N° 261 LA PAURA DEL DISTACCO TRA NORMALITÀ E PATOLOGIA: IL CONTRIBUTO DELL’ASSESSMENT COLLABORATIVO E TERAPEUTICO ALLA COMPRENSIONE DEL RISCHIO INDIVIDUALE E SOCIALE DI FRONTE AL LUTTO De Fabritiis, P., (Teramo) La presa in carico del malato terminale nelle rete delle Cure Palliative significa anche presa in carico dei familiari e/o caregiver che gli sono accanto. I caregivers si trovano investiti da varie responsabilità nell’assistenza, che possono affaticarli e rendere vulnerabili e potenzialmente problematici per l’équipe che li accoglie. Sebbene in Hospice si riceva un netto sollievo dalle maggiori forme di accudimento fisico e medico nei confronti del malato terminale, è proprio in Hospice che si inserisce un ulteriore e caratterizzante elemento di stress e di dolore esistenziale: l’attesa della morte dell’altro. Il compito clinico dello psicologo palliativo, coadiuvato dall’équipe multidisciplinare cui appartiene e che riporta osservazioni preziose, riguarda la valutazione delle risorse cognitivo-emotive nei caregiver di fronte al lutto imminente, nell’intento di fornire un sostegno adeguato durante la degenza e di individuare fattori di rischio e protettivi per il lutto complicato. Tale valutazione può confluire in una ‘restituzione’ al familiare coi metodi proprii dell’assessment collaborativo e terapeutico (Finn, 2008, Fisher, 2003), ossia enfasi sulla competenza del rispondente rispetto ai fatti e vissuti narrati e de-patologizzazione del rispondente e del suo dolore di fronte all’inevitabile distacco. I metodi utilizzati nelle procedure di assessment in un Hospice del Centro-Sud nei primi 6 mesi dal suo avvio comprendono l’osservazione diretta e mediata dal personale dell’équipe, il genogramma, come espressamente indicato dagli orientamenti regionali abruzzesi, raccolta breve della storia di malattia, e spesso il Family Strain Questionnaire (FSQ, di Rossi Ferrario, Zotti, 2002) insieme ad altri strumenti, che sono scelti di volta in volta sulla base del potenziale vantaggio per i rispondenti di fronte a situazioni strutturate invece che situazioni libere con domande aperte. Nel presente lavoro, ci si concentra sui risultati emersi dalla somministrazione dell’FSQ e della restituzione collaborativa ai partecipanti. L’FSQ, nato per la valutazione dello stress nei caregiver di pazienti con malattie gravi e prevalentemente croniche (Rossi Ferrario, Zotti, Zaccaria, Donner, 2001) è già stato applicato nelle reti di cure palliative, seppure su un piccolo campione (Capovilla, Stablum, Serpentini, Vidotto, 2012). Esso comprende una trentina di items dicotomici che misurano 5 fattori principali: ‘Sovraccarico Emozionale’, ‘Coinvolgimento sociale’, ‘Bisogno di informazioni sulla malattia’, ‘Sostegno Familiare’ e ‘Pensieri di Morte’ (Rossi Ferrario, Baiardi, Zotti, 2004). I punteggi dell’FSQ individuano secondo le autrici 4 livelli di stress del caregiver, con crescente bisogno di supporto psicologico, da nessun bisogno a bisogno urgente. I partecipanti di questo studio sono 29 familiari, in prevalenza figlie o nuore (73% e 10%, rispettivamente), seguiti dai consorti (7%) e dai nipoti (10%), con un'età media di 48,5 anni (±13) e con un livello medio di istruzione di 14 anni (±4,17). La patologia più frequente dei pazienti ricoverati è oncologica (85%), meno rappresentate le neurologiche (15%), mentre la loro età media è 76,85 (±9,), la fascia più frequente è quella 80-89 anni. I risultati, interpretati secondo i cut-off menzionati sopra, indicherebbero che per ben l’83% dei rispondenti si raccomanda un intervento psicologico: il 24% ne trarrebbe utilità, al 55% lo si raccomanderebbe fortemente, e il 4% ne avrebbe estrema urgenza. Tali risultati sono in linea con quelli di Capovilla et al. (2012) che riportavano un 78% di caregiver bisognosi di intervento psicologico; parimenti, si conferma anche in questo studio la non correlazione tra intensità dell’assistenza erogata e lo stress percepito. Applicata la soluzione fattoriale proposta dalle autrici nel 2004, e rappresentato il punteggio su una stessa scala da 0 a 10 per ciascuno dei 5 fattori, emerge che il punteggio medio per il carico emotivo è il più basso (3,7 ±0,38), seguito da: bisogno di informazioni, difficoltà nel coinvolgimento sociale e mancanza di sostegno familiare (tutti intorno al 4), mentre sono i pensieri di morte ad essere i più salienti con una media di 5,51 (±0,33); peraltro, i pensieri di morte correlano meno o 1 non correlano affatto con le altre dimensioni di ‘carico’, come se costituissero un’area di riflessione e preoccupazione a parte, nella terminalità. Nell’insieme, i risultati sembrano suggerire che la classificazione dei punteggi proposta dagli autori del questionario tenda a sovrastimare il livello di stress dei caregiver e, soprattutto, il bisogno di supporto specialistico 'riconosciuto e cercato'. In effetti, il 58,6% dei rispondenti asserisce di non sentire il bisogno di parlare con esperti e psicologi, mentre il 13% afferma che il suo bisogno di supporto psicologico è soddisfatto e si esaurisce col primo incontro di assessment collaborativo. Inoltre, l’offerta di sostegno psicologico non pare dover vertere, nella terminalità vissuta in hospice, sulla gestione dello stress fisico ed emotivo che proprio qui vengono alleviati, né sul bisogno di informazione medica, bensì sul confronto esistenziale con la morte e con la perdita. Dall’integrazione qualitativa dei risultati del questionario con l’osservazione clinica e la restituzione collaborativa, di fatto, emerge che è la paura della morte stessa a costituire la fonte maggiore di preoccupazioni nei caregiver: essi spesso chiedono al personale ‘quando accadrà?’, oppure commentano ‘so che accadrà, ma so di non esser pronta’, oppure ‘sì, penso che vorrei parlarne – della morte-, ma non so la mia reazione’. Sembrerebbe come se, benché informati sulle condizioni di salute del loro assistito e sulle funzioni dell’hospice, i caregiver si sentissero in costante allarme e riverberassero tale senso di allarme e non preparazione con un incremento di richieste d’intervento al personale medico e infermieristico. Tuttavia, tali comportamenti e reazioni possono apparire, al peggio, immaturi, certamente non paiono essere segno di una patologia individuale. Si discutono i risultati alla luce degli studi sociali e antropologici sui rituali legati alla morte nella nostra società che descrivono il processo del morire come del tutto sequestrato dall’esperienza e dalla riflessione comune e, forse per questo, ancor più temuto. 2
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