Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino¶5 maggio 2014¶N. 19 29 Politica e Economia Si riconciliano le due anime palestinesi Accordo di pacificazione Il patto getta lunghe ombre Marcella Emiliani Il 29 aprile era la data ultima che il segretario di Stato americano John Kerry aveva fissato per la ripresa dei colloqui di pace tra israeliani e palestinesi, e invece – a sorpresa – il presidente dell’Autorità nazionale palestinese (Anp), Abu Mazen, nella notte tra il 22 e il 23 aprile ha portato a casa un accordo tra l’Olp, l’Organizzazione per la liberazione della Palestina che ruota attorno al suo partito, al-Fatah, e Hamas (Movimento di resistenza islamica). In base a tale accordo al-Fatah e Hamas dovrebbero dar vita nel giro di cinque settimane a un governo di unità nazionale sotto la presidenza di Abu Mazen, governo che – a quel punto – si presenterà ad Israele come interlocutore unico per i suddetti colloqui di pace. Tuoni e fulmini sono immediatamente arrivati dal primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu che dopo aver deciso sanzioni contro la Cisgiordania e – lo stesso 23 aprile – ordinato un raid aereo contro Gaza in risposta al lancio di missili dalla Striscia, da quel giorno ripete instancabile che proprio la ritrovata intesa tra le due anime palestinesi impedisce ora qualsiasi negoziato di pace. Con le sue parole testuali: «Israele non negozierà mai con un governo palestinese sostenuto da Hamas, un’organizzazione terroristica che vuole la distruzione di Israele». È vero: Hamas si è più volte macchiato di atti terroristici contro Israele. Hamas tollera o subisce, quando non riesce ad impedire, il bombardamento costante del territorio israeliano con missili sempre più sofisticati e di lunga gittata lanciati dalla Jihad islamica e da altre microformazioni palestinesi dissidenti della vecchia Olp. Per di più Hamas nel 2007 ha attuato a Gaza un vero e proprio colpo di Stato manu militari ai danni di alFatah e della presidenza dell’Anp. Tutto vero, come è vero che Israele continua a strangolare la Striscia di Gaza che è ormai arrivata alla canna del gas e questo strangolamento ha moltiplicato per mille i peggiori traffici di armi e quant’altro sul confine israelo-egiziano e nella penisola del Sinai, divenuta ormai una sorta di landa percorsa in lungo e in largo da nomadi senza legge, infiltrati da elementi qaedisti e dediti al terrorismo contro le forze di sicurezza egiziane. Per ora. Eppure, anche se sono davvero pochi a crederci, l’accordo tra al-Fatah e Hamas significa almeno una cosa: la politica palestinese si è rimessa in moto, anche se l’ha fatto non per una forza propulsiva che ha perso da tempo, ma piuttosto per disperazione. Debole, anzi debolissimo è Hamas a Gaza. Deboli sono Abu Mazen e la sua al-FatahOlp in Cisgiordania. Sul fronte Hamas, la realtà nuda e cruda è che dopo il colpo di Stato del generale al-Sisi in Egitto del 3 luglio 2013, il Movimento di resistenza islamica ha perso la sua sponda politica più importante rappresentata dal deposto presidente Mohamed Morsi, espressione di quella Fratellanza musulmana egiziana da cui peraltro il Movimento è nato nel 1967. La Fratellanza, anzi, è ripiombata in tempi buissimi, se è vero che il 28 aprile scorso un tribunale egiziano ha condannato a morte 683 seguaci e membri dell’organizzazione, compreso il suo leader supremo, Mohamed Badie. Non bastasse, la Fratellanza è stata sconfessata come organizzazione terroristica in Egitto e in tutto il Medio Oriente persino dall’Arabia Saudita che per decenni l’ha sostenuta e finanziata. Per Hamas non va meglio coi compagni di strada sciiti, gli Hezbollah libanesi, la Siria e l’Iran, con cui in teoria non avrebbe nulla a che vedere, essendo un’organizzazione sunnita, ma da cui veniva foraggiato e armato al solo scopo comune di distruggere Israele. Ma dal 2011 Hezbollah, Siria e Iran hanno ben altro a cui pensare con la guerra civile che infuria a Damasco e dintorni. Se nell’Hamastan di Gaza le cose vanno male, non vanno certo meglio nel Fatahland, ovvero nella Cisgiordania controllata dall’Anp e da Abu Ma- zen. Da quando il segretario di Stato americano John Kerry ha rilanciato il processo di pace israelo-palestinese nel luglio del 2013, Abu Mazen le ha proprio tentate tutte per attirare l’attenzione sulla causa palestinese e farsi ascoltare dal governo israeliano e dalla comunità internazionale. Ha minacciato di proclamare unilateralmente l’indipendenza della Palestina, si è accontentato del rilascio col contagocce dei prigionieri palestinesi da parte di Israele, ha tentato di far assumere alla Cisgiordania una fattispecie di identità statuale chiedendo l’adesione dell’Olp alle principali organizzazioni dell’Onu. Non ultimo il 27 aprile scorso ha fatto una dichiarazione epocale, definendo la Shoah «il più odioso crimine contro l’umanità avvenuto nell’era moderna», invitando il mondo intero a «fare il possibile per combattere il razzismo e l’ingiustizia al fine di sostenere gli oppressi ovunque si trovino». Sull’onda «dell’ingiustizia, dell’oppressione, della mancanza di libertà e di pace» di cui soffrono i palestinesi, Abu Mazen ha chiesto apertamente a Netanyahu di «sfruttare l’attuale opportunità per siglare una pace giusta e onnicomprensiva nella regione, basata sulla visione dei due Stati, Israele e Palestina, fianco a fianco, in pace e sicurezza». Può sembrare la solita retorica, ma vale la pena ricordare che nel Manifesto politico di Hamas, con cui il presidente dell’Anp ha ritrovato da pochi giorni un accordo, si continua a negare la Shoah e men che meno si parla di una terra per due Stati (figurarsi poi per i tre che in nuce esistono oggi). Abu Mazen, dunque, sembra aver cominciato a lavorare seriamente sul ritrovato partner palestinese per instradarlo sulla via della lotta pacifica. Ma le parole, per quanto apprezzate, non sono fatti, ribattono in Israele. E si ritorna da capo, al punto veramente dolens delle trattative di pace in stallo ovvero la credibilità politica dei contendenti. Nel caso di Abu Mazen la cosa che lo rende particolarmente inviso al AFP su ogni possibile accordo di pace con Israele, che denuncia la natura di Hamas governo Netanyahu è l’insistenza con cui chiede a Israele di sospendere la costruzione di colonie ebraiche in Cisgiordania, una concessione che l’attuale governo israeliano non è mai stato disposto a fare. D’altronde, come ha riconosciuto Tzipi Livni, l’attuale ministra della Giustizia: «È difficile trattare con i palestinesi con l’attuale esecutivo israeliano che non riconosce il diritto all’esistenza di uno Stato palestinese». Se dunque, dietro la ritrovata, problematica sintonia tra al-Fatah e Hamas, c’è senza dubbio la somma delle debolezze palestinesi, la palla ora passa nelle mani di un altro personaggio politico che, di questi tempi, sembra inanellare un insuccesso dietro l’altro: John Kerry (per non menzionare apertamente Barak Obama), che non ha ottenuto risultati nel tragico affaire siriano, che è in fortissima difficoltà sull’Ucraina e ora in una palese impasse col processo di pace israelo-palestinese. Washington sa benissimo che al tavolo dei negoziati i due contendenti non hanno le stesse chances; detto in parole povere, gli Stati Uniti sono gli unici a poter premere sul governo israeliano perché si sieda davvero al tavolo dei negoziati di pace e si decida a sospendere la costruzione di colonie ebraiche in Cisgiordania. Ma fino ad oggi la presidenza Obama non c’è riuscita e spesso ha mascherato le proprie difficoltà con l’ostico governo Netanyahu, lamentando le divisioni in campo palestinese. Non appena però i palestinesi sembrano aver ritrovato la propria unità, tanto negli Stati Uniti quanto in Israele il coro è unanime: con un governo sostenuto da Hamas non si tratta. Bene. Ma cosa significa allora per Washington e Gerusalemme «l’unità dei palestinesi»? Al-Fatah con chi dovrebbe ritrovare un’intesa se non con Hamas? E soprattutto cosa hanno fatto Washington e Gerusalemme per rafforzare Abu Mazen, cioè il palestinese che ha rinunciato al terrorismo come metodo di lotta politica fin dal 1993? Sono sempre gli stessi interrogativi inquietanti che da troppi anni non ricevono risposta. E un personaggio coriaceo come Netanyahu non si fa certo spaventare dalla prospettiva che Israele diventi «uno Stato basato sull’apartheid» come ha minacciato il povero Kerry all’indomani del fallimento dell’ennesimo round di trattative tra israeliani e palestinesi. Giorni no, ovvero bad sari days La sete indiana Comperare e indossare un nuovo vestito, oltre che un piacere, è anche una delle cose più snervanti che possa capitare alle donne Le anglosassoni hanno ogni tanto quelli che chiamano bad hair days: giorni cioè in cui i capelli proprio non ne vogliono sapere di stare come dovrebbero e l’aspetto generale è più o meno quello di qualcuno scampato a un disastro nucleare. In India ogni tanto abbiamo invece dei fantastici bad sari days: sarebbe quando, per ragioni note soltanto alle più alte sfere celesti, il dannato pezzo di stoffa si rifiuta categoricamente di ripiegarsi con grazia. E anche se in genere potresti drappeggiare il sari al buio e a occhi chiusi e ti è anche capitato di farlo, l’aspetto generale è quello di una grossa caramella mal incartata. Seguono le ovvie maledizioni all’indirizzo della lavanderia o del dhobi, il lavandaio, che ha usato talmente tanto amido da rendere il cotone simile alla carta rigida. E all’indirizzo della sarta, che ha sbagliato completamente misure e taglio della blusa. Perché comprare e indossare un nuovo sari, oltre che un piacere, è anche una delle cose più snervanti e stressanti che ti possono capitare nella vita. A vederlo da fuori, sembra favoloso. Niente cuciture, niente misure; ma, come sem- pre, c’è un ma, il sari, cinque metri e mezzo di stoffa (nove per i sari tradizionali dell’India del sud), si indossa sopra una sottogonna e un corpetto. Oltre ciò, per essere indossato deve essere portato dal sarto che cuce sull’orlo, dalla parte interna, una striscia di stoffa che si chiama fall e che serve a impedire che l’orlo AFP Francesca Marino si arricci e faccia strane cose mentre cammini. Sempre lo stesso sarto, abitualmente uno di quelli che tiene una macchina da cucire antidiluviana messa dentro a un buchetto di un metro per due pomposamente denominato negozio, rifinisce gli orli. Quando porti il suddetto sari, gli raccomandi in genere di lavarsi le mani dopo pranzo e di tenerlo lontano dai bambini: occasionali macchie di unto lasciate sul tuo bellissimo sari nuovo di zecca non sono infatti poi tanto rare. La sottogonna non è molto problematica: se ti accontenti vai in un negozio qualunque o in una bancarella per strada e compri una delle svariate gonne di cotone di ogni sfumatura dell’arcobaleno che spesso le turiste scambiano per gonne vere e proprie e indossano come tali provocando ilarità e imbarazzo tra le signore locali. Se però sei più esigente, o la sottogonna ti serve per un sari particolarmente elegante, devi andare dalla sarta e farla fare su misura. Il che significa scegliere la stoffa, farsi prendere le misure e cominciare a pregare. Perché per qualche strano motivo noto solo alle divinità, sarte e sarti indiani hanno un concetto particolar- mente elastico delle misure. Dopo venti minuti trascorsi in piedi con una persona che, metro alla mano, prende accuratamente le tue misure mentre un’altra le trascrive su un quaderno, ti ritrovi in genere con un indumento che sembra cucito per la tua sorella maggiore. Il discorso vale per la sottogonna, ma soprattutto per la blusa, che è un capitolo a parte. Il pensiero basta a far venire i capelli dritti a qualunque donna indiana. La blusa è ricavata in genere da un metro circa di stoffa attaccato al suddetto sari oppure deve essere scelta nei negozi sopracitati, tra centinaia di pezze di mussola di cotone di ogni sfumatura possibile e immaginabile. Deve essere cucita in modo da non toglierti il respiro ma allo stesso tempo il più aderente possibile al corpo. Essenzialmente può essere tagliata in tre modi: semplice, con un taglio «a reggiseno» o con il più sexy e donante choli cut, taglio a corpetto. Può essere con o senza maniche, con spalline sottilissime o senza spalline, scollata fino all’inverosimile o chiusa da bottoni fino al collo con un colletto alla cinese, con o senza coppe imbottite all’interno (questa è l’ultima moda) per permettere le scollature sulle spalle fino all’inverosimile di cui sopra. Può anche essere, nel caso di sari da gran sera, un corpetto senza spalline allacciato sul dietro da stringhe. Sia come sia, il dramma è che deve essere fatta su misura. E che io e le mie amiche stiamo seriamente pensando di promuovere uno studio sul funzionamento delle cellule cerebrali delle sarte indiane. Dopo il cerimoniale delle misure, e dopo avere lasciato per sicurezza una blusa come campione, in genere il risultato non è mai, ma proprio mai, quello sperato: ha confuso i modelli, ha confuso le tue misure con quelle della tua amica e cucito la sua stoffa con le tue misure, ha sbagliato taglio, misure e quant’altro. A inventare la legge di Murphy è stata senz’altro una sarta indiana. Nell’improbabile caso in cui nessuno dei problemi di cui sopra si verifichi, sorge il dramma della consegna: stiamo ancora aspettando che la mitica Anindita ci consegni tre bluse ordinate un anno e mezzo fa. Se dopo tutta questa odissea incappi anche in un bad sari day non è carino. L’unica cosa che puoi fare è prendere jeans e maglietta benedicendo per un po’ la sciatteria e la comodità del buon vecchio Occidente.
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