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Ela Caldirola Mastai
ESATTARMENTE
IL GIRO DEL MONDO
IN 80 CACHEMIRE
INTRODUZIONE
C’era una volta un baule
Alcune storie quando iniziano non sembrano finire mai.
Come echi gentili, tra rocce, picchi, alberi e ruscelli, si rincorrono nel tempo, riavvolgendosi nella magia del vento.
Fino a tornare a rivivere: boomerang di respiri fedeli, inafferabili e pronti a inseguirsi ancora e ancora, nel loro nuovo
tempo, nella loro aria densa di glicine e vaniglia e così invisibile. Ma altrettanto vera, reale. Per sempre indimenticabile.
Così è lei la storia di mia nonna Feoh. Una donna dall’allure
leggendaria, baciata fin dalla nascita dal fortunato nome di
una antica runa celtica, di cui avevo solo un vago ricordo.
Lontano, deliziosamente bucolico e fatato. Ogni tanto lo rivivevo in sogni bellissimi e ricorrenti dove vedevo tra le dita
dei mie piccoli piedi nudi un non-ti-scordar-di-me, tante
margherite, fili d’erba e spighette verdi morbide più del velluto. Oggi quei sogni hanno bussato alla mia porta. Ecco
com’è andata. Perché, a volte, certe fantasie di famiglia, così
vive da sempre, come un film, si proiettano nella vita reale,
diventando, a sorpresa, una storia speciale. Unica e magica,
come un frammento di vita dall’inizio improbabile. Del tutto sorprendente. E anche un filino stressante.
Quella fresca mattina d’aprile, infatti, non ebbi quasi il tempo di aprire la porta, mettermi alcuni vestiti in ordine sparso, infilare in borsa il microbo di gatto (trovato/ripescato/
salvato la sera prima nella pattumiera del sottoscala) che,
dalla mia casa di Parigi in rue deu Bach, mi ritrovai alle otto
meno un quarto del mattino su un treno diretto prima a Milano e poi verso altre campagne italiane in luoghi a me sconosciuti. A rapirmi dall’oblio della sera prima, a riportarmi
alla realtà del ferale mal di testa che mi ero piacevolmente
inflitta la sera prima con svariate coppe di champagne, era
l’anonimo ometto che mi dondolava davanti ai lievi sobbalzi
del vagone. Si chiamava Pier, era arrivato fino a Parigi dall’Italia proprio per cercare me. E, dopo un mese di tentativi a
vuoto, questa volta, in una sortita notturna, mi aveva trovato a casa. Gli avevo aperto la porta, cosa che non faccio mai
con gli sconosciuti, ma sembrava così per bene, ben fornito di referenze e motivazioni… Comunque mi aveva prima
commossa e poi convinta a seguirlo. E ora ondeggiava lieve
qua e là nella comoda carrozza del Tgv. Seduto di fronte,
mi fissava e sorrideva, felice di aver compiuto la sua missione di “stanatore dell’erede misteriosa”. Dietro le lenti scure,
ricambiavo di nascosto il suo sguardo inquisitore. Intanto
pensavo, tra me e me, che questo viaggio potevo comunque evitarmelo. Perché non poter ritornare sui miei passi: E
quindi, ecco che stavo già studiando il piano di fuga. Piano
A: mi alzo e mi smaterializzo. Dico che vado alla toilette e
ciao, bay bay Pier, addio x sempre!!! No. Non funzionerebbe: avendo visto il mio sguardo furbetto, Pier sembrava già
deciso a seguirmi e a fare la guardia proprio lì davanti alla
porta. Il potano di fuga A aveva un retroscena troppo imbarazzante. Per seminare Pier, l’unica via d’uscita sarebbe
stato il finestrino. Ma io non ho né il fisico, né la stoffa dello stunt-man. Tantomeno il fegato di uno 007… E, mentre
passavo in carrellata tutte le ipotesi del piano di Fuga B, mi
ricordai che la prossima fermata era quella di Lione. Tutti la
conoscono perché è particolarmente bastarda. Ossia hai 3,
dico 3 minuti, calcolati al secondo, per scendere dal treno
con armi e bagagli. Quindi, per me era perfetto: una volta
guadagnata l’uscita, potevo andar per vigne e poi rintanarmi in qualche castello della Borgogna a fare degustazioni di
vini superbi. Niente male, il piano di fuga C era quasi perfetto. Meglio avere anche un piano di fuga D, vediamo… Forse
si addormenta e ce la faccio a svignarmela. Evviva! Ideona.
Lo tengo per buono, intanto… Ecco il piano E: potevo alzarmi e dargli, del tutto “involontariamente”, una botta in testa
causata da una mia imciampata sbilenca da deragliamento… Forse forse forse, stordendolo potevo farcela. NO!
Pier era a prova di imprevisto.
Sembrava avere occhi ovunque. Ovunque tranne che per
incrociare i miei che evitava con cura, quasi avesse presagito il piano F, ovvero il mio sguardo assassino in grado di
scalare la maschile consapevolezza celeste. E capace di fare
di me la donna dallo sguardo che uccide!Quindi adesso lo
sguardo fisso e intenso, dall’assoluta certezza di poterlo far
secco con una sola occhiata… non poteva funzionare. Nè
almeno paralizzarlo per pochi secondi o per quei 3 minuti
necessari per scendere dal treno…. Però arrendermi non è
da me. Provo a battere le palebre come Minnie… Niente.
Lui, Pier, è sempre lì… Anzi. Ben lungi dall’averlo ucciso
con la mia prima occhiata assassina, adesso ha capito che
lo guardo e inizia a protendersi verso di me, sembra voler
parlare, continuare il terzo grado iniziato quando, meno di
un’ora prima, si era seduto in taxi al mio fianco. «Garrrrre de Lyon…» aveva detto al tassista indiano senza mollare
la presa al mio braccio, poi accovacciandosi di traverso sul
sedile disse «Madame, dolente perrrrr la mia rrrrrepentina
quanto inaspettata visita. Come le discevo, abbiamo poco,
pochissimissimo tempo perrrr rrrrrecarsci in Italia, nella tenuta che lei ha errrreditato da sua nonna Feroh. Perrrr una
serrrie di cavilli legali, se lei non firrrrma entrrro la mezzotte di domani, perrrrrrderà tutto. Sì. Uì. Tutto quì». Oddio,
che stress. Quell’ometto era davvero il mio salvatore? Mentre parlava, per effetto dell’accento le numerose esse trascinavano le labbra in piccoli sorrisi dolci. Ok, avevo esagerato,
non meritava una botta in testa e nemmeno lo stordimento
(seppur istantaneo e indolore). Pier iniziava a essermi simpatico. In fondo il suo senso del dovere era quasi peggio del
mio: rintanato nel suo panciotto di lana cotta in pieno giugno, sembrava davvero preoccupatissimo. Nell’ansia quasi
incontenibile, implacabile malgrado avesse raggiunto il suo
scopo (non solo ero sul treno, ma sapeva anche lui che solo
una lucertola sarebbe riuscita a evadere dal finestrino della
toilette), come nell’aspetto, mi ricordava il bianconiglio di
Alice nel paese delle meraviglie, gli mancava solo l’orologio
da taschino…Forse, visto che l’avevo seguito su quel treno
scappando letteralmente da casa, valeva la pena che lo ascoltassi. Quindi lasciai scivolare un po’ gli occhiali dal naso e
continuai a guardarlo, cosa facile perché tanto era quello
che stavo già facendo. «Sì, sì, carrrissima Madame», disse
cercando di spiegarsi meglio, «Una volta arrivati a Milano,
verrrso le sedisci, si va verso Brescia e poi dentrooo verso il
verrrde dei campi. Là c’è una tenuta. È antica, di famiglia…
scerrrto che sce ne ho messo per rrrrrintrascciarla…Appena in tempo. Sce corrrrriamo. E già qui ci pensa il trrreno a
farrrlo … Sì.… sì sce la fascciamo. Sì, eh eh, già….Altrrrrri-
menti tutto perrrrrrdiamo».
Uhhhhhh…. Come la mette giù dura - pensai tra me e me.
Lui mica sapeva niente di me. Meglio: come il resto del mondo non era al corrente che il dolce far niente stava a me come
l’alta magia stava a Houdini. Comunque, siccome esiste la
provvidenza e io sono un’abituè dei colpi di fortuna last minute, adesso era del tutto ignaro che, a Parigi, era meglio se
non mi facevo vedere per un po’. Insomma, mi aveva beccato
in casa proprio quando ci avevo messo piede per una notte,
giusto il tempo per dare una controllatina che tutto fosse ok,
che la cantina-frigo funzionasse bene e avesse mantenuto
lo champagne alla giusta temperatura, allestire un bagaglio
a mano e filarmela. Avevo bisogno di cambiare aria per un
po’ perché ne avevo combinata una davvero grossa. In realtà
la colpa non era mia al 100%, sta di fatto che il mio telefono
sembrava il centralino della casa bianca… Prendermi una
tregua e stare lontana dalla circolazione per un po’: erano
solo questi gli unici escamotage per impedire che il mio segreto venisse scoperto. Ossia non avevo molta arte, ma sapevo recitare divinamente la parte. Quindi mi ero inventata
un lavoro tutto mio. Assolutamente inutile, all’insegna del
nulla assoluto d’alta classe. Ossia facevo la “tat-totum”, un
modo carino per fare la governante a tempo determinato,
ma senza farmi carico di tutte le responsabilità che un simile ruolo implica. Arrivavo in ville, case, tenute, ficcavo il
naso un po’ dappertutto e poi le riorganizzavo dalla soffitta
alla cantina, ripescando qua e là il bagaglio di conoscenze
raccolte frequentando università, conservatori, corsi di tutti
i tipi, diversi istituti professionali, stage, scuole alberghiere, gruppi serali, lezioni organizzate da comuni, vivai, sva-
riate associazioni e chi più ne ha più ne metta. Insomma,
non avendo le idee chiare sul “cosa fare da grande”, alla fine
scoprii che funzionava sul serio (e strapiaceva) il mio cocktail ottenuto mixando le mie cellule grigie con un po’ di
giardinaggio, arredamento, feng shui, cucina, cosmesi, alta
gastronomia, addestramento cani “difficili”, gatti dispettosi,
pappapallini inappetenti e ragazzini pestiferi. L’idea mi era
venuta da una lotteria in un paesino nei pressi di Londra: il
primo premio prevedeva, oltre a un cospicuo gruzzoletto,
la “remise en forme” dell’abitazione del fortunato vincitore.
Pensai che molte persone, quando mettono su casa, spesso
non sanno scegliere da sole o si pentono di quello che hanno
permesso di fare da architetti saccenti, arredatori meno eleganti di un rinoceronte… Una bella borsa, la sneaker giusta
e un vestito che piace si trovano al volo. Ma beccare la piastrella che vada d’accordo col lavandino e il tipo di finestra
mica tanto… E io ero andata ben oltre all’ABC dell’arredare
facile: per cambiare il look di una casa non era necessario
ribaltarla. Bastava solo qualche tocco qua e là! Un sapiente
mix di piccoli cambiamenti capaci di fare una grande differenza. E così io in pochi mesi ero diventata l’arredatrice
per interni più ricercata a Parigi! Perché, prima di me, non
c’era nessuno che aveva pensato alla razionalizzazione degli
spazi, del ménage di cani, gatti e furetti, all’ottimizzazione
della “baby routine” e del portare quasi a “impatto zero” la
maggior parte delle rogne e dei problemi che complicano la
vita di tutti.
Fare la tat-totum era il lavoro perfetto per me: potevo fare
tutto il casino che volevo a casa degli altre con lo scopo di
fare ordine,, godere di stima, gratitudine e riconoscenza, far
felici le persone (me per prima) e non dover strisciare badge
e cartellini vari per due o più volte al giorno: pessimi rituel.
Il badge è Roba da far venire l’ulcera. Cosa che non accade
quando, invece, si usa la carta di credito. Anche all’infinito!
Quindi io, oltre ad aver trovato la mia formula magica di salute, felicità e benessere, come tat-totum, ero (e sono) dotata
di super poteri: potevo far spostare la cucina da nord est a
sud ovest, spiegando ai padroni di casa che le vibrazioni del
cosmico si sarebbero sintonizzate sulla loro onda universale
della fortuna e dell’amore. Provavo un indicibile godimento
nel domare dispute tra fratellini viziati, sorelle adolescenti,
bambine dolcissime: con lo spirito di un monaco zen raccoglievo le confessioni e poi li facevo felici tirando su pareti, dividendo bagni, costruendo rifugi sugli alberi o in altre
zone top secret della casa e facendo allestire camerette fuori
di testa, con snow board al posto della boiserie, pareti autografate da David Beckham, maxi postazioni di videogiochi,
palestrine, cucinine, laboratorietti o vere e proprie oasi da
fiaba, con letti a baldacchino ben protetti dai rami del fagiolo magico (identico, ugualissimo a quello illustrato nei libri di fiabe) le cui radici invadevano anche la moquette tipo
erba inglese, tempestata di fiori veri, finti fintissimi, gnomi,
elfette e fatine svolazzanti. Un altro plus? Cambiare la disposizione delle mutande nei cassetti o comprarle tutte nuove e
colorate di verde, per esempio. Perché il verde, come colore,
contiene la vibrazione della guarigione!
Insomma. Avevo scoperto che basta poco per far felici le
persone: una tinta, un modo, un minimo cambiamento in
casa…. E chi chiamava me, solitamente, era un po’ sul disperato.
A volte si trattava di persone scemissime, solissime, disorganizzatissime, completamente prive di senso pratico o desiderose di realizzare un sogno. Infatti, un’altra mia specialità
erano i nidi vuoti dei single. Dopo il mio passaggio arrivavano al volo principi azzurri, cicogne, cenerentole innamorate. Col passaparola si era sparsa la voce che il mio mixmetodo di abbattimento di cianfrusaglie, antiche discipline
orientali, discipline new age, cromoterapia, cristalloterapia
etc etc faceva miracoli. E finora era andata così. Ma poi una
mix-(maxi)-rogna si era abbattuta nella mia vita con lo stesso impeto spumeggiante e travolgente di un’onda anomala
su un’inconsapevole e innocente spiaggetta.
Mentre il treno inseguiva imperterrito i suoi nastri di rotaie io facevo lo stesso con i miei pensieri. Mi trovavo lì per
sfuggire da una single-cliente decisamente disturbata: avrei
dovuto capire subito che era meglio mollare il colpo, ma era
un’amica di un’amica di una carissima amica e… Avevo ceduto. A vederla così, a prima vista, Claire non sembrava così
male: né bella né brutta, bastavano i vestiti giusti, un nuovo taglio e poco altro per trasformarla in un tipino interessante. Malgrado questo, in seconda battuta e dopo il primo
caffè insieme, realizzai che anche un orso in letargo avrebbe
avuto seri problemi a reggerla. Figuriamoci un uomo! La
sfida, però, mi intrigava, ingolosiva… E decisi di sentirmi
incapace di dirle di no.
Del resto, me ne sarei pentita subito.. A casa sua, infatti, fin
dal mio primo sopralluogo, accadde tutto e anche di più:
dai piccoli imprevisti ad allagamenti seriali, fino a una serie
di invasioni da parte di corvi grossi come tacchini sul tetto,
topi e scarafaggi in cantina, formiche in cucina e perfino
aghi d’argento -o come si chiamano, insomma, quei millepiedini grigi di varie età e grandezze capaci di sgusciare
dentro e fuori dappertutto e da ogni fessura o crepetta. Gli
orribili pesciolini d’argento erano ovunque: dal corridoio al
guardaroba.
Non ero abituata ad affrontare tutti questi eventi, forse naturali per i più, ma per me misteriosi, orribili, improponibili e
ferali. Alla fine, esasperata dai racconti dell’orrore di Claire,
dai molteplici e dettagliati colloqui col pool di disinfestatori,
le dissi che , forse, casa sua era stregata. Che, forse, proprio
tra le sue mura, c’era una misteriosa “porta” tra la terza e la
quarta dimensione…quindi, invece di me, avrebbe dovuto
chiamare un prete, i ghostbusters, Padre Ralph, la lega della
difesa dei poltergheist….
Io le avevo liberato dai piccioni l’attico, debellato i pesciolini
d’argento e le formiche legionarie… avevo rimesso tutto a
nuovo. E, dulcis in fundo, ora, mentre avevo tra le mani un
nuovo cliente granoso, Claire si lamentava di avere topi in
casa sua. Una infestazione tipo il sequel di ratouille a casa
sua… Ingrata del fatto che con uno dei tanti allagamenti
aveva pure cuccato un pompiere coi fiocchi, Claire aveva
pensato bene di farsi venire un coccolone coi fiocchi!. E di
dare tutta la colpa a me.
Da scafatissima rompipalle quale era mi convocò al Ritz,
dove aveva deciso di sistemarsi come “alloggio di fortuna” e,
dal suo trolley traboccante di vestiti di ripiego, liberò un ratto obeso, mezzo asfissiato e terrorizzato. Guadagnandosi la
libertà tra piedi a tarantella , il povero roditore guadagnò la
fuga ticchiettando con le unghiette fino alla porta girevole.
E lasciandomi lì con la pazza Claire che aveva pensato bene
di fingere uno svenimento teatrale a favore dei suoi nervi e
un reale guaio per i miei. In pochi pèarole, mi aveva scatenato contro migliori avvocati della città. E poi aprì perfino
un blog per spettegolare alla grande alle mie spalle. E ancora, le sue mail e telefonate livide e notifiche su Facebook
ebbero l’effetto dei richiami dei corni della caccia alla volpe.
E la volpe ero io.
Ma, invece di trovare rifugio in un tronco cavo, eri riuscita
a ingannare lei e il suo esercito di vendicatori solitari. E mi
ero infilata in quel treno con Pier.
Ero in salvo. Dopo aver rivisto le ultime ore come in un
flash, mi resi conto che Pier parlava, parlava e parlava ancora ancora, bello beato e dei possedimenti di mia nonna
Feoh, tutto felice e soddisfatto. Seduto davanti a me, convinto che lo stessi ascoltando, si sentiva baciato dalla fortuna per avermi beccata in casa nel suo disperato tentativo
dell’ultimo momento.
Sapevo che era sempre meglio dire la verità, casomai mi fossi mai ritrovata nella vita nei guai! Già, ecco: i miei riflessi erano “leggermente” compromessi dai bagordi di ripiego
della sera prima. Ecco dovevo in qualche modo concedermi
un break per trovare il modo di ridarmi smalto. onore e dignità.
Insomma, l’idea di salire in treno con solo quello che avevo
addosso, i documenti e un micro gatto nella borsa. Il tutto
per assecondare la folle corsa contro il tempo proposta in
- minuti tre- da uno sconosciuto per andare incontro a un
destino misterioso…. Ecco sì: mi era sembrata la scelta più
ok che potessi fare in quel momento. Sì. Vado. Avevo deciso.
Sì, l’avevo proprio deciso con quel barlume di buon senso rimasto libero dallo stress piccionesco, topesco, scarafaggesco
e Clairesco...
«Discevo, madame… Una volta lì, dovrrrrrà necserrarrriamente….», Pierr, il mio nobile valletto salvatore tres-chic
proseguiva la scaletta degli impegni che mi attendeva.
E io mi godevo la sua cantilena, che avrebbe fatto la gioia
della mia povera insegnante di francese, e quel bel paesaggio che faceva, invece, la mia di gioia. E poi, che bello, Pierr
il mio nobile salvatore tres-chic iniziava a parlare di vagone ristorante. E non è tutto: mentre passavo sottobanco al
babyfelino babyporzioni di entrecote (senza salsa bernese,
però….) la vita improvvisamente mi sorrise al pensiero che,
con la mia fuga, mi sarei risparmiata di dover spiegare al
mondo il perché e il per come di quanto successo. Mi convinsi che poi non era da me affrontare, né tantomeno risolvere, certi problemi riguardanti discariche abusive e non
attici di lusso.
Mentre mi godevo il pranzo, capii che, tra le piccole realtà
miracolose di ogni giorno, oltre a nuove paia di mutande
colorate, ci sono anche i carboidrati: illuminata dalle patatine fritte, trovai infatti la soluzione al mio problema: avevo di
fronte a me Pier, forse proprio lui mi era stato mandato dal
mio o adorato “cosmico” a risolvere i miei guai… o come li
avrebbe chiamati lui stesso “fasccende avverse”!
Quindi, ecco procedere tutto bene e alla grande quello che
era iniziato male. E che sembrava destinato a finire malissimo.
Il passaggio nella mia vita dell’uragano-Claire (ci sarà un
bel perché diano sempre a tifoni & Co nomi femminili) aveva comunque lasciato il segno. Perché, nell’apparente disinvoltura, sfoggiavo un aspetto orribile: tralasciando gli abiti,
i miei capelli parevano peli XXL di levriero afgano con in
posa tanto di lozione lisciante e antipulci… Bene! Solo chi
era sul treno poteva godersi lo spettacolo. Non certo il nutrito plotone del Clair fans club.
Ero libera. Finalmente libera.
Cambi di treni, corse in macchina, su e giù per ascensori,
scale, uffici. Tra scartoffie, pratiche notarili e biglietti, Pier
aveva organizzato tutto al secondo. E in meno di 24 ore aveva fatto di me una ex parigina latitante, ormai considerata
da tutti vittima di un rapimento alieno, a una specie di Rossella O’Hara del tricolore. Insomma, avevo ereditato - e in
men che non si dica- terreni e una tenuta di nome Ur-Daeg.
E avevo trovato anche un amico degno di fiducia. Pier, infatti, non abitava molto distante e si offrì di condurmi a vedere il podere. «Sci siamo», disse quando frenò davanti a un
cancello quasi nascosto dall’erba. «Madame, sto qui, aspetto
e dopo descidiamo dove riposare». Scavalcai il cancello e
sotto l’erba alta riconobbi un sentiero dimenticato e quelle piccole spighe verdi più morbide del velluto accarezzate
qua e là da piccoli tocchi di petali celesti dei miei ricordi di
bambina. Camminai verso il casolare, completamente disabitato e in pessime condizioni. Pensai subito a quanto potes-
se valere, ma più mi avvicinavo più si allontanava l’idea di
riuscire a venderla in tempi rapidi. Muri scrostati, finestre
divelte, vetri rotti ed evidenti segni di bivacco. Quanti anni
saranno passati, mi domandai. Una trentina tutti, anche di
più. Ero rimasta orfana da così tanti anni e nessun parente
in fondo non mai mi aveva cercato. Pier aveva allungato il
guinzaglio, ma aspettava paziente senza perdermi d’occhio,
quindi decisi di approfittarne per intrufolarmi in quella che
sembrava una stanza diversa da tutte. La porta era dipinta
di viola. Sopra c’erano raffigurati un letto, un baule, un tavolino da toletta con lunghi pennelli e quello che sembrava
un cavalletto con sopra quadri e sotto una scultura semiabbozzata.. Qua e là cartoline spedite chissà dove e da mezzo
mondo incollate o fissate con chiodini o puntine mezze arrugginite. Sfidando la polvere, aprii quella porta così strana
e nella stanza trovai… No. La richiusi e riaprii. Era troppo.
Tutto era troppo…. La sveglia, il viaggio, i notai, Pier, il treno… La stanza era identica a quella raffigurata sulla porta.
Entrai e vidi esattamente un letto, un baule, un tavolino da
toletta con lunghi pennelli e quello che sembrava un cavalletto con sopra un Picasso, un ritratto e un bronzo di…. Alciati. Oddio. Sembravano autentici, lasciato lì per caso o
nella convinzione si trattasse di una vecchia crosta. Solo il
baule era un po’ diverso. Sulla porta pareva piccolo. In realtà
era un signor baule. Di quelli, pensai, che usavano una volta
i signori, così grandi da diventare veri e propri armadi da
viaggio. Con tanto di sportelli, cassettini, scomparti segreti. La scoperta si faceva sempre più interessante. Ma di chi
era quel baule? La stanza era essenziale ma rivelava un’allure squisitamente femminile. Vidi su un lato una targhetta
dorata con una grossa Effe dai caratteri doppi e svolazzanti.
Sembravano le piume di una fenice pronte a prendere fuoco.
Quel baule era di nonna Feoh. Lo aprii e in un ristante la
ritrovai nei miei ricordi di bambina. D’improvviso sentii
arrivare eserciti di lacrime e venni travolta da una nostalgia
sprofondante e gioiosa, come il pozzo che sapevo essere là
fuori, da qualche parte.
Piansi lacrime strane e confuse mentre continuavo a frugare nel baule, ma smisi quando, aprendo un cassetto, vidi
pacchettini di foto e fogli divisi con cura. Legati insieme da
un pizzo o da steli d’erba ormai appassiti e pronti a smaterializzarsi al primo tocco. Sembrava un diario, lasciato lì
come per gioco e pronto a raccontare la sua storia. Pensieri,
ricordi di viaggi, incontri e amori fissati per sempre tra carte, petali essiccati e inchiostri colorati. La nonna era lì, dove
l’avevo lasciata anni e anni fa. Come aveva potuto?
Aveva potuto eccome. Come aveva potuto anni addietro
raccogliermi dal disastro che coinvolse i miei genitori, che
se n’erano andati in bellezza regalandosi un viaggio in mongolfiera per il loro decimo anniversario di nozze.
Dopo il disastro, rimasi sempre a Parigi. Fino a oggi, ignara,
ma consapevole di avere parentele e altri ricordi pi+ o meno
cvicimi e lontani.
Oddio… Pier!!!! E dove sarà finito il microbo di gatto?!!!
Ecco. Non gli avevo dato neanche un nome e già non sapevo
come recuperarlo.
Contatto telepatico?!!
Mi rimanevano solo quello e il profumo del pranzo avanzato
nella carrozza che, per fortuna, avevo furtivamente nascosto
in tasca.... E così appoggiai il cartoccio sotto il portico e inizia a chiamare disperatamente quello che per me era ormai
il “mio” Gatto, quello con la G Maiuscola.... E così urlai...
BIAGIOOOOOOOOOOO!
La vera verità
Pensavate che Clair o Bianca, l’ereditiera in fuga, Pier fossero i protagonisti di queste pagine? E no! Qui viene il bello.
Anzi, la bella. Cioè Io. Mi presento: mi chiamo Ernestine,
sono una tarma da favola. E Bianca Jr, col suo plotone di cachemire, sete e pashmine è il mio taxi-umano! cioè colei che
mi portò dal baule a Londra. L’ascensore per quel paradiso
che si chiama vita! E questa è la nostra storia.
CAPITOLO 1
Biagio Piccadilly
Già perché da quel vecchio baule non erano saltate fuori solo
foto e ricordi avvolti in nuvolette di polvere. Il vero tesoro,
lì erano modelli fantastici da realizzare con ferri, uncinetto,
telai. Capi unici, eclettici, geniali. veri e propri passe partout
del fashion capaci di creare una nuovissima tendenza. Perché il tricot iniziava ad andare di brutto. tra tutors in internet, club dedicati & Co.
La piccola Bianca jr in fuga da Parigi si era ritrovata, servita su un piatto d’argento, una nuova, magnifica prospettiva
per reinventarsi. Da “Tat totum” poteva diventare la “Totem
tricot woman”!
Quale posto migliore di Londra per lanciare una linea di
moda decisamente alternativa. Ma classicissima. Come il
tween set con doppio cappuccio e bottoncini fatti con sassi
di fiume forati di cui mi stavo gustando il polsino.
Fu così che arrivai a Londra. Un viaggio in incognito durante il quale ebbi la gioia di conoscere quello che sarebbe
diventato il mio migliore amico: Biagio. Che non era altri
che … il fatidico Microbo di gatto!
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Esattamente
Il giro del mondo in 80 cachemire
Ela del ReGuscio
Illustrazioni: illustradony
www.reguscio.it