Presentazione mons. Timothy Verdon

Timothy Verdon*
Il Compianto sul Cristo morto del Beato Angelico
Per l’ostensione della Sacra Sindone del 2015, Il Museo di San Marco di Firenze ha
prestato al Museo Diocesano di Torino un’opera nata dalla stessa fede intensa che
caratterizza il pellegrinaggio sindonico: il Compianto su Cristo morto del Beato Angelico.
Realizzato tra la fine del quarto e l’inizio del quinto decennio del XV secolo, il dipinto
appartiene al periodo in cui la Sindone cominciò a essere conosciuta fuori della Francia, e
infatti fa vedere sotto il corpo del Salvatore un telo bianco finissimo che forse allude ad
essa. Eseguito su tavola, il Compianto era in origine una pala d’altare, e sotto questo telo
dobbiamo immaginare la tovaglia della mensa eucaristica, come sotto il corpo di Cristo
raffigurato dobbiamo immaginare l’ostia e il calice di vino: il Corpus Christi sacramentale
in cui la fede vede realmente presente il Figlio di Dio e di Maria. Celebre tra i teologi del
Sacramento fu il domenicano Tommaso d’Aquino, la cui idea viene tradotta qui in
immagine da un altro domenicano, famoso anche lui, frate Giovanni da Fiesole noto, già
nel Quattrocento, come il “pittore angelico”.
Chi era l’Angelico? Lo storico cinquecentesco Giorgio Vasari lo presenta come
modello per “gli ecclesiastici”: un religioso di “somma e straordinaria virtù”, “di
santissima vita”, “semplice uomo e santissimo ne’suoi costumi”, “umanissimo e sobrio”, il
quale “non arebbe messo mano ai pennelli, se prima non avesse fatto orazione” e “non
fece mai crocifisso che non si bagnasse le gote di lagrime”. Sempre secondo il Vasari tanto più attendibile in questo caso, quanto meno era abituato a parlare in simili termini,
che deve aver attinto dalla tradizione interna del convento del frate –, l’Angelico soleva
affermare “che chi faceva quest’arte, aveva bisogno di quiete e di vivere senza pensieri; e
che chi fa cose di Cristo, con Cristo deve stare sempre”.
Chi fa cose di Cristo, con Cristo deve stare sempre: ecco una chiave di lettura
fondamentale. L’Angelico, che faceva solo soggetti sacri – ‘cose di Cristo’ – stava sempre
con Cristo. Membro del ramo riformato del suo Ordine – la così detta ‘Osservanza’ - e
presbitero, la sua santità è stata riconosciuta dalla Chiesa, che nel 1984 lo ha dichiarato
formalmente e non solo popolarmente ‘beato’. Dipingeva ‘cose’ – eventi, persone,
soprattutto la persona Cristo – in base all’intima conoscenza di chi cerca di ‘stare sempre’
con il promesso Sposo del cuore umano, l’atteso delle nazioni, l’Agnello di Dio che è anche
il Sole di Giustizia. Per capire l’Angelico, infatti, bisogna rientrare in queste categorie, in
questo linguaggio esprimente nel contempo intimità e universalità, mitezza e grandezza.
Per dare un giusto peso ai colori solari, alla bellezza purissima, agli sguardi carichi di
brama mistica, bisogna riscoprire l’ardore e l’innocenza del contemplativo.
Nel caso del Compianto su Cristo morto, Angelico metteva la propria “innocenza” a
servizio di uomini ritenuti colpevoli di gravi crimini. L’opera fu eseguita per una
confraternita laicale, la Compagnia di Santa Maria della Croce al Tempio: specificamente
per la loro chiesa presso una delle porte urbiche di Firenze, detta Porta della Giustizia
perché al suo esterno venivano giustiziati i condannati a morte. Il pio sodalizio si dedicava
al conforto spirituale dei condannati, che i confratelli scortavano dal carcere lungo la via
cittadina conducente alla Porta della Giustizia, e poi – oltrepassata la Porta - al patibolo
allestito a qualche centinaio di metri dalle mura. Mentre camminavano ai lati del
condannato, i ‘confortatori’ tenevano davanti agli occhi del condannato piccole tavolette
dipinte con scene della Passione di Cristo, così che l’uomo che stava per morire non
vedesse la folla inferocita ma solo Gesù, pure Lui giustiziato come un comune criminale
fuori le mura della sua città.
L’unica sosta in questa via crucis era presso l’oratorio della confraternita nei pressi
della Porta della Giustizia, il cosiddetto ‘tempio’, demolito nel XIX secolo, dove il
prigioniero ascoltava la Messa. Ed ecco sull’altare dell’oratorio il dipinto dell’Angelico,
che fa vedere Gesù deposto da una croce a ‘tau’ (con la forma cioè di una forca), a qualche
centinaia di metri dalle mura di Firenze che l’artista ha raffigurato in maniera
inconfondibile sullo sfondo, con una grande porta urbica aperta: proprio quella attraverso
la quale il ‘povero Cristo’ condannato doveva passare. Come sempre poi nell’arte
angelichiana, una luce silenziosa avvolge figure ed oggetti, così che le mura raffigurate
brillano, e Firenze sembra quasi una Gerusalemme celeste; l’immagine, in effetti, aveva la
funzione non solo di confortare il condannato, invitandolo ad identificare le proprie
sofferenze con quelle di Cristo, ma anche di riconciliarlo alla comunità – alla città – che
l’aveva espulso e che stava per togliergli la vita, ma che nel dipinto viene presentata con
una bellezza trascendentale.
Tra gli ultimi dipinti del lungo periodo di maturazione ed affermazione
professionale dell’Angelico, il Compianto sul Cristo morto fu commissionato dal monaco
benedettino Don Sebastiano di Jacopo di Rosso Benintendi il 13 aprile 1436 per conto della
confraternita. La Compagnia di Santa Maria della Croce del Tempio era infatti gestita dai
benedettini, e Don Sebastiano, ex-frate domenicano monacatosi, era il nipote della santa
contemporanea raffigurata nel Compianto – la penultima figura a destra di chi guarda -,
Beata Villana delle Botti, morta nel 1361 e venerata nella chiesa domenicana fiorentina di
Santa Maria Novella. Donna sposata dalla vita dissoluta, Beata Villana s’era convertita a
Cristo sulla cui passione amava meditare, e l’Angelico la rappresenta mentre contempla il
Salvatore morto e pronuncia le parole che le escono dalla bocca: XP [IST]O YH [ES]U
LAMOR MIO CRUCIFISSO—“Cristo Gesù, l’amor mio crocifisso”.
Beata Villana fa parte del gruppo di quattordici santi che piangono il Cristo morto,
dieci donne e quattro uomini, tra cui san Domenico, in piedi a sinistra, fondatore
dell’ordine a cui apparteneva il pittore. Tra le donne l’angelico da grande importanza a
Maria, la madre di Gesù, che contempla il volto del figlio che abbraccia, e Maria
Maddalena che gli bacia i piedi insanguinati. Questi personaggi, ognuno dei quali esprime
una diversa qualità ed intensità di dolore, diventano per Angelico una sorta di laboratorio
delle emozioni, che qui ed in altre opere egli analizza con esattezza scientifica. Fra i temi
del coevo umanesimo fiorentino vi era infatti quello della struttura psicofisica della
persona, e quindi anche delle emozioni, per cui l’essere umano esprime con l’espressione
del volto e con i gesti corporei i “moti della mente”, come Leonardo da Vinci chiamerà poi
i sentimenti.
Le implicazioni per l’arte della ricerca in questo campo vengono chiarite da un
personaggio poliedrico, l’umanista, esperto di antichità, medaglista, trattatista e architetto
Leon Battista Alberti. L’Alberti, giunto a Firenze nel 1434 e colpito dalla nuova arte
fiorentina, nel suo Della pittura – trasferendo in arte la lezione ciceroniana sul buon
oratore - definì come supremo compito dell’artista la narrazione (“istoria”), insistendo
sulla finalità morale dell’immagine, la quale deve toccare chi la vede così profondamente
da influire sulla sua vita. A questo scopo invitò gli artisti a dare ai loro personaggi reazioni
fisiche ed emotive naturali, perché, dice, “moverà l’istoria l’animo quando gli uomini ivi
dipinti molto progeranno suo proprio movimento d’animo”. E spiega: “Interviene la
natura, quale nulla più che lei si truova rapace di cose a sé simile, che piagniamo con chi
piange, e ridiamo con chi ride, e doglianci con chi si duole”.
La parole dell’Alberti, stilate pochi anni prima del Compianto, fotografano un
indirizzo già allora in corso, tant’è vero che l’umanista dedica il suo trattato ai grandi
dell’avanguardia di allora: Brunelleschi insieme a Lorenzo Ghiberti, Donatello, Luca della
Robbia e Masaccio. Le “regole” albertiane segnalano anche la rottura con quell’estetica
dell’icona in cui l’elemento narrativo aveva un ruolo secondario, come pure l’emozione.
Citando esempi antichi, Alberti elogia piuttosto la penetrazione psicologica degli artisti
greco-romani, e la frase appena citata, in cui afferma che “interviene la natura…”, infatti
deriva dalla De amicizia di Cicerone. Menziono queste cose perché Beato Angelico, anche
se non nominato dall’Alberti, apparteneva al ristretto gruppo di artisti fiorentini che si
proponeva i traguardi successivamente articolati nel Della pittura, come suggerisce un suo
capolavoro di alcuni anni prima del Compianto, la Deposizione di Cristo, pure questa oggi al
Museo di San Marco, dove l’artista anticipa il ‘catalogo’ dei sentimenti delle donne e degli
uomini presenti che vediamo nel Compianto; con i sei angeli nelle zone alte, similmente
espressivi, le drammatis personae raffigurate in quest’opera arrivano a venticinque, senza
contare Cristo, sul cui volto vi è pure un’espressione commovente! Ambo i sessi, tutte le
età: una dimostrazione dei “movimenti dell’animo” enciclopedica, corale e senza paralleli
nella coeva pittura fiorentina.
In queste come in altre opere dell’Angelico sentiamo un rapporto col dramma sacro
rinascimentale e specificamente con le sacre rappresentazioni della Passione, la cui scena
culminante era sempre il Planctus Mariae o ‘Gran pianto’. Nei testi superstiti, come nei
dipinti del Frate, l’appello all’emozione è esplicito: nel prologo di un ‘mistero’ della fine
del Quattrocento, ad esempio, troviamo una frase straordinaria, pronunciata da un attore
che - dopo aver accennato alle scene della Passio che verrebbero in seguito - si rivolge al
pubblico, o meglio, ad ogni singolo spettatore, e dice: “Si tu non piangi quando questo
vedi, non so se a Yesu Cristo vero credi”. Tra esortazione e minaccia, l’ammonimento
viene ribadito poco dopo, alla conclusione del prologo, quando l'attore esorta il pubblico,
“quando el vedrete poi levar di croce, ciascuno divotamente alzi le mani rendendo grande
addio cola sua voce”. Più tardi nello stesso testo, la Madonna ripete l'invito: durante la
conclamatio al piede della croce, in mezzo al lamento corale dei personaggi che descrivono
le loro reazioni alla morte di Gesù, Maria dice al pubblico: “homini e donne, voi non siate
lenti alo gran pianto, hor me accompagniate [...] essendo qui in croce morto il vostro
creatore, ciascum pianga e strida con dolore”.
Un simile appello allo spettatore a farsi partecipe della Passione si trova in altri testi
del periodo dove, oltre ad essere una conferma di fede religiosa, la compartecipazione
diventa anche prova di sensibilità umana. Ad esempio, in una quattrocentesca Vita di
Cristo conservata nella Biblioteca Laurenziana a Firenze, dopo una descrizione delle
sofferenze di Gesù l'autore afferma che, “ben se può reputar haver el chore de pietra colui
che a questo passo non ha compassione al suo signore o per pianto o per altri segni”; e in
un Pianto della Vergine dello stesso fondo troviamo ciò che sembra addirittura una formula
per l'isterismo di gruppo: “Pianga ciascuno che giusto si trova, sicché ciascuno allagrimar
si mova”.
Questo tipo di emotività guidata fa parte della tradizione in cui Angelico era
formato. L'idea base - che la fede dev'essere esternata con fortissime reazioni emotive riprende certi temi del razionalismo scolastico. Con Aristotele, gli scolastici ritenevano che
la volontà umana riceve e si nutre di ‘informazioni’ fornite dai sensi, e che la libertà
dell'uomo e la sua nobiltà come creatura sono legate all'uso che consciamente fa
dell'esperienza sensoria. Così san Tommaso, nella sua analisi della contrizione, elabora il
concetto aristotelico di due livelli di razionalità: la ratio superior e quella inferior, che
insieme determinano il carattere del dolore sperimentato dal peccatore penitente. “In
contritione est duplex dolor”, dice: nella contrizione c'è un doppio dolore. Una parte è nella
volontà, e questa è la contrizione nella sua essenza, il dispiacere che proviamo per i peccati
che abbiamo commesso. Ma c'è un altro dolore, quello dei sentimenti (“in parte sensitiva”),
che può scaturire o dalla riflessione sui peccati, che porta a una reazione spontanea (“ex
necessitate naturae”), o da una libera scelta per cui l’uomo che ‘fa penitenza’ ecciti il dolore
in se stesso, affinché possa sentirlo emotivamente (“vel ex electione, secundum quod homo
poenitens, in se ipso hunc dolorem excitat, ut de peccatis doleat”).1
Questa affermazione verrà divulgata da altri scrittori domenicani del tardo
Medioevo - il fiorentino Passavanti, ad esempio, che la riassume dicendo che “il dolore
procede nella mente e nella sensualitade” -, e ha un'importanza fondamentale per la storia
della spiritualità e per quella dell'arte. Significa che la ragione - la ratio superior per cui
prendiamo le decisioni che definiscono la nostra libertà - può e deve servirsi delle
emozioni, eccitando nei sensi una predisposizione a compiere ciò che è percepito come
dovere morale. La forte espressività dell'arte tardogotica riflette questo principio, e ne
sentiamo l'impatto anche nell’appena citato Della Pittura, quando Leon Battista Alberti
insiste sull'uso coerente, da parte dell'artista che fa un ‘istoria’, di tutta l'esperienza fisica
(ottica, spaziale, anatomica), emotiva (il gaudio, il dolore) ed esistenziale (giovinezza,
vecchiaia) dello spettatore.
Le ‘opere’ in cui questa voluta eccitazione dei sentimenti ebbe il maggior sviluppo
furono gli esercizi penitenziali, e soprattutto i riti di quelle compagnie e confraternite
laiche fondate sotto la direzione dei predicatori mendicanti appunto per aiutare i fedeli a
sentire in modo tangibile e personale la penitenza “vera, frequens, nuda et lacrimabilis” di cui
parlano i manuali popolari come lo Specchio de' Peccati di fra Domenico Cavalca. Ma anche
le opere d’arte servivano a stimolare reazioni emotive, offrendosi come scuole di
compassione davanti all’umana sofferenza che Dio ha condiviso in Cristo.
*Mons. Timothy Verdon, curatore della mostra del Compianto sul Cristo morto dell’Angelico a
Torino, è Direttore dell’Ufficio d’Arte Sacra e dei Beni Culturali Ecclesiastici dell’Arcidiocesi di
Firenze nonché Direttore del Museo dell’Opera del Duomo fiorentino.
1
Summa Theologiae supplementum V, pars III, q. III (editio Pecci), Parigi 1924-1926.