SVILUPPO DELLA TEOLOGIA TRINITARIA NEI PADRI Tentiamo ora di tracciare le linee di uno sviluppo “nel rendere ragione della speranza che è in noi”, che ha caratterizzato il cammino della teologia nei primi secoli. Se esaminiamo il punto di partenza – il linguaggio narrativo biblico - ed il “punto d’arrivo” - la professione di fede che recitiamo ogni domenica e che va sotto il nome di Credo nicenocostantinopolitano - il distacco sembra evidente. Si tratta di capire le cause profonde ed il cammino fatto, per coglierne il valore anche attuale. Lo faremo solo per accenni che speriamo siano significativi per comprendere. Fattori di sviluppo Il punto di partenza: la vita della Chiesa, l’esperienza battesimale e la testimonianza dei martiri Il punto di partenza rimane l’esperienza di fede vissuta e celebrata. È in particolare nella catechesi in preparazione al battesimo e nell'atto liturgico battesimale che la narrazione della Trinità è presente in modo forte. Il richiamo al testo di Mt 28, 19 è significativo. Una testimonianza, fra le tante, ci può essere offerta da san Giustino, all’inizio del II secolo. Nella sua Prima Apologia ci riporta la prassi battesimale ed eucaristica in uso dove troviamo l’esplicito richiamo alla dimensione trinitaria: Poi vengono condotti da noi dove c'è l'acqua, e vengono rigenerati nello stesso modo in cui fummo rigenerati anche noi: allora infatti fanno il lavacro nell'acqua, nel nome di Dio, Padre e Signore dell'universo, di Gesù Cristo nostro salvatore e dello Spirito Santo. (Apologia I, 61) Poi al preposto dei fratelli vengono portati un pane e una coppa d'acqua e di vino temperato; egli li prende ed innalza lode e gloria al Padre dell'universo nel nome del Figlio e dello Spirito Santo, e fa un rendimento di grazie per essere stati fatti degni da Lui di questi doni. . (Apologia I, 65) Ed è in connessione con l'ammissione dei candidati al battesimo che il racconto trinitario va assumendo la forma del simbolo della fede, dapprima come triplice risposta a una triplice interrogazione nell'ambito della celebrazione del sacramento, poi sotto forma di una confessione recitata dai catecumeni prima di essere battezzati. Anche qui facciamo risuonare quest’esperienza nelle parole di Ippolito di Roma, che all’inizio del III secolo, nella “Traditio Apostolica”: Così lo affidi al vescovo o al sacerdote che sta vicino all'acqua, perché lo battezzi. Un diacono discenda nell'acqua insieme con colui che deve essere battezzato. Quando questi discende nell'acqua, colui che battezza gli imponga la mano sul capo chiedendo: « Credi in Dio Padre onnipotente? ». Colui che viene battezzato risponda: « Credo ». Lo battezzi allora una prima volta tenendogli la mano sul capo. Poi chieda: « Credi in Cristo Gesù, figlio di Dio, che è nato per mezzo dello Spirito Santo dalla vergine Maria, è stato crocifisso sotto Ponzio Pilato, è morto ed è risorto il terzo giorno, vivo dai morti, è salito nei cieli, siede alla destra del Padre e verrà a giudicare i vivi e i morti? ». Quando colui che è battezzato avrà risposto: « Credo », lo battezzi una seconda volta, poi ancora chieda: « Credi nello Spirito Santo e nella santa Chiesa e nella risurrezione della carne? ». Il battezzato risponda: « Credo ». Così sia battezzato per la terza volta. (Traditio Apostolica 21) Il Simbolo si presenta così nella sua origine, e ancora dopo, nonostante le successive estensioni dei tre articoli relativi al Padre, al Figlio e allo Spirito, come il racconto della storia trinitaria di Dio per noi: storia del Padre, di cui si afferma il primato fontale ed escatologico su tutte le cose; storia del Figlio, densa della corposità degli eventi della vita del Signore; storia dello Spirito, aperta ad abbracciare il presente della chiesa e il futuro della vita. Il contesto liturgico del Simbolo evidenzia poi come la narrazione dell'evento trinitario sia finalizzata a contagiare l'evento: narrando la storia trinitaria ci si dispone ad entrare in essa, grazie all'atto pasquale del battesimo. Il racconto si attualizza nella vita di coloro che lo hanno confessato narrandolo: la Trinità « narrata » è confessione salvifica, memoria attualizzante dell'evento trinitario pasquale, che fa della vita dei credenti vita trinitaria, esistenza pasquale. Il mistero proclamato diventa mistero celebrato, per essere nella chiesa e nella storia, mistero vissuto. In questo senso una coscienza viva di questa fede trinitaria la troviamo nella testimonianza dei primi martiri. Un esempio lo possiamo cogliere da san Policarpo di Smirne che, intorno all'anno 155, chiude la sua vita terrena con una bellissima professione di fede nella santissima Trinità: «(...) Io ti benedico perché mi hai reso degno di questo giorno e di questa ora di prendere parte nel numero dei martiri al calice del tuo Cristo per la risurrezione della vita eterna dell'anima e del corpo nella incorruttibilità dello Spirito Santo. (...) Per questo e per tutte le altre cose ti lodo, ti benedico e ti glorifico per mezzo dell'eterno e celeste gran sacerdote Gesù Cristo tuo amato Figlio, per il quale sia gloria a te con lui e lo Spirito Santo ora e nei secoli futuri. Amen» Potremmo allargarci ancora cogliendo altri aspetti della vita ecclesiale, come quello dell'unità della Chiesa, e soprattutto dei presbiteri e di tutti i cristiani intorno al vescovo. Questa viene vista e cantata da un altro grande martire dell'inizio del II secolo, sant'Ignazio di Antiochia, come un riflesso necessario della stessa comunione trinitaria. La valorizzazione della tradizione apostolica come regula veritatis o regula fidei Nei primi teologi troviamo anche il riferimento alla tradizione apostolica come riferimento per la conoscenza cristiana. IRENEO DI LIONE, nell'opera da lui stesso intitolata «Esposizione e refutazione della falsa gnosi», citata oggi come Adversus Haeresesis, si fonda sulla tradizione apostolica, senza la quale, secondo lui, non si da vera conoscenza della Scrittura. Sullo sfondo abbiamo qui anche la polemica contro le rivelazioni private di cui gli gnostici, ad esempio i Valentiniani, dicevano di essere portatori e i vari miti sulle origini del mondo che essi descrivevano. Il riferimento invece deve essere la Scrittura, tutta la sacra Scrittura, compreso il Nuovo Testamento, e in modo particolare su Paolo e Giovanni, e la sua esegesi è commisurata alla regula veritatis, cioè alla testimoninaza degli apostoli e dei loro successori. ORIGENE, per citare uno dei più grandi teologi dell’antichità, in contesto diverso si pone anche lui a servizio della regula fidei. Egli ha un grande interesse per la ricerca e si pone domande nuove sulla fede, ma distingue e specifica i dati certi della fede, dalle diverse questioni aperte. Confronto con nuove domande e nuovi contesti Nelle vivere la propria fede e nell’annunciarla, i cristiani vengono a contatto con nuove domande e nuovi contesti culturali. E’ questo uno stimolo a riflettere ed ad approfondire, anche concettualmente la propria fede. Da una parte i primi teologi si trovavano di fronte a questioni in gran parte uguali a quei problemi di fronte ai quali si erano trovate la comunità primitiva e anche il giudaismo. Di fronte agli ebrei essi dovevano difendere la messianicità di Gesù e la sua conformità con le Scritture. Nella discussione con i pagani, invece, il monoteismo giudaico e la priorità di Mosè entravano in questione di fronte alla filosofia greca. Le antiche domande però assumevano un'importanza nuova nell'incontro sempre più intenso con la cultura ellenistica, che aveva portato con sé la conversione di un numero sempre crescente di intellettuali e gli attacchi più scientifici al cristianesimo. Si rendeva necessario ora difendere la provvidenza del Dio unico anche davanti alle persecuzioni alle quali i cristiani erano esposti. D'altro lato, era più che mai difficile spiegare perché il messia promesso dalla Scrittura aveva dovuto soffrire, dal momento che i cristiani nel culto tributavano a questo messia sempre più onori divini e, per giunta, si trovavano influenzati dalla filosofia greca l'idea dell'immutabilità di Dio. I cosiddetti apologisti del II secolo dovevano dare una risposta anche scientificamente soddisfacente a nuove domande in particolare come esempio potremmo ricordarne alcune: - in che modo l'universalità della salvezza può essere mantenuta in una religione che non risale nemmeno a 150 anni di esistenza? Perché il salvatore di tutti è comparso solo a ad un certo punto della storia? - Come comprendere l’esperienza delle persecuzioni dei cristiani con la provvidenza dell'unico Dio buono? E’ questo lo spazio in cui si articolerà l’elaborazione della teologia del Logos . Secondo le sacre Scritture esiste una storia di salvezza, che abbraccia l'intera creazione, e nella quale il Logos, che è all’origine di tutto, mediante il quale Dio ha creato tutto, rivela Dio stesso a tutti gli uomini. Il cristianesimo non è una religione nuova, ma il compimento di un processo di rivelazione che ha la sua radice ancor prima della creazione. L'intuizione che si impone è che in Gesù si realizza, quasi condensandosi nella sua forma definitiva, il senso di un processo di rivelazione e salvezza più vasto, ma che dall'origine è avvenuto nel Lògos/Cristo. In tal senso il Cristo preesiste all'origine delle vie di Dio con l'uomo e ha parlato ai pagani come Lògos, ai profeti come Cristo atteso e finalmente in Gesù morto e risorto, dischiudendo il vero senso delle Scritture. Attraverso questa rivelazione accessibile a tutta l'umanità, ebrei e pagani, il Logos ha vinto le tenebre e ha portato al mondo la luce. La vittoria,che egli ha già conseguito nella sua incarnazione, nella sua prima venuta nell'umiltà, verrà rivelata in pienezza soltanto nella sua parusia, nella seconda e gloriosa venuta. L'idea che Cristo/Lògos preesista alla sua nascita temporale e che si prepari la missione lungo la storia esprime l'universalità di Gesù Cristo, comprendendola in un nuovo contesto, nel quale il titolo «Cristo» dice la verità inscritta nell'origine più che il senso del compimento escatologico, o meglio, dice il compimento perché lo ritrova nell'origine. Gesù è il Cristo-Lògos che preesiste all'origine delle vie di Dio con l'uomo. C’è un mutamento di orizzonte. L'avvenimento di Cristo è compimento di una storia anteriore. Lo spazio della teologia non è più la missione di Gesù nella sua durata storica, bensì la preesistenza di Cristo, intesa come relazione d'origine con Dio per la salvezza degli uomini. La prospettiva è discendente e dall'alto, ma non perde la dimensione storica, bensì inserisce Gesù in una storia più vasta, dall'inizio della creazione. Questa dottrina del Logos che si estende all'intera storia della salvezza, come si trova soprattutto in Giustino, si presenta dunque essenzialmente, ed ancora, come una teologia storico-salvifica. Nello stesso tempo però essa racchiude in sé un approfondimento ulteriore di tipo più filosofico, nel quale la rivelazione salvifica del Logos e la sua relazione con il Padre, presentata come una generazione spirituale, pone comunque ulteriori domande. (Quale rapporto tra Logos e Padre? Quale rapporto tra Logos e creazione? Quale relazione, quale legame va immaginato? E un legame in funzione della creazione o preesistente in Dio stesso?) In questo senso bisogna tener conto del contesto dell’elaborazione gnostica e della filosofia ellenistica caratterizzata dal medio platonismo. Senza la pretesa di esaurire l’argomento facciamo alcune annotazioni che possono servire a capire meglio il contesto. Il quadro di riferimento gnostico, caratterizzato da linguaggio che fa spesso ricorso al mito, è quello di un Dio misterioso, che dal profondo del suo abisso, produce-genera-emana entità via via con gradazioni discendenti di partecipazione (i vari “eoni”) fino a raggiungere l’anima umana (elemento spirituale) ed il corpo invece derivato dall’originaria materia informe. L’uomo deve liberarsi mediante la gnosi (vera conoscenza) dal principio materiale, per tornare a Dio. In questo quadro viene svalutata la storia, quello che conta è l’illuminazione interiore che libera da essa, dal tempo e dalla materia. La riflessione filosofica si concentra sulla ricerca del fondamento invisibile ed eterno del mondo, quell’unità a cui ricondurre la frammentazione del molteplice. L’orizzonte è quello di contrapposizione tra l’Uno ed il molteplice. L’Assoluto è puro, intangibile. Le mediazioni come la triade medio platonica (Nus, Logos, Pneuma) sono degradanti ed a livello subordinato. Sullo sfondo c’è poi una visione dualistica che contrappone la realtà spirituale ad ogni realtà materiale. In questo quadro la comprensione dell’incarnazione, come mistero centrale della fede, è messo continuamente in discussione. Preservare nella retta fede Accanto al desiderio di rispondere a nuove domande, c’è allo stesso tempo l’attenzione di difendere l’originalità dell’esperienza cristiana di fronte ai tentativi di riduzione o di semplificazione del mistero cristiano. In questo senso le eresie, che si sono sviluppate nei primi secoli, sono state paradossalmente un fattore importante nello sviluppo del dogma, sia per l’elaborazione di un linguaggio teologico, che per l’individuazione dei criteri di fondo della riflessione teologica stessa. A questo proposito questi sono fondamentalmente due: - La verità della rivelazione nella storia della salvezza. Il Dio cristiano si rivela nella storia della salvezza che, come tale, diventa via della conoscenza di Dio, contro ogni spiritualizzazione. - La verità della salvezza e della divinizzazione dell’uomo chiamato ad un autentica comunione con Dio Ritorneremo su questi punti. Ma prima cerchiamo di esaminare le prospettive in cui sono maturate le prime eresie. Ci limitiamo ad accennare alle eresie propriamente trinitarie, anche se questo si intreccia ovviamente con le speculazioni cristologiche. In ambiente giudaico, il desiderio di difendere rigidamente l’unicità di Dio, portava con sé il pericolo di una riduzione della vera divinità di Gesù Cristo. Sottolinea Bruno Forte. “La provocazione verrà anzitutto dal mondo giudaico il cui rigoroso monoteismo era sì aperto all'idea dell'immanenza del Dio dei Padri nella storia del suo popolo, ma non poteva non provare scandalo di fronte all'identificazione di questa presenza con quella del Profeta galileo, condannato dai rappresentanti della Legge come bestemmiatore: la trascendenza dossologica ed escatologica di Jahvé sembrava minata dall'inaudita confidenza con cui il Nazareno si relazionava a Dio, suo Padre, e dall'annuncio pasquale del compiersi della pienezza del tempo nella sua vicenda di morte e di resurrezione. La pietà giudaica sentiva di dover difendere contro un tale attentato l'alterità divina e l'inesauribile eccedenza della promessa rispetto al presente. Ma anche l’incontro con il mondo ellenistico non è facile: Esiste la grande difficoltà, per una mentalità di tipo greco-ellenistico, di accettare e di comprendere - nella fede -, da un lato il mistero dell'incarnazione (perché urta con la concezione di un Dio immutabile, radicalmente separato dalla sfera del divenire) e, dall'altro, a comporre la concezione di Dio come l'Uno con la testimonianza biblica della divinità, oltreché del Padre, anche del Figlio e dello Spirito Santo. Da queste radici nascono dunque le eresie trinitarie, che, semplificando, possiamo raccogliere in due grandi filoni: il monarchianismo e il subordinazionismo. Monarchianismo II monarchianismo (dal greco mónos = uno solo, e arché = principio), sottolinea con forza che Dio è un solo Principio (intendendo, normalmente, per Dio la figura del Padre). Esso assume due forme diverse: quella del monarchianismo dinamico (dal greco dynamis = forza), i cui esponenti principali sono Teodoro di Bisanzio e Paolo di Samosata, secondo cui il Logos è una semplice «forza», «energia divina», che viene dall'unico Principio (Dio) e che è entrata temporaneamente nell'uomo Gesù per abilitarlo alla sua funzione di Messia e salvatore degli uomini: in questo modo non si riconoscono la distinzione tra il Padre e il Figlio e nemmeno la divinità di Gesù. Questa , alla fine è destinata ad essere riassorbita in Dio. Quelle del monarchianismo modalista i cui esponenti principali sono Noeto, Prassea e Sabellio, (da cui anche il nome di sabellianismo), che sostiene che il Padre, il Figlio e lo Spirito sono tre diversi modi o aspetti o nomi assunti dall'unico Dio per rivelarsi agli uomini e per salvarli, mentre Dio in se stesso è assolutamente Uno e rimane inaccessibile. Identificando il Padre al Figlio, affermavano coerentemente che anche il Padre fu crocifisso, per cui furono chiamati anche "patripassiani", appunto perché affermavano la sua passione e morte. Questi modalisti sono dei cristiani che prendono sul serio quanto dice il Vangelo a proposito di Gesù e della sua divinità. Essendo però rigidamente monoteisti, non possono ammettere che Gesù, il Logos incarnato, possa essere altra persona dal Padre, per cui gli attribuiscono una forma esteriore nella storia. In quanto esteriore questa poteva non corrispondere per nulla alla realtà di Dio, ma essere solo una comunicazione a noi. A stretto rigore di termini, nulla dice anche la designazione di "Padre", perché è un "modo" o espediente escogitato da Dio, per rendersi presente nella nostra storia. Non dice nulla di Dio. Dio non è in sé, né Padre, né Figlio, né Spirito. Ma se non è nulla di tutto questo, ciò che egli mostra di sé, in triplice e successivo modo, non dice nulla di Dio e suggerisce qualcosa a noi che però non ha rapporto con la realtà di Dio. Oltre che sul piano conoscitivo, esso è fallimentare su quello soteriologico. Detto esplicitamente, il modalismo è vuoto di contenuti su Dio e, per di più, sul Dio della salvezza. Se le cose stanno così, allora la delusione è grande. Dio in quella che noi chiamiamo storia della salvezza non dice, e non rivela nulla di sé. Tutto quanto si sa di Dio, l'abbiamo inventato noi per poter dire qualcosa su di lui, ma soprattutto su di noi. Le conseguenze sono molto chiare ed evidenti: noi possiamo dire tante cose sensate su Dio, ma queste sono nostri pensieri. Se le cose non hanno consistenza, perché sono nostre e non di Dio, ne consegue che la salvezza è una parola umana, senza fondamento. Da ciò si può capire la fortissima opposizione che ha trovato il sabellianesimo nella Chiesa, soprattutto nelle critiche posteriori di Atanasio e Basilio. Subordinazianismo Il subordinazionismo sostiene, invece, che il Figlio e lo Spirito Santo, pur essendo realmente distinti dal Padre, sono «subordinati» a lui, cioè si trovano su di un gradino inferiore, perché solamente il Padre è pienamente Dio, come l’uno del pensiero greco. Ci troviamo dentro un contesto nel quale le speculazioni gnostiche e neoplatoniche cercano di colmare l’abisso che separa l’uno dal molteplice con tutta una serie di emanazioni e di mediazioni via via descrescenti. Una certa tendenza subordinazianistica si ha anche negli autori ortodossi dei primi secoli, ma in essi è al centro la dimensione della storia della salvezza. Questa tendenza troverà il suo vertice ed il suo rappresentante più importante in Ario, presbitero di Alessandria d’Egitto, vissuto nel IV secolo. Dalla controversia fra lui ed il suo vescovo Alessandro verso il 320, conosciuta sotto il nome di controversia ariana si giungerà alla formulazione dogmatica del Concilio di Nicea del 325. Conclude Bruno Forte: In queste prospettive la logica di fondo è la stessa: la figura divina non viene determinata dall'evento trinitario di Pasqua, e quindi dalla concretezza della storia di rivelazione, ma è predeterminata dalla concezione dell'Assoluto, propria dello «spirito del tempo». Lo scandalo della coincidenza, trinitariamente possibile, fra immanenza e alterità divine nella croce e resurrezione del Nazareno, è vanificato: l'Assoluto abbandona la storia; l'Uno risplende altro e straniero e tremendamente adorabile rispetto al mondo; il molteplice ritorna alla prigionia della sua caducità, senza vera redenzione, solo sulla soglia invalicabile che lo separa da Dio; né la figura dell'intermediario creato, che appartiene a uno solo dei due mondi, quello delle creature, riesce a riconciliare il diviso col mondo di Dio. Il rifiuto dello scandalo trinitario si risolve cosi in una dolorosa negazione della via di salvezza offerta ai lontani, a quanti cioè, prigionieri del peccato e della morte, sono «senza speranza e senza Dio in questo mondo» (Ef 2,12). La prospettiva storico-salvifica della teologia dei Padri Giustino Pur con tutta l'importanza della riflessione sul Logos, non si può ridurre in nessun modo il pensiero teologico degli apologisti, e in particolare quello di Giustino, a una teologia del Logos astratta o atemporale. Si trattava sempre, per loro, di Gesù Cristo, del Logos incarnato negli ultimi tempi. Così per Giustino l'incarnazione costituisce il punto inequivocabilmente più alto della storia della salvezza. Solo i cristiani, il cui maestro è stato Gesù di Nazareth, hanno partecipato in pienezza della verità divina rivelata dal Logos. Proprio in considerazione di questo anche Giustino ha cominciato a distinguere tra la prima e la seconda venuta di Gesù. In questo modo egli ha collocato l'incarnazione e con essa la croce al centro della storia, creando così un contrappeso fortemente evangelico per una teologia della rivelazione orientata forse troppo filosoficamente. Ireneo di Lione Di fronte alle tendenze dualistiche dei suoi avversari gnostici, Ireneo ha delineato una soteriologia tutta basata sull'unità, sottolineando l’unità della storia della salvezza, come quell’unica economia salvifica, unita dalla benevolenza del Padre e all’incarnazione del Figlio unico che è Gesù Cristo. Il centro è proprio l’incarnazione che avviene “a causa del suo amore sovrabbondante per l’opera da lui stesso modellata”. Al centro il tema della salvezza. Secondo Ireneo, effettivamente, la salvezza consiste nel fatto che l'uomo raggiunge quel destino che Dio gli ha inizialmente assegnato quando lo ha creato a sua immagine e somiglianza. Questo cammino comporta delle tappe e delle distanze, degli annunci e delle realizzazioni, dei gradi o «disposizioni», ed in questo quadro viene percepita anche l’unità dei due Testamenti (rifiutata da Marcione), concepiti come tempo di promessa e di compimento. Ancora contro le tendenze dualistiche gnostiche per Ireneo la salvezza riguarda l’uomo intero, anche nella sua carne. Ireneo parte dalla convinzione antignostica della bontà della creazione, essa è un progetto con un fine quello di introdurre l’uomo nella comunione divina. Egli è stato modellato dalle mani di Dio e creato a immagine del Cristo totale. Essendo anche salus carnis la strada per questo compimento, passa necessariamente attraverso l'incarnazione: in essa Dio si è fatto del tutto vicino all'uomo, in essa l'uomo ha potuto conoscere il suo destino e la sua somiglianza con Dio è stata definitivamente suggellata. Ciò sarebbe avvenuto anche se Adamo non avesse peccato: anche senza il peccato originale la somiglianza con Dio fondata nell'uomo sarebbe giunta al suo definitivo possesso solo mediante l'unificazione piena con la parola di Dio fatta uomo. In considerazione del peccato del primo uomo, però, l'incarnazione ha ricevuto un significato addizionale: essa è avvenuta per il ristabilimento e la redenzione. Proprio in connessione con questo nuovo fine dell'incarnazione determinato dal peccato, Ireneo si sentì anche obbligato a sottolineare che “solo un mediatore che fosse nel contempo Dio e uomo” poteva salvare gli uomini. In questa economia salvifica il ritmo è trinitario. Cristo e lo Spirito sono le due mani di Dio Padre, che compiono l'opera di Dio nella creazione e nella plasmazione/redenzione: Di questo appunto la Scrittura dice: «E Dio plasmò l'uomo, prendendo un po' di fango dalla terra e insufflò sul suo volto il soffio della vita». Dunque, non sono stati gli angeli a crearlo e plasmarlo perché gli angeli non avrebbero potuto creare un'immagine di Dio né alcun altro all'infuori del vero Dio, né una potenza immensamente lontana dal Padre di tutte le cose. Dio non aveva bisogno di loro per creare ciò che aveva deciso di creare. Come se non avesse le sue Mani! Da sempre, infatti, gli sono accanto il Verbo e la Sapienza, il Figlio e lo Spirito. Mediante loro e in loro ha creato tutte le cose, liberamente e spontaneamente … ( Contro le eresie, IV,20,1) Fin dall'inizio del rapporto con la creatura, Dio Padre ha con sé il Figlio e lo Spirito. Si tratta di realtà intradivine originarie e come tali di autentici mediatori della creazione e della salvezza. Figlio e Spirito appartengono essenzialmente al Padre e sono diversi da ogni altra creatura. Ireneo esprime questo essere in Dio del Figlio e dello Spirito da sempre, prima di ogni inizio e per sempre: «Semper autem coexistens Filius Patri» (Contro le eresie II,30,7). Lo stesso si può dire dello Spirito. Ireneo non è, però, interessato ad elaborare una teologia speculativa e staccata dalla storia della salvezza. Anzi, si mostra molto e riservato riguardo al modo del derivare del Verbo e dello Spirito dal Padre e proibisce esplicitamente di tentare in qualunque modo di «sfondare il principio», per penetrare nella vita di Dio. Si tratta di un mistero inesprimibile: Pertanto se uno ci dirà: Allora come è stato emesso il Figlio dal Padre? Noi gli rispondiamo che questa emissione o generazione o denominazione o apertura o qualunque altra parola con cui si indica la sua generazione, che è ineffabile, nessuno la conosce: né Valentino, né Marcione, né Saturnino, né Basilide, né gli Angeli, né gli Arcangeli, né le Potestà, ma solo il Padre che ha generato e il Figlio che è stato generato. Pertanto, essendo la sua generazione ineffabile, tutti coloro che tentano di spiegare la sua generazione e le emissioni non sono sani di mente, perché promettono di spiegare cose che non si possono spiegare. (Contro le eresie II,28,6). Una sobrietà particolarmente necessaria di fronte alle speculazioni gnostiche. Tertulliano Anche Tertulliano, come Ireneo, ha delineato il suo disegno unitario di creazione e di salvezza nella prospettiva della salus carnis, sotto un diverso aspetto egli però va oltre Ireneo. Mentre Ireneo aveva timore di inoltrarsi nell'intimo mistero divino, secondo Tertulliano in Dio esisteva già una oikonomia prima che ce ne fosse una nella creazione, nell'Antico Testamento e finalmente nell'incarnazione. La venuta di Cristo, che sta nel punto centrale della storia della salvezza, ha avuto anzi come fine la rivelazione di quell'economia originaria. Altro grande merito di Tertulliano è stato quello di contribuire alla formazione di un linguaggio più teologico. Espressioni come substantia, natura, persona, anche se solo abbozzate permetteranno poi una sintesi più completa. Tertulliano vede da parte sua la distinzione tra Padre e Figlio in connessione con l'economia, con la creazione, la storia di Israele e l'incarnazione, egli però sottolinea che questa distinzione è fondata ultimamente in una ‘dispositio’ della stessa sostanza divina. L'economia delle missioni del Figlio e dello Spirito manifesta in realtà una «disposizione» trinitaria all'interno della divina sostanza unica. Per specificare meglio si può dire che la distinzione nell'unità di Padre e Figlio appartiene alla stessa monarchia divina e non è solo un'articolazione della monarchia nell'economia. Tertulliano, che scrive contro i monarchiani, cerca di articolare il concetto di monarchia divina in sintonia con la sua manifestazione economica, cioè cercando di mostrare che la monarchia divina non esclude il Figlio: Ma io, se ho imparato i rudimenti dell'una e dell'altra lingua, so che 'monarchia' non significa altro se non il singolo e unico impero, ma che per il semplice fatto che essa spetti ad un'unica persona, la monarchia non obbliga colui che la possiede a non avere anche un figlio o a non farsi un figlio o a non esercitare il suo potere monarchico per mezzo di coloro che vuole. (Contro Prassea 3,2) Facendo riferimento alle economie, non si fa altro che sottomettersi al beneplacito della monarchia di colui che ha liberamente scelto di rivolgersi a noi attraverso il Figlio (e lo Spirito). L'avere un Figlio non priva affatto il Padre della sua autorità, poiché egli trae origine dalla stessa sostanza del Padre: Del resto, io che non faccio discendere il Figlio da altro se non dalla sostanza del Padre, il Figlio che non fa niente senza la volontà del Padre, che ha ottenuto dal Padre tutto il suo potere, come posso in materia di fede distruggere la monarchia, dal momento che, affidata dal Padre al Figlio, la custodisco nel Figlio? Tertulliano utilizza alcune analogie cosmologiche classiche cercando di esprimere il mistero trinitario nella sua logica profonda, avvicinandolo alla esperienza quotidiana del credente: Ecco la vera “emissione”, custode dell'unità, per mezzo della quale noi affermiamo che il Figlio è stato prodotto dal Padre, ma non separato da quello. Dio produsse, infatti, il Verbo (Sermo) come la radice produce il tronco e come la sorgente produce il fiume e come il sole produce il raggio. Ché anche queste manifestazioni sono probolài di quelle sostanze dalle quali tali manifestazioni procedono. E non esiterei a dire che il Figlio è il tronco della radice e il fiume della sorgente e il raggio del sole, poiché ogni origine è «padre» e tutto quello che deriva dall'origine è «progenie», tanto più il Verbo di Dio che ha ricevuto il titolo di Figlio. E tuttavia il tronco non si distingue dalla radice, né il fiume dalla sorgente, né il raggio dal sole, così come neppure il Verbo di Dio. (Contro Prassea 8,5) Egli utilizza poi l’immagine, che era stata già usata dagli apologisti, della Parola in sé e della Parola detta. Essi avevano paragonato la generazione del Figlio dal Padre al venir fuori della parola esteriore (logos prophoricos) dalla parola interiore (logos endiathecos). Una generazione concepita come assolutamente spirituale. È da notare, poi, l’inizio dell’uso di altri termini per esprimere questa realtà, cercando di introdurre un concetto più dinamico di sostanza. Li ritroveremo nella teologia posteriore. Ecco alcuni esempi: Tre non per l'essenza ma per il grado (gradus=serie), non per la sostanza ma per la forma (forma=manifestazione), non per la potenza ma per l'aspetto (species=modo d'essere e di apparire), ma di una sola sostanza, di una sola esistenza, di una sola potenza, perché Dio è unico. (Contro Prassea 2,4) Non tuttavia è altro (alius) dal Padre il Figlio per intrinseca diversità, ma per distribuzione, né per divisione, ma per distinzione. Il Padre è, infatti, tutta la sostanza (tota substantia), mentre il Figlio è una derivazione dal tutto e una partecipazione ad essa (derivatio totius et portio) (Contro Prassea 9,1). Sono due a titolo di persona, non a titolo di sostanza, secondo la distinzione, non secondo la divisione. Del resto, io in ogni occasione tengo ferma una sola sostanza in tre che sono connessi (unam substantiam in tribus cohaerentibus). (Contro Prassea 12,62) La controversia ariana Verso il 320, ad Alessandria, capitale culturale dell'impero, il presbitero Ario (260?-336), originario della Libia, cominciò a diffondere un proprio modo di concepire l'assoluta trascendenza di Dio e la relazione esistente tra il Padre e il Figlio nella Trinità. Suo strenuo avversario fu Alessandro, vescovo di Alessandria. Sull’origine dell’eresia ariana ci sono diverse posizioni. Chi sottolinea l’influenza radicalizzata all’estremo della tradizione alessandrina e origeniana, che considerava il Padre, il Figlio e lo Spirito tre ipostasi (e cioè tre realtà individuali sussistenti), partecipanti dell'unica natura divina, ma distinte tra loro e subordinate l'una all'altra. Chi sottolinea il riemergere del monoteismo scritturistico propiziato dell’esegesi letterale di Luciano di Antiochia. Chi, invece mette in luce la crisi del medio platonismo cristiano. Sottolinea Alberto Cozzi: Con Ario giunge a un punto di rottura l'assunzione di schemi medioplatonici: proprio perché rigorizza alla luce della fede nella creazione gli schemi subordinanti del medioplatonismo, o semplicemente per il fatto che riafferma la trascendenza dell'unico Dio ingenerato ed eterno rispetto al Lògos e alle creature, Ario giunge a negare la vera divinità del Lògos. Con Ario quindi l'assunzione ellenizzante di schemi cosmologici platonici giunge al punto di negare la verità del Vangelo e costringe i vescovi a opporsi all'idea medioplatonica del rapporto tra Dio e mondo: la trascendenza divina va ripensata da cristiani, alla luce cioè della sua immanenza storico- salvifica. E interessante, in tal senso, che Atanasio (grande sostenitore di Nicea contro Ario) parli ormai pochissimo del Lògos in uno schema di pensiero cosmologico (ossia nel rapporto tra Dio e il cosmo), mentre accentua il tema della redenzione e salvezza come divinizzazione: Cristo deve essere vero Dio per divinizzarci, poiché questa è l'intenzione originaria di Dio per noi. In questa linea Nicea, anche se introduce termini greci come il «consustanziale», in verità deellenizza il cristianesimo, riproponendo la novità del Dio cristiano. Ma sentiamo direttamente il pensiero di Ario, nel documento più antico sulla controversia che abbiamo, la lettera ad Eusebio da Nicomedia, in cui Ario si lamenta dell’opposizione che incontra, riassumendo la sua dottrina: Il Figlio non è ingenerato, né in alcun modo parte dell’ingenerato, né deriva da un sostrato; ma per volere e decisione del Padre è venuto all’esistenza prima dei tempi e dei secoli, pienamente Dio, unigenito, inalterabile. E prima di essere stato sia generato, sia creato, sia definito, sia fondato, non esisteva. Infatti non era ingenerato. Veniamo perseguitati perché abbiamo detto: “Il Figlio ha principio, mentre Dio è senza principio”. Per questo siamo perseguitati, e perché abbiamo detto. “Deriva dal nulla”. Per Ario, quindi, solo il Padre è l'ingenerato. Il Figlio è creato, ha un principio e deriva dal nulla. Ignorando la distinzione tra la generazione eterna del Figlio dal Padre e la creazione nel tempo di tutte le cose, Ario pose il Figlio dalla parte delle creature. Per lui, il Padre è la monade (l’unità) assolutamente trascendente rispetto al Figlio, il quale gli è inferiore per natura, per rango, per autorità, per gloria. Cristo, in realtà, non è che un «dio minore». Il vero Dio, assolutamente unico, è Dio Padre. All'infuori di lui non può esserci altro Dio nel senso vero del termine. Per Ario, infatti, il condividere con altri la natura divina sarebbe ammettere una pluralità di esseri divini e ritenere divisibile e mutabile la stessa natura divina. Pertanto, ogni cosa esistente all'infuori del Padre è creata ed è chiamata alla vita dal nulla. Anche il Verbo quindi è creatura del Padre, a lui subordinata. Egli è creatura perfetta di Dio, ma in quanto creatura: «non è eterno, né coeterno, né ingenerato insieme col Padre, né ha l'essere insieme col Padre». Per Ario l'essere ingenerato definisce l'assolutezza singolare e non partecipabile di Dio. L'essere generato, per converso, connota un esistente altro da Dio, che, di fatto, generandolo, lo pone in essere come altro da sé, escludendolo dall'essere proprio di Dio. La paternità di Dio rimane un attributo non originario e quindi estrinseco alla sua sostanza, liberamente voluto a titolo di qualità relazionale da Dio. Se solo il Padre è vero Dio, le tre ipostasi divine non condividono la stessa sostanza. Al di là del Padre, le altre due ipostasi trinitarie sono «dio» solo in senso figurato. In questa concezione ristretta della monade divina, le ipostasi del Figlio e dello Spirito vengono rimosse dalla sfera divina e collocate nell'ordine delle creature. Il Figlio non è vero Dio. Non coesiste dall'eternità con il Padre. Non è figlio naturale del Padre. È stato creato dal nulla. È quindi dissimile dal Padre e il Padre non può essere conosciuto dal Figlio e nel Figlio. Il Figlio, infine, diversamente dal Padre, è soggetto a cambiamenti psichici e morali. Il vescovo Alessandro, nella sua produzione teologica, risponde ad Ario insistendo sul fatto che l'indole filiale di Cristo è unica, propria, peculiare, eccellente, naturale, non adottiva, e approdando così all'affermazione di una comunione nell'essere e nella sostanza o natura di Padre e Figlio, perché il primo è veramente origine eterna dell'essere eterno del secondo. Padre e Figlio perciò sono nomi che identificano due sussistenti divini, che condividono le stesse proprietà sostanziali, ricondotte a un rapporto di origine, che individua nel primo la sorgente del secondo, senza però alcun inizio cronologico. Le tesi ariane e antiariane si possono così sintetizzare: Ario Alessandro II Verbo non coesiste dall'eternità col Padre. II Verbo coesiste col Padre dall'inizio. Il Verbo è stato creato dal nulla. Il Verbo non è stato creato, è lui che ha creato tutto. Il Verbo non è figlio naturale e propriamente detto del Padre. Il Verbo è figlio, non per adozione ma per natura. La natura del Figlio non procede da quella del Padre. Il Figlio possiede una natura eguale a quella del Padre. Il Verbo ha cominciato a esistere per un atto della volontà del Padre. Il Verbo esiste per comunicazione dell'essenza del Padre. Il Verbo è per natura soggetto al mutamento, fisicamente e moralmente. Il Verbo nella sua natura divina non è soggetto al mutamento né alla sofferenza. A giustificazione delle sue tesi, Ario ricorre spesso a passi biblici dell'Antico e Nuovo Testamento, che usano espressioni come «fare», «creare», «generare» (Pr 8,22; Col 1,15; At 2,36; Eb 1,4; 3,1), che parlano degli uomini come «figli di Dio» (1Cor 8,6; Gv 1,12; Dt 14,1; Is 1,2), che considerano il Figlio «inferiore» al Padre (Gv 14,28; 17,3; Me 10,18) o «soggetto all'ignoranza e alle passioni umane» (Mc 13,32; Gv 11,33.39). La convocazione del primo concilio ecumenico a Nicea (325) Per dirimere questa controversia, ma soprattutto per riportare la pace tra i vescovi dell'impero, Costantino il grande convocò nel 325 il primo concilio ecumenico a Nicea, città vicina a Nicomedia, capitale orientale dell'impero e residenza dell'imperatore. Diede così inizio a una nuova istituzione ecclesiale. Il suo scopo era quello di pacificare gli animi dei contendenti, soprattutto di Ario, del suo vescovo Alessandro e dei loro rispettivi sostenitori, consolidando così, mediante l'unità dottrinale, la comunione ecclesiale. La pace della chiesa rappresentava per l'imperatore la premessa indispensabile per la prosperità dell'impero. Non ci sono pervenuti gli atti dei primi due concili ecumenici. Resoconti e impressioni parziali sono contenuti in un frammento di s. Eustazio di Antiochia, in alcuni scritti di s. Atanasio e nella letterarelazione mandata da Eusebio di Cesarea alla sua chiesa. In questa lettera Eusebio espone in modo molto scarno come si giunse all'elaborazione del simbolo; subito dopo offre una sintetica interpretazione delle espressioni antiariane. Secondo Eusebio, dopo la lettura da lui fatta del simbolo della chiesa di Cesarea, approvato apertamente dallo stesso imperatore, i padri conciliari «col pretesto di aggiungere "consustanziale", hanno composto questo testo». A questo punto egli riporta il simbolo niceno con gli anatematismi antiariani. Crediamo in un solo Dio Padre onnipotente, creatore di tutte le cose visibili e invisibili. E in un solo signore Gesù Cristo, il Figlio di Dio, generato unigenito dal Padre, cioè dalla sostanza del Padre, Dio da Dio, luce da luce, Dio vero da Dio vero, generato, non creato, consustanziale al Padre, per mezzo del quale sono state create tutte le cose in cielo e in terra. Egli per noi uomini e per la nostra salvezza è disceso e si è incarnato, si è fatto uomo, ha patito ed è risorto il terzo giorno, è risalito al cielo e verrà a giudicare i vivi e i morti. Crediamo nello Spirito Santo. Quelli che dicono: «C'è stato un tempo in cui non esisteva» o «Non esisteva prima di essere stato generato» o «È stato creato dal nulla», o affermano che egli deriva da altra ipostasi o sostanza o che il Figlio di Dio è o creato o mutevole o alterabile, tutti costoro condanna la chiesa cattolica e apostolica. Strutturalmente, il simbolo niceno si articola in due parti nettamente distinte. La prima contiene il credo vero e proprio. La seconda gli anatematismi di condanna. Tra l'affermazione iniziale riguardante «Dio Padre onnipotente, creatore di tutte le cose visibili e invisibili» e la breve confessione finale concernente «lo Spirito santo», si trova il blocco centrale relativo allo statuto ontologico e soteriologico di Gesù Cristo. Esaminiamo in breve alcune espressioni: 1. Gesù Cristo viene confessato come Figlio di Dio, generato unigenito dal Padre. Il Figlio cioè non è creato, ma generato dal Padre. Anzi è l'unigenito del Padre. Tutte le altre cose sono create. 2. Cioè dalla sostanza del Padre. Si tratta della prima aggiunta esplicitamente antiariana. Il «cioè» intende dare una definitiva interpretazione all'affermazione «generato dal Padre». Non si tratta, come voleva Ario, di un atto creativo di Dio, ma di una vera e propria generazione del Figlio dalla stessa sostanza del Padre. Così che il Figlio partecipa pienamente e totalmente all'essenza divina. Stando a s. Atanasio, il concilio avrebbe preferito usare una frase biblica, come quella giovannea «da Dio» (cf. Gv 8,42). Rifacendosi, però, a 1Cor 8,6 e a 2Cor 5,18, gli ariani ribattevano che tutte le cose sono «da Dio». Per evitare fraintendimenti interpretativi, si optò per una clausola esplicitamente antiariana. Pertanto, contro Ario, che riteneva che il Figlio non avesse nulla in comune con la sostanza del Padre, Nicea definì che il Figlio, generato dal Padre, è «dalla sostanza del Padre». 3. Dio vero da Dio vero. È un'ulteriore aggiunta contro Ario, che riteneva vero Dio solo il Padre, mentre il Figlio lo era o in senso figurato o per partecipazione di grazia. Il concilio ribadisce che anche il Figlio è vero Dio, in tutti i sensi in cui il Padre è Dio. 4. Generato non creato. Contro gli ariani che applicavano al Figlio indifferentemente il termine «generato» e «creato», il concilio ripropone la propria interpretazione: il Figlio è generato eternamente dal Padre. Sì che il Padre non è stato mai altro che Padre, e il Figlio non è stato mai altro che Figlio: «II Figlio e il Padre devono allora essere coesistiti fin dall'eternità, con il Padre che eternamente generava il Figlio». La filiazione divina è qui intesa nella linea della generazione analogicamente, ossia purificata da connotazioni materiali e temporali (divisione, separazione, diminuzione). Tale generazione spirituale implica sussistenza del termine, la perfetta uguaglianza d’essere e la coeternità. Per tutelare questi elementi si deve dire che è generazione dalla sostanza del Padre. 5. Consustanziale («homooùsios») al Padre. È l'affermazione che riassume il significato perennemente antiariano di Nicea: il Figlio è vero Dio in quanto eternamente generato dal Padre e a lui «consustanziale». Possiamo però dire che: Nicea la considera una generazione eterna all'interno della realtà divina stessa. L’homooùsios di Nicea quindi afferma non solo che il Figlio è simile al Padre, ma anche che è perfettamente uguale a lui, perché attraverso la sua eterna generazione dal Padre partecipa della stessa sostanza o natura divina. A livello contenutistico il «consustanziale» significa che il Figlio si mantiene sul grado di essere del Dio trascendente: ciò che diciamo del Dio trascendente dobbiamo dirlo anche del Figlio. Non c'è uno spazio intermedio tra Dio e mondo. Il Salvatore è mediatore non intermediario. Il mediatore è solidale con le due parti estreme; l'intermediario è un tertium quid che rimane estraneo alle due parti. L'implicazione teologica di quest'affermazione è nota: Dio si comunica personalmente nell'esistenza di Gesù, poiché è già comunicazione all'interno di se stesso. Nicea stabilisce le due condizioni di verità della confessione di fede in Gesù Cristo: il Figlio unigenito è consustanziale a Dio Padre onnipotente e creatore; Dio Padre è origine del Figlio generato-unigenito non allo stesso modo in cui è origine di ciò che è fatto-creato. 6. Egli per noi uomini e per la nostra salvezza è disceso e si è incarnato... Questo paragrafo contiene la sintesi scritturistica dell'evento Cristo, dall'incarnazione al mistero pasquale, alla parusia. Le precisazioni conciliari sulla vera divinità del Figlio precedono e fondano la verità della sua opera di salvezza. La difesa antiariana dell'ontologia di Gesù Cristo serve a salvaguardare la soteriologia cristiana. Se Cristo non è vero Dio, non è autentico salvatore dell'uomo, ma solo un intermediario estrinseco di salvezza. B. GLI ANATEMATISMI 1. Si tratta della condanna ufficiale di alcune frasi celebri della dottrina ariana sulla non eternità del Verbo, sulla sua non esistenza prima della sua generazione, sulla sua creazione dal nulla, sulla sua mutabilità e alterabilità. 2. Il concilio condanna anche l'affermazione della derivazione del Verbo «da altra ipostasi o sostanza». C'è qui l'identificazione dei termini hypóstasis e ousia. Qui è ancora presente una difficoltà terminologica che occuperà, come vedremo, la riflessione teologica successiva al Concilio di Nicea. Alcune considerazioni Nuovo linguaggio per esprimere la stessa verità La controversia ariana ha il suo centro nella comprensione e nell'esatta interpretazione della verità biblica su Gesù Cristo. I suoi interrogativi infatti riguardano il significato di «Figlio» applicato a Cristo, il rapporto tra il Padre e il Figlio, e il modo più adeguato di esprimere tale rapporto. L'ulteriore esplicitazione della relazione tra il Padre e il Figlio e il passaggio linguistico dalla Scrittura al dogma si attua con l'introduzione nel simbolo niceno di alcune spiegazioni teologiche. Come le clausole «cioè dalla sostanza del Padre» e «Dio vero da Dio vero, generato non creato, consustanziale al Padre». Nicea tradusse la comprensione scritturistica del Cristo nel proprio continente linguistico, nella storia e nella cultura del IV secolo. Con l'inizio del linguaggio dogmatico, si operò una svolta decisiva per la storia successiva. Nicea, infatti, legittima con il «cioè» (toutéstìn) la spiegazione necessaria, autoritativa e univoca di un particolare contenuto del kerygma neotestamentario. Dal momento che il linguaggio biblico non riusciva più a comunicare l'interpretazione autentica dell'essere del Verbo, perché anche gli ariani ricorrevano alla Scrittura per le loro tesi erronee, Nicea rinuncia alla ripetizione equivoca e adotta un nuovo linguaggio. Opera una traduzione autorevole della fede biblica per impedire l'emorragia di significato dell'interpretazione ariana. A differenza della Scrittura che narra l'evento Cristo con le opere e le parole di Gesù, il nuovo linguaggio dogmatico è prevalentemente speculativo. Esso tende a spostare l'accento dell'evento Cristo dalla sua narrazione e proclamazione, alla sua spiegazione. La perdita dell'immediatezza biblica viene, tuttavia, compensata dalla precisione della nuova terminologia. L'istanza soteriologica I dibattiti sull'ontologia di Cristo non costituirono solo una curiosità speculativa. La loro finalità era quella di dare un fondamento dottrinale alla salvezza portata da Cristo. La dottrina ariana, riducendo il Verbo a un semplice intermediario umano e a una mera presenza profetica, ne sviliva la mediazione salvifica. Per Ario non era Cristo la vera fonte della salvezza, bensì solo ed esclusivamente il Padre. Nicea, invece, per rendere ragione della propria esperienza vitale di salvezza in Cristo, non potè non ribadire la vera divinità del Figlio di Dio incarnato. Al di là della disputa sull'ontologia di Cristo, la crisi ariana investiva la pretesa soteriologica del Verbo. Cristo per Ario è un personaggio straordinariamente buono e sapiente, che salva in quanto offre all'uomo un modello perfetto di vita. (il rischio di scadere in una morale) In questa interpretazione filosofica e culturale di Cristo maestro di salvezza ma non salvatore assoluto e universale, Ario sacrifica il dato originale della sua fede biblica all'ideologia del monoteismo filosofico e dell'universalismo umano. Il vescovo Alessandro, invece, salvaguardò la sua fede biblica, secondo la quale la rigenerazione dell'uomo operata dal battesimo presuppone in Cristo una potenza divina in senso proprio. Solo in quanto Figlio di Dio per natura, Cristo può rendere gli uomini figli di Dio per adozione. Nessuna difficoltà di ordine filosofico e culturale persuade Alessandro a minimizzare o ridurre il messaggio cristiano. Anche la reazione antiariana di Atanasio fu la salvaguardia dell'autentica soteriologia cristiana: «Se il Figlio fosse creatura, l'uomo resterebbe puramente mortale, senza essere unito a Dio [...]. L'uomo non poteva essere divinizzato rimanendo unito a una creatura, se il Figlio non fosse vero Dio». Questioni aperte La ricerca di una terminologia più adeguata Abbiamo sottolineato che negli anatematismi del Concilio di Nicea. La terminologia deve essere ancora affinata. Il periodo successivo fu proprio il tempo della ricerca di una formula di fede che esprimesse tanto l’unità (contro gli ariani) che la distinzione (contro i modalisti). In questo sforzo si distinsero in particolare quelli che sono chiamati i Padri Cappadoci: Basilio Magno, Gregorio di Nissa e Gregorio di Nazianzo. Per intuire la difficoltà e l’ispirazione di questa riflessione è bello evocare un testo proprio di Gregorio Nazianzeno: Non ho ancora cominciato a pensare all'Unità, che la Trinità mi immerge nel suo splendore. Non ho ancora cominciato a pensare alla Trinità, che già l'Unità mi riafferra. Quando a me si presenta uno dei Tre, penso che questo sia il tutto, tanto la mia vista è colmata, tanto il di più mi sfugge. Perché nella mia mente, troppo limitata per comprendere uno solo, non resta più posto. Quando unisco i Tre in uno stesso; pensiero, vedo una sola grande fiamma, senza poter dividere o analizzare l'unica luce. Per noi c'è un solo Dio, perché una sola è la Natura divina, e gli esseri che derivano da lui ritornano all'Unità, anche se noi crediamo in tre Esseri. Dei Tre, non è possibile che uno sia più Dio dell'altro, né che l'uno sia avanti, l'altro dietro; né la natura divina è divisa dalla volontà né è fatta in parti secondo la potenza, né è possibile trovare in essa alcuna delle caratteristiche che si riscontrano negli esseri composti di parti. No, Dio, se è lecito parlare succintamente, è indiviso in esseri divisi l'uno dall'altro, ed è un unico globo di luce, che si percepisce in tre soli collegati l'uno all'altro. Dunque, quando volgiamo lo sguardo alla natura divina e alla prima causa e alla sostanza regale, ci appare l'Unità; quando, invece, guardiamo gli esseri nei quali si trova la natura divina, quegli esseri che provengono al di fuori del tempo e con eguale onore dalla causa prima, allora sono Tre quelli che noi adoriamo. Essi cercano di indagare il mistero delle persone divine ed il loro contributo si sviluppa soprattutto nella linea della dottrina delle relazioni. Per gli ariani ed i suoi seguaci, come Eumonio, il punto di partenza era la definizione di Dio come ingenerato. Essere ingenito (non venire da altro) è ciò che è proprio della sostanza di Dio, per cui il Figlio, in quanto generato, non può essere Dio come il Padre. I Padri Cappadoci mettono in discussione questo approccio. Punto di partenza è l’arcano della divinità e quindi l’impossibilità di definire l’essenza divina. Attraverso la Scrittura noi cogliamo un “modo di essere”. Il termine “ingenerato” coglie il modo di essere del Padre più che la sua essenza divina, come l’essere generato coglie il “modo di essere” del Figlio. Del resto il Vangelo non parla di ingenerato e generato, ma di Padre e di Figlio e se il Padre, in quanto ingenerato, non può trasmettere la sua natura al Figlio, ciò significa che la testimonianza apostolica ha sbagliato nel parlare di un Figlio generato dal Padre o di un Figlio in cui si vede il Padre (Gv 12,45; 14,9). Infatti il Figlio è immagine del Padre non per la sua attività, ma nella sua natura. Ma se non sono veramente Padre e Figlio, svanisce la credibilità dello stesso Vangelo. Questa argomentazione biblica, basata sui nomi usati dalla Scrittura, è sviluppata in un argomento speculativo. Essa unisce insieme la dottrina delle proprietà con quella delle relazioni. Secondo i Cappadoci nei nomi “Padre ingenerato” e “Figlio generato” si deve cogliere la relazione più che l'essenza. Sottolinea Basilio contro Eumonio: Dunque le proprietà, come caratteristiche e forme considerate nella sostanza, fanno una distinzione tra quello che è comune grazie alle caratteristiche che le individualizzano, ma non rompono ciò che c'è di comune nell'essenza. Per esempio, la divinità è comune, ma la paternità e la figliolanza sono proprietà (idiómata). E dalla combinazione dei due elementi, il comune e il proprio, si opera in noi la comprensione della verità. Così, quando sentiamo parlare della luce ingenerata pensiamo al Padre e, se udiamo parlare di una luce generata, comprendiamo la nozione di Figlio. In quanto luce e luce non c'è tra loro alcuna opposizione, in quanto generato e ingenito, sono considerati in contrapposizione. Tale è infatti la natura della proprietà, quella di mostrare l'alterità nell'identità di sostanza (ousia). Contro Eumonio II,28 Gregorio di Nissa oppone a Eunomio l'incapacità di distinguere tra significato relativo e nonrelativo dei nomi divini, così che il nome Padre indicherebbe solo il «non essere da nessuno» piuttosto che il generare: Quando, infatti, sentiamo pronunciare la parola Padre, noi concepiamo l'idea che tale nome non è pensato solo in sé, ma indica, grazie al suo significato specifico, anche il rapporto al Figlio. Ché non si potrebbe pensare al Padre separato dal Figlio ed esistente in sé e per sé, senza che il Figlio fosse a lui congiunto grazie all'espressione «Padre». Quando, dunque, noi apprendiamo che c'è il Padre, con la stessa parola noi abbiamo appreso anche ad avere la fede nel Figlio. Poiché dunque l'essere divino per sua natura è sempre allo stesso modo quello che è, secondo quanto è... di necessità noi crediamo che colui che non ammette nessun mutamento o alterazione nella propria natura sicuramente è stato sempre quello che è (cioè da sempre Padre e Figlio). La terminologia che alla fine fu accolta in ambito greco, fu proprio quella che descriveva la fede trinitaria come: “Mia ousia, treis hypostasis”, dove ousia sottolinea la dimensione dell’unità ed ipostasi quella della relativa differenza. In ambito latino la terminologia usata si rifaceva invece a quella già anticipata da Tertullliano. Per esprimere gli stessi concetti si usava l’espressione “una sostanza e tre persone” Proprio nella trasposizione fra le due culture si è corso il rischio di gravi incomprensioni. Infatti , pur essendo fondamentalmente unitaria la concezione trinitaria di Oriente e Occidente, restava un problema di chiarificazione linguistica: La formula latina traslitterata in greco parlava di “tre prosopa” (= maschere, modi di manifestarsi) e quindi veniva colta come tendenzialmente modalista. Invece hypóstasis in latino veniva reso con substantia, lo stesso termine con cui si traduceva anche ousia; da qui una formula che parlando di tre sostanze appariva ai loro occhi triteista. Tutto questo per sottolineare la difficoltà di una elaborazione linguistica, pur nella stessa concettualizzazione di fede. Aiutati anche dalle riflessioni sulla cristologia, il problema terminologico verrà superato e codificato nel Costantinopolitano II del 533: Chi non confessa che il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo hanno una sola natura o sostanza, una sola virtù e potenza, poiché essi sono una Trinità consostanziale, una sola divinità da adorarsi in tre ipostasi o persone, sia anatema. Uno infatti è Dio Padre, dal quale sono tutte le cose; uno il Signore Gesù Cristo, mediante il quale sono tutte le cose; uno è lo Spirito Santo, nel quale sono tutte le cose. La divinità dello Spirito Santo Superato lo scoglio della subordinazione del Figlio al Padre (anche se dopo il concilio di Nicea rimarranno ancora non poche difficoltà nell'affermazione dell'autentica divinità del Figlio), rimaneva quello della «subordinazione» dello Spirito Santo. La questione a Nicea non viene affrontata. Segno che comunque non si voleva fare un’esposizione completa della fede. Nel IV secolo, nel quadro della teologia ariana, si sosterrà esplicitamente anche un subordinazionismo dello Spirito Santo, inteso anch’esso come creatura, una «energia» di Dio presente in Cristo e donata agli uomini per santificarli. Questa posizione eretica sarà propria dei «macedoniani» («da Macedonio, fautore di questa opinione) detti anche «pneumatomachi» (cioè avversari della divinità dello Spirito Santo). La questione fu affrontata esplicitamente nel primo Concilio di Costantinopoli del 381. Qui di fatto ci si richiama al precedente Concilio di Nicea di cui si riprende la professione di fede completandola. Già lì si era inserito in modo stringato il riferimento allo Spirito Santo nel Credo. Nell’accoglienza di Nicea, da parte dei teologi in pratica il terzo articolo è stato capito nella linea del secondo. I Padri Conciliari si mossero nella linea del vero Dio distinto da tutte le creature. Per Atanasio infatti il principio soteriologico della divinizzazione vale per lo Spirito non meno che per il Figlio. Anzi, egli fonda, tra le altre argomentazioni, la divinità del Figlio proprio perché in grado di comunicare lo Spirito divino per la santificazione degli uomini. E come Atanasio di Alessandria era stato il campione della formulazione dogmatica di Nicea, i Padri Cappadoci (Basilio Magno, Gregorio di Nissa e Gregorio di Nazianzio,) furono i sostenitori della posizione ortodossa poi espressa nel concilio di Costantinopoli I del 381. L'argomento teologico che soprattutto San Basilio nel suo fondamentale trattato Sullo Spirito Santo sviluppa per mostrare la divinità dello Spirito Santo è di carattere soteriologico: se veramente - egli afferma - lo Spirito Santo ci rende partecipi della natura divina (cfr. 2Pt 1,4), e cioè ci fa figli nel Figlio (cfr. Gal 4,6), allora bisogna concluderne che lo Spirito Santo è di natura divina come il Padre e come il Figlio. E per rendere più chiara questa affermazione nella vita della Chiesa, modifica la formula dossologica tradizionale «gloria al Padre, al Figlio nello Spirito Santo», nella formula «gloria al Padre, al Figlio e allo Spirito Santo», per sottolineare appunto l'uguaglianza dei Tre. Il simbolo costantinopolitano amplia e precisa il niceno con questa professione di fede: «e (crediamo) nello Spirito Santo, Signore e vivificante, che procede dal Padre, e che col Padre e il Figlio è insieme adorato e glorificato, e ha parlato per mezzo dei profeti». Anche qui esaminiamo brevemente il testo: 1. Da notare, in questa formula di fede, innanzitutto, l'attribuzione allo Spirito Santo del titolo Signore (Kyrios), che l'Antico Testamento riservava a Jhwh, e il Nuovo Testamento riferisce anche a Gesù Cristo: e questo per sottolineare che lo Spirito è Dio come il Padre e come il Figlio. 2. Importante anche la definizione dello Spirito come «vivificante» (zóopóion), e cioè datore della vita, opera questa eminentemente divina. La sua presenza nell’economia salvifica”fin dal principio” è riconoscibile nel suo ruolo di Spirito che «ha parlato per mezzo dei profeti» 3. Egli è «dal Padre», cioè la sua origine rimanda immediatamente al Padre, come già il Figlio e quindi è da Dio in modo differente rispetto alle creature. Ma questa origine immediata dal Padre non è una generazione, anche se non si può sapere come sia. Per esprimere il rapporto tra il Padre e lo Spirito, si usa il verbo procedere (ekporeuoménon), desunto da Gv 15,26. Si tratta comunque, nel contesto del simbolo, di un termine strategico e quindi tecnico, in quanto deve dire il diverso modo di essere dello Spirito, che non è da Dio Padre come le creature, né come il Figlio per generazione, poiché in tal caso sarebbe un altro Figlio, ma comunque è dal Padre per un contatto immediato con Dio, come il Figlio. Il significato tecnico del termine nell'indicare la proprietà dello Spirito emerge da Gregorio di Nazianzo, che si distingue da Basilio nell'individuare tale proprietà non semplicemente nella «santificazione», e quindi ancora in relazione alle creature, bensì nel «procedere» dal Padre: In quanto procede dal Padre non è una creatura, mentre in quanto non è stato generato, non è Figlio... Mi chiedevi, cosa è la processione? Dimmi tu cosa è la condizione di ingenito propria del Padre e io ti spiegherò cosa è la generazione del Figlio e la processione dello Spirito (Discorso 31,8) Gregorio precisa che le proprietà rimandano alle relazioni d'origine. 4. Lo stesso concetto è ribadito affermando che lo Spirito Santo è degno della stessa adorazione e della stessa glorificazione (è insieme adorato e glorificato) che vengono rivolte al Padre e al Figlio. Egli è inserito nella tàxis (ordine) trinitaria, senza subordinazione o divisione, ma secondo un ordine coordinante. Lo Spirito appartiene a pieno titolo all'ordine divino (di essere, di operazione, di gloria), secondo una logica di coordinazione. E’ importante capire questo dato: in Dio bisogna separare la logica dell’ordine - taxis (dal Padre, per il Figlio, nello Spirito), da quella della subordinazione. Non perché c'è ordine, c'è una gerarchia degradante. L'ordine è coordinante e lo Spirito è adorato e glorificato con il Padre e con il Figlio. Si dice dunque l'uguaglianza perfetta, senza introdurre l'idea di sostanza o natura divina, ma inserendo lo Spirito nella gloria trinitaria. L'ordine, in Dio, rimanda a un altro livello del discorso rispetto al discorso sulla natura o sostanza: è l'ordine delle relazioni personali, l'ordine della ratio personae più che quello della ratio naturae (altrimenti l'ordine implicherebbe subordinazione o confusione). L'unica divinità è posseduta nei differenti modi di esistere dei tre, secondo una tàxisordine preciso, che rimanda all'idea della comunione nell'unica natura divina o dell'inabitazione reciproca nell'unica divinità. Non viene detto nulla, invece, del rapporto tra il Figlio e lo Spirito Santo: e sarà - come vedremo proprio su questo silenzio che si svilupperanno le riflessioni distinte della teologia orientale e di quella occidentale, dando poi origine alla famosa polemica sul Filioque. In sintesi, i concili di Nicea e di Costantinopoli definiscono in maniera chiara e definitiva che il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo sono Dio, e perciò della stessa sostanza; e precisano anche - con una terminologia che in questo caso è di diretta origine biblica ma anche quando è di origine ellenistica subisce un processo di mutazione semantica - il rapporto che c'è tra il Padre e il Figlio (generazione), e il rapporto che c'è tra il Padre e lo Spirito Santo (processione). Com'è evidente, il mistero è solo affermato e contemplato: resta ancora, a partire da questo primo risultato fondamentale, da approfondirlo correttamente. Ciò verrà fatto sia in Oriente sia in Occidente, partendo da questa stessa base, ma operandone un'interpretazione con sensibilità e prospettive diverse. LA TEOLOGIA TRINITARIA IN SANT’AGOSTINO Se i Padri Cappadoci sono determinanti per il successivo sviluppo della teologia trinitaria in Oriente, sant'Agostino (354-430) lo è per l'Occidente. Nel suo famosissimo De Trinitate egli riassume in modo originale la precedente riflessione - sia latina, soprattutto quella di Tertulliano e di Ilario di Poitiers, sia orientale -, e con la potenza del suo genio mistico e speculativo opera un'ulteriore balzo in avanti della dottrina trinitaria ortodossa, che ispirerà tutta la successiva teologia occidentale Punto di partenza è sempre la Regola della fede: Signore Dio nostro, crediamo in Te, Padre e Figlio e Spirito Santo. Perché la Verità non avrebbe detto: Andate, battezzate tutte le genti nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, se tu non fossi Trinità Partendo dalla regola di fede, egli cerca comunque di penetrare il mistero di Dio. Quanto alla dottrina trinitaria sono soprattutto tre gli elementi di novità che Agostino approfondisce consegnandoli alla tradizione viva della Chiesa. La dimensione relazionale dell’essere Nella koinè filosofica del suo tempo, di cui entravano a far parte dottrine di origine platonica, aristotelica e stoica, era naturale comprendere l'essere - nel suo significato primo - come sostanza (ousia) e cioè come ciò che è in-sé, ciò che ha una propria consistenza e sussistenza. Di questa sostanza si possono poi predicare i vari «accidenti», che ineriscono alla sostanza qualificandola, ma non modificandone l'essere profondo. Ma - ed ecco la novità che ci trasmette il Nuovo Testamento, e che è colta con grande acume logico-metafisico da Agostino - nel Dio che Cristo ci rivela troviamo che i nomi personali con cui Dio viene designato - Padre, Figlio e Spirito Santo -, pur designando una sostanza, un essere-in-sé (in quanto ciascuno dei Tre è Dio), allo stesso tempo esprimono una relazione: in quanto, appunto, costitutivi di queste designazioni sono i rapporti con le altre persone. Così, il Padre è tale perché ha un Figlio, e viceversa; mentre lo Spirito Santo è la stessa comunione che c'è tra i Due. Dove cogliere la distinzione delle persone? Non in qualche qualità accidentale e neppure nella moltiplicazione numerica, che sono le ragioni più frequenti della distinzione tra gli individui di una stessa specie, perché nella Trinità non ci sono qualità accidentali (tutto è essenziale) né estensione (che è il fondamento della moltiplicazione numerica). La difficoltà è l'interpretazione rigida della realtà con lo schema sostanza-accidente aristotelico. Gli ariani, basandosi sullo schema aristotelico delle categorie, sostenevano che le distinzioni all'interno della divinità, qualora vi siano devono essere classificate o nella categoria della sostanza o in quella dell'accidente: -la prima portava alla conclusione che i Tre sono sostanze indipendenti (tre dei). - la seconda introduceva la categoria di accidente in Dio, che significa qualcosa di mutevole, passeggero e questo è contraddittorio con la mentalità greca. La conseguenza ariana risulta logica: il Figlio e lo Spirito sono due creature della sostanza ingenerata del Padre; si salvaguarda così l'unità di Dio e la monarchia del Padre. A questa concezione Agostino oppone l'urgenza del recupero di una terza dimensione della realtà, quella della relazione. Dunque in Dio nulla ha significato accidentale, perché in lui non vi è accidente, e tuttavia non tutto ciò che ai Lui si predica, si predica secondo la sostanza (...) Infatti si parla a volte di Dio secondo la relazione; così il Padre dice relazione al Figlio e il Figlio al Padre, e questa relazione non è accidente, perché l'uno è sempre Padre l'altro sempre Figlio Sant'Agostino precisa dunque, con estrema finezza, l'antinomia fondamentale del dogma trinitario: ciascuno dei Tre «possiede» la stessa sostanza (è Dio); in Dio la relazione non modifica la sostanza (che è sempre la stessa), né è un accidente, perché definisce ciascuno dei Tre come Dio pur distinguendolo dagli altri Due. La relazione fa percepire l’identità. L'identità del Padre è data dalla relazione della Paternità, quella del Figlio della Filiazione, quella dello Spirito Santo dalla donazione passiva. Agostino osserva che queste relazioni, essendo nell'ordine della opposizione e non in quello delle perfezioni assolute (ad se), dicono solo distinzione e non diversità di perfezione tra una Persona e l'altra. Queste relazioni sono reali, e quindi importano una distinzione reale tra i termini correlativi — il Padre non è il Figlio, il Figlio non è il Padre ecc. — sono immutabili, sono sussistenti, ed essendo le relazioni simultanee, le Persone divine sono egualmente eterne. Il Figlio mai ha cominciato ad essere Figlio, ma lo è sempre stato, come il Padre non ha mai cominciato ad essere Padre, ma lo è sempre stato, e lo stesso vale anche per lo Spirito Santo. Con ciò si sconvolge profondamente il classico concetto greco di essere (concetto potremmo dire statico): in Dio, esso non si può predicare solo nei termini della sostanza come essere-in-sé, ma anche della relazione come essere-da-e-per l'altro. L’essere non colto solo come individuazione-individualità (principio di separazione), ma nella sua relazione, che in Dio non è una realtà accidentale, ma costitutiva. Il termine persona è allora adoperato per affermare la singolarità e applicato al Padre, al Figlio e allo Spirito, non triplica l’unica essenza divina. La formula agostiniana, ripresa da sant'Anselmo di Canterbury, sarà canonizzata dal concilio di Firenze (1439-1445), che affermerà: «In Deo omnia sunt unum, ubi non obviat relationis oppostilo: in Dio tutto è Uno, se non vi è un'opposizione di relazione» (e cioè il rapporto tra le persone)25. Dio è amore Un'altra, luminosa intuizione della teologia trinitaria di Agostino riguarda l'approfondimento del mistero di Dio nella prospettiva giovannea dell'agape-caritas. Dopo aver presentato in sintesi ciò che egli è andato raccogliendo a proposito di Dio e della sua conoscenza: Verità; Bene supremo; Giustizia; Amore, Agostino, nel libro VIII del De Trinitate sembra condensare e riassumere tutti questi temi nell'ultimo che è appunto il tema dell'Amore: Perciò in questa questione sulla Trinità e la conoscenza di Dio dobbiamo principalmente indagare che cosa sia il vero amore, o meglio che cosa sia l'amore, perché non c'è amore degno di tal nome che quello vero. (De Trinitate 8, 7, 10) D'altra parte ciò è testimoniato dalla Scrittura. Infatti, il Nuovo Testamento, attraverso la prima lettera di Giovanni, giunge ad affermare che «Dio è amore; e chi sta nell'amore dimora in Dio» (cf. 1 Gv 4, 8.16). Agostino prosegue la sua riflessione mettendo in luce che l'esperienza dell'amore, a partire dalla quale è possibile risalire a Dio, è quella dell'amore del fraterno: Nessuno dica "non so cosa amare". Ami il fratello e amerà l'amore stesso. Infatti conosce meglio l'amore con cui ama, che il fratello che ama. Ed ecco che allora Dio gli sarà più noto che il fratello; molto meglio noto, perché più presente; più noto perché più interiore; più noto perché più certo. Abbraccia il Dio amore e abbraccia Dio con l’amore. (De Trinitate 8, 8, 12) Dunque, sia la Scrittura, sia l'esperienza cristiana, per sant'Agostino, attestano una sola cosa: «Dio è l'Amore e perciò lo conosco, in qualche modo, quando amo: quando amo Lui e quando, in Lui, amo il fratello». Tuttavia questa non è la soluzione al problema che lo stesso sant'Agostino si era posto nella prima parte del trattato, poiché la riflessione è ancora imperniata attorno al tema della conoscenza del DioUno e non alla spiegazione del mistero trinitario. E Agostino stesso si pone il problema: «Ma, si dirà, vedo la carità e, per quanto posso, fisso su di essa lo sguardo dello spirito e credo alla Scrittura che dice: Dio è carità, e chi dimora nella carità, dimora in Dio (cf. 1 Gv 4, 8.16). Ma quando vedo la carità, non vedo in essa la Trinità». (De Trinitate 8, 8, 12) Ma, posta l'obiezione, egli immediatamente risponde: «Ebbene, sì, tu vedi la Trinità, se vedi la carità. Mi sforzerò se posso di farti vedere che la vedi: soltanto che la Trinità ci assista». (De Trinitate 8, 10, 14) Di conseguenza, elaborando una lunga riflessione sull'amore del fratello letta in questa prospettiva, sant'Agostino giunge a ritenere che: «Ci sono tre cose: colui che ama, ciò che è amato, e l'amore. Ci rimane di elevarci ancora e cercare più in alto queste cose, per quanto è concesso all'uomo di farlo». (De Trinitate 8, 10, 14) In realtà poi Agostino non sviluppa fino in fondo l’argomento, semplicemente lo traccia aprendo uno squarcio che sarà ripreso in modo programmatico da Riccardo di San Vittore nel Medioevo, e che è diventato finalmente oggi di grandissima attualità. Utilizzando le parole di P. Coda, potremmo dunque dire che «l'intuizione agostiniana della via caritatis resta comunque per sempre tracciata come una freccia che indirizza verso il futuro» M ancora tutto da indagare. L’analogia psicologica Nel libro XV del De Trinitate, Agostino ripercorre il percorso fatto e sottolinea chiaramente che: Ma quando si giunse alla carità, che è stata chiamata Dio nelle Sacre Scritture, il mistero si chiarì un poco con la trinità dell'amante, dell'amato e dell'amore. Ma, poiché quella luce ineffabile abbagliava il nostro sguardo e poiché avvertivamo che la debolezza del nostro spirito non poteva ancora raggiungerla, inserendo una digressione tra ciò che avevamo iniziato a dire e ciò che avevamo deciso di dire, ci siamo rivolti al nostro spirito, secondo il quale l'uomo è stato fatto a immagine di Dio, trovandovi un oggetto di studio più a noi familiare, per riposare la nostra attenzione affaticata così ci siamo soffermati dal libro IX al libro XII sulla creatura che siamo noi per poter, attraverso le cose create, vedere con l'intelligenza le perfezioni invisibili di Dio. (De Trinitate 8, 10, 14) Per trovare qualche cosa che meriti propriamente il nome di «immagine della Trinità» occorre studiare l'uomo interiore, le sue facoltà, memoria, intelletto e volontà che già di per se stesse costituiscono un chiaro rispecchiamento della Trinità. Il punto di partenza è la parola della Genesi: «Facciamo l'uomo a nostra immagine e somiglianza»: dunque, occorre ritrovare nell'uomo l'immagine trinitaria. Come, infatti, l'uomo ha memoria di sé, conosce se stesso, e si ama (e - sul piano della grazia - ha memoria di Dio, ha conoscenza di Dio, ha amor di Dio), così è in Dio: memoria, intelletto e volontà sono un'analogia creata della Trinità che è Padre (memoria), Verbo (intelletto) e Spirito d'Amore. Già nelle Confessioni Agostino si era orientato in questa direzione: Vorrei invitare gli uomini a riflettere su tre cose presenti in se stessi, ben diverse dalla Trinità, ma che indico loro come esercizio, come prova e constatazione che possono fare, di quanto ne siano lontani. Alludo alla esistenza, alla conoscenza e alla volontà umana. Io esisto, so e voglio: esisto sapendo e volendo, so di esistere e di volere, voglio esistere e sapere. Come sia inscindibile la vita in queste tre facoltà e siano un'unica vita, un'unica intelligenza e un'unica essenza, come infine non sia possibile separarle, pur essendo distinte, lo veda chi può. (Confessioni 13, 11, 12) Comunque Agostino ha sempre la consapevolezza che si tratta di una analogia. Ci aiuta a porci davanti al mistero, non ad avere l’illusione di capire ciò che è più grande di noi. Una cosa è dunque la Trinità nella sua realtà stessa, oltre cosa l'immagine della Trinità in una realtà diversa. Questa via - come il concetto di relazione - sarà ampiamente utilizzata e affinata da san Tommaso, mentre san Bonaventura riprenderà ampiamente il tema dei vestigia Trinitatis nella creazione.
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