02-A Calitri - tuttantonio.it

Cap. 2°: Permanenza a Calitri.
Il giorno 28, mio fratello ed io partimmo per Foggia con la corriera
delle sette: scesi dall’autobus, mi accompagnò a casa del massaro, dove mi lasciò, mentre lui andò a sbrigare delle faccende.
Il pomeriggio andammo alla stazione ferroviaria; nella sala d’aspetto sistemammo tutti i bagagli, aspettando il nostro treno.
Io uscii per scoprire tutto ciò che vi era nella stazione. Osservai la
grande edicola del giornalaio, il bar con tutti i tavoli ben disposti, gli orologi
sul colonnato; però quello che mi colpì di più fu il labirinto dei binari che si
intrecciavano fra di loro. Mi chiedevo come mai i treni non si scontrassero;
poi mi portai su una banchina, per osservare meglio una locomotiva che si
spostava da un binario all’altro. Mi accorsi che c’erano gli scambi che si aprivano e si chiudevano automaticamente, per deviarla da un binario all’altro.
Avevo capito quello che l’anno precedente, dal cavalcavia, mi sembrava un
mistero.
Mentre tornavo nella sala, notai un signore distinto che passeggiava e
fumava nervosamente. Dopo un po’, buttò una mezza sigaretta. Allora un
uomo che era a poca distanza corse verso la cicca e, fingendo di allacciarsi le
scarpe, la raccolse e si allontanò. Ciò mi meravigliò tanto, perché non avevo
mai visto un adulto raccogliere le cicche, caso mai qualche bambino!
Il nostro treno giunse, ma la locomotiva faceva manovre altrove. Sistemammo i nostri bagagli e prendemmo posto in un vagone. Approfittai della sosta per guardare come era fatto un treno all’interno dei vagoni.
Dopo circa un quarto d’ora, la locomotiva agganciò i vagoni e, con un
fischio acuto, il treno si mosse: un fragoroso rumore di ferraglia, specialmente agli scambi, faceva capire che si stava immettendo sul binario giusto.
Appiccicato al vetro del finestrino, vidi scorrere all’indietro la campagna pugliese. Per guardare meglio ero salito sul sedile e quando arrivò il controllore voleva multarmi; ma poi ci passò sopra e non fece niente.
Giunti alla stazione di Rocchetta Sant’Antonio, scendemmo e prendemmo una littorina che portava a Calitri, mentre il treno proseguiva per Potenza. Alla stazione ci aspettava Vardino. un parente di mia cognata, che caricò tutta la roba sul mulo.
Appena fuori del recinto della stazione, un paesaggio meraviglioso di
Calitri si presentò davanti agli occhi: tutto il paese stava come appiccicato intorno al cucuzzolo della collina.
Giungemmo al ponte sul fiume Ofanto in piena. I suoi vortici rabbiosi
si frangevano contro i piloni con un rumore sordo ed inquietante; non avevo
mai visto un fiume così grande!
Salendo per una scorciatoia rasentando dei vigneti ben tenuti, incontrammo delle contadine in bellissimi costumi locali, e mi meravigliai molto
perché erano uguali agli abiti tradizionali del mio paese. Le nostre ragazze,
però, li indossavano solo nelle sfilate che si fanno a Carnevale, mentre qui le
indossano tutti i giorni.
Più a monte spiccava, irta e maestosa, la ciminiera della fabbrica di laterizi e ceramica, mentre di lato vi era la collina di creta, scavata a picco, per
il rifornimento della fornace.
Giunti a casa di mia cognata fui accolto amorosamente da tutti i suoi
familiari; per l’occasione vennero anche altri parenti, si doveva fissare la data
delle nozze.
Quella sera in casa di “zi Cienzo”, zio Vincenzo, ci fu una grande festa;
vino a boccali ricolmi e soppressate (grosse salsicce di capocollo di maiale)
rotolavano sui tavoli come pezzi di cioccolata. Michele, il figlio di zio Vincenzo, alto un metro e 80, un giovanottone roseo in viso e sincero come un
contadino, salito su una sedia continuava a prendere ventresca e salsicce dalla
pertica infilata in due catenelle fissate al soffitto. Le donne con i grembiuli a
colori vivaci si affrettavano intorno ai tavoli facendo la spola con padelle
piene di salsicce e ventresca tutte fumanti e appetitose, unite a peperoni sotto
aceto.
Fra un brindisi e un altro fissarono il giorno delle nozze per la fine di
marzo. La serata fu chiusa quando gli uomini furono tutti brilli e soddisfatti.
Dopo qualche giorno espressi a zio Vincenzo il desiderio di fare un giretto per conoscere il paese. Egli mi disse: «Se non riesci a trovare la via del
ritorno, noi siamo molto conosciuti, basta dire appartengo alla famiglia di
“Cecca Menati Pesula”, che era la moglie, o di “zi Cienzo lu carruzziere”, nomignolo che gli era derivato dal servizio postale e trasporto passeggeri dalla stazione ferroviaria a Calitri.
Mia cognata raccomandò ad un ragazzo del vicinato di accompagnarmi,
ma io non avevo bisogno. In quei due giorni di attesa avevo girato da capo a
fondo il paese, e in un vicolo vicino al Castello avevo incontrato un vecchietto col mio stesso cognome, che diceva che in paese erano solo loro i Rinaldi.
A Calitri in casa di zio Vincenzo, circondato dall’affabilità di tutti della
famiglia, avevo ripreso fiducia nella vita e avevo giurato a me stesso di essere
bravo e di studiare per superare il più bravo della classe. Purtroppo le cose
non andarono così perché in breve tempo i ragazzi della mia classe mi presero in giro, per il mio linguaggio fonetico diverso da quello che parlavano loro, “il napoletano”; dicevano che io stonavo quando parlavo, anziché dire
San Giovanni, dicevo San Giuvenni. In un primo tempo ciò avveniva solo
dove mi incontravano, poi anche in classe.
Un giorno il maestro mi chiamò a svolgere un problema alla lavagna, e
un ragazzo mi sollecitò beffeggiandomi “forza San Giuvenni, San Giuvenni”.
Tutti gli alunni si misero a ridere, arrivai alla lavagna livido e pieno di rabbia
anche perché l’insegnante non era intervenuto. Naturalmente il problema lo
sbagliai e tornai al banco quasi piangendo. All’uscita dalla scuola si avvicinò
un ragazzo molto distinto e salutandomi disse: «Sono Lorenzo Tozzoli». Si
fece insieme la strada del ritorno; poi davanti casa sua ci separammo dandoci
l’appuntamento per l’indomani mattina.
Rientrato a casa parlai dell’incontro con zio Vincenzo che mi spiegò
che i Tozzoli erano una ricca famiglia napoletana con un grande latifondo a
Calitri e che la loro governante era la figlia Graziuccia e che tutti gli altri figli
maschi e femmine lavoravano nei loro campi. Da quel giorno con Tozzoli diventammo amici.
Un giorno giunti in piazza Municipio notammo un assembramento di
gente; per curiosità ci avvicinammo e al centro di esso notammo un signore
seduto sull’ultimo gradino di una scalinata, che continuava a dire: «Hanno
scritto sulle mura del paese: “Abbasso il Colonnello Berillo”; ebbene più basso di così dove posso sedermi?». Era il podestà.
Strada facendo, nonostante la compagnia di Bozzoli, vi era sempre
qualcuno che mi prendeva in giro. Al ritorno dalla scuola feci sapere a Tozzoli che Graziuccia, la sorella di mia cognata era la loro governante. Quel
giorno stesso mi porto in casa.
Graziuccia ci accolse benevolmente e ci offrì dei dolci; Enzo, così lo
chiamavano in casa, mi mostrò tutti i suoi giocattoli e la bicicletta. Quando il
tempo permetteva facevamo lunghe passeggiate fuori del paese e, a turno,
montavamo in bicicletta.
L’abitazione dei Tozzoli era un grande fabbricato rettangolare medievale, con pianoterra e primo piano; al piano terra vi erano le stalle e i magazzini, a Est la cucina e un grande salone poi gli uffici dello zio. Sopra, al primo
piano la residenza della famiglia e la foresteria.
A scuola rendevo poco perché col programma ero indietro, la scolaresca mi era ostile e il maestro contribuiva a ciò trascurandomi, così non riuscivo a seguire le lezioni con il dovuto profitto. Avevo fatto amicizia con
qualche ragazzo del vicinato anche se in paese non riuscivo ad avvicinare
nessuno.
Un giorno, il più terribile dei giorni, fui chiamato dal maestro a recitare
una poesia, appena incominciai, un alunno mi sollecitò “Forza San Giuvenni”
e poi un altro ancora; l’insegnante anche disse perché non continui “San
Giuvenni”: con un salto furibondo raggiunsi il mio banco presi la cartella e
scappai via.
Una volta fuori decisi di vendicarmi. Raccolsi un mucchio di sassi e mi
posi a una certa distanza dalla porta di uscita. All’orario della chiusura della
scuola come vidi aprire la porta incominciai a tirare sassi, rimasero tutti indietro fino a quando non esaurii tutte le pietre; poi mi allontanai e mi nascosi
in un portone per aspettare il passaggio di qualche alunno.
Infatti,dopo in po’ ne arrivo uno. Uscii dal mio nascondiglio gli saltai
addosso e gli feci una scaricata di pugni e calci, lasciandolo a terra piangente.
Da quel giorno per la disperazione diventai cattivo e vendicativo. Ovunque trovavo un ragazzo solo della mia classe lo assalivo con violenza e
botte da orbi. In poco tempo avevo preso il sopravvento ed ero diventato il
terrore dei miei persecutori.
Non andai più a scuola e continuai a vendicarmi contro tutti.
Tozzoli aveva minacciato il maestro di dire tutto a suo padre e farlo intervenire; allora l’insegnante preoccupato della situazione che s’era venuta a
creare, mandò a casa mia degli alunni per fare sapere della mia assenza. Mia
cognata mi richiamò e volle sapere perché non andavo più a scuola; le spiegai
tutto l’accaduto in classe e il comportamento dell’insegnante. Con questo il
signor maestro ha creduto di aver compiuto il suo dovere di educatore, anzi-
ché vergognarsi del suo comportamento. Infatti,aveva contribuito a mettere
contro di me la scolaresca, mentre il suo compito era ben diverso perché avrebbe dovuto considerare la mia situazione di ragazzo orfano venuto a trovarsi in un paese sconosciuto fra gente sconosciuta, di costumi e idioma diversi.
Era rimasto da affrontare ancora Covelli, il capo del rione; si era svegliato in me il ricordo di essere stato anche io il capo del rione “Giallechera”
del mio paese e questo mi spingeva di andare alla ricerca di Covelli per misurarmi con lui.
Un giorno si presentò l’occasione, stavo salendo la via dove lui abitava,
mi trovavo proprio davanti casa sua, perciò continuai a salire minaccioso.
Avendo lui intuito le mie intenzioni per evitarmi incominciò a retrocedere e
anziché prendere una via con l’uscita, prese la via del castello, un vicolo chiuso, lo raggiunsi e con ira furente mi scagliai contro. La lotta fu terribile; pugni, calci e graffi ci scambiavamo, non so quando durò la lotta, poi due uomini intervennero e con le loro forti braccia ci staccarono.
Eravamo tutti e due sanguinanti; “ma siete matti vi volete ammazzare”,
dicevano, “ma cosa avete da spartirvi?”. Gesú come sono ridotti, gridò una
donna che alle grida era accorsa. La donna disse che uno di noi era il figlio di
Covelli «che abita qui sotto, l’altro non lo conosco».
I due ci accompagnarono a casa Covelli tenendoci stretti e lontani l’uno
dall’altro.
In casa la madre ci lavò per bene e i segni della lotta affiorarono più nitidi sul volto, poi volle sapere dal figlio e da me perché avevamo litigato; eravamo sporchi di terra e polvere, perciò ella con pazienza ci spazzolò per bene. In casa intorno vi era una nidiata di bambini, fra sorelle e fratelli erano
undici, la più grande aveva solo quindici anni; erano tutti graziosi e belli. Il
padre lavorava alla fornace di ceramica e a mala pena poteva sfamare la fami-
glia. Su un lettino c’era Maria, una bambina di otto anni, con la febbre, aveva
un visino delicato, i capelli biondi chiari, gli occhi mobili celesti. Rimasi affascinato di fronte a quella figura di angelo. Da quel giorno andai spesso a trovarli, maggiormente per rivedere Maria.
Dopo lo scontro le cose cambiarono, tutti i ragazzi della scuola e gli altri ci videro insieme, la pace era avvenuta. Con Enzo non mancavano le passeggiate in bicicletta, in classe e fuori dominavo. Questo suscitò la grande
ammirazione di Enzo verso di me.
Un giorno io e Covelli decidemmo di andare a visitare la fornace, e per
abbreviare la lunga strada rotabile prendemmo la gradinata che scende a strapiombo sul costone. Le case viste di sotto sembravano sospese nel cielo.
Giunti sul ciglio della strada ho notai che a valle vi erano altre due rotabili;
meravigliato domandai a Covelli il significato di ciò. Egli mi spiegò che in
quella zona vi erano le frane e ogni pochi anni la strada andava giù; la prima
strada si vedeva a circa 100 metri a valle, la seconda a pochi metri più sotto.
Si vedevano anche delle case sprofondate con il tetto a livello della terza
strada.
Quando giungemmo alla fornace, il padre di Covelli, come ci vide, ci
rimproverò perché ci eravamo allontanati tanto dal paese; gli dissi che la colpa era mia perché volevo visitare la fabbrica. Allora egli chiese il permesso e
ci accompagnò, dove si prelevava la creta dalla collina poi alle vasche di impasto e poi all’interno dove erano pronti i laterizi per la cottura, il forno incandescente ed altro. Tornai a casa soddisfatto delle nuove scoperte.
Alla chiusura della scuola mia cognata per evitare il mio vagabondare
mi affidò a un suo parente che aveva una sartoria e faceva il barbiere. Ci andai volentieri, specie per la sartoria.