Gli sviluppi del dibattito europeo sui salari minimi Lo stato del

NOTA DI DISCUSSIONE SUI SALARI MINIMI IN EUROPA – SEMINARIO DI
VARSAVIA DELLA COMMISSIONE CES SULLA CONTRATTAZIONE
COLLETTIVA
Gli sviluppi del dibattito europeo sui salari minimi
A sei anni dall’esordio della crisi, appare ormai del tutto chiaro come i tentativi di gestione
basati su tagli salariali e riforme strutturali neoliberiste non solo non siano stati in grado di
generare crescita e occupazione, ma abbiano piuttosto causato serie ripercussioni sociali, quali
ad esempio il sostanziale incremento della povertà sul lavoro. Su questo sfondo, il dibattito
sul salario minimo in Europa acquisisce un rinnovato slancio.
Nell’estate del 2014 la Germania ha assunto la decisione di introdurre un salario minimo di
legge pari a 8,50 euro a partire dall’1 gennaio 2015, stabilendo inoltre che gli accordi
risultanti dalla contrattazione collettiva potessero prevedere deroghe temporanee da questo
livello di partenza. Nel frattempo in Italia il governo Renzi propone l’introduzione di un
salario minimo stabilito per legge attraverso una norma volta a riformare il codice del lavoro
la quale, ironia della sorte, si incammina piuttosto verso un’ulteriore deregolamentazione del
mercato del lavoro.
Tutto ciò non appare privo di conseguenze per il dibattito politico in Europa, in un contesto in
cui il concetto di salario minimo europeo sta guadagnando terreno. In particolare, l’Alleanza
Progressista dei Socialisti e dei Democratici ha sfruttato l’idea di porre il sostegno europeo a
favore dei salari minimi quale condizione essenziale per l’approvazione del presidente
designato della Commissione, Jean Claude Juncker. In effetti nel suo discorso al Parlamento
Europeo, il Presidente ha fatto riferimento alla necessità che l’Europa garantisca
l’introduzione di un salario minimo in ciascuno Stato membro.
Lo stato del dibattito all’interno della CES
Nelle sue varie risoluzioni e posizioni su salari e contrattazione collettiva adottate a partire dal
Congresso di Atene, la CES ha optato per un approccio di vasta portata, tenendo conto di
diversi elementi al fine di definire una strategia salariale europea coordinata:
•
rafforzare il coordinamento della contrattazione collettiva, sia internamente, sia nel quadro
della Governance Economica;
•
promuovere l’incremento salariale quale motore per la crescita economica, mantenendo i
salari reali in linea con gli sviluppi della produttività;
•
difendere e rafforzare le istituzioni della contrattazione collettiva nonché l’autonomia delle
parti sociali nella negoziazione salariale;
•
ampliare la copertura della contrattazione collettiva e degli erga omnes;
•
introdurre e/o rafforzare i sistemi dei salari minimi stabiliti per legge o attraverso la
contrattazione collettiva, in base alle pratiche nazionali e in quei paesi in cui le
organizzazioni sindacali lo ritengano necessario.
Per quanto riguarda quest’ultimo elemento, nella sua risoluzione per un Patto Sociale Europeo
(giugno 2012) la CES si era dichiarata favorevole all’introduzione di salari minimi che
rispettassero le norme stabilite dal Consiglio d’Europa, il quale nella sua Carta Sociale
Europea del 1961 prevede che “tutti i lavoratori hanno diritto ad un’equa retribuzione che
1
assicuri a loro e alle loro famiglie un livello di vita soddisfacente” (Parte I, Articolo 4). Da
allora il Comitato Europeo dei Diritti Sociali (ECSR) del Consiglio d’Europa ha formulato
una definizione in base alla quale per salario “equo” o “dignitoso” si intende un salario pari ad
almeno il 60%, e comunque non inferiore al 50%, del salario medio netto.
Tuttavia tale riferimento non risulta così chiaro come potrebbe apparire a prima vista. Questa
definizione di salario “equo” o “dignitoso” solleva almeno tre argomenti di discussione:
(1) Salario equo, dignitoso e minimo: alcune definizioni di base
Il Consiglio d’Europa non fa riferimento ad un salario “minimo” in quanto tale, ma definisce
piuttosto valori di riferimento tra il 50 e il 60% che costituirebbero un salario “equo”. Si tratta
di una definizione causa di confusione che necessita di un ulteriore chiarimento. Nel Regno
Unito il concetto di salario di sussistenza si avvicina in maggior misura alla definizione data
dalla Carta Sociale Europea, poiché fa riferimento ad un salario che permette all’individuo di
soddisfare le necessità elementari e di mantenere uno standard di vita sicuro e dignitoso
all’interno della comunità, consentendo inoltre la partecipazione alla vita sociale e culturale.
Attualmente nel Regno Unito il salario di sussistenza nazionale è pari a circa il 60% del
salario mediano nazionale. Il concetto di salario di sussistenza comporta non solamente
l’introduzione di un minimo salariale di base, ma anche l’ambizione di garantire uno standard
di vita “dignitoso”.
Figura 1: salario minimo come percentuale del salario mediano a tempo pieno
Fonte: OCSE e per la Germania i calcoli del WSI basati sulle statistiche occupazionali fornite dall’Agenzia federale tedesca per
l’occupazione
Con riferimento all’introduzione di un livello salariale minimo, nel quadro del dibattito sui
salari minimi in Europa risultano utili due ulteriori definizioni. Si tratta della soglia dei salari
bassi secondo la definizione dell’OCSE, pari ai due terzi del salario mediano nazionale, e la
soglia del salario di povertà la quale, sulla base delle ricerche sulla povertà a livello
internazionale, può essere definita come il 50% del salario mediano. La figura seguente
mostra i vari livelli dei salari minimi nazionali stabiliti per legge quale percentuale del salario
2
mediano nazionale. L’immagine evidenzia come il salario minimo di legge non raggiunga in
nessuno Stato dell’UE la soglia dei salari bassi secondo la definizione ufficiale dell’OCSE. I
paesi che più si avvicinano a questo livello sono la Francia con il 62%, la Slovenia con il 60%
e il Portogallo con il 58%. Il grafico mostra inoltre come solo altri quattro paesi (Ungheria,
Belgio, Lettonia e Germania) si collochino al di sopra della soglia del salario di povertà. La
situazione appare alquanto differente nei paesi nordici, in cui i salari minimi oggetto della
contrattazione collettiva si collocano di norma tra il 60 e il 70% del salario mediano
nazionale, raggiungendo quindi livelli significativamente superiori rispetto agli altri paesi
dell’UE.
(2) Salari netti e salari lordi
La definizione del Consiglio d’Europa fa riferimento ai salari netti piuttosto che ai salari lordi.
Il vantaggio di questa scelta sta nel fatto che innanzitutto il punto di riferimento è l’importo
che i lavoratori mettono effettivamente in tasca a fine mese; in secondo luogo, il salario netto
tiene conto di altre politiche di redistribuzione, ad esempio attraverso i sistemi fiscali
progressivi. Il problema essenziale insito nella scelta dei salari netti quale riferimento sta nella
complessità del calcolo del valore netto dei salari una volta dedotti i contributi previdenziali e
le imposte. Per questa ragione la maggior parte dei database internazionali utilizza come
riferimento il salario lordo. Ulteriore argomentazione contro l’utilizzo dei salari netti quale
riferimento è che l’onere di garantire salari dignitosi si sposta dai datori di lavoro allo Stato, al
quale spetta garantire salari netti sufficientemente elevati attraverso politiche di
redistribuzione e interventi di compensazione.
(3) Salario medio e salario mediano
Il Consiglio d’Europa utilizza quale concetto di riferimento il salario “medio” e non il salario
“mediano”, solitamente utilizzato quale riferimento nei confronti a livello internazionale.
Mentre il salario medio rappresenta la media aritmetica di tutti i salari, il salario mediano
suddivide la struttura salariale generale in due segmenti uguali, in cui una metà dei lavoratori
guadagna un importo superiore rispetto al salario mediano, mentre l’altra metà guadagna un
importo inferiore. È evidente come la scelta dell’elemento di riferimento comporti
conseguenze pratiche ai fini del confronto.
La Tabella 1, che classifica i paesi con un salario minimo di legge sulla base della percentuale
del salario mediano e medio, mostra come il salario medio sia assai più sensibile a chi si
posiziona agli estremi della struttura salariale generale rispetto al salario mediano. Turchia e
Portogallo esemplificano quanto sopra indicato. Entrambi i paesi si collocano in alto nella
tabella quando il salario minimo viene misurato come percentuale del salario mediano, ma si
collocano solamente nella parte centrale della classifica quando come riferimento viene
prescelto il salario medio. Nel 2013 il salario minimo in Turchia era pari a quasi il 70% del
salario mediano, ma era appena il 38% del salario medio. Per il Portogallo le cifre sono
rispettivamente il 56% del salario mediano e il 38% del salario medio. Le differenze nella
posizione in classifica dei due paesi possono essere spiegate con la struttura salariale
fortemente iniqua vigente in Turchia e in Portogallo, come pure con l’influenza della forte
economia illegale, all’interno della quale per molti lavoratori il salario minimo rappresenta lo
standard. Ciò significa che pochi salari estremamente elevati spingono verso l’alto il salario
medio, mentre il salario mediano, quale più solido indicatore, appare meno sensibile ai pochi
dati estremi o aberranti.
3
Tabella 1: Salari minimi di legge quale percentuale dei salari mediani e medi per
lavoratori a tempo pieno (2013)
Francia
Slovenia
Irlanda
Belgio
Olanda
Ungheria
Polonia
Lituania
Regno Unito
Portogallo
Turchia
Rep. Slovacca
Lettonia
Spagna
Lussemburgo
Romania
Estonia
Repubblica Ceca
Grecia
Stati Uniti
Salario medio
50
50
44
43
42
40
40
40
39
38
38
36
36
35
34
34
33
31
30
27
Turchia
Francia
Slovenia
Portogallo
Ungheria
Lituania
Belgio
Polonia
Romania
Irlanda
Lettonia
Olanda
Regno Unito
Rep. Slovacca
Grecia
Spagna
Lussemburgo
Estonia
Stati Uniti
Repubblica Ceca
Salario mediano
69
61
61
56
54
52
50
50
50
48
48
47
47
46
45
41
41
39
37
36
Fonte: http://stats.oecd.org/BrandedView.aspx?oecd_bv_id=lfs-data-en&doi=data-00313-en
Le opportunità di un approccio al salario minimo europeo
Il salario minimo può costituire un utile strumento per rafforzare i livelli dei salari versati a
gruppi relativamente ampi di lavoratori. Secondo le stime, circa il 16% dei lavoratori europei
risulterebbe avvantaggiato se in Europa il salario minimo raggiungesse lo standard del 60%
del salario mediano (per la situazione in diversi paesi vedere il grafico che segue).
4
Figura 2: Lavoratori che percepiscono un salario inferiore al 60% del salario mediano
nazionale (2010)
Inoltre, probabilmente emergerebbero ulteriori effetti positivi sui due successivi decili di
lavoratori, ciò che significherebbe che circa un terzo dei lavoratori potrebbe trarre vantaggio
da un intervento che utilizzi come riferimento per il salario minimo il 60% del salario
mediano nazionale.
Queste stime vanno tuttavia considerate tenendo bene a mente alcune riserve:
(1)
Il salario minimo di legge non sempre è pienamente vincolante, come indicato dal
grafico che segue. Basato su uno studio di Eurofound, il grafico evidenzia come in diversi
paesi (Francia, Lituania, Irlanda, Regno Unito) una percentuale tra il 5% e poco meno del
10% dei lavoratori guadagni un salario inferiore al salario minimo di legge. La spiegazione
sta nel problema della non conformità e nell’esistenza di determinate deroghe al salario
minimo di legge (ad esempio per i lavoratori giovani). Un caso recente che illustra quanto
sopra riguarda il salario minimo tedesco, che ha permesso di innalzare il livello salariale di 4
milioni di lavoratori, ma che non comporta effetto alcuno sui salari di oltre 2 milioni di altri
lavoratori, dato che i lavoratori di età inferiore ai 18 anni, come pure i disoccupati di lungo
periodo durante i primi sei mesi di lavoro, risultano esclusi dal regolamento in materia di
salario minimo.
5
Figura 3: Percentuale dei lavoratori con retribuzione inferiore al salario minimo
nazionale in vigore (2009)
La stessa questione può essere considerata analizzando la percentuale di lavoratori che
effettivamente riceve il salario minimo in vigore. Si tratta di numeri assai limitati, se si
eccettuano Francia, Lussemburgo e Bulgaria.
Figura 4: Percentuale di lavoratori a tempo pieno che percepiscono il salario minimo
(2007)
Fonte: Commissione, DG ECFIN, seminario ETUI 2012: “Salari minimi: cosa sappiamo e cosa non sappiamo”
In altri termini, l’incremento dei salari minimi dai livelli attuali tenderebbe a non mostrare
ripercussioni su una gran fetta dei lavoratori, a meno che non si tratti di incrementi
6
considerevoli. In quest’ultimo caso, come ad esempio utilizzando il criterio del 60% del
salario mediano, una tale misura risulterebbe probabilmente accompagnata da numerosissime
deroghe. Ciò comporta che l’ipotesi in base alla quale il 16% dei lavoratori trarrebbe
vantaggio da un salario minimo del 60% potrebbe nella realtà dimostrarsi sovrastimata.
(2)
Si collega a quanto sopra il dibattito sull’impatto dei salari minimi sui posti di lavoro.
Sebbene non vi siano assolutamente prove in base alle quali i salari minimi allo stato attuale,
ovvero a un massimo di circa il 50% del salario mediano, distruggano occupazione, non è
possibile prevedere le conseguenze qualora i salari minimi raggiungessero il 60% del salario
mediano. Si potrebbe sostenere che, in linea teorica, un salario minimo legale pari al 60% del
salario mediano obbligatorio per tutti i settori potrebbe scatenare una distruzione di posti di
lavoro in misura maggiore rispetto a salari minimi stabiliti grazie alla contrattazione collettiva
e con la possibilità di variazioni tra diversi settori (con alcuni settori che pagherebbero una
percentuale inferiore al 60% del salario mediano dell’economia, mentre altri
corrisponderebbero percentuali superiori).
(3)
Un ulteriore vantaggio di un approccio europeo in materia di salari minimi
consisterebbe nel dimostrare che l’Europa ha anche un volto sociale. La promozione di un tale
approccio potrebbe quindi rivelarsi essenziale al fine di mantenere il sostegno dei lavoratori e
delle organizzazioni sindacali a favore della prosecuzione del processo di integrazione
europea nella costruzione di una governance economica europea e in vista del completamento
del mercato interno della concorrenza.
Limiti e insidie di un approccio europeo al salario minimo
Nel dibattito su un approccio europeo al salario minimo è necessario tenere conto di alcuni
aspetti:
(1) “Il 60% di un salario molto basso è comunque un salario basso”. In molti Stati
membri i salari medi o mediani risultano estremamente bassi, pari addirittura a 5 o 6 euro
all’ora, e ciò nonostante incrementi talvolta anche notevoli della produttività. L’introduzione
di una regola secondo la quale i salari minimi dovrebbero risultare pari al 60% del salario
mediano incrementerebbe il salario minimo in questi casi, ma le conseguenze sulla situazione
salariale generale sarebbero comunque limitate.
(2) “Quando l’intera struttura salariale crolla, crollano anche i livelli più bassi”. È
esattamente quanto è accaduto in Grecia. La Troika ha minato alla base l’intero sistema della
contrattazione collettiva; di conseguenza, si è assistito ad un crollo dei salari medi e mediani.
A sua volta, ciò ha comportato l’incremento automatico del salario minimo in vigore al 50%
del salario mediano. Non intendendo tollerare un tale sviluppo, la Troika ha deciso di tagliare
il salario minimo in termini assoluti/nominali, riportandolo al 40% del salario mediano. Per
questa ragione, un approccio europeo al salario minimo dovrà essere discusso tenendo sempre
in debita considerazione misure volte a rafforzare i sistemi nazionali della contrattazione
collettiva, al fine di prevenire “frane” come quella esemplificata in precedenza, che
potrebbero comportare il crollo dell’intero edificio salariale.
(3) La sentenza Laval e il pericolo che un livello minimo europeo possa trasformarsi in
un tetto massimo nazionale. La sentenza Laval e i casi a questa correlati hanno fatto
7
comprendere come, con riferimento alla direttiva distacchi, il salario minimo venga utilizzato
quale soglia per la definizione del dumping sociale e per stabilire se le organizzazioni
sindacali possano avviare azioni volte a garantire il rispetto del salario stabilito nella
contrattazione collettiva. L’introduzione di una soglia europea in materia di salario minimo
potrebbe essere utilizzata allo stesso modo per sostenere che è sufficiente il mero rispetto di
tale riferimento europeo, anche qualora ciò dovesse comportare il versamento di una
retribuzione inferiore rispetto ai salari stabiliti tramite la contrattazione collettiva. Ciò
potrebbe riguardare anche i lavoratori distaccati e toccare per estensione tutti i lavoratori, ad
esempio rimettendo in questione la necessità di allargare il campo di applicazione degli
accordi della contrattazione collettiva o la necessità di versare un salario minimo più elevato
eventualmente stabilito a livello nazionale. A tale proposito, appaiono assai significativi i
recenti dibattiti nel quadro del Dialogo Sociale Europeo, con i datori di lavoro che sostengono
che non sia necessario aderire al principio di “parità di salario a parità di lavoro”, sentendosi
invece solamente obbligati al versamento di un salario minimo.
(4) Trasferimento potenziale di competenza in materia di salari a governi, ministri delle
finanze e banche centrali. Una volta che il salario minimo divenga una questione di legge e
risulti imposto dal diritto del lavoro, spetterebbe ai governi la scelta di aumentarlo o di
ridurlo. È una possibilità da considerare quanto meno con cautela in un contesto in cui è stata
compiuta la scelta politica di perseguire una svalutazione interna dei salari in sostituzione
della svalutazione valutaria competitiva. Inoltre il FMI e altre istituzioni stanno già
utilizzando uno standard di salario minimo che non dovrebbe risultare inferiore al 30% e
superiore al 40% del salario mediano.
D’altro canto è importante anche evitare una situazione in cui i sistemi di formazione dei
salari a livello nazionale vengano pesantemente svuotati di significato, senza che al
contempo siano stati previsti limiti alla concorrenza salariale al ribasso in Europa.
Più precisamente, per quale ragione c’è bisogno di un salario minimo?
Di norma, le argomentazioni che sostengono la necessità di un salario minimo sono due,
diverse fra di loro ma al tempo stesso complementari:
(1) La prima è un’argomentazione normativa e fa riferimento al semplice fatto che tutti i
lavoratori hanno diritto ad un salario dignitoso – diritto sociale fondamentale che già
costituiva parte integrante della Dichiarazione Universale dei diritti umani delle Nazioni Unite
del 1948. Questa argomentazione normativa prevede anche l’obiettivo di ridurre la povertà in
generale, e in particolare il fenomeno dei lavoratori poveri.
(2) La seconda argomentazione è di natura economica e si pone l’obiettivo di garantire un
modello di crescita in grado di autosostenersi attraverso un processo di domanda trainata dai
salari, evitando al contempo tendenze deflazionistiche. In questo caso, il ruolo specifico del
salario minimo consisterebbe nell’impedire che ai lavoratori venga versato un salario inferiore
rispetto al loro contributo alla produttività, garantendo un salario equo alla base della scala
salariale. Tuttavia, anche se il salario minimo è uno strumento utile e necessario per
raggiungere questo scopo, non è di per sé sufficiente e deve quindi essere completato da
politiche volte al rafforzamento della copertura della contrattazione collettiva, se veramente si
8
intende conseguire una crescita trainata dai salari (attraverso varie forme di estensione della
contrattazione e norme erga omnes, oppure misure con conseguenze equivalenti, ad esempio
elevati tassi di sindacalizzazione).
Il ricorso a approcci differenti comporta anche l’utilizzo di indicatori differenti.
Il primo approccio comporta la necessità di considerare il livello del salario minimo quale
percentuale del salario mediano/medio in termini netti. Il grafico che segue, tratto dall’ultimo
Employment Outlook dell’OCSE, mostra come i salari minimi relativi in termini netti
risultino assai bassi. Solamente Francia, Slovenia, Olanda e Portogallo raggiungono un livello
intorno al 50% del salario mediano.
Il secondo approccio fa riferimento al salario minimo quale prezzo totale da versare da parte
del datore di lavoro, con il prezzo del lavoro che copre il salario netto, le imposte, come pure i
contributi previdenziali versati dai lavoratori e quelli versati dal datore di lavoro. Ciò
corrisponderebbe a quello che l’OCSE chiama “costi minimi del lavoro”. In questo caso
Francia, Slovenia e Portogallo presentano indicatori che raggiungono il 70% del salario
mediano.
Figura 5
Da ultimo, va rilevato come il riferimento del Consiglio d’Europa ad un salario tra il 50% e il
60% del salario medio (non del salario mediano) venga reso ancora più complesso in ragione
del fatto che il Consiglio lo considera in “termini netti”, ovvero sulla base del potere
d’acquisto netto del salario minimo una volta detratte le imposte e le prestazioni correlate con
il lavoro. Questa definizione non risulta del tutto chiara, ma molto probabilmente
9
comporterebbe comunque la necessità di considerare gli indicatori netti in questo grafico
dell’OCSE.
Quali percorsi verso il futuro?
Va detto che in Germania si sono registrati progressi per quanto riguarda l’introduzione di un
salario minimo, con una “riforma” attesa da tempo e che ora sta influenzando anche il
dibattito sui salari in Europa.
Tuttavia restano da affrontare alcuni problemi chiave per la CES e i suoi affiliati:
(1) Un elemento chiave riguarda il fatto che la nostra definizione di standard europeo in
materia di salario minimo è tutt’altro che precisa e necessita quindi di un chiarimento (vedere
i punti di cui sopra).
(2) Ulteriore elemento chiave sta nel come evitare che politici e datori di lavoro sfruttino la
nostra richiesta di un salario minimo contro di noi, ovvero contro la possibilità che i salari
vengano stabiliti dai sistemi della contrattazione collettiva e contro il principio di parità di
salario a parità di lavoro.
I seguenti approcci al salario minimo in Europa ci consentono di avviare la ricerca delle
risposte a queste domande:
(1) Reindirizzare il nostro punto di riferimento da un salario relativo basato sul salario
nazionale medio/mediano ad uno standard salariale europeo unico adeguato alla parità del
potere d’acquisto. Tale approccio presenta il vantaggio di considerare i diversi costi della vita
nei vari paesi europei. La figura 6 mostra un confronto tra il livello assoluto dei salari minimi
in euro e il valore dei salari minimi misurati secondo gli standard del potere d’acquisto (PPS).
Il confronto mostra come le differenze nel livello del salario minimo misurato in PPS siano di
gran lunga inferiori rispetto alle differenze in termini assoluti misurate in euro. Mentre la
differenza tra il salario minimo più alto e più basso misurati in euro risulta grosso modo pari a
1:11, la differenza in termini di PPS risulta di gran lunga inferiore, essendo pari a 1:4,5.
10
Figura 6: Salari minimi in base al livello assoluto e secondo lo standard del potere
d’acquisto
Fonte: Database sul salario minimo WSI (gennaio 2014)
Un metodo per il calcolo di uno standard salariale adeguato, potenzialmente utilizzabile di
concerto con altri metodi, potrebbe ad esempio basarsi sul riferimento ad un salario minimo
nazionale misurato in PPS, utilizzando tale valore quale riferimento per i livelli di salario
minimo di altri paesi, adeguandolo tuttavia tenuto conto della differenza degli standard di vita
in base ai diversi livelli dei prezzi negli Stati membri.
(2) Un’ulteriore possibilità consisterebbe nel passare ad un approccio al salario di sussistenza
per gradi. Di norma il salario di sussistenza viene calcolato sulla base del salario necessario a
coprire i costi di un paniere di base di beni essenziali che di solito include (a) il costo dei
bisogni essenziali, come ad esempio una dieta a basso costo e nutriente, un alloggio di base
oltre ad abbigliamento e calzature adeguate, come pure (b) i costi di altre necessità quali
trasporto, istruzione e cura dei figli, sanità, arredamento della casa, attività culturali e
ricreative, comunicazione e cura della persona. A titolo di esempio, nel caso del salario di
sussistenza per la città di Londra (vedere altri testi forniti per il dibattito in corso sul tema nel
Regno Unito), tale approccio basato sul “Costo di base della vita” costituisce una parte del
calcolo, con l’altra parte che è rappresentata dall’approccio basato sulla cosiddetta
“Distribuzione del reddito”, che tiene conto del solo riferimento del 60% del salario mediano.
Il salario di sussistenza definitivo viene quindi calcolato quale media delle due cifre risultanti
dai due approcci: quello basato sul Costo di base della vita e quello basato sulla Distribuzione
del reddito (oltre a un margine del 15% a copertura di eventi imprevisti).
Il vantaggio di un calcolo basato su un paniere di beni sta nella sua solidità empirica riguardo
alle risorse effettivamente necessarie per garantire uno standard di vita dignitoso. L’evidente
svantaggio sta nella complessità del calcolo di uno standard esatto, in particolare quando si
tratta di tenere conto di 28 paesi europei differenti. Tuttavia vi sono già esempi di paesi in cui
11
un tale metodo incentrato su un paniere di beni standardizzato viene utilizzato ai fini della
contrattazione collettiva. Ad esempio, in Belgio tale metodo viene utilizzato come strumento
per la determinazione dell’indicizzazione dei salari, mentre in Svezia e in Italia il metodo
viene utilizzato per definire le rivendicazioni salariali agli estremi inferiori della scala
salariale, oppure per stabilire gli incrementi salariali legati alle tendenze dell’inflazione.
Alla luce della grande diversità tra i livelli nazionali dei salari minimi (vedere la Figura 1),
l’approccio per gradi al salario di sussistenza sembrerebbe quello più facilmente percorribile
dal punto di vista politico. Tale approccio dovrebbe prevedere il conseguimento dell’obiettivo
di breve periodo consistente nell’innalzamento dei salari minimi in tutti i paesi europei,
spingendoli almeno fino alla soglia del salario di povertà pari al 50% del salario mediano
nazionale. Una volta raggiunta questa soglia, l’obiettivo successivo è la soglia del salario di
sussistenza.
(3) Siffatto standard salariale europeo o salario di sussistenza dovrebbe ad ogni buon conto
essere stabilito per legge e/o per il tramite della contrattazione collettiva, in base alle diverse
pratiche nazionali e strategie sindacali.
(4) Tuttavia, indipendentemente dallo standard prescelto, l’elemento chiave di tutti gli
approcci sta nell’insistere sull’importanza del collegamento con forti sistemi di contrattazione
collettiva dei salari, attraverso la promozione di alti tassi di copertura della contrattazione
stessa da conseguire attraverso diversi strumenti (erga omnes, altre modalità di allargamento,
oppure elevati tassi di sindacalizzazione, potenzialmente da considerarsi come equivalenti
funzionali). Va rilevato come la Germania non abbia solamente introdotto un salario minimo,
ma abbia anche deciso di rendere più agevole l’applicazione degli obblighi ‘erga omnes’,
rafforzando così il sistema della contrattazione collettiva. L’ironia sta nel fatto che a livello
europeo il governo tedesco è uno di quelli che più spinge i paesi in difficoltà finanziarie verso
riforme strutturali che comportano esattamente l’opposto: l’indebolimento e la rinuncia
all’estensione della contrattazione e alle regole ‘erga omnes’.
In conclusione, questa nota si pone l’obiettivo di avviare un ampio dibattito sui diversi temi e
sui vari approcci, con l’obiettivo di identificare una loro combinazione equilibrata che
permetta di definire una posizione della CES più chiara e maggiormente efficace sul crescente
dibattito a livello europeo in materia di minimi salariali.
12