Sermone del 26 ottobre 2014 Confessate dunque i vostri peccati gli uni agli altri, pregate gli uni per gli altri affinché siate guariti; la preghiera del giusto ha una grande efficacia. Giacomo 5,16 A chi perdonerete i peccati, saranno perdonati; a chi li riterrete, saranno ritenuti Giovanni 20,23 Ultimo capitolo della Vita Comune di D. Bonhoeffer La Vita Comune termina con un capitolo un po' straniero: Confessare i peccati gli uni agli altri. Quando pensiamo alla confessione di peccato, è la liturgia forse il primo ambito che viene in mente: una confessione comunitaria, la consapevolezza della lontananza da Dio e l'ascolto della Parola di Grazia dell'Evangelo. “Confessate i peccati gli uni agli altri”, presente nell'epistola di Giacomo, una lettera che conosce le contraddizioni della vita comunitaria, i conflitti, la necessità di affrontarli, è invece un'esortazione personale a condividere con il fratello, con la sorella, non solo il bene, ma anche il male che si compie. La comunità riesce più facilmente a riconoscersi come comunità di uomini e donne pie, che come comunità di uomini e donne colpevoli, peccatori. Non è permesso essere peccatori: così, dice Bonhoeffer, si vive nella menzogna e nell'ipocrisia. Sono allenata a vedere il peccato nel fratello, nella sorella, ma resto sola con il mio peccato, lo nascondo. Eppure Gesù frequentava soprattutto peccatori e peccatrici, persone che manifestatamente si situavano lontano da Dio e insegnava che il riconoscimento del proprio peccato è il primo passo sulla via della croce, del seguire Gesù. Il peccato vuole rimanere nascosto, teme la luce, vuole restare solo con l'essere umano, il peccato teme la comunità. Nell'oscurità del silenzio avvelena tutto l'essere. E questo può accadere proprio in mezzo alla comunità pia. Ma ciò che confesso apertamente trova la luce dell'Evangelo e spoglia il peccato del suo potere. Quando confesso il mio peccato ad una sorella, o a un fratello, esso perde il suo potere su di me e sulla comunità stessa, non può più spezzarla. Confessare il proprio peccato reciprocamente va insieme al portare i pesi gli uni degli altri. “Finché non ho sperimentato l’altro come un peso da portare, io non sono suo fratello”. Bonhoeffer lo dice commentando “portate i pesi gli uni degli altri” del testo paolino. Assunto l’altro come limite io posso anche arrivare a sperimentarlo come dono, a vederlo trasfigurato. La comunità non è dunque luogo scontato, somma degli individui che ne fanno parte, ma dono che scuote la mia stessa identità, perché mi chiede di includere in me, nei miei pensieri, nelle mie azioni, le altre e gli altri. Nel momento in cui Cristo risorto saluta i suoi, nel vangelo di Giovanni, lascia loro un compito reciproco: in primo luogo porgere orecchio, rendere ascolto. Non è evidente. Vuol dire interrompere il monologo del mio essere pio. Vi propongo, ora, un testo indiano anonimo. Un vecchio si rivolge a chi lo aiuta e dice: “Quando ti chiedo di ascoltarmi e tu cominci a darmi dei consigli, tu non fai ciò che ti ho chiesto. Quando ti chiedo di ascoltarmi e tu senti di dover fare qualcosa per risolvere il mio problema, tu manchi nei miei confronti. Ascolta! Tutto ciò che ti chiedo è che tu mi ascolti, non che tu parli, non che tu faccia qualcosa per me. Ti chiedo unicamente di ascoltarmi. Io posso agire e fare delle cose da me stesso, non sono impotente. Sì, sono un po’ stanco, scoraggiato, esitante, vacillante ma non impotente. Quando tu fai qualcosa per me che io stesso posso e ho bisogno di fare, tu contribuisci alla mia paura e accentui la mia inadeguatezza, ma quando tu accetti come un semplice fatto che io senta ciò che sento - fosse anche per dirla con Giobbe, le imprecazioni e le bestemmie, la ribellione, la violenza che emerge - io posso smettere di convincerti e posso tentare di cominciare a comprendere che cosa c’è dietro questi miei sentimenti irrazionali. Quando è chiaro, le risposte diventano evidenti e non ho bisogno di consigli.” La vita comune mi scortica, fa emergere quello che sono nel profondo e che normalmente tendo a nascondere. Per questo ho bisogno di confessare il mio peccato. Nel fratello, nella sorella che ascolta, Cristo ha posto un mezzo di grazia per me. Egli, ella, sta al posto di Cristo, con lui, con lei, non occorre che mi comporti come un ipocrita, un attore che dissimula. Cristo è divenuto umano per simpatizzare pienamente con l'umanità e ora l'umanità, il mio fratello, la mia sorella mi sono messi accanto perché mi ricordino Cristo. Eppure, se sono disposto a confessare il mio peccato a Dio, perché faccio tanta resistenza davanti a mio fratello, a mia sorella? Se di fronte al Signore, il Creatore, il Dio santo non ho paura, che terrore mi trattiene davanti a qualcuno che condivide con me la stessa sorte, che è peccatore, peccatrice come me? Forse devo chiedermi se non inganno me stessa con la mia confessione a Dio, se non ho piuttosto confessato i miei peccati a me stessa e me li sono pure perdonati. Le innumerevoli ricadute, la debolezza della nostra obbedienza cristiana non devono essere ricercate proprio nel fatto che viviamo in un perdono che noi stessi ci concediamo? Lungi dall'essere un opera meritoria, un 'opera buona che mi rende degna della salvezza, confessare il peccato alla luce dell'ascolto di un fratello o di una sorella, mi mette sulla via della croce. Di fronte alla sorella che mi ascolta, al fratello che annuncia il perdono, cade ogni mia pretesa di giustizia e di autosufficienza. E' la via della conversione. Solo Cristo, che è al centro della Riforma è il sì di Dio davanti al no del mio peccato, la luce che illumina la mia tenebra. E la mia vita non è più la stessa, le cose vecchie sono passate, ecco sono diventate nuove. Cristo mi concede di incominciare da capo. Come i primi discepoli alla chiamata di Gesù abbandonarono tutto e lo seguirono, così il cristiano nella confessione abbandona tutto e segue Cristo. “Confessione vuol dire seguire Cristo”. Per noi battisti, così fieri del rapporto personale con Dio, la confessione può sembrare retaggio di cattolicesimo. Non è sacramento, ma esercizio di non autosufficienza. Riconosco così che il mio peccato non riguarda solo me e il Signore, ma riguarda me e il mio fratello, me e la mia sorella, ha conseguenze su tutta la comunità. Confessare è avere fiducia che il mio peccato viene assunto e ridotto a niente. Facendo attenzione al rischio del moralismo, del tribunale dei pii, chi può ascoltare la mia confessione? Un fratello, una sorella, che vivono la libertà del cristiano come perdono dei propri peccati. Chi mi comprenderà? Chi vive sotto la croce, chi ha provato tutto lo sgomento di fronte al proprio peccato e sa che Gesù Cristo lo ha portato sulla croce. Non è tanto l'esperienza della vita, quanto l'esperienza della croce che ci rende capaci di ascoltare. E non ergiamoci subito a giudici: ritenere il peccato del fratello è metterlo di fronte alla croce di Cristo, è il Signore che opera, non io che condanno. Soprattutto la vita comune è il luogo del perdono, dove noi possiamo veramente fare l’esperienza di Dio che è misericordia e dove possiamo rimettere il peccato dell’altro, far prevalere un rapporto di grazia a un rapporto giuridico. Nel perdono io dico a te che hai compiuto questo atto, che hai ferito la mia fedeltà, il mio amore: ebbene io non voglio ridurti all’atto che hai compiuto. Credo che tu sei migliore della tua azione, faccio un’apertura di credito grande verso di te e voglio che la relazione con te continui pur attraverso questa ferita che è stata inflitta. Nel perdono io sono chiamato ad assumere, a pagare per l’altro, a portare le conseguenze del male che l’altro ha fatto, o almeno a condividerle con lui, con lei. Per esercitare la “riprensione fraterna” occorre molta molta libertà e maturità interiore e grande fede per vedere se si è capaci di dare e ricevere perdono. Questo ultimo punto è certamente uno di quelli che più può mostrare il significato della vita comune. Nel perdono che ci scambiamo gli uni gli altri si può fare un’esperienza reale di Dio e della sua misericordia. E' soprattutto davanti e prima della Cena del Signore che la comunità si configura come luogo di perdono. Sia il tempo che ci separa dalla celebrazione della cena il tempo in cui possiamo riconciliare i nostri cuori con i fratelli e le sorelle. La comunità è esercizio, cammino di vita nuova verso la croce di Cristo, allegrezza in Cristo quando il pane e il vino diventano il dono del corpo e del sangue di Gesù Cristo e in esso il perdono, la vita nuova e la beatitudine. Cristina Arcidiacono
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