JOBS ACT: UNA VERA RIFORMA?

Editoriale
a cura del presidente Manageritalia
JOBS ACT:
UNA VERA RIFORMA?
I
l dibattito politico di questo inizio ottobre si è
concentrato sulla riforma del lavoro proposta dal
Governo Renzi tramite il Jobs Act. Anche se buona
parte dell’attenzione dei commentatori si è focalizzata sull’abolizione o meno dell’art. 18, alla fine i
dettagli sulle nuove normative in materia di licenziamento arriveranno solo nel prossimo anno.
Riteniamo, comunque, che concentrarsi solo su quest’aspetto sia fuorviante: i cambiamenti di cui il
mondo del lavoro ha bisogno devono essere organici. Devono far parte di un disegno complessivo
che tenga conto degli scenari economici e sociali, in
una visione prospettica di lungo respiro.
Prendiamo, per esempio, l’idea di inserire il Tfr in
busta paga. Anche senza voler pensare che sia una
mossa per ottenere consenso in vista di eventuali
elezioni anticipate – e anche prevedendo tassi di interesse calmierati per le imprese che devono ricorrere ai prestiti dalle banche per fronteggiare l’imprevisto bisogno di liquidità – la misura graverebbe le liquidazioni di un regime fiscale molto più
svantaggioso di quello previsto per l’erogazione a
fine rapporto.
Non sarebbe meglio detassare il Tfr eventualmente
redistribuito in busta paga per tre anni e offrire alle
aziende un taglio dell’Irap coperto con un concreto
taglio della spesa improduttiva?
È chiaro che in questo modo si andrebbe a ridurre
il vantaggio dello Stato che non riceverebbe più in
anticipo le tasse sul Tfr redistribuito e incasserebbe meno Irap. Ma è altrettanto chiaro che si sta “giocando” con il futuro dei lavoratori, per questo si deve trovare un modo che non vanifichi un sacrificio.
Infatti, c’è un altro aspetto su cui riflettere: la proposta si pone in contraddizione con le politiche degli ultimi dieci anni, che hanno puntato molto sul
secondo pilastro previdenziale, pur senza riuscire
a lanciarlo come avrebbero voluto. Sappiamo che
destinare il Tfr ai fondi complementari aiuta a sopperire alla progressiva riduzione delle prestazioni
pensionistiche obbligatorie.
La nostra categoria si è da tempo attrezzata in tal senso, creando un sistema di welfare contrattuale che
viene spesso citato come modello di contrattazione
innovativo. Per questo crediamo sia la strada giusta
da seguire, se si vuole davvero fronteggiare la progressiva flessione del tasso di sostituzione delle future pensioni generata dall’evoluzione del rapporto
tra lavoratori e pensionati e per questo l’alternativa
deve essere davvero vantaggiosa.
Un altro punto sul quale riteniamo che la nostra esperienza possa essere condivisa (e torniamo all’art. 18)
è quello della cessazione del rapporto di lavoro. Se
svincoliamo la parola licenziamento dalle connotazioni ideologiche ci rendiamo conto che, quando
vengono previsti giusti indennizzi economici – così
come già avviene oggi in Italia per i dirigenti – il licenziamento può non essere la “fine del mondo”.
Naturalmente serve anche creare un sistema di formazione e riqualificazione professionale coerente,
non fine a se stesso, disegnando politiche attive per
il lavoro realmente efficaci.
L’annuncio di costituire un’unica Agenzia nazionale
per le politiche attive va in questa direzione. Pur dovendo superare alcuni ostacoli (la competenza sulla
materia, oggi, è in capo alle Regioni) si tratta di
un’utile occasione per rovesciare l’assetto attuale,
che vede lo Stato impegnato molto più sulle politiche
passive che su quelle attive.
Eppure, per mettere in piedi una riforma che poi
produca risultati concreti bisogna affrontare i problemi chiave del Paese: burocrazia, fisco, giustizia.
E, a monte, ascoltare le richieste del sistema produttivo: le esigenze delle imprese sono concrete, così
come i bisogni dei lavoratori (e dei sempre più numerosi disoccupati).
Vediamo dunque, nei prossimi mesi, come procederanno le riforme contenute nel Jobs Act. La loro
validità dipende soprattutto dalla capacità e dalla
volontà di metterle in pratica, ovvero dall’esecuzione. Un’esecuzione che, per essere davvero efficace, deve basarsi sulla pianificazione concreta delle decisioni da prendere, sulla definizione di una
tabella di marcia con scadenze certe, sulla visione
d’insieme e sui dettagli, sulla quantificazione delle
risorse disponibili, sull’individuazione delle responsabilità e sulla rendicontazione.
Questo è l’approccio con cui, da manager, ci poniamo di fronte alla politica e alle altre parti sociali, oltre le ideologie.
Certo, ci sarebbe bisogno di qualcosa di veramente
rivoluzionario e capace di cambiare in meglio il lavoro e il mondo del lavoro. Come ha fatto Richard
Branson (speciale all’interno della rivista) e come
indica Dirigibile di questo numero dedicato ai manager del futuro.
Guido Carella
([email protected])
OTTOBRE 2014
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