NOTA DI DISCUSSIONE SUI SALARI MINIMI IN EUROPA – SEMINARIO DI VARSAVIA DELLA COMMISSIONE CES SULLA CONTRATTAZIONE COLLETTIVA Gli sviluppi del dibattito europeo sui salari minimi A sei anni dall’esordio della crisi, appare ormai del tutto chiaro come i tentativi di gestione basati su tagli salariali e riforme strutturali neoliberiste non solo non siano stati in grado di generare crescita e occupazione, ma abbiano piuttosto causato serie ripercussioni sociali, quali ad esempio il sostanziale incremento della povertà sul lavoro. Su questo sfondo, il dibattito sul salario minimo in Europa acquisisce un rinnovato slancio. Nell’estate del 2014 la Germania ha assunto la decisione di introdurre un salario minimo di legge pari a 8,50 euro a partire dall’1 gennaio 2015, stabilendo inoltre che gli accordi risultanti dalla contrattazione collettiva potessero prevedere deroghe temporanee da questo livello di partenza. Nel frattempo in Italia il governo Renzi propone l’introduzione di un salario minimo stabilito per legge attraverso una norma volta a riformare il codice del lavoro la quale, ironia della sorte, si incammina piuttosto verso un’ulteriore deregolamentazione del mercato del lavoro. Tutto ciò non appare privo di conseguenze per il dibattito politico in Europa, in un contesto in cui il concetto di salario minimo europeo sta guadagnando terreno. In particolare, l’Alleanza Progressista dei Socialisti e dei Democratici ha sfruttato l’idea di porre il sostegno europeo a favore dei salari minimi quale condizione essenziale per l’approvazione del presidente designato della Commissione, Jean Claude Juncker. In effetti nel suo discorso al Parlamento Europeo, il Presidente ha fatto riferimento alla necessità che l’Europa garantisca l’introduzione di un salario minimo in ciascuno Stato membro. Lo stato del dibattito all’interno della CES Nelle sue varie risoluzioni e posizioni su salari e contrattazione collettiva adottate a partire dal Congresso di Atene, la CES ha optato per un approccio di vasta portata, tenendo conto di diversi elementi al fine di definire una strategia salariale europea coordinata: • rafforzare il coordinamento della contrattazione collettiva, sia internamente, sia nel quadro della Governance Economica; • promuovere l’incremento salariale quale motore per la crescita economica, mantenendo i salari reali in linea con gli sviluppi della produttività; • difendere e rafforzare le istituzioni della contrattazione collettiva nonché l’autonomia delle parti sociali nella negoziazione salariale; • ampliare la copertura della contrattazione collettiva e degli erga omnes; • introdurre e/o rafforzare i sistemi dei salari minimi stabiliti per legge o attraverso la contrattazione collettiva, in base alle pratiche nazionali e in quei paesi in cui le organizzazioni sindacali lo ritengano necessario. Per quanto riguarda quest’ultimo elemento, nella sua risoluzione per un Patto Sociale Europeo (giugno 2012) la CES si era dichiarata favorevole all’introduzione di salari minimi che rispettassero le norme stabilite dal Consiglio d’Europa, il quale nella sua Carta Sociale Europea del 1961 prevede che “tutti i lavoratori hanno diritto ad un’equa retribuzione che 1 assicuri a loro e alle loro famiglie un livello di vita soddisfacente” (Parte I, Articolo 4). Da allora il Comitato Europeo dei Diritti Sociali (ECSR) del Consiglio d’Europa ha formulato una definizione in base alla quale per salario “equo” o “dignitoso” si intende un salario pari ad almeno il 60%, e comunque non inferiore al 50%, del salario medio netto. Tuttavia tale riferimento non risulta così chiaro come potrebbe apparire a prima vista. Questa definizione di salario “equo” o “dignitoso” solleva almeno tre argomenti di discussione: (1) Salario equo, dignitoso e minimo: alcune definizioni di base Il Consiglio d’Europa non fa riferimento ad un salario “minimo” in quanto tale, ma definisce piuttosto valori di riferimento tra il 50 e il 60% che costituirebbero un salario “equo”. Si tratta di una definizione causa di confusione che necessita di un ulteriore chiarimento. Nel Regno Unito il concetto di salario di sussistenza si avvicina in maggior misura alla definizione data dalla Carta Sociale Europea, poiché fa riferimento ad un salario che permette all’individuo di soddisfare le necessità elementari e di mantenere uno standard di vita sicuro e dignitoso all’interno della comunità, consentendo inoltre la partecipazione alla vita sociale e culturale. Attualmente nel Regno Unito il salario di sussistenza nazionale è pari a circa il 60% del salario mediano nazionale. Il concetto di salario di sussistenza comporta non solamente l’introduzione di un minimo salariale di base, ma anche l’ambizione di garantire uno standard di vita “dignitoso”. Figura 1: salario minimo come percentuale del salario mediano a tempo pieno Fonte: OCSE e per la Germania i calcoli del WSI basati sulle statistiche occupazionali fornite dall’Agenzia federale tedesca per l’occupazione Con riferimento all’introduzione di un livello salariale minimo, nel quadro del dibattito sui salari minimi in Europa risultano utili due ulteriori definizioni. Si tratta della soglia dei salari bassi secondo la definizione dell’OCSE, pari ai due terzi del salario mediano nazionale, e la soglia del salario di povertà la quale, sulla base delle ricerche sulla povertà a livello internazionale, può essere definita come il 50% del salario mediano. La figura seguente mostra i vari livelli dei salari minimi nazionali stabiliti per legge quale percentuale del salario 2 mediano nazionale. L’immagine evidenzia come il salario minimo di legge non raggiunga in nessuno Stato dell’UE la soglia dei salari bassi secondo la definizione ufficiale dell’OCSE. I paesi che più si avvicinano a questo livello sono la Francia con il 62%, la Slovenia con il 60% e il Portogallo con il 58%. Il grafico mostra inoltre come solo altri quattro paesi (Ungheria, Belgio, Lettonia e Germania) si collochino al di sopra della soglia del salario di povertà. La situazione appare alquanto differente nei paesi nordici, in cui i salari minimi oggetto della contrattazione collettiva si collocano di norma tra il 60 e il 70% del salario mediano nazionale, raggiungendo quindi livelli significativamente superiori rispetto agli altri paesi dell’UE. (2) Salari netti e salari lordi La definizione del Consiglio d’Europa fa riferimento ai salari netti piuttosto che ai salari lordi. Il vantaggio di questa scelta sta nel fatto che innanzitutto il punto di riferimento è l’importo che i lavoratori mettono effettivamente in tasca a fine mese; in secondo luogo, il salario netto tiene conto di altre politiche di redistribuzione, ad esempio attraverso i sistemi fiscali progressivi. Il problema essenziale insito nella scelta dei salari netti quale riferimento sta nella complessità del calcolo del valore netto dei salari una volta dedotti i contributi previdenziali e le imposte. Per questa ragione la maggior parte dei database internazionali utilizza come riferimento il salario lordo. Ulteriore argomentazione contro l’utilizzo dei salari netti quale riferimento è che l’onere di garantire salari dignitosi si sposta dai datori di lavoro allo Stato, al quale spetta garantire salari netti sufficientemente elevati attraverso politiche di redistribuzione e interventi di compensazione. (3) Salario medio e salario mediano Il Consiglio d’Europa utilizza quale concetto di riferimento il salario “medio” e non il salario “mediano”, solitamente utilizzato quale riferimento nei confronti a livello internazionale. Mentre il salario medio rappresenta la media aritmetica di tutti i salari, il salario mediano suddivide la struttura salariale generale in due segmenti uguali, in cui una metà dei lavoratori guadagna un importo superiore rispetto al salario mediano, mentre l’altra metà guadagna un importo inferiore. È evidente come la scelta dell’elemento di riferimento comporti conseguenze pratiche ai fini del confronto. La Tabella 1, che classifica i paesi con un salario minimo di legge sulla base della percentuale del salario mediano e medio, mostra come il salario medio sia assai più sensibile a chi si posiziona agli estremi della struttura salariale generale rispetto al salario mediano. Turchia e Portogallo esemplificano quanto sopra indicato. Entrambi i paesi si collocano in alto nella tabella quando il salario minimo viene misurato come percentuale del salario mediano, ma si collocano solamente nella parte centrale della classifica quando come riferimento viene prescelto il salario medio. Nel 2013 il salario minimo in Turchia era pari a quasi il 70% del salario mediano, ma era appena il 38% del salario medio. Per il Portogallo le cifre sono rispettivamente il 56% del salario mediano e il 38% del salario medio. Le differenze nella posizione in classifica dei due paesi possono essere spiegate con la struttura salariale fortemente iniqua vigente in Turchia e in Portogallo, come pure con l’influenza della forte economia illegale, all’interno della quale per molti lavoratori il salario minimo rappresenta lo standard. Ciò significa che pochi salari estremamente elevati spingono verso l’alto il salario medio, mentre il salario mediano, quale più solido indicatore, appare meno sensibile ai pochi dati estremi o aberranti. 3 Tabella 1: Salari minimi di legge quale percentuale dei salari mediani e medi per lavoratori a tempo pieno (2013) Francia Slovenia Irlanda Belgio Olanda Ungheria Polonia Lituania Regno Unito Portogallo Turchia Rep. Slovacca Lettonia Spagna Lussemburgo Romania Estonia Repubblica Ceca Grecia Stati Uniti Salario medio 50 50 44 43 42 40 40 40 39 38 38 36 36 35 34 34 33 31 30 27 Turchia Francia Slovenia Portogallo Ungheria Lituania Belgio Polonia Romania Irlanda Lettonia Olanda Regno Unito Rep. Slovacca Grecia Spagna Lussemburgo Estonia Stati Uniti Repubblica Ceca Salario mediano 69 61 61 56 54 52 50 50 50 48 48 47 47 46 45 41 41 39 37 36 Fonte: http://stats.oecd.org/BrandedView.aspx?oecd_bv_id=lfs-data-en&doi=data-00313-en Le opportunità di un approccio al salario minimo europeo Il salario minimo può costituire un utile strumento per rafforzare i livelli dei salari versati a gruppi relativamente ampi di lavoratori. Secondo le stime, circa il 16% dei lavoratori europei risulterebbe avvantaggiato se in Europa il salario minimo raggiungesse lo standard del 60% del salario mediano (per la situazione in diversi paesi vedere il grafico che segue). 4 Figura 2: Lavoratori che percepiscono un salario inferiore al 60% del salario mediano nazionale (2010) Inoltre, probabilmente emergerebbero ulteriori effetti positivi sui due successivi decili di lavoratori, ciò che significherebbe che circa un terzo dei lavoratori potrebbe trarre vantaggio da un intervento che utilizzi come riferimento per il salario minimo il 60% del salario mediano nazionale. Queste stime vanno tuttavia considerate tenendo bene a mente alcune riserve: (1) Il salario minimo di legge non sempre è pienamente vincolante, come indicato dal grafico che segue. Basato su uno studio di Eurofound, il grafico evidenzia come in diversi paesi (Francia, Lituania, Irlanda, Regno Unito) una percentuale tra il 5% e poco meno del 10% dei lavoratori guadagni un salario inferiore al salario minimo di legge. La spiegazione sta nel problema della non conformità e nell’esistenza di determinate deroghe al salario minimo di legge (ad esempio per i lavoratori giovani). Un caso recente che illustra quanto sopra riguarda il salario minimo tedesco, che ha permesso di innalzare il livello salariale di 4 milioni di lavoratori, ma che non comporta effetto alcuno sui salari di oltre 2 milioni di altri lavoratori, dato che i lavoratori di età inferiore ai 18 anni, come pure i disoccupati di lungo periodo durante i primi sei mesi di lavoro, risultano esclusi dal regolamento in materia di salario minimo. 5 Figura 3: Percentuale dei lavoratori con retribuzione inferiore al salario minimo nazionale in vigore (2009) La stessa questione può essere considerata analizzando la percentuale di lavoratori che effettivamente riceve il salario minimo in vigore. Si tratta di numeri assai limitati, se si eccettuano Francia, Lussemburgo e Bulgaria. Figura 4: Percentuale di lavoratori a tempo pieno che percepiscono il salario minimo (2007) Fonte: Commissione, DG ECFIN, seminario ETUI 2012: “Salari minimi: cosa sappiamo e cosa non sappiamo” In altri termini, l’incremento dei salari minimi dai livelli attuali tenderebbe a non mostrare ripercussioni su una gran fetta dei lavoratori, a meno che non si tratti di incrementi 6 considerevoli. In quest’ultimo caso, come ad esempio utilizzando il criterio del 60% del salario mediano, una tale misura risulterebbe probabilmente accompagnata da numerosissime deroghe. Ciò comporta che l’ipotesi in base alla quale il 16% dei lavoratori trarrebbe vantaggio da un salario minimo del 60% potrebbe nella realtà dimostrarsi sovrastimata. (2) Si collega a quanto sopra il dibattito sull’impatto dei salari minimi sui posti di lavoro. Sebbene non vi siano assolutamente prove in base alle quali i salari minimi allo stato attuale, ovvero a un massimo di circa il 50% del salario mediano, distruggano occupazione, non è possibile prevedere le conseguenze qualora i salari minimi raggiungessero il 60% del salario mediano. Si potrebbe sostenere che, in linea teorica, un salario minimo legale pari al 60% del salario mediano obbligatorio per tutti i settori potrebbe scatenare una distruzione di posti di lavoro in misura maggiore rispetto a salari minimi stabiliti grazie alla contrattazione collettiva e con la possibilità di variazioni tra diversi settori (con alcuni settori che pagherebbero una percentuale inferiore al 60% del salario mediano dell’economia, mentre altri corrisponderebbero percentuali superiori). (3) Un ulteriore vantaggio di un approccio europeo in materia di salari minimi consisterebbe nel dimostrare che l’Europa ha anche un volto sociale. La promozione di un tale approccio potrebbe quindi rivelarsi essenziale al fine di mantenere il sostegno dei lavoratori e delle organizzazioni sindacali a favore della prosecuzione del processo di integrazione europea nella costruzione di una governance economica europea e in vista del completamento del mercato interno della concorrenza. Limiti e insidie di un approccio europeo al salario minimo Nel dibattito su un approccio europeo al salario minimo è necessario tenere conto di alcuni aspetti: (1) “Il 60% di un salario molto basso è comunque un salario basso”. In molti Stati membri i salari medi o mediani risultano estremamente bassi, pari addirittura a 5 o 6 euro all’ora, e ciò nonostante incrementi talvolta anche notevoli della produttività. L’introduzione di una regola secondo la quale i salari minimi dovrebbero risultare pari al 60% del salario mediano incrementerebbe il salario minimo in questi casi, ma le conseguenze sulla situazione salariale generale sarebbero comunque limitate. (2) “Quando l’intera struttura salariale crolla, crollano anche i livelli più bassi”. È esattamente quanto è accaduto in Grecia. La Troika ha minato alla base l’intero sistema della contrattazione collettiva; di conseguenza, si è assistito ad un crollo dei salari medi e mediani. A sua volta, ciò ha comportato l’incremento automatico del salario minimo in vigore al 50% del salario mediano. Non intendendo tollerare un tale sviluppo, la Troika ha deciso di tagliare il salario minimo in termini assoluti/nominali, riportandolo al 40% del salario mediano. Per questa ragione, un approccio europeo al salario minimo dovrà essere discusso tenendo sempre in debita considerazione misure volte a rafforzare i sistemi nazionali della contrattazione collettiva, al fine di prevenire “frane” come quella esemplificata in precedenza, che potrebbero comportare il crollo dell’intero edificio salariale. (3) La sentenza Laval e il pericolo che un livello minimo europeo possa trasformarsi in un tetto massimo nazionale. La sentenza Laval e i casi a questa correlati hanno fatto 7 comprendere come, con riferimento alla direttiva distacchi, il salario minimo venga utilizzato quale soglia per la definizione del dumping sociale e per stabilire se le organizzazioni sindacali possano avviare azioni volte a garantire il rispetto del salario stabilito nella contrattazione collettiva. L’introduzione di una soglia europea in materia di salario minimo potrebbe essere utilizzata allo stesso modo per sostenere che è sufficiente il mero rispetto di tale riferimento europeo, anche qualora ciò dovesse comportare il versamento di una retribuzione inferiore rispetto ai salari stabiliti tramite la contrattazione collettiva. Ciò potrebbe riguardare anche i lavoratori distaccati e toccare per estensione tutti i lavoratori, ad esempio rimettendo in questione la necessità di allargare il campo di applicazione degli accordi della contrattazione collettiva o la necessità di versare un salario minimo più elevato eventualmente stabilito a livello nazionale. A tale proposito, appaiono assai significativi i recenti dibattiti nel quadro del Dialogo Sociale Europeo, con i datori di lavoro che sostengono che non sia necessario aderire al principio di “parità di salario a parità di lavoro”, sentendosi invece solamente obbligati al versamento di un salario minimo. (4) Trasferimento potenziale di competenza in materia di salari a governi, ministri delle finanze e banche centrali. Una volta che il salario minimo divenga una questione di legge e risulti imposto dal diritto del lavoro, spetterebbe ai governi la scelta di aumentarlo o di ridurlo. È una possibilità da considerare quanto meno con cautela in un contesto in cui è stata compiuta la scelta politica di perseguire una svalutazione interna dei salari in sostituzione della svalutazione valutaria competitiva. Inoltre il FMI e altre istituzioni stanno già utilizzando uno standard di salario minimo che non dovrebbe risultare inferiore al 30% e superiore al 40% del salario mediano. D’altro canto è importante anche evitare una situazione in cui i sistemi di formazione dei salari a livello nazionale vengano pesantemente svuotati di significato, senza che al contempo siano stati previsti limiti alla concorrenza salariale al ribasso in Europa. Più precisamente, per quale ragione c’è bisogno di un salario minimo? Di norma, le argomentazioni che sostengono la necessità di un salario minimo sono due, diverse fra di loro ma al tempo stesso complementari: (1) La prima è un’argomentazione normativa e fa riferimento al semplice fatto che tutti i lavoratori hanno diritto ad un salario dignitoso – diritto sociale fondamentale che già costituiva parte integrante della Dichiarazione Universale dei diritti umani delle Nazioni Unite del 1948. Questa argomentazione normativa prevede anche l’obiettivo di ridurre la povertà in generale, e in particolare il fenomeno dei lavoratori poveri. (2) La seconda argomentazione è di natura economica e si pone l’obiettivo di garantire un modello di crescita in grado di autosostenersi attraverso un processo di domanda trainata dai salari, evitando al contempo tendenze deflazionistiche. In questo caso, il ruolo specifico del salario minimo consisterebbe nell’impedire che ai lavoratori venga versato un salario inferiore rispetto al loro contributo alla produttività, garantendo un salario equo alla base della scala salariale. Tuttavia, anche se il salario minimo è uno strumento utile e necessario per raggiungere questo scopo, non è di per sé sufficiente e deve quindi essere completato da politiche volte al rafforzamento della copertura della contrattazione collettiva, se veramente si 8 intende conseguire una crescita trainata dai salari (attraverso varie forme di estensione della contrattazione e norme erga omnes, oppure misure con conseguenze equivalenti, ad esempio elevati tassi di sindacalizzazione). Il ricorso a approcci differenti comporta anche l’utilizzo di indicatori differenti. Il primo approccio comporta la necessità di considerare il livello del salario minimo quale percentuale del salario mediano/medio in termini netti. Il grafico che segue, tratto dall’ultimo Employment Outlook dell’OCSE, mostra come i salari minimi relativi in termini netti risultino assai bassi. Solamente Francia, Slovenia, Olanda e Portogallo raggiungono un livello intorno al 50% del salario mediano. Il secondo approccio fa riferimento al salario minimo quale prezzo totale da versare da parte del datore di lavoro, con il prezzo del lavoro che copre il salario netto, le imposte, come pure i contributi previdenziali versati dai lavoratori e quelli versati dal datore di lavoro. Ciò corrisponderebbe a quello che l’OCSE chiama “costi minimi del lavoro”. In questo caso Francia, Slovenia e Portogallo presentano indicatori che raggiungono il 70% del salario mediano. Figura 5 Da ultimo, va rilevato come il riferimento del Consiglio d’Europa ad un salario tra il 50% e il 60% del salario medio (non del salario mediano) venga reso ancora più complesso in ragione del fatto che il Consiglio lo considera in “termini netti”, ovvero sulla base del potere d’acquisto netto del salario minimo una volta detratte le imposte e le prestazioni correlate con il lavoro. Questa definizione non risulta del tutto chiara, ma molto probabilmente 9 comporterebbe comunque la necessità di considerare gli indicatori netti in questo grafico dell’OCSE. Quali percorsi verso il futuro? Va detto che in Germania si sono registrati progressi per quanto riguarda l’introduzione di un salario minimo, con una “riforma” attesa da tempo e che ora sta influenzando anche il dibattito sui salari in Europa. Tuttavia restano da affrontare alcuni problemi chiave per la CES e i suoi affiliati: (1) Un elemento chiave riguarda il fatto che la nostra definizione di standard europeo in materia di salario minimo è tutt’altro che precisa e necessita quindi di un chiarimento (vedere i punti di cui sopra). (2) Ulteriore elemento chiave sta nel come evitare che politici e datori di lavoro sfruttino la nostra richiesta di un salario minimo contro di noi, ovvero contro la possibilità che i salari vengano stabiliti dai sistemi della contrattazione collettiva e contro il principio di parità di salario a parità di lavoro. I seguenti approcci al salario minimo in Europa ci consentono di avviare la ricerca delle risposte a queste domande: (1) Reindirizzare il nostro punto di riferimento da un salario relativo basato sul salario nazionale medio/mediano ad uno standard salariale europeo unico adeguato alla parità del potere d’acquisto. Tale approccio presenta il vantaggio di considerare i diversi costi della vita nei vari paesi europei. La figura 6 mostra un confronto tra il livello assoluto dei salari minimi in euro e il valore dei salari minimi misurati secondo gli standard del potere d’acquisto (PPS). Il confronto mostra come le differenze nel livello del salario minimo misurato in PPS siano di gran lunga inferiori rispetto alle differenze in termini assoluti misurate in euro. Mentre la differenza tra il salario minimo più alto e più basso misurati in euro risulta grosso modo pari a 1:11, la differenza in termini di PPS risulta di gran lunga inferiore, essendo pari a 1:4,5. 10 Figura 6: Salari minimi in base al livello assoluto e secondo lo standard del potere d’acquisto Fonte: Database sul salario minimo WSI (gennaio 2014) Un metodo per il calcolo di uno standard salariale adeguato, potenzialmente utilizzabile di concerto con altri metodi, potrebbe ad esempio basarsi sul riferimento ad un salario minimo nazionale misurato in PPS, utilizzando tale valore quale riferimento per i livelli di salario minimo di altri paesi, adeguandolo tuttavia tenuto conto della differenza degli standard di vita in base ai diversi livelli dei prezzi negli Stati membri. (2) Un’ulteriore possibilità consisterebbe nel passare ad un approccio al salario di sussistenza per gradi. Di norma il salario di sussistenza viene calcolato sulla base del salario necessario a coprire i costi di un paniere di base di beni essenziali che di solito include (a) il costo dei bisogni essenziali, come ad esempio una dieta a basso costo e nutriente, un alloggio di base oltre ad abbigliamento e calzature adeguate, come pure (b) i costi di altre necessità quali trasporto, istruzione e cura dei figli, sanità, arredamento della casa, attività culturali e ricreative, comunicazione e cura della persona. A titolo di esempio, nel caso del salario di sussistenza per la città di Londra (vedere altri testi forniti per il dibattito in corso sul tema nel Regno Unito), tale approccio basato sul “Costo di base della vita” costituisce una parte del calcolo, con l’altra parte che è rappresentata dall’approccio basato sulla cosiddetta “Distribuzione del reddito”, che tiene conto del solo riferimento del 60% del salario mediano. Il salario di sussistenza definitivo viene quindi calcolato quale media delle due cifre risultanti dai due approcci: quello basato sul Costo di base della vita e quello basato sulla Distribuzione del reddito (oltre a un margine del 15% a copertura di eventi imprevisti). Il vantaggio di un calcolo basato su un paniere di beni sta nella sua solidità empirica riguardo alle risorse effettivamente necessarie per garantire uno standard di vita dignitoso. L’evidente svantaggio sta nella complessità del calcolo di uno standard esatto, in particolare quando si tratta di tenere conto di 28 paesi europei differenti. Tuttavia vi sono già esempi di paesi in cui 11 un tale metodo incentrato su un paniere di beni standardizzato viene utilizzato ai fini della contrattazione collettiva. Ad esempio, in Belgio tale metodo viene utilizzato come strumento per la determinazione dell’indicizzazione dei salari, mentre in Svezia e in Italia il metodo viene utilizzato per definire le rivendicazioni salariali agli estremi inferiori della scala salariale, oppure per stabilire gli incrementi salariali legati alle tendenze dell’inflazione. Alla luce della grande diversità tra i livelli nazionali dei salari minimi (vedere la Figura 1), l’approccio per gradi al salario di sussistenza sembrerebbe quello più facilmente percorribile dal punto di vista politico. Tale approccio dovrebbe prevedere il conseguimento dell’obiettivo di breve periodo consistente nell’innalzamento dei salari minimi in tutti i paesi europei, spingendoli almeno fino alla soglia del salario di povertà pari al 50% del salario mediano nazionale. Una volta raggiunta questa soglia, l’obiettivo successivo è la soglia del salario di sussistenza. (3) Siffatto standard salariale europeo o salario di sussistenza dovrebbe ad ogni buon conto essere stabilito per legge e/o per il tramite della contrattazione collettiva, in base alle diverse pratiche nazionali e strategie sindacali. (4) Tuttavia, indipendentemente dallo standard prescelto, l’elemento chiave di tutti gli approcci sta nell’insistere sull’importanza del collegamento con forti sistemi di contrattazione collettiva dei salari, attraverso la promozione di alti tassi di copertura della contrattazione stessa da conseguire attraverso diversi strumenti (erga omnes, altre modalità di allargamento, oppure elevati tassi di sindacalizzazione, potenzialmente da considerarsi come equivalenti funzionali). Va rilevato come la Germania non abbia solamente introdotto un salario minimo, ma abbia anche deciso di rendere più agevole l’applicazione degli obblighi ‘erga omnes’, rafforzando così il sistema della contrattazione collettiva. L’ironia sta nel fatto che a livello europeo il governo tedesco è uno di quelli che più spinge i paesi in difficoltà finanziarie verso riforme strutturali che comportano esattamente l’opposto: l’indebolimento e la rinuncia all’estensione della contrattazione e alle regole ‘erga omnes’. In conclusione, questa nota si pone l’obiettivo di avviare un ampio dibattito sui diversi temi e sui vari approcci, con l’obiettivo di identificare una loro combinazione equilibrata che permetta di definire una posizione della CES più chiara e maggiormente efficace sul crescente dibattito a livello europeo in materia di minimi salariali. 12
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