo perché, come scopriremo poi, l’autorità giudiziaria ha ritenuto che, pur essendo noi in regime di separazione di beni, tutto ciò che lei possiede, dato che non lavora più, sia frutto della mia attività illecita. Tutto, compresa
una casa comprata nel 2000 – benché i reati attribuitimi comincino nel 2003 – perché «il possesso di tali beni non risulta giustificato da fonti di reddito note e lecite da parte
dei prevenuti». Falso. Sarei in grado di dimostrare euro per
euro con le mie dichiarazioni dei redditi e le tasse pagate
da dove provengono i beni che mi stanno sequestrando.
I minuti passano. Mentre aspetto, parlo con Lucio, voglio
capire perché mi stanno arrestando. Leggo attentamente il
mandato, ma non c’è scritto nulla che possa dare una risposta alle mie domande. Mi faccio portare il Codice di procedura penale: qualche esame di diritto all’università l’ho
dato, e so che a ogni persona in stato d’arresto dovrebbero
essere comunicate le motivazioni. E invece in questo monumentale documento di 1700 pagine, nella parte dedicata
alla contestazione dei reati – due pagine e mezza per cinquantasei persone –, le ragioni dell’arresto di Mario Rossetti non sono specificate, si dice genericamente che «tutti
gli indagati sono parte di una stabile organizzazione delittuosa all’interno della quale si è strutturata l’associazione
criminale che ha realizzato la penetrazione nel territorio italiano di una gravissima forma di sodalizio criminale con
stretti legami con i clan della ’ndrangheta dediti all’uso di
violenza anche verso gli associati».
Ma su di me niente, nemmeno una parola. Si elencano i
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precedenti dei miei coimputati, i loro certificati penali e i
carichi pendenti, ma io sono incensurato. Una procedura
del tutto irregolare, una delle tante che scoprirò e che subirò sulla mia pelle. Come per esempio il fatto che quell’ordinanza, comprensiva dell’elenco di tutti i beni sequestrati, andrà a finire in versione integrale su Internet, in barba
a qualsiasi normativa sulla privacy a cui io, in quanto imputato, sembra non abbia più diritto.
C’è un «codice di procedura penale materiale» che col codice scritto non ha nulla a che vedere, ma questo lo capirò
solo più tardi. Lo smarrimento, l’assoluta vertigine umana,
esistenziale e logica che ti prendono in un caso del genere – nella consapevolezza di essere innocenti – sono legati
al fatto che, messo di fronte a un’accusa specifica, tu sei in
grado di difenderti, o pensi di poterlo fare. Sei in grado di
dire che quel giorno non c’eri, che non ne sai nulla, e questo
ti rende forte, ti dà speranza, ti rincuora. Ma quando non
riesci a capire perché stai andando in carcere, se non per il
fatto di essere associato nell’accusa a gente che neanche conosci, pensi che non potrai mai difenderti, ti guardi attorno e non trovi altri appigli se non smentire inutilmente ciò
che ti viene contestato.
Lucio sta brancolando come me. Qual è il punto, qual è
la prova? Non posso reiterare il reato, ammesso che reato
ci sia, perché sono fuori sia da Fastweb sia dal campo delle telecomunicazioni. Mi state sequestrando tutto, quindi
dove scappo, come scappo? E poi, se avessi voluto sarei già
fuggito dopo il primo interrogatorio di tre anni fa. Quanto
alle prove, cosa inquino, quali prove cancello, se sono ormai fuori dalla società che avrebbe commesso gli illeciti?
Queste domande diventeranno i tarli che mi perseguiteranno fino all’assoluzione. Sono sempre stato una persona
dotata di logica, per la quale uno più uno fa due, qui invece uno più uno fa sette. Come mi difendo? Alla fine la domanda – ma cosa volete da me? – rimarrà senza risposta.
Neanche l’assoluzione è stata una risposta: semplicemente un collegio formato da tre persone di buon senso
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non ha potuto fare altro che constatare la mia estraneità
ai fatti. I giudici hanno rimarcato come il mio nome non
sia mai stato fatto neanche una volta nelle migliaia di ore
di intercettazioni telefoniche, mentre il pubblico ministero ha insistito con la sua tesi chiedendo alla fine del processo una condanna a sette anni di carcere senza che sia
mai stato detto da nessuno, in ben 147 udienze, quale sarebbe stato il beneficio che avrei tratto dall’essermi associato ai delinquenti.
Lo shock dell’arresto, il trauma di uscire di casa da prigioniero... non mi rendo neanche conto di quello che sta accadendo. Ciò di cui sono consapevole, però, è che sto andando
incontro a cinque giorni di buio, di isolamento giudiziario.
E da buon maratoneta so che per coprire 42 chilometri non
devi pensarli tutti insieme, altrimenti non arrivi in fondo,
devi pensare a un solo chilometro per volta, e uno dopo
l’altro li farai tutti. E così mi concentro solo su quei cinque
giorni, su come farli passare in fretta, per poi rivedere Lucio che certamente, a quel punto, potrà darmi spiegazioni,
perché avrà trovato sicuramente il tempo di leggere le 1700
pagine dell’ordinanza. E tutto si chiarirà presto.
Dieci ore dopo, verso le 15, esco di casa in stato di arresto, lasciando mia moglie con tre bambini di dieci, nove e
due anni, senza un soldo. Non so ancora che per quasi tre
anni dovremo vivere grazie all’aiuto di parenti e amici.
Senza un soldo. Contanti requisiti, bancomat, conti correnti e carte di credito bloccati. Niente. Dobbiamo arrangiarci. Per ragioni di «giustizia». Mia moglie inquadra ben
presto la situazione e inizia a organizzarsi per sopravvivere: chiama al telefono gli amici più cari, le persone che mi
conoscono, e chiede aiuto. E l’aiuto arriverà in giornata.
Salgo sulla mia automobile, già sequestrata, mi metto al
volante e la guido fino alla caserma delle Fiamme Gialle,
quella dietro il Palazzo della Regione; al mio fianco c’è un
agente che preferisce non guidare una macchina con il cambio automatico. Dopo venticinque anni vissuti in caserma
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dalla parte dei buoni, entro in una caserma come un delinquente che deve dimostrare la sua innocenza.
E mi ci fanno sentire, un po’ delinquente. Soprattutto nella seconda caserma – nella prima avevo firmato solo scartoffie – quando mi prendono le impronte digitali. In precedenza mi era capitato solo negli Stati Uniti, all’Immigration
Services, ma lì usano lo scanner, non certo l’inchiostro che
ti sporca le mani e non sai dove pulirti. Il finanziere che se
ne occupa è incazzato nero con i colleghi perché la faccenda dei nostri arresti, quel pomeriggio, gli sta facendo fare
tardi e deve andare a prendere la figlia a scuola. Incazzato
anche con me. Capirai.
Finalmente si parte per San Vittore. Sono le 18.30 – l’incubo è cominciato da tredici ore e mezzo – quando, una volta ammanettato – è la prassi, prima di entrare in carcere –,
il cancello carraio blindato si spalanca per farci entrare. Le
manette. Un’altra sensazione terribile, che non si cancellerà più: sembrano uguali a quelle viste tante volte in tv, ma
quando si trovano sui tuoi polsi sono un morso freddo.
Mentre aspettiamo di poter salire in accettazione, nell’auto
dei finanzieri sento Radio24 che racconta la storia della
grande operazione antiriciclaggio e anche del mio arresto.
«Maresciallo, è una bufala di dimensioni colossali» sbotto. Non replicano, è l’abitudine all’impassibilità ma anche il fatto di non saperne molto degli atti che si stanno
eseguendo.
Un mio ex collega nel frattempo esce dall’ufficio matricola, un sacco grigio della spazzatura fra le mani, e immagino che mentre lo arrestavano non avrà fatto in tempo a
prendere un borsone. Più tardi scoprirò che il sacco della
spazzatura è l’unico tipo di borsone ammesso in carcere.
L’ufficio matricola è il primo impatto con la realtà della prigione. I finanzieri scompaiono, e da questo momento
avrò a che fare con la polizia penitenziaria. Imparo subito
che esiste un altro tipo di perquisizione (quella del mattino
è stata solo un assaggio): la perquisizione corporale. Breve,
ma più umiliante dell’altra. Ti fanno spogliare nudo e con-
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trollano che tu non nasconda su di te o dentro di te armi,
droga o quant’altro. Scopro subito che ho di fronte uno Stato che smentisce se stesso, perché gli agenti che mi perquisiscono sanno che gli arresti dovrebbero essere eseguiti tenendo conto del profilo psicologico, sociale e umano degli
accusati, ma in realtà questo non avviene. Si procede per
automatismi, si fa quel che si può, e quel che si può è pochissimo e tutto sbagliato.
Venti minuti per l’accettazione, perquisizione corporale compresa, e per la prima volta entro in una cella da carcerato, la cella di transito, sotto l’ufficio matricola di San
Vittore. Come tutte le terre di nessuno, è un posto lurido.
L’ora della cena ormai è passata, quindi mi danno un sacchetto contenente una mela, un pezzo di pane e un formaggino. E io mangio.
In questa cella passa chiunque venga arrestato, senza distinzione. Quando entro, trovo uno zingaro e un altro paio di
personaggi, ma nessuno scambia con me nemmeno mezza
parola. Anch’io, come loro, ho il mio sacco di plastica grigia
– quello dell’immondizia – che ho ricevuto all’ufficio matricola, con i miei effetti personali. Lo stringo in mano, è il
mio legame con quello che ero prima: la tuta viene da casa,
come l’accappatoio, le poche cose che mi serviranno subito.
Finalmente mi portano nel corpo centrale del carcere attraverso un camminamento sotterraneo. Sbuco in questa
piazza dell’infamia, da cui partono tutti i raggi, questo fulcro del microcosmo-carcere, dove succede di tutto, tutto
quello che può succedere in un penitenziario.
Mi parcheggiano in attesa di destinazione finale in uno
di questi corridoi, col mio sacco in mano. Scoprirò poi di essere destinato al sesto raggio, che è la vergogna di San Vittore, il raggio del disonore, l’unico non ristrutturato, quello che non viene mostrato nelle visite politico-istituzionali,
talmente è ridotto male.
Mi chiedono se sono drogato. «No!» protesto indignato.
In seguito capirò che dichiararsi tossicodipendente conviene, si viene trattati e assistiti molto meglio anche grazie
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al Sert (Servizi per le tossicodipendenze del Sistema sanitario nazionale).
Inoltre, i tossici in carcere vengono riempiti di tranquillanti, li rincoglioniscono con la cosiddetta «terapia» per tenerli buoni e non avere problemi.
Quando li informo che soffro di claustrofobia, mi guardano come se fossi scemo, come uno che nel deserto si dichiari allergico alla sabbia. In realtà, per me sarà una delle tante pene non scritte. Un claustrofobo in carcere soffre
dieci volte più degli altri perché scatta una paura irrazionale
ma concreta, che prende la testa, fa mancare il respiro e soffrire come ferro nella carne viva. L’unica difesa è chiudere
gli occhi, respirare a fondo per calmarsi e provare a estraniarsi focalizzando immagini positive che rompano la fobia del momento
Alle 10 di sera varco la soglia della cella 326 del sesto
raggio. Il cancello si chiude alle mie spalle. La chiave gira.
Sono un carcerato.
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