Lettera n. 25 – maggio 2013

Lettera di informazione periodica
Esce ogni 2-3 mesi e contiene le notizie più significative già pubblicate nelle news del
sito www.nograziepagoio.it/lettera_informativa.htm
Lettera n. 25 – maggio 2013
Indice
1.
2.
3.
4.
5.
6.
7.
Ci cascano tutti
L’industria distorce i dati della ricerca scientifica
Sono un paziente: mostratemi i dati degli studi clinici
The hidden curriculum
Aziende e sanità: bastano i codici etici?
The inverse care law (La legge dell’assistenza inversa)
Pagamenti ai medici del Massachusetts da parte dell’industria
1. Ci cascano tutti
Sono rimasto a dir poco stupito, per non dire disilluso, dall’entusiasmo mostrato da Medico e
Bambino (M&B) per un articolo del New England Journal of Medicine (NEJM) su obesità e falsi
miti (1), cui ha dedicato ben tre pezzi, tutti acriticamente positivi, sul numero 2/2013: un editoriale, un “graffio” e un riassunto corredato dalla traduzione in italiano delle tre tabelle dell’originale. Forse il comitato di redazione si è lasciato ingannare da un false friend. Il NEJM, infatti, include l’articolo nel suo numero di gennaio 2013 come special. Special in inglese vuol dire
speciale nel senso di straordinario; ma vuol dire anche speciale come quando una rivista include un inserto; speciale, anche in italiano, ma non necessariamente straordinario. Anzi, gli inserti speciali a volte si buttano direttamente nell’immondezzaio. Come è ormai evidente, io non
condivido l’entusiasmo di M&B; al contrario, penso che si tratti di un brutto articolo, forse addirittura da immondezzaio. Come me la pensano molti degli autori dei commenti apparsi sul sito
del NEJM subito dopo la pubblicazione dello Special Article (2), commenti che i redattori di M&B
non hanno evidentemente letto. Ecco le critiche che io muovo all’articolo:
1.
Quando si legge un articolo scientifico, la prima cosa che si cerca è l’obiettivo. A volte si
può decidere di non leggere nemmeno l’articolo, se l’obiettivo è strampalato. In questo
caso non c’è nemmeno un obiettivo. Ma alla fine dell’introduzione gli autori scrivono: “in
questa discussione, concludiamo in generale che un enunciato è dimostrato essere vero
2.
3.
4.
solo quando è sostenuto da studi randomizzati [RCT] che lo confermano”. Un brutto inizio. Chiunque si occupi di obesità e non la guardi solo con gli occhiali del clinico sa che le
dimostrazioni derivanti da RCT valgono poco. Basta dare un occhiata ai documenti, vecchi
ormai di sei anni, pubblicati online dal progetto britannico Foresight per capirlo (3). In
particolare, consiglio di dare un’occhiata alla Figura 2.2 a pagina 13 del documento Tackling obesities (notare il plurale), liberamente scaricabile dal web (4); come si fa a pensare che basti affidarsi agli RCT per sbrogliare quella matassa? Si possono sottoporre a
RCT leggi, politiche, marketing, cultura del cibo, architettura urbana, e mi fermo qui per
non annoiare il lettore. Pensare che solo gli RCT offrano una risposta è pura illusione. Ed
infatti le tre tabelle dell’articolo, con l’eccezione di un accenno a parchi e marciapiedi, includono solo counselling e un po’ di clinica.
La seconda cosa che si cerca sono i metodi, ma anche questi mancano. Gli autori citano
pochi RCT, molti altri li mettono in appendice. Ma non dicono se la loro ricerca è stata sistematica, in tutte le lingue e per coprire un periodo sufficientemente lungo. Non dicono
come hanno selezionato gli RCT, se ne hanno pesato la numerosità e la qualità. Non dicono se e come hanno estratto i dati, se hanno fatto una meta-analisi, se si sono basati
solo sulle conclusioni degli autori degli RCT o di qualche revisione sistematica. Sembra di
capire che il tutto sia viziato da un alto grado di soggettività, e sicuramente non v’è trasparenza.
Stupisce anche la facilità con cui gli autori spaziano tra tutte le età e le classi sociali, tra
tutti i tipi di dieta e di attività fisica, tra la genetica e l’educazione, navigando tra allattamento, parchi e marciapiedi. Avendo poche competenze e sapendo quanto è difficile acquisirle, sono sempre sorpreso, e diffidente, quando vedo ricercatori muoversi tranquillamente tra argomenti così diversi. Il rischio è non capirne la profondità o quei dettagli che
a volte sono importanti per trarre conclusioni sensate. Prendiamo l’allattamento, di cui so
qualcosa. Nel breve paragrafo che vi dedicano, gli autori dell’articolo inanellano inesattezze. Scrivono che l’OMS “ha trovato chiare evidenze di publication bias nella letteratura
che ha sintetizzato”. Ma se uno va a leggere l’originale, trova un’affermazione contraria
(5). Scrivono che un RCT che “ha coinvolto più di 13.000 bambini seguiti per più di 6 anni
non ha fornito prove convincenti di un effetto dell’allattamento sull’obesità”, ma innanzitutto sbagliano la referenza (6), quella giusta essendo un’altra (7), e soprattutto non
scrivono che quello studio non era stato fatto a questo scopo ed è stato criticato perché
non aveva un gruppo di controllo di bambini non allattati (8,9). E poi finiscono, a mo’ di
conclusione, citando un’opinione (10): alla faccia dell’impegno di affidarsi solo agli RCT!
Se questo è il livello di inaccuratezza per il capitolo che conosco, mi viene da pensare che
lo stesso valga per gli altri capitoli.
E infine ci sono i conflitti d’interesse, quelli scritti in lettere minute, ma che dovremmo
proporre di stampare a caratteri cubitali, come il “nuoce gravemente alla salute” dei pacchetti di sigarette. La lista è lunga: Kraft, McDonald, CocaCola, PepsiCo, Red Bull, Wrigley, Mars e molte altre ditte che non conosco, ma sono sicuramente interessate al tema.
Vi sono produttori e consorzi di cereali, farine, zucchero, latticini e birra. Non mancano le
ditte dei latti, né le multinazionali dei farmaci. Ci sono anche fornitori di attrezzature per
il fitness. Alcuni autori detengono brevetti e azioni, altri sono consulenti di compagnie
d’assicurazione per la salute. Difficile pensare che quanto scritto da questi autori sia totalmente indipendente da interessi commerciali.
Come ha fatto M&B a cascarci? Capisco che un novellino si lasci ingannare; ma due vecchi e
rinomati ricercatori? A loro parziale giustificazione va il fatto che si sono fatti ingannare in
molti. Basta un google con i termini “obesità falsi miti” per fare la conta (11): Fondazione
Veronesi, il blog di Nino Cartabellotta, lo Spallanzani, Scienza Panorama, e mi fermo qui che
tanto potete controllare voi stessi. E vi lascio immaginare la lista se fate lo stesso google in
inglese. Viene il sospetto che lo Special Article non sia uno special article ma un’operazione ben
camuffata di public relations (PR), nella quale forse è cascato anche il NEJM. Uno dei padri
delle PR, tale Edward Bernays, diceva che le migliori PR sono quelle che non lasciano impronte
digitali (12). Gli autori dello special article di impronte digitali ne hanno lasciate tante.
Evidentemente siamo tutti talmente assuefatti che non le vediamo, pur essendo in possesso
delle lenti per vederle.
Adriano Cattaneo
1. Casazza K, Fontaine KR, Astrup A et al. Myths, presumptions, and facts about obesity. N
Engl J Med 2013;368:446-54
2. www.nejm.org/doi/full/10.1056/NEJMsa1208051#t=comments
3. www.bis.gov.uk/foresight/our-work/projects/published-projects/tackling-obesities
4. Foresight. Tackling obesities: future choices. Government Office for Science, 2010
www.bis.gov.uk/assets/foresight/docs/obesity/12-1210-tackling-obesities-mid-term-review.pdf
5. Horta BL, Bahl R, Martinés JC, Victora CG. Evidence of the long-term effects of
breastfeeding: systematic reviews and meta-analyses. Geneva: World Health Organization,
2007
6. Kramer MS, Fombonne E, Igumnov S et al. Effects of prolonged and exclusive breastfeeding
on child behavior and maternal adjustment: evidence from a large, randomized trial. Pediatrics
2008;121:e435-e440
7. Kramer MS, Matush L, Vanilovich I et al. Effects of prolonged and exclusive breastfeeding on
child height, weight, adiposity, and blood pressure a age 6.5 y: evidence from a large
randomized trial. Am J Clin Nutr 2007;86:1717-21
8. Buyken AE, Karaolis-Dankert N, Günther A, Kersting M. Effects of breastfeeding on health
outcomes in childhood: beyond dose-response relations. Am J Clin Nutr 2008;87:1965-6
9. Martens PJ. What do Kramer’s Baby-Friendly Hospital Initiative PROBIT studies tell us? A
review of a decade of research. J Hum Lact 2012;28:335-42
10. Gillman MW. Breastfeeding and obesity: the 2011 scorecard. Int J Epidemiol 2011;40:6814
11. https://www.google.it/search?q=obesit%C3%A0+falsi+miti&aq=f&oq=obesit
%C3%A0+falsi+miti&aqs=chrome.0.57j62.8587&sourceid=chrome&ie=UTF-8
12. Brandt AM. Inventing conflicts of interest: a history of tobacco industry tactics. Am J Public
Health 2012;102:63-71
2. L’industria distorce i dati della ricerca scientifica
“L’indebita influenza dell’industria distorce i dati della ricerca scientifica, le strategie, i costi
della salute e la pratica clinica”: questo il titolo di un articolo pubblicato recentemente
sull’European Journal of Clinical Investigation.(1) Gli enormi interessi finanziari coinvolti nel
mercato dei farmaci e di altri prodotti sanitari conferiscono un eccesso di potere all’industria
del farmaco. La sola atorvastatina (Lipitor) in 14 anni di mercato ha fatturato 130 miliardi di
dollari, valore più alto del PIL di 129 su 184 stati nel 2010. Con i soli farmaci biologici antiTNFα
si è creato un mercato di 10 miliardi di dollari. Gli stent coronarici medicati negli USA hanno un
mercato di 4.6 miliardi di dollari l’anno senza che il loro uso sia supportato da chiare evidenze
nella coronaropatia stabilizzata. Con questa montagna di danaro l’industria del farmaco può
dettare le regole del gioco favorendo i suoi interessi a più livelli: produzione di evidenze
scientifiche, educazione medica continua (ECM), influenza decisionale nella pratica clinica.
Per quanto riguarda la produzione di evidenze scientifiche, è noto che gli RCT sponsorizzati
dall’industria hanno 4 volte più possibilità di dimostrare la validità di un farmaco di quelli
condotti da organizzazioni no-profit, più facilmente confrontano il proprio farmaco con placebo
inattivo, vengono citati più spesso degli altri in letteratura, e pongono quesiti che interessano
soprattutto all’industria. Inoltre, presentano più spesso dati manipolati e favorevoli
all’industria, come nel caso del Gabapentin, sono condotti più spesso da autori che non
compaiono poi tra i firmatari (ghost authorship), e generano profitti considerevoli per le riviste
biomediche tramite i reprints. L’industria tende ad infiltrarsi nelle metanalisi, ritenute il mezzo
più valido per incrementare le vendite: le metanalisi sostenute dall’industria sono più spesso di
qualità metodologica inferiore, omettono più spesso dettagli rilevanti, evitano più spesso di
riportare il conflitto di interessi presente negli studi considerati, e raccomandano sempre l’uso
del proprio farmaco, a differenza da quelle condotte da organismi no-profit. Il processo di
approvazione di un nuovo farmaco richiede che sia efficace e privo di effetti avversi
significativi, ma nello stesso tempo consente di mantenere segreti molti dati sensibili. Gli effetti
avversi vengono così riconosciuti solo dopo anni dall’entrata in commercio (come nei noti casi
del Vioxx e del Rosiglitazone), e a volte l’intenzionale distorsione dei dati sulla sicurezza
appaiono chiari solo in corso di vicende giudiziarie. In periodo di ristrettezze economiche, il
rapporto costo/efficacia è importante per la scelta di un farmaco; esistono molti escamotage
per far apparire un prodotto come più economico a parità di efficacia, e gli studi condotti
dall’industria dimostrano più facilmente un favorevole rapporto costo/efficacia dei farmaci.
Linee guida supportate dalle migliori evidenze e redatte da autorità riconosciute in materia
dovrebbero aiutare il medico nelle scelte quotidiane. Chi redige le linee guida dovrebbe
possedere integrità, obiettività e indipendenza. Non è sempre così: il 56% di chi ha redatto le
17 linee guida più seguite in campo cardiovascolare dal 2004 al 2008 negli USA aveva conflitti
d’interesse con l’industria (borse di studio, onorari, consulenze, sponsorizzazione per
congressi, azioni). Raramente i medici percepiscono lo stretto rapporto fra i suggerimenti delle
linee guida e il peso del conflitto di interessi di chi le ha redatte. Il 50% dei componenti di
comitati per le linee guida in USA e Canada ha conflitti d’interesse con l’industria, percentuale
che sale al 70% per i comitati non governativi. I confini fra pubblico e privato sono così labili
che non sorprende come vengano presi in considerazione nuovi farmaci o procedure sempre
più costosi. Oltre alle linee guida, gli opinion leader trasmettono la loro influenza attraverso
editoriali e riviste sponsorizzate, che hanno un forte impatto nella prescrizione di farmaci. Un
esempio che vale per tutti sono i farmaci generici; nessuna evidenza li definisce come meno
efficaci, ma molti editoriali si spendono contro l’equivalenza.
Per quanto riguarda l’ECM, gli autori dell’articolo fanno notare come negli USA, al terzo anno,
la quasi totalità degli studenti di medicina abbia già ricevuto favori da una casa farmaceutica
(pranzi, congressi, omaggi vari). La pressione dell’industria farmaceutica aumenta negli anni di
corso successivi e nel 60% delle istituzioni scolastiche vi sono relazioni dei docenti con
l’industria (consulenti, relatori pagati, membri di commissioni). L’ECM è parte integrante della
preparazione dei medici; il supporto finanziario all’ECM negli USA è salito da 301 milioni a 1.2
miliardi di dollari nel 2007, contribuendo così al 60% dei costi totali. Gli eventi ECM
sponsorizzati usano presentazioni preparate dall’industria farmaceutica e incrementano
l’attitudine prescrittiva dei medici. Nel Regno Unito gran parte delle tavole rotonde o dei
congressi di aggiornamento sono sponsorizzati dall’industria e comprendono pranzi e altre
occasioni educative per i prodotti farmaceutici. la partecipazione ad eventi ECM sponsorizzati è
in genere incoraggiata e sostenuta dai rappresentanti del farmaco.
Vi è infine l’influenza sulle decisioni nella pratica clinica. Negli USA, nel 2004 sono stati
impiegati per i rappresentanti del farmaco un terzo dei 57 miliardi di dollari spesi per la
promozione farmaceutica. Si sa che le visite regolari ai medici aumentano del 300% la
possibilità di far includere un farmaco nel formulario ospedaliero. Il fatto di poter ricevere
regali, omaggi, libri, viaggi, spese per congressi fa parte della cultura di molti medici.
Raramente i pazienti sono consci dell’influsso che l’industria possiede sulla scelta dei farmaci
prescritti. La pubblicità diretta al pubblico (DTCA), ammessa solo negli USA e in Nuova
Zelanda, è il punto di forza per incrementare il costo dei prodotti farmaceutici. Dal 1996 al
2005 la spesa per DTCA negli USA ha avuto un incremento da 11 a 30 miliardi di dollari; nello
stesso periodo il costo dei farmaci è salito del 30% all’anno. La DTCA inizia in genere dopo un
anno dall’entrata in commercio di un farmaco, periodo troppo breve per conoscerne a fondo gli
effetti avversi.
In conclusione, gli autori dell’articolo elencano alcuni segnali positivi. Il Sunshine Act negli
USA, è la nuova legge che obbliga l’industria farmaceutica a denunciare pubblicamente tutti i
finanziamenti a medici e ospedali. In Danimarca già dal 2008 le aziende farmaceutiche devono
dichiarare i compensi elargiti ai medici. In Scozia i medici devono dichiarare quanto percepito
dalle aziende farmaceutiche e la Francia sta preparando un regolamento analogo. Da quasi
vent’anni il New England Journal of Medicine ha bandito gli studi di cost-effectiveness
sponsorizzati da aziende farmaceutiche. Ma c’è urgente necessità di considerare con maggiore
attenzione il conflitto di interessi in medicina e per tutto ciò che riguarda la nostra salute.
Traduzione e adattamento di Giovanni Peronato
1. Stamatakis E, Weiler R, Ioannidis PA. Undue industry influences that distort healthcare
research, strategy, expenditure and practice: a review. Eur J Clin Invest 2013;43:469-75
3. Sono un paziente: mostratemi i dati degli studi clinici
Alex Lomas sta prendendo un farmaco biologico per la malattia di Crohn, e scrive al BMJ;(1)
vuole sapere perché l’azienda produttrice stia cercando di impedire la divulgazione di dati che
potrebbero interessare al suo caso.
Mi è stata diagnosticata la malattia di Crohn circa 20 anni fa, quando la consapevolezza delle
malattie infiammatorie intestinali non era elevata come lo è oggi. Come paziente ho un forte
interesse per la mia salute, giorno per giorno scansiono mezzi di informazione, cerco le novità
su trattamenti innovativi e altro. Tre anni fa il mio specialista mi ha suggerito una nuova
terapia con adalimumab (Humira), un anticorpo monoclonale anti-TNF che costa £352 (€417)
per fiala, e che mi inietto personalmente ogni due settimane. Da quando ho iniziato a prendere
adalimumab sto bene, non prendo più cortisone, non ho più gli effetti collaterali che mi hanno
tormentato per 15 anni.
Il mio singolo caso però non può essere assunto come base razionale per giudicare il rapporto
costi/benefici di un farmaco e/o se il SSN possa sostenerne la completa rimborsabilità. É
altrettanto importante che io stesso venga messo in grado di valutare i rischi/benefici di un
farmaco così costoso che mi inietto regolarmente. I farmaci biologici sono relativamente nuovi
e alcuni di essi hanno fallito clamorosamente negli studi clinici iniziali (si riferisce alla
disastrosa vicenda del farmaco sperimentale TGN1412, nel marzo 2006). Chi sa a che cosa
possa portare un loro uso continuativo per 20 o 30 anni? La più recente revisione Cochrane sui
farmaci biologici ha preso in considerazione nove studi e, anche se ha trovato che tutti i
prodotti erano efficaci, ha osservato che nessuno studio era stato impostato per poter
osservare eventi avversi a lungo termine o per poter comparare l’efficacia di un biologico
rispetto ad un altro. In più, mio specialista mi ha detto di recente che non sono mai stati
condotti studi per determinare quale sia la dose minima efficace di adalimumab, né
probabilmente si faranno mai, poiché una casa farmaceutica non ha interesse a mostrare che
si possono usare dosi inferiori a quelle correnti, già registrate.
Al momento di introdurre adalimumab nel Regno Unito per il trattamento della malattia di
Crohn è stato reso obbligatorio l’uso di un registro dei pazienti, per monitorare i risultati a
lungo termine e i tassi di recidiva dopo la sospensione del trattamento. Purtroppo sembra che
tali registri siano frammentati, con separazione fra i pazienti con artrite reumatoide,
indipendenti dai registri di pazienti con malattia infiammatoria intestinale o in fase
sperimentale. Come paziente ho bisogno dei medici per interpretare i dati sperimentali e le
revisioni sistematiche di trattamenti nuovi e già esistenti in modo da poter prendere decisioni
appropriate circa il mio caso. Ma se anche gli esperti non hanno gli strumenti per valutare
l'intero quadro? Se non possono avere accesso ai dati completi? Sono costernato dunque
nell'apprendere che Abbvie, il creatore di adalimumab, sta portando avanti un’azione legale per
evitare che l'Agenzia europea del farmaco (EMA) possa rendere accessibili i dati degli studi
presentati durante il processo di approvazione e registrazione di Humira.(2) Con questi nuovi
farmaci, è fondamentale che tutti i dati, che si tratti di notizie buone o cattive, siano resi
disponibili in modo che io, il mio specialista, e la commissione governativa che stabilisce se
coprire la spesa, possiamo prendere decisioni informate circa l'efficacia e il rapporto costoefficacia di questo tipo di trattamenti.
L’industria farmaceutica e il mondo scientifico stanno compiendo passi importanti verso la
registrazione di tutti gli studi clinici, e la pubblicazione integrale di tutti i dati così ottenuti, e
non solo di una piccola porzione da pubblicare sulle riviste biomediche.(3) Questa decisione di
Abbvie è un passo indietro ed è offensiva per tutti i volontari che prendono parte alla
sperimentazione, i pazienti e il grande pubblico, che alla fine è quello che paga il conto.
Traduzione e adattamento di Giovanni Peronato
1. BMJ 2013;346 doi: http://dx.doi.org/10.1136/bmj.f2336 (Published 16 April 2013)
2. http://www.bmj.com/content/346/bmj.f1636
3. www.alltrials.net
4. The hidden curriculum
La relazione tra l’industria farmaceutica e gli operatori sanitari è oramai diventato un tema
sentito negli Stati Uniti, a differenza forse di quanto avviene in Europa, dove sembra che la
problematica del conflitto di interessi non sia ancora così percepita quanto oltreoceano.
Ultimamente poi è emerso il tema particolarmente interessante e controverso della possibile
influenza delle case farmaceutiche già durante il corso di studi in Medicina. Un editoriale di
Aaron Kesselheim(1) presenta molto bene uno studio pubblicato sul BMJ(2) che per la prima
volta mette in relazione il contatto degli studenti di medicina americani durante la loro
formazione con la loro futura attitudine “prescrizionale” una volta diventati professionisti
sanitari.
La situazione degli studenti di Medicina statunitensi dal punto di vista dei contatti con le case
farmaceutiche è già stata documentata e la loro esposizione a questo fenomeno è davvero di
dimensioni rilevanti. Secondo uno studio realizzato nel 2005 in 8 facoltà di medicina
statunitensi, già al terzo anno del loro corso di studi, il 96,8% di studenti riferisce di aver
ottenuto un pranzo sponsorizzato da una casa farmaceutica e il 94,1% dice di aver ricevuto un
regalo non a scopo educativo. In media pare che gli studenti ricevano un gadget o partecipino
ad un evento sponsorizzato dall’industria settimanalmente!(3) Finora però questo contatto non
era ancora stato messo in relazione con il comportamento “prescrizionale” una volta laureati.
Sono già invece presenti in letteratura alcuni studi che hanno rilevato che il contatto precoce e
costante con l’industria durante la formazione universitaria degli studenti è correlato ad
attitudini positive verso il marketing delle case farmaceutiche in generale e con un certo grado
di scetticismo nei confronti delle possibili conseguenze negative di questo.(4)
Molte università americane, si sono dotate di politiche che regolano i contatti con l’industria
farmaceutica, grazie anche alla spinta dell’American Medical Students Association (AMSA) che
già nel 2002 ha lanciato la PharmFreeCampaign: questa campagna aveva proprio l’obiettivo di
fare advocacy richiedendo prese di posizione ufficiali da parte delle università perché
adottassero politiche restrittive nei confronti di eventuali conflitti di interesse e regole pratiche
precise che portassero alla limitazione del marketing rivolto agli studenti.(5) Già molte altre
organizzazione americane oltre ad AMSA avevano chiesto l’introduzione di codici di
comportamento etico nel rapporto tra medici e industria come l’American Medical
Association(6) e la Pharmaceutical Research and Manifacturers Association;(7) queste però si
improntavano nello specifico sulle interazioni dell’industria con i medici professionisti già
praticanti o con i ricercatori, lasciando ad AMSA, appoggiata dall’American Association of
Medical Collages(8) e dall’Institute of Medicine(9) il merito di aver focalizzato l’attenzione a
livello della formazione medica universitaria. Oggi sul sito di AMSA è possibile consultare un
database in cui sono presenti oramai quasi tutte le facoltà di medicina statunitensi valutate con
una sorta di “pagella” che prende in considerazione i vari parametri su cui dovrebbero
concentrarsi le linee di condotta per essere ottimali nel limitare eventuali conflitti di interesse
(10). Come indicatori di efficacia delle policies adottate sono considerate in questo sistema di
valutazione la presenza di regole restrittive nei confronti ad esempio di regali, compresi i
pranzi offerti, di campioni di farmaci, dell’accesso ai rappresentanti delle case farmaceutiche,
del supporto finanziario diretto dell’industria alle varie attività formative organizzate e la
presenza dell’obbligo di dichiarazione di eventuali conflitti di interesse.
Lo studio in questione è innovativo per il fatto di valutare per la prima volta l’effetto diretto del
marketing sugli studenti dimostrando che ciò ha effetti a lungo termine, non solamente sulla
attitudine generale, ma anche influenzando nella pratica la futura attività professionale come
prescrittori.(2) Si tratta di uno studio realizzato su 14 facoltà di medicina americane che hanno
adottato politiche restrittive attive a partire dal 2004; sono state analizzate le prescrizioni del
2008 e del 2009 di medici provenienti da queste scuole, confrontate con quelle di medici
provenienti dalle stesse scuole, ma laureatisi prima dell’entrata in vigore di queste politiche e
con gruppi di controllo composti da medici provenienti da università prive di qualsiasi
regolamentazione e quindi mai esposti a policies di questo tipo. Sono state analizzate le
prescrizioni di medicinali nuovi all’interno di tre classi di farmaci psicotropi: lisdexamfetamina
tra gli stimolanti, paliperidone tra gli antipsicotici e desvenlafaxina tra gli antidepressivi. La
scelta di questi è stata particolarmente ben riuscita, perché indicativa della suscettibilità del
prescrittore alle tattiche promozionali, in quanto è un’area in cui sono presenti numerose valide
alternative anche in forma di generici, meno costosi rispetto al farmaco nuovo di marca, che
non rappresenta in sé nessuna svolta innovativa all’interno di ciascuna classe. Inoltre nessuno
di questi farmaci era disponibile quando le coorti esaminate erano all’università, perché sono
stati introdotti sul mercato solo in seguito, per questo motivo, non è la restrizione del
marketing diretto al farmaco specifico ad essere considerata, ma è invece la restrizione
promozionale in generale.
I risultati ottenuti indicano che su due dei tre farmaci esaminati (sulla desvenlafaxina i risultati
non sono statisticamente significativi) l’aver frequentato un’università con una politica
restrittiva attiva é associata ad una minore prescrizione del farmaco nuovo di marca. Inoltre è
stato rilevato che gli studenti esposti a queste policies per un tempo più lungo o esposti a
policies più severe hanno avuto in seguito tassi di prescrizione di questi nuovi farmaci ancora
più bassi. Questi risultati sono coerenti con quelli riportati da un altro recente studio che
dimostra che limitando il contatto promozionale delle industrie con giovani medici durante la
loro formazione specialistica in psichiatria si ottenevano prescrizioni di antidepressivi molto più
“basate sulle evidenze”.(11) I risultati ottenuti suggeriscono che l’adozione da parte delle
università di politiche relative al conflitto di interessi hanno un potenziale impatto sulla pratica
clinica essendo in grado di ridurre la prescrizione di farmaci “griffati” recentemente
commercializzati e pubblicizzati.
In conclusione vengono fornite le prime prove sperimentali che l’introduzione di queste regole
di condotta nella formazione medica universitaria è davvero necessaria per limitare da subito
l’effetto del marketing dell’industria farmaceutica e favorire così la pratica di una medicina
davvero basata sulle evidenze e inoltre la riduzione delle spese sanitarie non necessarie. Tutto
ciò dovrebbe interessare ancor di più alle nostre latitudini, dove i farmaci vengono pagati in
effetti per la maggior parte dal Servizio Sanitario Nazionale, soprattutto alla luce della crisi
finanziaria attuale che sta richiedendo sempre più tagli alla spesa sanitaria.
La situazione al di fuori dagli Stati Uniti è però molto meno studiata, sono presenti infatti molti
meno dati e c’è molta meno considerazione del problema. A testimonianza di ciò è rilevante
che all’interno dell’Unione Europea non tutti gli stati sono dotati di linee guida o leggi che
regolino addirittura l’integrità nella ricerca scientifica, meno che meno viene considerata la
formazione universitaria!(12) Per quanto riguarda l’Italia, in primo luogo non ci sono dati
riguardanti l’effettiva esposizione degli studenti di medicina al contatto con l’industria; gli unici
dati preliminari riguardano la percezione dell’esistenza di questo problema da parte degli
studenti e sono stati resi noti dalla ricerca svoltasi presso l’università di Bologna dove è emerso
che, come avviene tra i medici, anche tra gli studenti vi è poca percezione dell’entità e delle
possibili ripercussioni del conflitto d’interessi nella pratica medica.(13) Inoltre a livello delle
varie università italiane non sono previste adozioni di policies analoghe a quelle statunitensi,
anzi è di recente introduzione l’obbligo per le università di adottare dei codici etici,(14) cosa
che fino al 2010 non era prevista; questi codici etici però non sono neanche lontanamente
simili alle policies americane, in quanto non prevedono nella pratica regole restrittive di nessun
tipo. Tutto questo comprova il fatto che forse in Europa siamo ancora abbastanza in ritardo
nell’acquisire consapevolezza del problema e nell’affrontarlo con le dovute misure, purtroppo
ancora carenti. In attesa che qualcosa si muova anche qui, nel frattempo dovremo subire
ancora per un po’ gli effetti del marketing ancora molto libero da parte delle case
farmaceutiche.
A cura di Beatrice Mainoli
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12. Godecharle S et al. Guidance on research integrity: no union in Europe. The Lancet
2013;381:1097-8
13. Fabbri A et al. Conflict of interest between physicians and the pharmaceutical industry. A
qualiquantitative study to assess medical students’ attitudes at the University of Bologna.
Ricerca Sul Campo 2008;24:242-54
14. Legge 30 Dicembre 2010, n.240. Norme in materia di organizzazione delle università, di
personale accademico e reclutamento, nonchè delega al Governo per incentivare la qualità e
l'efficienza del sistema universitario http://www.camera.it/parlam/leggi/10240l.htm
5. Aziende e sanità: bastano i codici etici?
Da alcuni anni enti pubblici e privati sembrano fare molto affidamento sui “codici etici” propri e
dei soggetti economici con cui stipulano contratti. La Regione Lombardia, per esempio, ha
inserito la presenza di un codice etico tra i criteri di accreditamento di enti non profit come le
comunità terapeutiche per tossicodipendenti. Succede così di essere chiamati da
amministratori smarriti che, avendo sempre pensato che, per essere a posto con l’etica,
bastassero il rispetto del Codice Penale e di alcune decine di norme statali, regionali,
provinciali, comunali, non sanno come scrivere quest’altro codice e chiedono aiuto per
produrne una versione che soddisfi le commissioni di vigilanza delle ASL. La grande fortuna dei
codici etici, così come quella del “bilancio sociale” dell’impresa,(1) non è un fenomeno solo
italiano. Anzi, come quasi tutte le correnti di costume, è iniziata oltre oceano. Nel 1991, infatti,
il governo degli Stati Uniti emanò delle linee guida, Federal Sentencing Commission Guidelines
for Organizations,(2) con l’obiettivo di armonizzare le attività di contrasto giudiziario alle azioni
criminali delle imprese. In questo documento si considerava l’adozione di un codice etico prova
della buona fede dell’impresa con possibilità di sconti sulle sanzioni in caso di contestazioni.
Attualmente, la maggioranza delle aziende nord americane dedicano buona parte della loro
comunicazione alla propria “mission”. Questa “missione” non è quasi mai descritta, come ci si
potrebbe aspettare, in termini economici, ma fa in genere riferimento ad alti valori umanitari
illustrati nelle sezioni del sito aziendale dedicate al bilancio sociale e al codice etico.
Ma quanto ci dicono queste dichiarazioni sulla propensione di queste aziende a rispettare
davvero le regole e sulla loro affidabilità come partner di enti pubblici? Abbiamo provato ad
interrogare la rete su Medtronic, una multinazionale con cui la Regione Lombardia ha stipulato,
secondo un comunicato stampa emesso il 13 aprile 2012,(3) una “partnership d’avanguardia”
per una ricerca “in sette aree, corrispondenti a sette tipi di patologie croniche: ipertensione
resistente, gestione del sangue, fibrillazione atriale, morte cardiaca improvvisa e scompenso,
patologie degenerative della colonna vertebrale, sincope e piede diabetico”. L’accordo prevede
l’accesso alla banca dati sanitaria della Regione, che conta quasi 10 milioni di abitanti.
L’azienda produce apparecchiature biomedicali come pacemakers, defribillatori, protesi
valvolari e molto altro. Il sito italiano,(4) che ricalca quello internazionale,(5) definisce la
missione aziendale in questi termini “alleviare il dolore, ridare la salute ed allungare la vita”.
Non manca un’intera sezione dedicata alla “responsabilità aziendale” così introdotta: “Molte
persone dipendono da quello che facciamo e sopratutto dal come: i pazienti e le loro famiglie, i
dipendenti, medici e specialisti, i sanitari e gli amministrativi, le nostre comunità. Diamo un
grandissimo valore alla loro fiducia e alimentiamo una cultura di responsabilità e civiltà per
mantenere questo rispetto. I nuovi dipendenti imparano fin da subito la nostra cultura
attraverso il Codice di Condotta.” Tale codice è pubblicato sul sito internazionale,(6) e contiene
anche (pagina 5) un capitolo sul conflitto di interesse da cui apprendiamo, tra l’altro, che i
dipendenti della Medtronic e i loro famigliari non possono avere rapporti di consulenza o
interessi finanziari di qualsiasi genere con concorrenti, fornitori o clienti, non possono avere
interessi in acquisti o vendite di qualsiasi genere effettuati dalla ditta, non possono accettare
“denaro, regali, inviti o benefits, se non di modesto valore, da qualsiasi concorrente, fornitore
o cliente”. Digitando su Google le parole “medtronic corruption” si trova anche un sito che
l’azienda dedica completamente alle questioni civiche,(7) in cui si illustrano una serie di
politiche e iniziative tutte improntate a “dedizione, onestà, integrità e servizio” e anche alla
prevenzione, su scala globale, di ogni violazione etica.
Tuttavia, continuando la ricerca su Google e associando parole chiave come “bribes” o
“condemned” o “trials” emerge anche qualcos’altro. In base alle notizie riportate sia da siti
indipendenti, sia dalla stampa internazionale, Medtronic risulta implicata direttamente o
indirettamente in una serie di vertenze giudiziarie che, benché l’azienda neghi ogni
responsabilità, lasciano alquanto perplessi sul modo in cui i codici etici possono essere
interpretati. Ne citiamo alcuni, tra i più recenti, lasciando a chi legge ogni deduzione oltre alla
facoltà di condurre ulteriori ricerche on line.
•
2012, da “Pubblic Health Watch Dog”(8) e British Medical Journal.(9) Un rapporto del Senato USA afferma che Medtronic avrebbe pubblicato 13 studi nascondendo effetti collaterali di “Infuse” (un prodotto utilizzato per la chirurgia spinale, n.d.r.) quali sterilità maschile, neoplasie, infezioni, e che i medici autori degli studi sono stati pagati milioni di
dollari, ma questa informazione è stata mantenuta riservata.
•
2011, da “RSI news”, portale della responsabilità sociale d’impresa.(10) Medtronic patteggia con il Dipartimento della Giustizia statunitense il pagamento di 23,5 milioni di dollari per chiudere due cause in cui era accusata di aver pagato ai medici tangenti da mille
a duemila dollari per paziente, affinché impiantassero pacemaker e defribillatori di sua
produzione.
•
2010, da www.medtronicheartleadrecall.com,(11) sito ad hoc dello studio legale che ha
intentato la causa. Medtronic accetta di pagare 268 milioni di dollari per chiudere le vertenze legali connesse ai danni provocati da defribillatori difettosi.
•
2009, da “The Wall Street Journal”.(12) Medtronic pagò 800.000 dollari un chirurgo poi
accusato di aver falsificato i dati di uno studio su uno dei suoi prodotti.
Come sappiamo le nostre Regioni sono state spesso coinvolte in scandali collegati a vere o
presunte tangenti in sanità. La risposta istituzionale è stata, finora, l’aumento degli obblighi e
dei controlli formali imposti a tutte le aziende e, di conseguenza, del carico burocratico imposto
sia alle aziende sia alle strutture pubbliche sia ai medici che con esse interagiscono. Non
sembra però che il metodo abbia funzionato molto se l’Italia è ancora percepita come uno dei
paesi più corrotti dell’occidente.(13) Vien da pensare che forse risulterebbe più efficace
adottare il concetto di conflitto di interesse applicato dalle multinazionali del farmaco. Applicato
ai loro dipendenti, naturalmente…
Mariagrazia Fasoli
1. www.bilanciosociale.it/
2. www.ethics.org/files/u5/fsgo-report2012.pdf
3.
www.regione.lombardia.it/cs/Satellite?c=News&childpagename=Regione
%2FDetail&cid=1213512720541&pagename=RGNWrapper
4. www.medtronic.it
5. www.medtronic.com/
6. www.medtronic.com/wcm/groups/mdtcom_sg/@mdt/@corp/documents/documents/code-of-conduct-english.pdf
7. www.citizenshipreport.medtronic.com/
8. www.publichealthwatchdog.com/medtronics-infuse-research-may-not-be-credible-and-putspatients-at-risk-reports-suggest/
9. http://211.144.68.84:9998/91keshi/Public/File/38/345-7881/pdf/bmj.e7299.full.pdf
10. www.rsinews.it/newsformat1.asp?news=3738
11. www.medtronicheartleadrecall.com/blog/?p=118
12. http://online.wsj.com/article/SB124527830694724953.html
13. www.transparency.it/upload_doc/CS_ITA.pdf
6. The inverse care law (La legge dell’assistenza inversa)
Il medico di famiglia Julian Tudor Hart pubblicava nel lontano 1971 un articolo sul Lancet intitolato The inverse care law (La legge dell’assistenza inversa). Egli affermava che la disponibilità
di cure mediche tende a variare inversamente ai bisogni della popolazione servita.(1) Questo
assioma, noto anche come legge di Tudor Hart, è tanto più evidente quanto più le politiche sanitarie sono sottoposte alle leggi del mercato: l'offerta delle risorse con criteri mercantili contribuirà a rafforzare una cattiva distribuzione delle stesse. Tudor Hart precisava in seguito che
mai il mercato avrebbe spostato i suoi investimenti dalle aree in cui c'è maggiore profitto a
quelle in cui c'è maggiore bisogno.(2) Quarant'anni dopo, la legge di Tudor Hart è stata rinominata (Legge del beneficio inverso) e applicata ai farmaci: il rapporto beneficio/rischio si comporta inversamente alla forza con cui lo stesso farmaco sarà spinto sul mercato. In altre parole
i farmaci più pericolosi si riveleranno quelli che in apparenza verranno commercializzati come
migliori. Questo marketing forzato sfrutta alcune strategie che Brody e Light riassumono in sei
punti:(3)
1. ridurre la soglia diagnostica della malattia,
2. basare l'intervento terapeutico su end point surrogati,
3. enfatizzare la sicurezza del prodotto,
4. enfatizzare i benefici,
5. creare nuove malattie,
6. favorire gli impieghi off label.
Si pensa in genere che il rapporto rischio/beneficio di un farmaco dipenda dalle sue caratteristiche intrinseche e che le aziende farmaceutiche spendano cifre più elevate quanto più il loro
prodotto è efficace e sicuro. Si è portati a credere che le agenzie regolatrici come la FDA non
permetterebbero mai l'ingresso sul mercato di farmaci insicuri o poco efficaci. Non è questa la
realtà dei fatti, come testimoniano le vicende di Vioxx e e Avandia, tanto per citarne due. Dei
19 farmaci innovativi presentati dall'AIFA nel dicembre 2010, solo 4 sono stati giudicati tali dalla rivista Dialogo sui Farmaci.(4) La carenza di innovazione spinge le aziende a commercializzare i prodotti esistenti in modo sempre più aggressivo e ciò va di pari passo con un aumento degli effetti avversi e di costi addizionali importanti per i servizi sanitari.(5) Quanto maggiore è il
rischio di malattia tanto minore sarà la comparsa di effetti collaterali perché il farmaco verrà
assegnato solo ad una piccola quota della popolazione totale, i soggetti che ne hanno realmente bisogno. Questo concetto è bene espresso dal NNT, cioè dal numero di pazienti che dobbiamo trattare per evitare un evento/malattia. Con NNT bassi avremo in genere un numero ridotto di effetti collaterali ed un'efficacia elevata del trattamento. Se al contrario alzeremo la soglia
di intervento, il NNT aumenterà e con esso si ridurrà l'efficacia del farmaco (perché assegnato
a persone con un rischio mediamente più basso) mentre aumenteranno gli effetti indesiderati
con l'aumentare della popolazione trattata, per la legge del beneficio inverso. Il concetto, in
apparenza complicato, è più semplice di quanto non si creda soprattutto se lo si visualizza con
un grafico.
La curva a campana indica la distribuzione di un parametro nella popolazione generale, il livello
di colesterolo o di glucosio nel sangue oppure i valori di pressione arteriosa. All'estrema destra
della curva vi sono i soggetti ad alto rischio, con parametri elevati, compresi dall'area delimitata fra la curva ed il segmento X. Si tratta di una popolazione piccola rispetto a tutta l'area della
curva e dunque trattando solo questi soggetti ci si aspetterà un numero di effetti collaterali ridotto e ampiamente compensato dai benefici. Se abbassiamo la soglia di intervento, spostando
la linea da X a Y, come è stato fatto in più occasioni, l'area che esprime il numero di soggetti
da trattare aumenterà considerevolmente perché i margini della curva sono in rapida salita.
Spostando da X a Y l'intervento farmacologico avremo un importante aumento del NNT, con
minori benefici, perché ci avviciniamo ai valori normali, al centro della curva, e maggior rischio
di effetti avversi: più persone dovranno assumere il farmaco anche senza averne bisogno. Questa operazione comporterà però un incremento delle vendite e di conseguenza dei profitti. Se si
vuole approfondire questo concetto si veda "Il troppo stroppia".(6)
Abbiamo così descritto due delle sei strategie di marketing, abbassare la soglia di intervento
farmacologico, usando end point surrogati (colesterolemia, glicemia, valori di pressione arteriosa, al posto di morbilità e mortalità). Il terzo e quarto stratagemma consistono nell'esagerare i
benefici e sottacere i rischi, una tipologia di comportamento esemplificata dalla vicenda del Rofecoxib (Vioxx), ritirato dal commercio nel 2004, che potrebbe aver provocato un numero di
eventi cardiovascolari valutato in oltre 140.000 nei soli Stati Uniti.(7). Questo si è verificato
per l'esagerata diffusione del farmaco, arrivato a coprire oltre il 60% delle prescrizioni di antinfiammatori, in quanto definito più sicuro sul sistema digestivo. Dopo il suo ritiro si vide invece
che nemmeno questa caratteristica positiva era così scontata: con l’uso del Vioxx per prevenire
un evento gastrointestinale complicato si provocava un evento tromboembolico severo.(8)
Un altro modo per aumentare artificiosamente il consumo di farmaci è quello di creare nuove
malattie (disease mongering), un comportamento che ha avuto grande diffusione negli ultimi
tempi, tanto che il BMJ aveva lanciato nel 2002 un referendum tra i lettori per arrivare alla top
ten di malattie create per vendere più farmaci, come la calvizie, la cellulite, l'infelicità, e altro.
(9) L'idea di creare nuove malattie incarna il desiderio di estendere l'uso dei farmaci a quanti
più soggetti possibile, come affermava oltre 30 anni fa Henry Gardsen, CEO di Merck. Un caso
lampante di disease mongering è la creazione di situazioni come il pre-diabete, la pre-ipertensione o l'osteopenia (definita impropriamente pre-ostoporosi), cioè condizioni di rischio di essere a rischio. In queste situazioni, dove si dovrebbe operare con le sole regole di igiene alimentare e stile di vita, si spinge comunque ad intervenire con i farmaci.(10)
Per quanto riguarda gli usi non approvati, cioè off-label (non compresi nell'etichetta illustrativa)
basterebbe citare il caso del Neurontin,(11) che da antiepilettico di seconda scelta è diventato
un blockbuster da 1.5 miliardi di dollari l'anno grazie ad una massiccia promozione su altre indicazioni come emicrania, dolore neuropatico, disturbo bipolare, il che è costato a Pfizer una
multa di 142 milioni di $ nel 2011.(12)
Per uscire dalla legge del beneficio inverso ci si deve allontanare dalle regole del marketing, ridurre la dipendenza dall'industria del farmaco per quanto riguarda gli aggiornamenti scientifici,
eliminare i conflitti di interesse riguardanti l'offerta di omaggi e facilitazioni. In questo senso
sta operando negli USA il Sunshine Act, che registrerà tutti i pagamenti e benefit elargiti ai medici da parte dell'industria del farmaco. Un esempio che dovrebbe essere seguito anche in Europa.(13) Nel 1971 Tudor Hart aveva preconizzato il peggioramento che le leggi di mercato
avrebbero apportato alla salute dei cittadini. Alla luce di questo assunto oggi vediamo che il rischio non sta nei farmaci in sé, ma nel modo in cui sono promossi e nella possibilità di conoscerne esattamente il rapporto rischio/beneficio con l'accesso ai dati completi degli studi clinici.
Ci vogliono scelte etiche che delimitino severamente le relazioni fra medici e industria in modo
che i farmaci vengano utilizzati dalle persone che ne hanno realmente bisogno.
Libera traduzione e commento di Giovanni Peronato
1. Hart JT. The inverse care law. Lancet 1971;297:405
2. Watt G. The inverse care law today. Lancet 2002:360:252
3. Brody H, Light DW. The inverse benefit law: how drug marketing undermines patient safety
and public health. Am J Public Health 2011;101:399
4. www.dialogosuifarmaci.it/app/webroot/rivista/pdf/4e1321c4b2015.pdf
5. www.nograziepagoio.it/Ricerca%20e%20sviluppo%20di%20nuovi
%20farmaci_Peronato_2012.pdf
6. www.nograziepagoio.it/IL%20TROPPO%20STROPPIA_Peronato.pdf
7. Graham DL et al. Risk of acute myocardial infarction and sudden cardiac death in patients
treated with cyclo-oxygenase 2 selective and non-selective non-steroidal anti-inflammatory
drugs: nested case-control study. Lancet 2005;365:475
8. Curfman GD et al. Expression of concern reaffirmed. N Engl J Med 2006;354:1193
9. Smith R. In search of “non-disease”. BMJ 2002;324:883
10. Spence D. Bad medicine: osteoporosis. BMJ 2010;340:643
11. Davis C. Is there a cure for corporate crime in the drug industry? BMJ 2013;346:f755
12. www.nytimes.com/2011/01/29/business/29pfizer.html?_r=3&src=busln&
13. www.nograziepagoio.it/Sunshine%20for%20Europe_Sergio.pdf
7. Pagamenti ai medici del Massachusetts da parte dell’industria
Una grande percentuale (83%) dei medici americani, secondo una rilevazione del 2004, aveva
ricevuto doni da parte dell’industria: si poteva trattare sia di finanziamenti diretti, per ricerche
o per consulenze, che di pasti e programmi di ECM. La prevalenza è scesa al 71% nel 2009,
con una variabilità notevole a seconda delle specialità praticate: si passava dal 62% degli
psichiatri, al 68% degli internisti, al 75% dei cardiologi. Negli USA alcuni stati hanno ora
imposto la pubblicazione sistematica dei pagamenti fatti ai medici. Anche il Massachusetts ha
disposto nel 2009, con il Pharmaceutical and Medical Device Manufacturer Code of Conduct,
che venisse dichiarato ogni tipo di pagamento superiore ai 50 dollari, permettendo così il
calcolo diretto degli importi, la loro analisi dettagliata nel periodo che va da luglio 2011 a
dicembre 2012, e i confronti con le rilevazioni precedenti. Il database contiene il nome di ogni
medico e azienda, l’importo e la motivazione di ogni pagamento. Le motivazioni vengono
suddivise in otto categorie, che vanno da servizi resi “pro bona fide” (cioè considerati come
realmente svolti, comprese le consulenze e la partecipazione a conferenze), cibarie,
fondi/donazioni a scopo educativo, programmi ECM, finanziamento di convegni non riguardanti
direttamente l’industria, formazione, studi di marketing, donazioni a enti caritatevoli e altre.
La somma totale pagata dall’industria nei 30 mesi presi in esame è stata di oltre 76 milioni di
dollari e consisteva in più di 32.000 voci riguardanti quasi 12.000 medici, con un calo annuale
del numero dei medici e un corrispondente aumento dell’entità dei pagamenti a ogni medico
(da 4600 a quasi 5000 dollari l’anno). Un quarto dei medici del Massachusetts ha ricevuto
almeno un pagamento: la classifica per specialità vede in testa gli urologi, seguiti dai
reumatologi, dai gastroenterologi e dai cardiologi, e in coda i medici di medicina generale e i
pediatri. Guardando agli importi versati, il primo posto è occupato dagli ortopedici (15000 $
circa), seguiti da endocrinologi, infettivologi e pneumologi. Mentre alcuni specialisti, in
particolare ortopedici e psichiatri, hanno ricevuto i compensi sotto la voce “pro bona fide”, la
maggior parte dei generalisti/internisti li hanno avuti sotto forma di cibo, borse di studio o
“buoni educativi”.
La varietà di interazioni fra aziende e specialisti si può spiegare con l’adozione di incentivi
differenziati da parte dell’industria nei confronti dei vari specialisti, oppure con il diverso grado
di accettazione di questi rapporti da parte dei professionisti delle varie discipline. La lieve
riduzione dei pagamenti e del numero totale dei medici che li hanno ricevuti era associata a un
discreto incremento dell’ammontare delle somme. Questo dato può essere dovuto alla rilevante
percentuale di medici del Massachusetts affiliati a istituzioni accademiche o a centri (come la
Boston University School of Medicine o la Harvard University) che hanno imposto il divieto
dell’accettazione di regali di qualsiasi importo. Inoltre una legge statale del 2009 ha proibito
molti regali, inclusi i pasti, che hanno di conseguenza subito una drastica ma provvisoria
riduzione dal momento che recentemente è stata riammessa la sponsorizzazione di pasti o
rinfreschi “modesti” senza specificarne l’importo preciso.
La discrepanza fra i dati nazionali, ricavati da rilevazioni precedenti, che non distinguevano tra
le varie tipologie di doni, e quelli recenti – con volumi inferiori – del Massachusetts, si spiegano
con i numerosi doni di valore inferiore ai 50$ ricevuti dai medici di medicina generale non
registrati nel database. Va però ricordato, come insegnano le scienze sociali, che anche un
piccolo regalo può indurre un senso di reciprocità e un atteggiamento di gratitudine. Presto le
imprese dovranno, adeguandosi al Sunshine Act, dichiarare i pagamenti fatti ai medici e agli
ospedali universitari in tutti gli Stati Uniti, inserendoli in un archivio che permetterà di risalire
ai singoli farmaci o presidi coinvolti. Purtroppo, come è già successo in Massachusetts, la
categoria predominante dei compensi per servizi resi “pro bona fide” comprende sia le attività
scientifiche legittime che altre, più controverse, di marketing. Inoltre alcuni tipi di pagamenti
indiretti, ad esempio quelli fatti attraverso organizzazioni intermediarie che si occupano di
attività ECM, non dovranno essere obbligatoriamente dichiarati. L’aumento della trasparenza
derivante dall’obbligo di divulgare i dati inserendoli in database statali o federali, può far
sperare che in futuro sarà possibile esplorare più a fondo il rapporto fra legami finanziari da un
lato e outcomes e costi delle cure dall’altro, anche se per ora sembra valere ancora, in molti
casi, il vecchio detto “fatta la legge, trovato l’inganno”.
Traduzione, riassunto e commento di Fabio Suzzi
1. Kesselheim AS et al. Distributions of industry payments to Massachusetts physicians. NEJM
2013, May 1, DOI: 10.1056/NEJMp1302723