duello La Gerusalemme liberata canto XII

Canto XII
È il canto di Clorinda. La guerriera medita di uscire dalla città per distruggere le macchine d’assedio e ne parla ad
Argante, che si unisce a lei. Ottengono il permesso da Aladino, ma Ismeno consiglia di attendere la notte; intanto
l’eunuco Ersete, già balio di Clorinda, le rivela la sua origine, spiegandole che è nata da genitori cristiani. Ella decide di
continuare la guerra ed esce con Argante riuscendo infine ad appiccare il fuoco (43-46). Nella precipitosa ritirata,
Clorinda resta fuori delle porte della città (48), ma si confonde nella folla dell’esercito crociato: soltanto Tancredi si
accorge che è un nemico, ma non la riconosce (si ricordi che le è stata sottratta la corazza da Erminia) e la sfida (51).
Comincia il duello:
55 Non schivar, non parar, non ritirarsi
voglion costor, né qui destrezza ha parte.
Non danno i colpi or finti, or pieni, or scarsi:
toglie l'ombra e ’l furor l’uso de l’arte.1
Odi le spade orribilmente urtarsi
a mezzo il ferro, il piè d’orma non parte;
sempre è il piè fermo e la man sempre in moto,
né scende taglio in van, né punta a vòto.2
56 L'onta irrita lo sdegno a la vendetta,
e la vendetta poi l’onta rinova;3
onde sempre al ferir, sempre a la fretta
stimol novo s’aggiunge e cagion nova.
D’or in or più si mesce e più ristretta
si fa la pugna, e spada oprar non giova:
dansi co’ pomi, e infelloniti e crudi
cozzan con gli elmi insieme e con gli scudi.4
57 Tre volte il cavalier la donna stringe
con le robuste braccia, ed altrettante
da que’ nodi tenaci ella si scinge,
nodi di fer nemico e non d’amante.5
Tornano al ferro, e l’uno e l’altro il tinge
con molte piaghe; e stanco ed anelante
e questi e quegli al fin pur si ritira,
e dopo lungo faticar respira.
58 L’un l’altro guarda, e del suo corpo essangue
su ’l pomo de la spada appoggia il peso.6
Già de l’ultima stella il raggio langue
al primo albor ch’è in oriente acceso.
Vede Tancredi in maggior copia il sangue
del suo nemico, e sé non tanto offeso.
Ne gode e superbisce. Oh nostra folle
mente ch’ogn’aura di fortuna estolle! 7
1
I due guerrier si affrontano con tutta la loro violenza. Anche l’ombra della notte favorisce l’inasprirsi dello scontro. Si
noti la ripresa della struttura ternaria nei due versi dispari (1 e 3) con l’anafora del “Non”, cui corrisponde una variatio
sintattica nei versi pari.
2
I duellanti non cedono il passo, le spade cozzano, e ogni colpo va a segno.
3
Ciascuno dei due è preso dalla vergogna di essere stato colpito, e reagisce con rinnovata violenza.
4
Si faccia attenzione a questo climax di violenza: mano a mano la pugna si fa più ravvicinata, sicché si passa dall’arma
bianca ai colpi con le mani; in altri termini, il duello diventa sempre più corporeo e sempre meno espressione di abilità
tecnica.
5
Il narratore sottolinea il paradosso di un amante che si stringa addosso all’amata con intento micidiale. Al tempo
stesso, viene sottolineato il carattere sensuale, se non propriamente sessuale, di questo, come in fondo di ogni duello
combattutto corpo a corpo.
6
Si noti il gesto assolutamente quotidiano. Stanchi, i duellanti appoggiano il peso del corpo sull’elsa della spada, la cui
punta è conficcata a terra.
7
Il narratore commenta con un breve apoftegma di carattere gnomico: stolta la pretesa umana di esaltarsi per ogni
piccolo vantaggio acquisito.
59 Misero, di che godi? oh quanto mesti
fiano i trionfi ed infelice il vanto!
Gli occhi tuoi pagheran (se in vita resti)
di quel sangue ogni stilla un mar di pianto.8
Così tacendo e rimirando, questi
sanguinosi guerrier cessaro alquanto.9
Ruppe il silenzio al fin Tancredi e disse,
perché il suo nome a lui l'altro scoprisse:
60 – Nostra sventura è ben che qui s’impieghi
tanto valor, dove silenzio il copra.
Ma poi che sorte rea vien che ci neghi
e lode e testimon degno de l’opra,
pregoti (se fra l’arme han loco i preghi)
che ’l tuo nome e ’l tuo stato a me tu scopra,
acciò ch’io sappia, o vinto o vincitore,
chi la mia morte o la vittoria onore. – 10
61 Risponde la feroce: – Indarno chiedi
quel c’ho per uso di non far palese.
Ma chiunque io mi sia, tu inanzi vedi
un di quei due che la gran torre accese. –
Arse di sdegno a quel parlar Tancredi,
e: – In mal punto il dicesti; – indi riprese
– il tuo dir e ’l tacer di par m’alletta,
barbaro discortese, a la vendetta. – 11
62 Torna l’ira ne’ cori, e li trasporta,
benché debili, in guerra. Oh fera pugna,
u’ l’arte in bando, u’ già la forza è morta,
ove, in vece, d'entrambi il furor pugna! 12
Oh che sanguigna e spaziosa porta13
fa l’una e l’altra spada, ovunque giugna,
ne l'arme e ne le carni! e se la vita
non esce, sdegno tienla al petto unita.14
63 Qual l’alto Egeo, perché Aquilone o Noto
cessi, che tutto prima il volse e scosse,
non s’accheta ei però, ma ’l suono e ’l moto
ritien de l’onde anco agitate e grosse,
tal, se ben manca in lor co ’l sangue vòto
quel vigor che le braccia a i colpi mosse,
serbano ancor l’impeto primo, e vanno
da quel sospinti a giunger danno a danno.15
8
Per ogni goccia di sangue versato da Clorinda Tancredi verserà un mare di pianto: l’iperbole preannuncia l’importante
tema del lutto, che sarà ben visibile nel successivo canto XIII.
9
Cessaro alquanto: “si fermarono brevemente”.
10
Tancredi chiede il nome del suo avversario: non essendoci testimoni che possano esaltare il valore dei duellanti,
ricordandone le imprese, egli vuole almeno sapere con chi stia combattendo. Tancredi segue qui le leggi della cortesia;
Clorinda, fedele invece all’etica guerriera, rifiuta il galateo del duello cerimoniale e sfida l’avversario a tornare alle
armi.
11
Tancredi è colpito tanto nel suo dovere di soldato (si sta battendo con un nemico che ha appena apportato un grave
danno al suo esercito) quanto nel suo sentimento di cavaliere (l’avversario gli ha rifiutato di mostrarglisi, il che equivale
a un insulto).
12
È uno scontro terribile, nel quale («u’» è l’ubi latino, cioè “dove”) «l’arte» è finita «in bando» (cioè è stata mandata
in esilio), e nel quale il semplice «furor» si è sostituito alla «forza».
13
Spaziosa porta: “ampia ferita”
14
La vita non esce dal cuore soltanto in virtà dello sdegno nei confronti dell’avversario.
15
I duellanti sono paragonati al mare in tempesta, che continua ad essere agitato anche quando il vento è calato.
64 Ma ecco omai l’ora fatale è giunta
che ’l viver di Clorinda al suo fin deve.
Spinge egli il ferro nel bel sen di punta
che vi s’immerge e ’l sangue avido beve;16
e la veste, che d’or vago trapunta
le mammelle stringea tenera e leve,
l’empie d'un caldo fiume. Ella già sente
morirsi, e ’l piè le manca egro e languente.
65 Segue egli la vittoria, e la trafitta
vergine minacciando incalza e preme.
Ella, mentre cadea, la voce afflitta
movendo, disse le parole estreme;
parole ch’a lei novo un spirto ditta,
spirto di fé, di carità, di speme:17
virtù ch’or Dio le infonde, e se rubella
in vita fu, la vuole in morte ancella.
66 – Amico, hai vinto: io ti perdon... perdona18
tu ancora, al corpo no, che nulla pave,
a l’alma sì; deh! per lei prega, e dona
battesmo a me ch’ogni mia colpa lave. –
In queste voci languide risuona
un non so che di flebile e soave
ch’al cor gli scende ed ogni sdegno ammorza,
e gli occhi a lagrimar gli invoglia e sforza.
67 Poco quindi lontan nel sen del monte
scaturia mormorando un picciol rio.
Egli v’accorse e l’elmo empié nel fonte,
e tornò mesto al grande ufficio e pio.
Tremar sentì la man, mentre la fronte
non conosciuta ancor sciolse e scoprio.
La vide, la conobbe, e restò senza
e voce e moto. Ahi vista! ahi conoscenza!19
68 Non morì già, ché sue virtuti accolse
tutte in quel punto e in guardia al cor le mise,
e premendo il suo affanno a dar si volse
vita con l’acqua a chi co ’l ferro uccise.20
16
Si noti la sensualità della scena in cui Clorinda è ferita a morte: la spada penetra la giovane guerriera, mentre la ricca
veste s’intride di sangue e le si stringe intorno alle forme.
17
Ancora una volta la teleologia del racconto (la sua necessaria conclusione con la morte della musulmana) si confonde
alla teologia: in questo verso è presente la triade delle virtù teologali, che s’infondono nell’animo di Clorinda in punto
di morte, spingendola alla richiesta del battesimo, lei che ha da poco scoperto di avere genitori cristiani. Si notino le
parole in rima baciata: da rubella (“ribelle”) che era, Clorinda è divenuta adesso ancella, devota schiava (ritroveremo
questa parola più avanti, in un ben diverso contesto amoroso).
18
Bell’incrocio di aposiopesi e poliptoto: nel momento stesso in cui la parola “perdono” sta per ripetersi, il fiato manca
alla giovane mortalmente ferita, con uno studiato, languidissimo effetto.
19
Si osservi la quadripartizione di quest’ottava davvero centrale, nel canto e nel poema: i primi due versi sono
descrittivi (poco lontano dal luogo dello scontro c’è una fonte da cui prendere l’acqua per il battestimo); i secondi due
versi sono narrativi (Tancredi va a prendere l’acqua); la penultima coppia continua a sottolineare l’emozione del
Cristiano, tutto preso dalla sua missione religiosa (si passa così dalla descrizione esterna a quella interiore); il couplet
conclusivo gioca con la terna “cesariana” dei verbi nella forma dell’aoristo (azioni puntuali e definitive: Tancredi vede,
riconosce, resta senza fiato), seguita da due sintagmi bimembri, che restano aperti sulla impossibilità di reagire. Nel giro
di otto versi siamo passati dalla descrizione del panorama desertico intorno Gerusalemme alla visione in presa diretta
delle reazioni psichiche del personaggio.
Mentre egli il suon de’ sacri detti sciolse,
colei di gioia trasmutossi, e rise;
e in atto di morir lieto e vivace,
dir parea: «S’apre il cielo; io vado in pace».
69 D’un bel pallore ha il bianco volto asperso,
come a’ gigli sarian miste viole,
e gli occhi al cielo affisa, e in lei converso
sembra per la pietate il cielo e ’l sole;
e la man nuda e fredda alzando verso
il cavaliero in vece di parole
gli dà pegno di pace. In questa forma
passa la bella donna, e par che dorma.21
70 Come l'alma gentile uscita ei vede,
rallenta quel vigor ch’avea raccolto;
e l’imperio di sé libero cede
al duol già fatto impetuoso e stolto,
ch’al cor si stringe e, chiusa in breve sede
la vita, empie di morte i sensi e ’l volto.22
Già simile a l’estinto il vivo langue
al colore, al silenzio, a gli atti, al sangue.23
71 E ben la vita sua sdegnosa e schiva,
spezzando a forza il suo ritegno frale,
la bella anima sciolta al fin seguiva,
che poco inanzi a lei spiegava l’ale;
ma quivi stuol de’ Franchi a caso arriva,
cui trae bisogno d'acqua o d’altro tale,
e con la donna il cavalier ne porta,
in sé mal vivo e morto in lei ch’è morta.24
20
Il verso è costruito con un chiasmo, isolando agli estremi la vita e la morte e al centro gli strumenti della salvezza e
dell’uccisione. Come frequente in Tasso, questa figura retorica dell’ordine collabora con una figura retorica del
pensiero, il paradosso: la stessa persona che ha dato la morte, qui dà anche la vita (eterna).
21
La morte di Clorinda è esemplare della nuova ideologia controriformista: ella muore nella gioia della salvezza; la
donna qui per la prima volta ride e si abbandona lieta e quieta nelle mani del Signore. Del resto proprio lei, si ricordi,
unica in tutto lo schieramento “pagano”, al canto II aveva svolto una riflessione di carattere teologico sulla ritualità
musulmana, mostrando la sua sensibilità religiosa.
22
Secondo la teoria medico-psicologica dell’epoca, gli spiriti vitali s’incentravano intorno al cuore; un’eccessiva
emozione poteva restringerli tutti nella sede cardiaca e portare all’angoscia, all’incubo, allo svenimento. Tancredi, una
volta che la sua amata è morta, cede di schianto al dolore.
23
Tancredi, svenuto, è indistinguibile dalla morte Clorinda.
24
Alla dimensione religiosa che caratterizza la fine di Clorinda fa da contraltare la reazione del cavaliere cristiano, per
il quale il poeta utilizza delle espressioni ben degne della scrittura mistica (si veda per esempio il celebre Vivo sin vivir
en mí di san Juán de la Cruz): quanto a sé (in sé), egli è in pessime condizioni («mal vivo»); quanto all’amata («in lei»),
egli è invece «morto».