Testo Cgil per audizione Commissione Lavoro Senato del 20.01.15 su Schema di decreto legislativo recante disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183. In riferimento al primo dei due decreti attuativi della legge 183/14, in particolare quello sulle tutele crescenti, si evidenzia: Il provvedimento si presenta come una disposizione volta a ridefinire la regolamentazione dei licenziamenti e non già come la introduzione di una fattispecie contrattuale definita “a tutele crescenti” ancorché a tempo indeterminato. Per questa ragione preliminare che traduce in una secca monetizzazione il diritto alla tutela in caso di licenziamento senza giusta causa, oggettivo o soggettivo, individuale e collettivo, la Cgil valuta sbagliato ed inemendabile il testo di decreto presentato dal Consiglio dei Ministri. Il provvedimento nel suo insieme oltre che generalizzare la pratica della precarizzazione dei rapporti di lavoro, divide i lavoratori tra chi un lavoro ce l'ha e i nuovi assunti. Esattamente il contrario di ciò di cui ha bisogno il mondo del lavoro e cioè di superare le divisioni e le contrapposizioni introdotte da una vasta e diffusa legislazione sui rapporti e sulle tipologie di lavoro che hanno indebolito ed impoverito il lavoro. Non di meno tale provvedimento ancorchè combinato con la decontribuzione prevista nella legge di stabilità, non pare sufficiente a determinare quella crescita occupazionale di cui avremmo bisogno in ragione di un'assenza sostanziale di politiche di sostegno agli investimenti, alla domanda aggregata e ad una ripresa dell'intervento pubblico in economia volto a stimolare l'innovazione diffusa dei processi produttivi, oltre che di politica industriale. Se la necessità di una liberalizzazione de facto dei licenziamenti era giustificata nelle intenzioni dalla volontà di determinare un aumento dell'occupazione, il provvedimento in esame interviene al massimo incentivando il turn over e non già la stabilità dei rapporti di lavoro e se non corroborato da una ripresa economica moltiplicherà la quantità di esclusi. Risulta sbagliata e incomprensibile la limitazione del ruolo del giudice nella ponderazione della sproporzione in caso di verifica nei licenziamenti disciplinari di insussistenza del fatto materiale, la cancellazione del cd “rito Fornero” introdotto dalla legge 92/12 e l'assimilazione di trattamento tra licenziamenti legittimi e illegittimi a prescindere che siano oggettivi o soggettivi, nella nuova accezione disciplinari o economici. Infine nel caso dei licenziamenti collettivi il divieto di intimare il reintegro in caso di violazione dei criteri di scelta ai sensi della legge 223/91 mina la portata stessa della funzione di tutela su parametri che non determinino discrezionalità e discriminazioni, coerentemente con gli orientamenti comunitari. Per ciò che attiene gli appalti la norma andrebbe espunta e ricondotta alla revisione del testo unico sugli appalti in quanto andrebbe ricollegata alla generalizzazione della clausola sociale. Così come formulata genera oltretutto retroattività delle tutele crescenti in palese contrasto con i diritti maturati e conseguiti da quei lavoratori. Sul punto invece cancellato nel percorso di bollinatura cioè il contratto di ricollocazione si sottolinea quanto l'unica politica attiva che imponeva una condizionalità positiva per affermare il diritto alla riattivazione attraverso reali percorsi di riqualificazioni e reimpiego è stata collocata nel decreto sulla Naspi in quanto ricollegata alle uniche fattispecie di licenziamento illegittimo per motivi oggettivi o collettivi. La Cgil ritiene che il principio vada recuperato in successivi provvedimenti come misura generalizzata di politica attiva, che rappresenti un vero “contratto” tra il centro per l'impiego e il lavoratore licenziato (tutti i licenziamenti senza giusta causa e quelli collettivi) e non una mera prestazione accessoria (voucher) e che si introduca una corresponsabilità e partecipazione nel placement del lavoratore anche all'impresa che lo licenzia. Nel merito alcune osservazioni: Art 1 Campo di applicazione Il decreto dovrebbe entrare in vigore non prima della metà di febbraio e si applica anche ai lavoratori già in forza a quelle imprese che, assumendo nuovi lavoratori a seguito del decreto, mutano i loro requisiti occupazionali così come definiti dalla legge 300/70. In buona sostanza se le nuove assunzioni fanno superare la soglia dei 15 dipendenti, la nuova disciplina varrà anche per coloro che sono già in organico, difatto la norma diventa retroattiva in questo utlimo caso. Dall'applicazione sono esclusi i dirigenti per i quali si riservano trattamenti di miglior favore. Art, 2 Reintegrazione del lavoratore Il licenziamento è nullo se discriminatorio o per altre ragioni previste dalla legge. Al lavoratore in tal caso spetta il reintegro più una somma risarcitoria del danno subito pari a non meno di 5 mensilità, da intendersi quale condizione minima, ivi compreso il versamento dei contributi assistenziali e previdenziali. Il lavoratore può anche rinunciare ad essere reintegrato accettando quindi di essere licenziato, in tal caso ha però diritto, in cambio della rinuncia al reintegro, ad un'indennità definita, quindi non trattabile, pari a 15 mensilità e senza contribuzioni previdenziali. Quanto sopra vale anche in caso di licenziamento “orale”. Si torna indietro di qualche decennio con una limitazione del campo dell'applicazione della tutela reintegratoria. Oltretutto vi è una quantificazione della somma risarcitoria, in caso il lavoratore rinunzi al reintegro, che non prevede contribuzione previdenziale, tale somma viene corrisposta dall'impresa che pur avendo intrapreso un licenziamento illegittimo o rientrante nelle fattispecie che prevedono il reintegro, non incorre in nessuna sanzione. Art. 3 – Licenziamento per giustificato motivo e giusta causa. In caso di licenziamento ingiustiuficato il datore di lavoro è condannato dal giudice a versare al lavoratore un'indennità del valore di 2 mensilità, senza contribuzioni, per ogni anno di servizio prestato. Il valore complessivo si determina dentro una scala che vale da un minimo pari a 4 mensilità ad un massimo di 24. La definizione del tetto massimo introduce una penalizzazione come nel caso di una anzianità superiore a 12 anni. Solo nel caso di licenziamento disciplinare dimostratosi illegittimo in sede giudiziale a causa dell'insussistenza materiale del fatto, al lavoratore spetta il reintegro e la riscossione di un'indennità risarcitoria pari alla retribuzione che avrebbe percepito se fosse rimasto in servizio fino ad un massimo di 12 mensilità. A tale cifra va eventualmente sottratto ciò che nel frattempo ha percepito da altre attività lavorative compreso quanto avrebbe potuto percepire nello stesso periodo per una congrua offerta di lavoro a tempo pieno ed indeterminato o determinato o di lavoro temporaneo ai sensi della legge 24 giugno 1997, n.196., e rifiutata senza giustificato motivo. Ciò può significare che se tra il licenziamento e la reintegra trascorrono più di 12 mesi il lavoratore subisce una conseguente penalizzazione. Il lavoratore può comunque rinunciare ad essere reintegrato e in tal caso ha diritto, in cambio della rinuncia, ad un'indennità non contrattabile, pari a 15 mensilità e senza contribuzioni previdenziali. L'ultimo comma dell'articolo introduce l'abolizione della procedura obbligatoria di conciliazione prevista dall'art.7 dalla 604/66, introdotta dalla legge Fornero, presso l'Ufficio provinciale del lavoro, ovvero con la possibilità di farsi rappresentare. Persiste un accanimento ingiustificabile nei confronti dei lavoratori prevedendo che l'opzione conciliativa preveda penalizzazioni e non sia assistita. Art. 4 – Vizi formali e procedurali. Nel caso di un licenziamento viziato nella forma e in particolare per quanto previsto dalla 604 (esposizione scritta delle motivazioni) o dalla 300 (multe, sospensioni, uff. di conciliazione) non è previsto la reintegra, il datore di lavoro è però condannato al pagamento di una indennità dal valore di 1 mensilità per ogni anno di servizio. Quest'ultima non può essere complessivamente inferiore a 2 mensilità e non superiore a 12. La definizione del tetto massimo può introdurre una penalizzazione come nel caso di una anzianità superiore a 12. Per accedere ai “migliori” trattamenti previsti dagli artt. 2 e 3, il lavoratore può produrre domanda al giudice che valuterà se ne sussistano le condizioni. Ancora una volta il lavoratore vittima di un'ingiustizia devi farsi carico del procedimento. Art. 6 – Offerta di conciliazione. Tale possibilità, facoltativa, permette di evitare il giudizio, ovvero il ricorso alla valutazione di un giudice del lavoro. La conciliazione che in buona sostanza può avvenire in ogni sede previste dall'art.7 dell'art.2113 del C.C. non esclude la possibilità di farsi assistere sindacalmente, ovvero, optando per quelle sedi che la prevedono. La conciliazione può chiudersi con la consegna di un assegno al lavoratore di un importo pari al valore di 1 mensilità per ogni anno di servizio e per una scala che va da un minimo di 2 fino ad un massimo di 18 mensilità. La definizione del tetto massimo può introdurre una penalizzazione come nel caso di una anzianità superiore a 18. L'assegno non costituisce reddito imponibile e non è quindi da dichiarare e non include la contribuzione previdenziale. I costi derivanti dall'esito delle conciliazioni non saranno a carico delle aziende ma bensì dello Stato come previsto dalla legge di stabilità 2015! Siamo in presenza dell'ennesimo favore alle imprese e di penalizzazioni per i lavoratori. Art. 9 – Piccole imprese e organizzazioni di tendenza. Nel caso di licenziamenti per aziende che non occupano più di quindici lavoratori o più di cinque se si tratta di imprenditore agricolo …anche a tempo indeterminato parziale… tutti i limiti delle indennità definiti dal comma1 dell'art. 3, dal comma 1 dell'art.4 e dal comma 1 dell'art. 6 sono dimezzati. E' comunque definito un tetto pari a massimo 6 mensilità largamente inferiore, ad esempio, come nel caso delle 24 mensilità che verrebbero ricondotte a 12, previste dal comma1 dell'art. 3. Non è previsto inoltre alcun intervento di ordine risarcitorio. Tanto per essere in linea con l'accanimento verso i lavoratori. Art. 10 – Licenziamento collettivo. Nel caso di licenziamenti collettivi si fa riferimento alla 223 del '91 (più di 15 dipendenti, quantificazione in relazione all'arco temporale, ovvero 5 licenziamenti nell'arco di 120 gg, norme sulla mobilità). Nel caso di violazione della forma scritta i lavoratori devono essere reintegrati e risarciti così come previsto dal comma 2 dell'art.2. Nel caso si violino le procedure della 223 del 91 (norme sulla procedura, modalità di individuazione degli interessati), si applica quanto previsto al comma 1 dell'art.3, ovvero, la sola monetizzazione. Questa norma comporterà trattamenti differenziati per chi rientra o non rientra nei criteri e coloro i quali non rientreranno nei criteri avranno come tutela il nuovo regime. Siamo alla moltiplicazione delle differenziazioni. Art. 11– Rito applicabile L'articolo fa riferimento in modo inequivocabile che quanto previsto dalla Legge Fornero in materia obbligo di fissare l'udienza da parte del giudice a seguito dell'impugnativa del licenziamento da parte del lavoratore, non è applicabile per quanto previsto dagli assunti con contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti. Tale norma agisce come deterrente verso il ricorso giudiziario e indirettamente un incentivo alla conciliazione per accellerare i tempi di risoluzione tuttavia privilegiando l'opzione meno vantaggiosa per il lavoratore.
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