Domenica delle palme _A_ 2014

Domenica delle palme (A)
Is 50,4-7; Sal 21; Fil 2,6-11; Mt 26,14-27,66
Prima lettura Is 50, 4-7
Il Signore Dio mi ha dato una lingua da
discepolo, perché io sappia indirizzare
una parola allo sfiduciato. Ogni mattina fa
attento il mio orecchio perché io ascolti come i
discepoli. 5Il Signore Dio mi ha aperto l’orecchio
e io non ho opposto resistenza, non mi sono
tirato indietro. 6Ho presentato il mio dorso ai
flagellatori, le mie guance a coloro che mi
strappavano la barba; non ho sottratto la faccia
agli insulti e agli sputi. 7Il Signore Dio mi
assiste, per questo non resto svergognato, per
questo rendo la mia faccia dura come pietra, sapendo di non restare confuso.
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Seconda lettura Fil 2,6-11
6[Cristo Gesù], pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio, 7ma svuotò se
stesso assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini. Dall’aspetto riconosciuto come
uomo, 8umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce. 9Per questo Dio lo esaltò e
gli donò il nome che è al di sopra di ogni nome, 10perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli,
sulla terra e sotto terra, 11e ogni lingua proclami: «Gesù Cristo è Signore!», a gloria di Dio Padre.
Vangelo Mt 26,14-35
14Allora uno dei Dodici, chiamato Giuda Iscariota, andò dai capi dei sacerdoti 15e disse: «Quanto volete darmi
perché io ve lo consegni?». E quelli gli fissarono trenta monete d’argento. 16Da quel momento cercava
l’occasione propizia per consegnarlo. 17Il primo giorno degli Azzimi, i discepoli si avvicinarono a Gesù e gli
dissero: «Dove vuoi che prepariamo per te, perché tu possa mangiare la Pasqua?». 18Ed egli rispose: «Andate in
città da un tale e ditegli: “Il Maestro dice: Il mio tempo è vicino; farò la Pasqua da te con i miei discepoli”». 19I
discepoli fecero come aveva loro ordinato Gesù, e prepararono la Pasqua. 20Venuta la sera, si mise a tavola con i
Dodici. 21Mentre mangiavano, disse: «In verità io vi dico: uno di voi mi tradirà». 22Ed essi, profondamente
rattristati, cominciarono ciascuno a domandargli: «Sono forse io, Signore?». 23Ed egli rispose: «Colui che ha
messo con me la mano nel piatto, è quello che mi tradirà. 24Il Figlio dell’uomo se ne va, come sta scritto di lui;
ma guai a quell’uomo dal quale il Figlio dell’uomo viene tradito! Meglio per quell’uomo se non fosse mai
nato!». 25Giuda, il traditore, disse: «Rabbì, sono forse io?». Gli rispose: «Tu l’hai detto». 26Ora, mentre
mangiavano, Gesù prese il pane, recitò la benedizione, lo spezzò e, mentre lo dava ai discepoli, disse:
«Prendete, mangiate: questo è il mio corpo». 27Poi prese il calice, rese grazie e lo diede loro, dicendo: «Bevetene
tutti, 28perché questo è il mio sangue dell’alleanza, che è versato per molti per il perdono dei peccati. 29Io vi dico
che d’ora in poi non berrò di questo frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo con voi, nel regno del
Padre mio». 30Dopo aver cantato l’inno, uscirono verso il monte degli Ulivi. 31Allora Gesù disse loro: «Questa
notte per tutti voi sarò motivo di scandalo. Sta scritto infatti: Percuoterò il pastore e saranno disperse le pecore del
gregge. 32Ma, dopo che sarò risorto, vi precederò in Galilea». 33Pietro gli disse: «Se tutti si scandalizzeranno di te,
io non mi scandalizzerò mai». 34Gli disse Gesù: «In verità io ti dico: questa notte, prima che il gallo canti, tu mi
rinnegherai tre volte». 35Pietro gli rispose: «Anche se dovessi morire con te, io non ti rinnegherò». Lo stesso
dissero tutti i discepoli.
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La prima lettura (Is 50,4-7) ci propone il terzo canto del Servo di Adonay (Is 50,4-9a(11), il cui dolore è
scritto sul suo corpo.
Is 50,4: Il Signore Dio mi ha dato una lingua da discepolo, perché io sappia indirizzare una
parola allo sfiduciato. Ogni mattina fa attento il mio orecchio perché io ascolti come i
discepoli ('adonay hashem nátan li leshon limmudim ladá'at la'ut 'et-ya'ef davar ya'ir babbóqer babbóqer ya'ir
li 'ózen lishmoa' kallimmudim, lett. «Il Signore Dio ha dato a me lingua da discepoli per conoscere, per aiutare (lo) stanco
(con una) parola. Sveglia mattina mattina, sveglia di me l'orecchio per ascoltare come i discepoli»).
- Il Signore Dio mi ha dato una lingua da discepolo ('adonay hashem nátan li leshon limmudim, lett. «Il Signore Dio ha
dato a me lingua da discepoli»). Il profeta (navì) si presenta a noi come un «discepolo» (limmud). Il Signore Dio
('adonay hashem) gli ha dato una lingua (leshon) e un orecchio ('ózen) per ascoltare (lishmoa') per essere discepolo
di chi? Il termine limmud col significato di «discepolo» si trova solo in Isaia (cf 8,16; 54,13), mentre in Ger 2,24 e
13,23 ha il senso generico di «uso a, avvezzo». I limmudim «discepoli» sono coloro che devono trasmettere la
rivelazione profetica di Isaia (cf 8,16). Infatti, il profeta non è soltanto uno che ascolta «come i discepoli», ma
ha anche una «lingua da discepoli» (v. 4), per trasmettere a sua volta quello che ha ricevuto, quindi è l'erede di
una particolare tradizione profetica, che è quella isaiana. Il messaggio profetico deuteroisaiano, a differenza
di quello protoisaiano, è un messaggio di consolazione, ma sarebbe incomprensibile a prescindere dalla
profezia di sventura che lo ha preceduto. Non solo perché nel Primo Isaia vi è già, implicita, la consolazione,
ma soprattutto perché il Secondo Isaia stabilisce proprio questo riferimento costante e necessario tra le «cose
prime» e le «cose ultime», tra il castigo e la consolazione.
- perché io sappia indirizzare una parola allo sfiduciato (ladá'at la'ut 'et-ya'ef davar). Il verbo la'ut (uth) è un hapax di
derivazione sconosciuta. La tradizione esegetica oscilla tra «sostenere» (Aquila, Simmaco, traduttori in greco
dell'AT) e «parlare», «insegnare» (Targum, versioni siriaca e araba; così anche la versione CEI).
L'insegnamento e la trasmissione della parola di verità diventano il modo per sostenere il popolo smarrito.
- Ogni mattina fa attento il mio orecchio (ya'ir babbóqer babbóqer ya'ir li 'ózen, lett. «sveglia mattina mattina, sveglia il
mio orecchio»). Il termine babbóqer, «mattina» è ripetuto due volte. Potrebbe essere una dittografia, quindi frutto
di un errore scribale, ma non necessariamente. Se si accetta la ripetizione (la CEI coglie il senso traducendo ogni
mattina) andrebbe riformulata la scansione del periodo, differenziandosi da quella indicata dal TM: «mi
risveglia una parola ogni mattina. Ogni mattina mi risveglia l'orecchio» (A. Mello).
Is 50,5: Il Signore Dio mi ha aperto l’orecchio e io non ho opposto resistenza, non mi sono
tirato indietro ('adonay hashem patach-li 'ózen we'anoki lō' maríti 'achor lō' nesugóti, lett. «Il Signore Dio aprì a
me l'orecchio e io non mi ribellai, indietro non mi tolsi»).
- Il Signore Dio mi ha aperto l'orecchio ('adonay hashem patach-li 'ózen). Forse qui si fa allusione alla prassi dello
schiavo a cui il padrone forava l'orecchio, nel caso che questi si dedicasse a lui per tutta la vita (cf Es 21,2-6).
Perciò, nel suo atteggiamento di ascolto, il profeta si presenta davvero come uno schiavo (altro possibile
significato dell'ebraico 'ebed) che ha un «orecchio obbediente». Il Servo ('ebed) prende la parola per descrivere
se stesso, riconoscendo subito la sua radicale dipendenza dal Signore. Egli inizia la propria autopresentazione
non dicendo «io», ma «il Signore Dio mi ha». Il personaggio che sta parlando è ben cosciente che, se può aprire
bocca, può farlo unicamente perché tutto in lui dipende dal dono ricevuto dal Signore. Egli esiste in quanto è
totalmente relazionato al suo Signore. Tra il Signore e il Servo vi è un rapporto diretto, immediato, intimo e
personale. Ciò che costituisce il servo è il suo tenere l'orecchio aperto per ascoltare e agire di conseguenza.
La familiarità con la Parola ha generato in lui una sapienza che lo impegna in una missione di consolazione
(cf 50,4). Il testo assicura che il servo è diventato un esperto della Parola, infatti ha ricevuto «una lingua da
discepoli» (leshon limmudim), cioè da discepolo competente, uno che è giunto a conoscere bene il contenuto
delle cose che dice. Il termine limmud significa «ammaestrato, discepolo, uno a cui le cose sono state insegnate
bene», con la connotazione intensiva di chi possiede già un certo grado di sapere personale. Ciò che il servo ha
capito è che la Parola contiene un messaggio di conforto da rivolgere allo stanco (ya'ef). Chi sono questi
«stanchi e spossati» ai quali il Servo è mandato? Sono tutti coloro che si trovano nell'indigenza e hanno fame e
sete della Parola, non si appagano di null'altro che non sia la salvezza del Signore. Essi sono i poveri di
Adonay, la cui povertà è di tipo spirituale, caratterizzata da un immenso bisogno della consolazione e della
salvezza del Signore. A loro il Servo è mandato per ridare loro coraggio e comunicare forza. Il Servo
manifesta una fermezza incrollabile nell'adempimento della sua missione, pur trovandosi in condizioni di
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estrema debolezza. Insegna, così, che la debolezza è il luogo privilegiato per far posto alla forza di Dio. In
altre parole, dal carcere in cui è stato gettato e in cui appare schiacciato, si sprigiona una forza vitale
straordinaria, capace di consolare quelli che si trovano in situazioni analoghe.
50,6: Ho presentato il mio dorso ai flagellatori, le mie guance a coloro che mi strappavano la
barba; non ho sottratto la faccia agli insulti e agli sputi (gewi natátti lemakkim ulechayay lemortim
panay lō' histárti mikkelimmot waroq, lett. «Il dorso di me diedi ai colpenti e guance di me ai strappanti la barba, faccia
di me non nascosi da insulti e sputo»).
- Ho presentato il mio dorso ai flagellatori (gewi natátti lemakkim). Prepararsi ad avere un «orecchio obbediente»
non è un'operazione indolore. Il servo dichiara di aver presentato il dorso ai flagellatori, le guance ai
depilatori, la faccia agli scherni e agli sputi. Sono le sofferenze degli esiliati, che aspirano all'obbedienza alla
parola di Dio. È la medesima scuola: il servo è discepolo in quanto ascolta la Parola, ma soprattutto perché ha
imparato molto dalle sofferenze. Qui si precisa il tipo di umiliazione a cui il servo è sottoposto: è rigettato e
privato di ogni dignità umana, si fa di tutto per soggiogarlo, facendolo sentire inferiore. Le torture descritte
sono quelle tipiche del medio oriente antico, impiegate per annientare l'identità di un uomo non solo
fisicamente ma anche psicologicamente e spiritualmente (tragica imitazione si è ripetuta durante la Shoà). Viene
sfigurato tanto che il suo aspetto alla fine risulta orribile, ripugnante. Ai condannati a morte e ai deportati in
esilio erano riservati flagellazione e sputi come espressione del massimo disprezzo (cf Nm 12,14; Dt 25,9; Gb
30,10); lo strappare la barba, oltre al dolore, provocava disonore e vergogna (cf 2Sam 10,4-5; Is 7,20).
50,7: Il Signore Dio mi assiste, per questo non resto svergognato, per questo rendo la mia
faccia dura come pietra, sapendo di non restare confuso (wa'donay hashem ya'azor-li 'al-ken lō'
niklámti 'al-ken sámti fanay kachallamish wa'eda' ki- lō' evosh).
- Il Signore Dio mi assiste (wa'donay hashem ya'azor-li). Il Servo rimane irremovibile perché Dio lo sostiene. Il
Servo sa che Dio non delude ed è dalla sua parte. Per questo non arrossisce e non si vergogna, neanche
davanti agli insulti più disonorevoli (cf Sal 22,1-12). Egli indurisce il volto, come farà Gesù quando si metterà in
cammino verso Gerusalemme (Lc 9,51). Questa immagine della faccia resa dura da Dio si trova anche in Ez 3,411. A un indurimento che è ostinazione nel male, il Signore Dio oppone nel suo Servo un altro e più forte
indurimento, che è ostinazione nel bene, nel salvare e nel consolare. Vi è una reciprocità: la parola di Dio
insegna a sopportare le sofferenze che giovano alla salvezza.
Nei capitoli 40-55 del libro di Isaia (chiamato Deuteroisaia) hanno particolare rilievo quattro
canti nei quali si descrive la vicenda di un personaggio chiamato «Servo del Signore»: 42,1-8; 49,1-7; 50,4-9a(11);
52,13-53,12. Questi canti costituiscono uno dei vertici dell’Antico Testamento. Con probabilità non
appartengono al profeta anonimo dell’esilio che ha scritto i capitoli 50-55, ma a un autore successivo.
Sembrano infatti postulare una situazione storica e teologica diversa: non più la situazione di fine esilio e la
crisi di fede (ma anche di speranza) che essa suscitò, bensì la crisi di fede e gli interrogativi suscitati dalla
delusione che seguì il ritorno in patria.
Il ritorno di Israele da Babilonia, benché cantato ed esaltato come un nuovo esodo, fu di fatto una
delusione. In questo contesto - carico di interrogativi sulla fedeltà di Dio e sull’efficacia dell’alleanza - si
collocano i quattro canti con il loro messaggio di speranza e di invito alla fedeltà alla Parola. Nei «canti» si
sviluppa la riflessione sul significato salvifico della sofferenza che ha colpito i profeti e il resto di Israele
tornato in patria, in obbedienza alla parola di Dio. A motivo di questa fedeltà essi si trovano a disagio,
smentiti, mentre gli altri - i rimasti a Babilonia - sembrano stare meglio. In questo contesto l’autore dei carmi si
interroga sul significato del popolo eletto e della sua vicenda. Ed ecco la risposta: è proprio attraverso la
sofferenza purificatrice che giunge la salvezza per tutti. In questo orizzonte di pensiero, logicamente, non si
pensa più al Messia come a un re glorioso, ma piuttosto come a un profeta sofferente. Il Messia sarà il grande
giusto sofferente.
Nel terzo canto il Servo è descritto in atteggiamento di ascolto di fronte a Dio, con la missione di
sostenere e confortare gli stanchi. Disponibilità e obbedienza lo spingono a non indietreggiare di fronte agli
ostacoli e alla persecuzione. Ha un’incrollabile fiducia nel Signore e questa fiducia lo rende risoluto di
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fronte agli oppositori. Il giudizio di Dio - di questo il Servo è certo - smentirà gli oppositori.
L’originalità di questo terzo canto è rappresentata soprattutto da due temi: il Servo in perenne ascolto
della Parola e il Servo perseguitato. La sua virtù non è semplicemente la fedeltà nell’annunciare la Parola,
ma è ancor prima la capacità di coglierla e di capirla. L’immagine è quella di un discepolo docile e
intelligente. Il Servo offre un servizio d’istruzione e di conforto a chi è stanco nella fede. La capacità di ascolto,
che è la caratteristica principale del Servo, si tramuta in capacità di cogliere il disegno di Dio e di porsi al suo
servizio.
Ogni mattina il Servo si presenta al Signore per ascoltare la sua Parola: «Ogni mattina fa attento il mio
orecchio perchè io ascolti come i discepoli» (50,4). Questo versetto è da intendersi come assidua meditazione della
Parola, in cerca di luce e di coraggio. Il Servo è in costante dialogo con Dio, perciò è divenuto maestro di
sapienza che scruta le Scritture da cui riceve una luce pacificante e sempre più profonda.
Accanto al tema dell’ascolto e dell’annuncio della Parola si pone il tema della persecuzione. Chi sono i
persecutori? Forse lo stesso Israele, incapace di accettare il compito che la predicazione del Servo gli indicava.
Si tratta, dunque, di una persecuzione che scaturisce dalla stessa vocazione profetica del Servo.
Chi sceglie di abbandonarsi senza riserve al servizio della verità incontra quasi sempre oltraggi e
rifiuti: «Ho presentato il dorso ai flagellatori, le mie guance a coloro che mi strappavano la barba; non ho sottratto la faccia
agli insulti e agli sputi» (50,6). Sofferenza e umiliazione, questo è il destino della verità. Soprattutto
umiliazione: la barba strappata, insulti e sputi. Ma non riscontriamo nessuna reazione violenta da parte del
Servo, né lamento né scoraggiamento, bensì mitezza, coraggio e grandezza d’animo: «Rendo la mia faccia dura
come pietra» (50,7).
La somiglianza con Gesù è lampante e gli evangelisti l’hanno notata raccontando gli oltraggi della
passione: «Allora gli sputarono in faccia e lo percossero» (Mt 26,67); «Sputandogli addosso, gli tolsero di mano la canna
e lo percuotevano sul capo» (Mt 27,30); «Una delle guardie presenti diede uno schiaffo a Gesù» (Gv 18,22).
Il coraggio e la forza necessari per continuare la propria missione e per rispondere alla violenza con
atteggiamenti non violenti, il Servo li ha attinti dalla fede: «Il Signore Dio mi assiste, per questo non resto
svergognato» (50,7). È questo il segreto che spiega tutto. «Il Signore Dio mi assiste» ripete due volte il Servo
(vv. 7.9) e, forte di questa certezza, proclama già la sua vittoria: «Chi oserà venire a contesa con me? Affrontiamoci»
(50,8).
La seconda lettura (Fil 2,6-11) ci propone il celebre elogio di Cristo riportato nella Lettera ai Filippesi,
una delle sette lettere autoriali di Paolo (Rom, 1-2Cor, Gal, Fil, Fl, 1Ts). Filippesi è ritenuta la «lettera della
gioia», il testamento in cui il bene inestimabile del vangelo che è Cristo è consegnato alla comunità che ha più
amato: la prima che abbia fondato in Europa.
Fil 2,5: Abbiate in voi gli stessi sentimenti di Cristo Gesù: (τοῦτο φρονεῖτε ἐν ὑμῖν ὃ καὶ ἐν Χριστῷ
Ἰησοῦ, Pitta: «Questo valutate in voi che (è) anche in Cristo Gesù»).
Una formula esortativa introduce l'inno cristologico. Tipica è l'espressione ἐν Χριστῷ Ἰησοῦ, en Christỗ Iesoũ,
che rimanda alla relazione tra i credenti e Cristo.
2,6 [Cristo Gesù], pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come
Dio, (ἐν μορφῇ θεοῦ ὑπάρχων οὐχ ἁρπαγμὸν ἡγήσατο τὸ εἶναι ἴσα θεῷ, Pitta: «essendo in forma di Dio non
considerò possesso geloso l'essere alla pari di Dio»).
- pur essendo nella condizione di Dio (ἐν μορφῇ θεοῦ ὑπάρχων, lett. «in forma di Dio esistente»). Fil 2,6-7b si
sofferma sull'antitesi tra la μορφή θεοῦ, morphé theoũ (forma/condizione di Dio, v. 6a) e la μορφή δούλου, morphé
doúlou (forma/condizione di servo, v. 7b), ossia tra il livello divino e quello umano di Cristo Gesù. Resta
difficile cogliere il senso del sostantivo μορφή, morphé che compare soltanto in questi due casi nell'epistolario paolino. Nel resto del NT è attestato in Mc 16,12, a proposito delle apparizioni postpasquali di Gesù: «Dopo
queste cose, apparve a due di loro mentre camminavano in un'altra forma (ἐν ἑτέρᾳ μορφῇ, en hetéra morphễ), mentre
andavano verso la campagna». Esiste una corrispondenza tra μορφή, morphé (forma) ed εἰκόν, eikón (immagine).
In 2Cor 3,18 Paolo asserisce che i credenti «sono trasformati (μεταμορφούμεθα, metamorphoúmeta) nella stessa
immagine (εἰκόνα, eikóna) da gloria in gloria» (cf Rm 8,29). Dal versante cristologico, in 2Cor 4,4 e in Col 1,15
Gesù Cristo è riconosciuto come εἰκόν, eikón di Dio. I termini però non sono interscambiabili. In pratica, il
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sostantivo μορφή, morphé esprime un aspetto dinamico che non è riscontrabile in εἰκόν, eikón. Inoltre due
motivi impediscono di equiparare i sostantivi μορφή, morphé e δόξα, dóxa: la forma di schiavo esclude di pensare alla gloria divina nell'umanità di Cristo. L'uso di δόξα, dóxa in Fil 2,11 pone in risalto che la gloria di Dio
Padre rappresenta la mèta finale del percorso di Cristo e non il suo punto di partenza. Poiché Fil 2,5-11 si
chiude con l'accenno alla paternità di Dio non è fuori luogo sostenere che μορφή, morphé designi la duplice
figliolanza divina e umana di Cristo.
- non ritenne un privilegio l’essere come Dio, (οὐχ ἁρπαγμὸν ἡγήσατο τὸ εἶναι ἴσα θεῷ, lett. «non rapina considerò
l'essere uguale a Dio»). Nella seconda parte di Fil 2,6 l'attenzione si sposta sul modo di pensare di Cristo: «Non
considerò possesso geloso l'essere come Dio». Qual è il significato del sostantivo ἁρπαγμός, harpagmós che
compare soltanto in Fil 2,6 ed è raro nel greco profano? Come bisogna interpretare l'espressione εἶναι ἴσα θεῷ,
eĩnai ísa theỗ? Il termine ἁρπαγμός, harpagmós in senso attivo significa «furto, rapina»; qui prevale l'accezione
passiva ed equivale ad ἁρπαγμά, harpagmá, «refurtiva, bottino». Di fatto, si può sostenere che Cristo non
ritenne l'essere alla pari di Dio come un possesso geloso o un tesoro da custodire. Pertanto, è da preferire il
significato di res rapta, cioè di realtà già in possesso di Cristo, da cui avrebbe potuto trarre un vantaggio ma
non ne approfittò. Gesù Cristo «si fece povero, pur essendo ricco, affinché voi foste arricchiti della sua povertà» (2Cor
8,9) e «non piacque a se stesso» (Rm 15,3). Perciò non possiamo dire che Gesù Cristo è «simile» a Dio, perché
egli condivide la stessa condizione divina. Il sostantivo θεός, theós non è mai attribuito a Gesù Cristo, bensì
soltanto a Dio, nel rispetto del monoteismo delle prime comunità giudeo-cristiane. La cultura giudaica e grecoromana parla di esseri umani, che si attribuiscono poteri e dignità divine. Al re di Tiro è detto: «Io sono un
dio... Ti precipiteranno nella fossa e morirai della morte degli uccisi in mezzo ai mari» (Ez 28,2.8). Filone di Alessandria
(20 a.C. ca – 45 d.C. ca) dirà che «la mente egoista e senza Dio crede di eĩnai ísa theỗ, "essere uguale a Dio"».
Giuseppe Flavio (37 ca - 100 ca) ricorderà che Gaio Caligola (12-41 d.C.) «deificava se stesso e richiedeva dai
sudditi onori che non erano proprio quelli che si rendono a un uomo». Della metà degli anni 50 d.C. è la satira
Ἀποκολοκύντωσις, Apokolokýntosis di Seneca (4 a.C. - 65 d.C. Il titolo deriva dal sostantivo κολόκυνθα,
kolókyntha che significa «zucca»; pertanto il titolo dell'opera significa: «zucchificazione»), in cui con mordace
ironia è rappresentata l'apoteosi in cielo e la condanna agli inferi dell'imperatore Claudio: «Vuol diventare
un dio; non gli basta avere un tempio in Britannia, né che ora i barbari lo venerino e gli levino preghiere come a
un dio». Così mentre gli esseri umani tendono verso la deificazione di se stessi, Gesù Cristo che «era alla
pari di Dio» non approfittò della sua condizione. A sua volta, la questione sulla divinità di Cristo sarà
sviluppata nel vangelo di Giovanni, dove da una parte risalterà l'accusa dei farisei, per cui «chiamava Dio suo
padre, facendosi uguale (ἴσον) a Dio» (Gv 5,18), e dall'altra Gesù stesso riconoscerà che il Padre è più grande di lui
(Gv 14,28).
2,7ab: ma svuotò se stesso assumendo una condizione di servo, diventando simile agli
uomini (ἀλλὰ ἑαυτὸν ἐκένωσεν μορφὴν δούλου λαβών, ἐν ὁμοιώματι ἀνθρώπων γενόμενος, Pitta: «ma
spogliò se stesso avendo assunto forma di schiavo, essendo diventato nell'assimilazione degli uomini»).
- ma svuotò se stesso assumendo una condizione di servo (ἀλλὰ ἑαυτὸν ἐκένωσεν μορφὴν δούλου λαβών). L'elogio
procede con il percorso kenotico o umiliante di Cristo, con le caratteristiche di una degradatio: progressivo
allontanamento dalla condizione divina, sino all'esito finale della sua morte. Il verbo κενόω, kenóō è utilizzato
soltanto da Paolo nel NT e assume diverse sfumature: «spogliare, annientare, svuotare, annullare». Forse la
traduzione più rispondente è quella con «spogliò se stesso». Il verbo κενόω rimanda, per contrasto, a
κενοδοξία, kenodoxía, «vanagloria» (Fil 2,3). Cristo scegliendo di diventare δούλος, doúlos «servo» operò la
scelta del disonore e della vergogna. La kénōsis di Cristo si riferisce alla sua incarnazione o alla crocifissione,
come luogo della sua massima spoliazione? Probabilmente si accenna all'intera vita di Cristo:
dall'incarnazione alla sua morte, come percorso di spoliazione, di autorinunzia alla sua condizione divina. Per
l'allusione all'incarnazione vedi Gal 4,4: «Dio mandò il suo Figlio» e Rm 8,3: «avendo mandato il suo Figlio in
un'assimilazione della carne del peccato, e in vista del peccato ha condannato il peccato nella carne». In 2Cor 5,21 Paolo
sostiene che «colui che non aveva conosciuto peccato (Dio) fece peccato per noi», e in 2Cor 8,9: «... Per noi si fece povero,
pur essendo ricco, affinché voi diventaste ricchi della sua povertà». A sua volta, la tradizione paolina di 1Tm 3,16
asserisce che Cristo «si manifestò nella carne», un'affermazione che anticipa l'incarnazione del lógos, di matrice
giovannea (Gv 1,14; 1Gv 4,2; 2Gv 7).
- diventando simile agli uomini (ἐν ὁμοιώματι ἀνθρώπων γενόμενος). Per descrivere la relazione tra Cristo e
l'umanità, l'autore si sofferma sull'homoíōma «somiglianza, assimilazione» che egli ha assunto. Il termine è
utilizzato quasi esclusivamente da Paolo nel NT (6 volte) e con particolare attestazione in Romani (cf Rm 1,23;
5
5,14; 6,5; 8,3; Ap 9,7). In dipendenza dai contesti, il termine significa raffigurazione (Rm 1,23), «espressione
percettibile», «somiglianza» (Rm 5,14), «conformazione» (Rm 6,5) e «assimilazione» (Rm 8,3). Il sostantivo è
spesso utilizzato nella LXX, dove rende l'ebraico demut, tabnit e temunà (cf Dt 4,6; Is 40,9; Es 20,4). Nel nostro
caso, non si può pensare a «somiglianza» tra Cristo e gli esseri umani, ma alla massima assimilazione con gli
esseri umani. Cristo è diventato pienamente uomo; perciò l'elogio anticipa l'asserzione di Eb 2,17: «Perciò Gesù
doveva assimilarsi (ὁμοιωθῆναι) ai fratelli, per diventare un sommo sacerdote misericordioso e degno di fede nelle cose
che riguardano Dio». La mimèsi compiuta da Cristo diventa così esemplare per quanti vogliono assumere il
suo stesso modo di pensare e discernere.
2,7d-8: Dall'aspetto riconosciuto come uomo, 8umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla
morte e a una morte di croce (καὶ σχήματι εὑρεθεὶς ὡς ἄνθρωπος ἐταπείνωσεν ἑαυτὸν γενόμενος
ὑπήκοος μέχρι θανάτου, θανάτου δὲ σταυροῦ, Pitta: «e trovato nell'aspetto come uomo 8umiliò se stesso essendo
diventato obbediente sino alla morte, morte però di croce»).
- Dall'aspetto riconosciuto come uomo (καὶ σχήματι εὑρεθεὶς ὡς ἄνθρωπος). La piena assimilazione alla
condizione umana è stata possibile grazie alla scelta di Cristo di umiliare se stesso, diventando obbediente
sino alla fine.
- umiliò se stesso (ἐταπείνωσεν ἑαυτὸν). Tre sono i sostantivi che caratterizzano il percorso umiliante di Cristo:
μορφή, morphé «forma, condizione», ὁμοίωμα, homoíōma «assimilazione» e σχῇμα, schễma «aspetto» associati a
tre participi: λαβών, labón «assumendo», γενόμενος, genómenos «diventando» ed εὑρεθεὶς, heuretheìs
«riconosciuto». La kénōsis di Cristo rivela la sua piena condivisione della situazione umana ma anche un
atteggiamento etico di grande spessore. Il verbo ἐταπείνωσεν, etapeínōsen «umiliò» segnala non tanto una
virtù da perseguire, quanto la condizione sociale o etica di chi si trova in una situazione d'inferiorità
rispetto ad altri. Ma nel caso di Cristo, invece, l'umiltà non è dettata dalla sua condizione sociale o civile, ma
da chi liberamente ha assunto la forma di schiavo con una rilevanza positiva, cosicché «chi si umilia sarà
esaltato» (Mt 23,12; Lc 14,11; 18,14; 2Cor 7,6). Sorprende il silenzio nei confronti di chi Cristo si sia umiliato.
Tale silenzio merita di essere rispettato, poiché denota la portata universale della sua umiltà e obbedienza
(mentre nel IV canto del Servo si parla di un'umiliazione subita da parte degli avversari, in Fil 2,8 si parla di
Cristo che liberamente fa la scelta dell'umiltà).
- facendosi obbediente (γενόμενος ὑπήκοος). L'inno si limita a constatare l'obbedienza fedele e permanente di
Cristo. Non si dice che Cristo «imparò l'obbedienza dalle cose che patì» (Eb 5,8), per alludere alla passione. L'elogio
non concentra l'attenzione sulla sofferenza nell'obbedienza di Cristo, bensì sulla scelta volontaria di un'obbedienza totale, μέχρι θανάτου, méchri thanátou, «fino alla morte», espressione ripresa soltanto in Fil 2,30 nel
NT, dove segnala la prossimità della morte a cui è andato incontro Epafrodito, a causa di Cristo e del vangelo.
- una morte di croce (θανάτου δὲ σταυροῦ). La prima parte dell'elogio (Fil 2,6-8) si chiude con questa
specificazione. Si deve a Paolo la ripresa esplicita del valore della croce. Cristo non muore in croce perché ha
trasgredito la Legge, bensì ὑπὲρ ἡμῶν, «per noi», affinché i credenti ricevessero lo Spirito promesso e la
figliolanza divina (Gal 4,4-6). Notevole deve essere stato l'impatto della crocifissione su una comunità di
origine gentile, come quella di Filippi, poiché dagli scrittori latini essa è descritta come summum supplicium
(Cicerone, Contro Verre 2,5,168), infelix lignum (Seneca, Lettere a Lucilio 101,14), servile supplicium (Tacito, Storie
4,11,3) e maxima mala crux (Plauto, Captivi 469). La kénōsis fino alla croce descritta in Fil 2,7-8, evidenzia così il
cursus pudorum o percorso dell'ignominia a cui si è sottomesso Cristo. Anche il contesto giudaico esprime una
profonda repulsione per la pena capitale di origine persiana. Durante l'assedio di Macheronte, Flavio
Giuseppe racconta che il comandante romano Basso «comandò di piantare una croce come se volesse
immediatamente appendervi Eleàzaro; di fronte a tale spettacolo quelli della fortezza furono presi da
un'angoscia più grande, gridando fra alti gemiti che quella era una disgrazia intollerabile». Sembra che fosse
stata sufficiente la comparsa di una croce perché gli assediati si arrendessero. La stessa risonanza ritroviamo
negli scritti di Filone di Alessandria: «Il sole non tramonti su coloro che sono crocifissi ma siano sepolti nella
terra prima del declino». Paolo in Gal 3,13 cita i passi di Dt 27,26 e di Dt 21,23 per sostenere che Cristo è
diventato sul legno maledizione per noi, affinché la benedizione di Abramo giungesse ai gentili e ricevessimo
lo Spirito promesso (Gal 3,14); allo stesso passo del Deuteronomio allude Luca in At 5,30: «Il Dio dei nostri padri
ha risuscitato Gesù che voi avete ucciso appendendolo all'albero». Paolo è il primo autore cristiano che interpreta la
maledizione di Dt 21 in funzione della benedizione dei credenti. Fil 2,8c non riconosce la funzione
soteriologica della morte di croce con l'importante precisazione «per noi», usata da Paolo in 1Cor 1,18-31 e in
Gal 3,10-14.
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2,9: Per questo Dio lo esaltò e gli donò il nome che è al di sopra di ogni nome, (διὸ καὶ ὁ θεὸς
αὐτὸν ὑπερύψωσεν καὶ ἐχαρίσατο αὐτῷ τὸ ὄνομα τὸ ὑπὲρ πᾶν ὄνομα, Pitta: «Proprio per questo Dio lo
sovraesaltò e gli donò il nome che (è) al di sopra di ogni nome»).
- Dio lo esaltò e gli donò il nome che è al di sopra di ogni nome, (ὁ θεὸς αὐτὸν ὑπερύψωσεν καὶ ἐχαρίσατο αὐτῷ τὸ
ὄνομα τὸ ὑπὲρ πᾶν ὄνομα). Nella seconda parte dell'inno (2,9-11) cambia il soggetto principale dell'elogio:
subentra l'azione di Dio nei confronti di Cristo. Soggetto principale della proposizione è ὁ θεὸς, ho theòs,
riconosciuto alla fine come padre, che ha sopraesaltato Gesù e gli ha donato il nome al di sopra di qualsiasi
altro nome: il nome che caratterizza la sua sopraesaltazione non è Ἰησοῦς, Iēsoũs «Gesù», che aveva ricevuto
con la nascita, né Χριστός, Christós «Cristo» che allude alla sua identità messianica, bensì κύριος, kýrios
«Signore» (Fil 2,11). Fra gli scritti neotestamentari che incentrano la loro cristologia sul nome, meritano di
essere citati il Vangelo di Matteo e la Lettera agli Ebrei. In Mt 1,21 l'angelo rivela a Giuseppe che Maria riceverà un
figlio «e lo chiamerai con il nome Gesù; infatti egli salverà il suo popolo dai suoi peccati»; e il nome Ἐμμανουήλ
Emmanouél (Mt 1,23) contiene il disegno del «Dio con noi», proprio della cristologia matteana (Mt 18,20; 28,20).
A sua volta, l'autore della Lettera agli Ebrei, concentra l'attenzione sul titolo di ἀρχιερεὺς «sommo sacerdote»,
inteso come nome per delineare la sua originale cristologia (Eb 1,4; 2,17; 5,10). Per questo, nel nome di una
persona è coinvolta la sua identità: nomen omen, il nome è un presagio, dicevano i latini.
- lo esaltò (αὐτὸν ὑπερύψωσεν). Il verbo ὑπερυψόω significa «esalto oltremodo, innalzo al massimo grado,
sovresalto». La prima azione compiuta da Dio nei confronti di Cristo riguarda la sua superesaltazione, senza
citare esplicitamente la sua risurrezione. Quando comincia la sopraesaltazione di Cristo? Soltanto con la
risurrezione e l'ascensione alla destra di Dio oppure già nelle tenebre o nel paradosso della croce? Sappiamo
che in seguito la teologia giovannea svilupperà la cristologia dell'esaltazione riconosciuta nell'evento della
croce e non solo nella risurrezione.
2,10: perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra, (ἵνα
ἐν τῷ ὀνόματι Ἰησοῦ πᾶν γόνυ κάμψῃ ἐπουρανίων καὶ ἐπιγείων καὶ καταχθονίων, Pitta: «affinché nel nome
di Gesù ogni ginocchio si pieghi di chi (è) nei cieli, sulla terra e sottoterra»).
Alla duplice azione di Dio (sopraesaltazione e conferimento del nome) nei confronti di Cristo corrisponde
quella di «ogni ginocchio» (v. 10) e di «ogni lingua» (v. 11).
- nel nome di Gesù (ἐν τῷ ὀνόματι Ἰησοῦ). Non «mediante» il nome di Gesù tutti rendono gloria a Dio, né «a
causa» del nome, bensì «di fronte» al nome di Gesù tutti sono chiamati a conferirgli l'adorazione. Non è un
caso che qui per la prima volta nell'inno sia citato il nome di Gesù che, dopo aver percorso il drammatico
itinerario della kénōsis, ora è sopraesaltato da Dio e riceve l'adorazione di ogni ginocchio (πᾶν γόνυ).
Illuminante è il confronto con la fonte di Is 45,23 e il parallelo di Rm 14,11.
Is 45,23
«Davanti a me (emoì)
si piegherà (kámpsei)
ogni ginocchio (pãn góny)
e confesserà (exomologésētai) ogni
lingua (pãsa glỗssa) davanti a Dio».
Fil 2,10-11
Rm 14,11
«Nel nome di Gesù
ogni ginocchio (pãn góny)
si pieghi (kámpsē)
di chi è nei cieli, sulla terra e
sottoterra e ogni lingua confessi
(exomologésētai)
che Signore Gesù Cristo a gloria di
Dio padre ».
« Io vivo, dice il Signore, perché
davanti a me (emoì)
si piegherà (kámpsei)
ogni ginocchio (pãn góny)
e
ogni
lingua
confesserà
(exomologésētai)
davanti a Dio».
- nei cieli, sulla terra e sotto terra, (ἐπουρανίων καὶ ἐπιγείων καὶ καταχθονίων, lett. «delle [realtà] celesti e terrestri e
sotterranee»). Fil 2,10 pone in risalto il gesto della prostrazione che «ogni ginocchio» deve realizzare di fronte al
nome di Gesù. A chi o a che cosa si allude con la formula triadica «di chi è nei cieli, sulla terra e sottoterra»? La
triade esprime l'adorazione universale che gli esseri umani e gli spiriti devono attribuire al Signore Gesù
Cristo. Ignazio di Antiochia (35-107 d.C.) scrive: «Egli realmente fu crocifisso e morì alla presenza dei celesti
(τῶν ἐπουρανίων, tỗn epouraníōn), dei terrestri (ἐπιγείων, epigeíōn) e dei sottoterrestri (ὑποχθονίων,
hypochtoníōn)». Tuttavia, mentre tutti i corpi celesti si prostrano davanti al nome di Gesù, non tutti quelli
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«terrestri» riconoscono la sua signoria: saranno obbligati a farlo soltanto con l'evento escatologico della sua
totale signoria.
2,11: e ogni lingua proclami: «Gesù Cristo è Signore!», a gloria di Dio Padre (καὶ πᾶσα γλῶσσα
ἐξομολογήσηται ὅτι κύριος Ἰησοῦς Χριστὸς εἰς δόξαν θεοῦ πατρός, Pitta: «e ogni lingua confessi: «Signore Gesù
Cristo» per la gloria di Dio padre»).
- e ogni lingua proclami (καὶ πᾶσα γλῶσσα ἐξομολογήσηται). Non è molto chiaro il significato del verbo
ἐξομολογέω, exomologéō, al congiuntivo aoristo, che assume due significati fondamentali: «confessare o
ringraziare e lodare». «Ogni lingua» è chiamata a proclamare ovunque e per sempre che Gesù Cristo è il
Signore.
- a gloria di Dio Padre (εἰς δόξαν θεοῦ πατρός). L'elogio si chiude con una dossologia della paternità di Dio. La
signoria di Cristo non pone in discussione l'unicità di Dio: Gesù Cristo è «nella forma di Dio» (Fil 2,6), «alla
pari di Dio», ma il titolo theós appartiene soltanto a Dio che è Padre di Gesù Cristo e di tutti coloro che sono
in Cristo, mediante lo Spirito.
Filippi (in greco antico Φíλιπποι) è un'antica città della Tracia, attigua alla Macedonia e non
distante dal mare Egeo. Sorge sul sito dell'antica Crenides e prese il nome dal re Filippo il Macedone, che la fece
ingrandire e fortificare nel 356 a.C. per farne un centro minerario. Fu conquistata dai Romani nel 168 a.C. Nel 42
a.C. fu teatro della battaglia decisiva tra le truppe di Ottaviano e Antonio contro quelle di Bruto e Cassio; Ottaviano,
divenuto Augusto, la eresse al rango di colonia. Negli anni 50 d.C. la cittadina di Filippi recava la denominazione
ufficiale Colonia Iulia Augusta Philippensis, conferitagli da Ottaviano, Imperator Caesar Divi Filius Augustus (dal 27
a.C. al 14 d.C.). La città è collocata nella pianura del fiume Gangites (oggi Bunarbaschi), sulla via Ignazia, a 16
chilometri dal porto di Neapoli (odierna Kavala).
La popolazione doveva essere di 10.000 abitanti circa, composta di colonizzatori romani e di abitanti greci
e traci. La romanizzazione della città le permise di godere dello ius italicum, il privilegio per cui i cittadini potevano
intraprendere scambi (in iure cessio) commerciali in proprio ed erano esenti da imposte fondiarie imperiali. La
lingua ufficiale era il latino, ma il popolo continuava a parlare il greco. In At 16, si accenna a un luogo presso il
fiume, dove ci si incontrava per la preghiera. L'annotazione di Luca è generica, per cui una riunione in giorno di
sabato non implica la presenza di una comunità giudaica; la figura di Lidia, commerciante di porpora e timorata di
Dio (At 16,14), proveniente da Tiàtira, implica soltanto una sua simpatia per il giudaismo. Il primo ritrovamento di
un'iscrizione tombale che allude a una sinagoga risale al III sec. d.C.
Dal punto di vista religioso, le iscrizioni attestano il culto per il pantheon greco romanizzato: da Giove
sino a Marte. Il culto più praticato era per Diana/Artemide. Figlia di Zeus e di Leto e sorella gemella di
Apollo, era la più importante delle divinità della caccia e degli animali selvatici, soprattutto degli orsi,
nonché protettrice delle nascite, della natura e dei raccolti. In quanto personificazione della Luna, talvolta
veniva identificata con Selene ed Ecate. Benché tradizionalmente protettrice delle giovani fanciulle, durante la
guerra di Troia Artemide impedì ai greci di salpare per Troia finché non le ebbero sacrificato una vergine. Secondo
alcune versioni della leggenda, all’ultimo momento salvò la vittima, Ifigenia. Come Apollo, Artemide era armata di
arco e frecce, con cui spesso puniva i mortali che la indispettivano. Secondo altre leggende, assicurava alle donne
che morivano di parto una morte rapida e indolore.
Particolare sviluppo godette il culto dedicato alle divinità guaritrici (Asclepio). Nella mitologia greca,
dio della medicina, il cui simbolo era un bastone (caducèo, simbolo anche di Ermes/Mercurio, messaggero
degli dei) intorno al quale era avvolto un serpente (l’innocuo colubro). Era figlio del dio Apollo e di Coronide,
una bellissima fanciulla tessala. Infuriato perché Coronide gli era stata infedele, Apollo la uccise e trasse Asclepio
non ancora nato dal suo grembo, per poi affidarlo al centauro Chirone. Asclepio imparò tutto ciò che Chirone sapeva
sulla medicina e divenne abilissimo nell’arte della guarigione, ma poiché minacciava l’ordine naturale strappando
gli uomini alla morte, il dio Zeus lo uccise con un fulmine. Il centro del culto di Asclepio era Epidauro (Grecia), da
dove si diffuse in tutto il mondo greco-romano. I santuari di Asclepio erano veri e propri centri di cura, dove si
prescrivevano cure basate su esercizi, diete e pratiche terapeutiche come l’incubazione: i malati dormivano in un
tempio o in un recinto sacro, nella speranza che il dio li visitasse in sogno per guarirli. Il più celebre tra gli
asclepiadi (i discendenti di Asclepio) fu Ippocrate. I romani importarono il culto di Asclepio e lo chiamarono
Esculapio.
Il rito del Rosalia o del giorno in cui le tombe venivano adornate di rose attesta anche la diffusione per il
culto dei morti nei villaggi circostanti. Tuttavia, il culto imperiale era dominante, riconoscibile dai due santuari
rinvenuti intorno al Foro: Divus Augustus e Diva Augusta. L'imperatore Augusto fu il primo a essere divinizzato e
sua moglie Livia Drusilla Claudia ricevette il titolo di Augusta dopo la morte del marito (19 d.C.), che aveva nel
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frattempo firmato l'atto di adozione di sua moglie come se fosse una figlia, lasciandole in eredità un terzo del suo
patrimonio e il diritto di appartenere alla gens Iulia. Fu madre di Tiberio che si sentì dominata dalla madre e perciò
la osteggiò; fu nonna di Claudio, bisnonna di Caligola e trisavola di Nerone. Fu divinizzata da Claudio.
La Diva Augusta veniva onorata in occasione dei giochi pubblici da un carro trainato da elefanti che
portava la sua immagine; nel tempio di Augusto le venne dedicata una statua; corse di carri vennero indette in
suo onore, mentre le donne dovevano nominarla nei loro giuramenti.
L'espressione popolare «Ci rivedremo a Filippi» per significare che prima o poi si arriverà alla resa dei
conti deriva dalla frase che lo spettro di Giulio Cesare rivolge a Bruto nel IV atto del Giulio Cesare di William
Shakespeare (1564-1616), episodio ripreso dalle Vite parallele di Plutarco (45-120 d.C., Vita di Bruto, 36).
La città ebbe un notevole ruolo nei primi secoli del Cristianesimo: sant'Ignazio di Antiochia (35-107 d.C.) e
san Policarpo di Smirne (69-155 d.C.) indirizzarono alla chiesa locale alcuni dei loro scritti. Fu un centro importante
anche in epoca bizantina; fu occupata dai Latini durante la IV crociata e fu in seguito abbandonata.
I cristiani di Filippi sono chiamati agapetoí «amati», epipóthetoi «desiderati» (hapax legomenon nel greco
biblico), cioè «amati intensamente». Il clima positivo di questa Lettera è testimoniato anche dal fatto che riporta
solo un elenco di virtù e non di vizi (4,8).
Una situazione di «estrema povertà» accomunava le comunità di Tessalonica (Salonicco, Grecia) e di
Filippi; eppure, soltanto dai filippesi Paolo accettò il sostentamento economico (Fil 4,10-20; cf 2Cor 11,9).
Anche se non rappresenta la motivazione principale, non si può negare che la questione degli aiuti economici
offertigli, sino all'ultima prigionia per mano di Epafrodito (Fil 4,18), svolga un ruolo fondamentale nella
dettatura di Filippesi.
Nella Lettera ai Filippesi sono citati Evòdia, Sìntiche, Clemente ed Epafrodìto (Fil 4,2-3.18). Gli Atti degli
apostoli ricordano Lidia, mai menzionata nelle lettere paoline. Dal versante etimologico, Epafrodìto, Evòdia e
Sìntiche sono nomi greci, Clemente è romano. Molto probabilmente si tratta di nomi di estrazione liberta
(schiavi liberati) e non a caso tre dei cinque nomi sono di donne (Evòdia, Sìntiche, Lidia), a dimostrazione del
ruolo di rilievo che queste svolgevano nelle comunità domestiche.
L'«inno cristologico» di Fil 2,6-11 è fra le pagine più note e studiate dell'epistolario paolino, di cui è il
testo più complesso. Esso si inserisce bene nel materiale innico di natura cristologica del NT: Col 1,15-20; Ef 2,1416; 1Tm 2,5-6; 3,16; Tt 3,4-7; 2Tm 2,12-13; 1Pt 2,21-23 e di Eb 1,1-4, oltre ai testi della tradizione lucana (il
Magnificat di Lc 1,46-55; il Benedictus di Lc 1,68-79) e giovannea (cf Gv 1,1-14; Ap 1,4-8; 4,8; 5,9-12; 11,15-18; 15,34; 22,17). In Fil 2,5-11 ritroviamo una prosa ritmica che lo differenzia dal contesto più epistolare e colloquiale
del resto del capitolo. Dal versante storico, è importante quanto Plinio il Giovane scrive all'imperatore Traiano
(prima decade del II sec. d.C.) a proposito dei cristiani: «D'altra parte, essi affermano che tutta la loro colpa o il
loro errore erano consistiti nell'abitudine di riunirsi in un determinato giorno, prima dell'alba, di cantare fra
loro alternativamente un inno a Cristo, come a un dio (convenire carmenque Cristo quasi deo dicere)...» (Plinio il
Giovane, Lettere 10,96,7).
Nell'«inno cristologico» distinguiamo due parti principali: 2,6-8 (l'umiliazione di Cristo); 2,9-11
(l'esaltazione di Cristo). A loro volta, nella prima parte distinguiamo i vv. 6-7b (l'itinerario della kénōsis) dai vv. 7c8 (l'itinerario dell'umiliazione); nella seconda parte il v. 9 (l'esaltazione e il nome di Cristo) dai vv. 10-11 (la
confessione dei viventi). In ogni proposizione i verbi all'aoristo svolgono funzioni di rilievo: nella prima parte
(vv. 6-7b) la postazione principale è occupata dai verbi hēgésato (ritenne, v. 6) ed ekénōsen (svuotò, v. 7a); nella
seconda lo spazio dominante è conferito al verbo etapeínōsen (umiliò, v. 8); nella terza tornano due verbi
principali: hyperhýpsosen (sovraesaltò) ed echarísato (donò, v. 9); e nella quarta subentrano due congiuntivi aoristi:
kámpsē (si pieghi, v. 10) ed exomologésētai (proclami, v. 11).
In conclusione possiamo ritenere che l'elogio sia di fattura prepaolina con l'intento di giustificare i
valori dell'umiltà e dell'obbedienza nei destinatari. Il Sitz im Leben dell'inno è probabile che sia la confessione
di fede, che può essere sorta sia in contesto giudaico-cristiano palestinese, sia in quello della diaspora. La
professione di fede (exomológēsis) che caratterizza l'inno si trasforma in elogium di Cristo, che fonda il
discernimento dei filippesi che si adoperano a praticare la mimèsi di Cristo (Fil 2,5).
Il vangelo (Mt 26,14-27,66) prevede la lettura integrale del racconto della Passione di Gesù secondo
Matteo. Approfondiamo solo il racconto dell'ultima Pasqua celebrata da Gesù durante la quale istituisce
l'Eucaristia (Mt 26,14-35).
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Mt 26,14: Allora uno dei Dodici, chiamato Giuda Iscariota, andò dai capi dei sacerdoti 15e
disse: «Quanto volete darmi perché io ve lo consegni?». E quelli gli fissarono trenta monete
d’argento (Τότε πορευθεὶς εἷς τῶν δώδεκα, ὁ λεγόμενος Ἰούδας Ἰσκαριώτης πρὸς τοὺς ἀρχιερεῖς 15εἶπεν•
τί θέλετέ μοι δοῦναι, κἀγὼ ὑμῖν παραδώσω αὐτόν; οἱ δὲ ἔστησαν αὐτῷ τριάκοντα ἀργύρια).
- Giuda Iscariota (Ἰούδας Ἰσκαριώτης). Il nome Yəhûḏāh «Giuda» è di origine aramaica e significa «onorato,
lodato»; ʾΚ-qəriyyôṯ «Iscariota» probabilmente significa «uomo di Kerioth» (cf Gs 15,25); meno probabile è che
Iscariota derivi dal latino sicarius «pugnalatore», termine usato per gli zeloti nel I sec. d.C.
- 15Quanto volete darmi? (τί θέλετέ μοι δοῦναι). Gli evangelisti non precisano il motivo che spinse Giuda a
tradire Gesù. Mt, Mc e Gv denunciano l'avarizia del traditore (Mt 26,9; Mc 14,5; Gv 12,5-6) ma quando parlano
del tradimento i Sinottici non riferiscono il motivo, mentre Gv lo attribuisce al διάβολος «diavolo» (13,2.30).
Solo Mt evidenzia l'interesse di Giuda per il denaro tramite questa domanda, ma essa serve a introdurre il
riferimento a Zc 11,12 e a Es 21,32. Il tradimento di Giuda è forse il fatto più sconcertante che narrano i
vangeli. I primi cristiani per riuscire a darsi una ragione ricorsero alle Scritture per mostrare che persino in un
gesto così vile si compiva il disegno di Dio. Il verbo παραδίδωμι «consegno, tradisco, rimetto» ricorda le
predizioni profetiche di Gesù sulla sua morte (cf Mt 17,22; 20,18).
- gli fissarono trenta monete d’argento (ἔστησαν αὐτῷ τριάκοντα ἀργύρια, lett. «stabilirono per lui trenta pezzi
d'argento»). Il termine ἀργύριον significa «argento, denaro, moneta, siclo, dracma». Solo Matteo precisa la cifra
che in Es 21,32 corrisponde al prezzo di uno schiavo, mentre in Zc 11,12 trenta sicli d'argento sono la paga del
pastore, che poi getta nel tesoro del tempio (Zc 11,13). L'allusione a Zc 11,12-13 prelude alla descrizione della
morte di Giuda in Mt 27,3-10.
26,16: Da quel momento cercava l’occasione propizia per consegnarlo (καὶ ἀπὸ τότε ἐζήτει
εὐκαιρίαν ἵνα αὐτὸν παραδῷ).
- Da quel momento (καὶ ἀπὸ τότε). In Mt 4,17 e 16,21 l'espressione ἀπὸ τότε, apò tóte, «da quel momento» segna
un'importante svolta nella storia di Gesù. Il termine εὐκαιρία «il momento propizio» nasconde un risvolto
ironico: l'occasione propizia per Giuda si trasforma in occasione ancora più propizia per Gesù che anela a
compiere la sua missione: salvare l'umanità.
26,17: Il primo giorno degli Azzimi, i discepoli si avvicinarono a Gesù e gli dissero: «Dove
vuoi che prepariamo per te, perché tu possa mangiare la Pasqua?» (Τῇ δὲ πρώτῃ τῶν ἀζύμων
προσῆλθον οἱ μαθηταὶ τῷ Ἰησοῦ λέγοντες• ποῦ θέλεις ἑτοιμάσωμέν σοι φαγεῖν τὸ πάσχα;).
- Il primo giorno (Τῇ δὲ πρώτῃ). Matteo segue Mc 14,12 nell'usare Τῇ πρώτῃ «il primo giorno», per indicare con
ogni probabilità il 14 di nisàn, giorno in cui si fanno i preparativi per giungere pronti al tramonto, quando
inizia la festa di Pesach, la Pasqua ebraica. Il «primo giorno» non faceva parte dei sette giorni della
celebrazione (Es 12,14-20). I preparativi si iniziano il 13 di nisàn, dalle ore 20 in poi (quando è già 14 di nisàn)
con la Bediqat chametz, la «ricerca del lievito». La Bediqà è preceduta dalla benedizione: «Barukh Atta H.
Eloqenu Melech ha-’olam asher qiddeshanu bemitzwotaw wetzivvanu ‘al bi’ur chametz», cioè «Benedetto tu sia Signore
Dio nostro Re del mondo che ci ha santificato con i Suoi precetti e ci ha comandato di eliminare i cibi lievitati».
Prima della ricerca si usa nascondere in casa 10 pezzettini di pane (di peso inferiore a 29 grammi) avvolti nella
carta, per avere la certezza di trovare del chametz da bruciare il giorno successivo. La ricerca deve essere
eseguita a lume di candela o di torcia elettrica. Non si possono utilizzare candele intrecciate, come quelle che
si usano per l’havdalà «separazione» dallo shabbat. Il 14 di nisàn, entro le 11,30, bisogna eseguire il Bi’ur chametz, «l’annullamento del lievito». Il far scomparire dalla casa ogni genere di cibo lievitato equivale a
sgombrare l'animo da ogni tipo di chametz «lievito» o di chamas «violenza», da ogni idolatria, da ogni
residuo di odio, di rancore, di corruzione, di malvagità per presentarsi liberi dinanzi al Signore, degni di offrire
il zevach Pesach, il «sacrificio pasquale» (cf Mishnà Pésach). L'immagine del lievito è ripresa da Paolo: Non sapete
che un po’ di lievito fa fermentare tutta la pasta? 7Togliete via il lievito vecchio, per essere pasta nuova, poiché siete azzimi.
E infatti Cristo, nostra Pasqua, è stato immolato! (1Cor 5,6-7).
A Pesach la Torà ordina di mangiare matzà, «pane azzimo» (l’obbligo vale solo per la prima sera, e nella
Diaspora anche la seconda) e proibisce (per tutta la durata della festa) due cose, il chametz «sostanze
lievitate» e il seòr, «lievito», che non si devono mangiare ma neanche tenere in casa («farsi vedere» Shemot
13,7; Devarim 16,4; «farsi trovare» Shemot 12,19). Secondo la tradizione rabbinica, la produzione del
chametz si ha con cinque specie vegetali, definite in ebraico chamishà mine dagan, «cinque specie di dagan»
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dove dagan è comunemente tradotto come «cereale». Il termine latino e poi italiano «cereale» è di origine
pagana, derivando dal nome di Cerere, la dea romana delle messi. Anche il termine ebraico dagan
potrebbe avere un rapporto con il nome di una divinità pagana, Dagan o Dagon, citato spesso nella Bibbia (cf
Shof. 16,23) come divinità filistea, ma che era oggetto di culto in tutta l’area Cananea. L’identificazione delle
cinque specie di «cereali» (cf TB Pesachim 35a) non trova tutti d’accordo, tranne che per i primi due nomi.
Le principali corrispondenze sono: 1. chittà, frumento o grano; 2. se’orà, orzo; 3. kusemet, spelta (secondo
Rashi); farro (secondo l’ ‘Arukh, il dizionario talmudico scritto da Natan ben Yechiel a Roma nell’XI secolo,
nell’ed. di Venezia 1531, alla voce dshr, e secondo i botanici moderni); 4. shibolet shu’al, avena; segale
(come prima ipotesi secondo l’ ‘Arukh); 5. shifon, segale (per la maggioranza degli interpreti); spelta
(secondo l’ ‘Arukh, alla voce dshr). Tra chametz e matzà esiste uno stretto legame, nel senso che la matzà, il
pane azzimo, si può fare solo con una delle cinque specie che, lasciate lievitare, produrrebbero altrimenti
chametz. Quindi si possono fare azzime con farine di grano, orzo ecc. (da sole o tra loro mescolate), ma
non con farine di mais o di riso; e il mais e il riso non diventano chametz (sul riso non è d’accordo rabbì
Yochanan ben Nurì). Per fare le matzot si preferisce di solito il grano perché più reperibile e decisamente più
gradevole.
- degli Azzimi (τῶν ἀζύμων). Molteplici sono i nomi della festa di Pasqua: 1. Pèsach: dal verbo pasàch, «passare
oltre, saltare». Il 14 di nisàn in Egitto il Signore «ha saltato» le case degli ebrei. Quindi è la Festa del passaggio.
Il Rebbe Yitzchaq di Berdichev spiega che la parola Pésach può essere divisa in pe «bocca» e sach «parla». Pasqua incoraggia a «parlare», a manifestare il mio nome su tutta la terra (Es 9,16). La parola Haggadah «narrazione»
deriva dalla Torah: «E racconterai a tuo figlio... » (Es 13,8). Perciò l'Haggadà di Pésach rappresenta il cuore del
Seder shel Pésach («ordine», rituale della Cena pasquale). 2. Chag Hamatzot: festa degli azzimi. Il sostantivo
plurale mazzot, ἄζυμα, «azzimi» sono i pani non lievitati (άζυμος, ázymos, «senza lievito») che vengono usati
nella Pasqua ebraica, secondo quanto prescrive Es 12,8. Il pane (léchem) rappresenta il lavoro dell’uomo, la sua
lotta per la sussistenza (dalla stessa radice l-ch-m deriva lechimà «lotta»). Il léchem oni, il «pane dell’umiliazione»,
cioè la matzah è segno della libertà ritrovata. Per quanto riguarda l'uso del pane azzimo, la Chiesa latina si è
attenuta alla tradizione ebraica per il pane eucaristico, mentre la Chiesa orientale utilizza il pane lievitato.
L'usanza di mangiare pane preparato con grano nuovo e senza lievito trae origine dall'antica festa agricola di
matzot, che segnava l'inizio della mietitura dell'orzo, il primo raccolto agricolo (Es 23,15; 34,18). Dopo la
riforma del re Giosia (Yo'shiyyā, 621 a. C. ca), tale festa fu unita a quella di Pésach, che era di origine
nomadica e legata alla pastorizia (cf 2Re 23,21-23). Al tempo di Gesù il pane azzimo veniva confezionato in
forma quadrata. Nell'Ultima Cena Gesù verosimilmente spezzò un solo pane azzimo per gli apostoli. 3. Chag
Haaviv: festa della primavera (cf Tel Aviv «colle di primavera»); 4. Chag Hacherut: festa della Liberazione
(dall'Egitto); Zeman Cherutenu: tempo della nostra liberazione.
26,18-19: Ed egli rispose: «Andate in città da un tale e ditegli: “Il Maestro dice: Il mio tempo è
vicino; farò la Pasqua da te con i miei discepoli”». 19I discepoli fecero come aveva loro
ordinato Gesù, e prepararono la Pasqua (ὁ δὲ εἶπεν ὑπάγετε εἰς τὴν πόλιν πρὸς τὸν δεῖνα καὶ
εἴπατε αὐτῷ• ὁ διδάσκαλος λέγει• ὁ καιρός μου ἐγγύς ἐστιν, πρὸς σὲ ποιῶ τὸ πάσχα μετὰ τῶν μαθητῶν
μου. 19καὶ ἐποίησαν οἱ μαθηταὶ ὡς συνέταξεν αὐτοῖς ὁ Ἰησοῦς καὶ ἡτοίμασαν τὸ πάσχα).
- Andate in città (ὑπάγετε εἰς τὴν πόλιν). Dato che l'agnello pasquale doveva essere mangiato all'interno delle
mura di Gerusalemme, Gesù aveva previsto una stanza nella casa di un suo probabile discepolo, visto che gli
inviati si presentano a nome del διδάσκαλος, del «Maestro». Le regole della celebrazione pasquale erano
indicate già nel libro dei Giubilei (II sec. a.C.): «L'agnello non lo si deve mangiare fuori del santuario del
Signore. E tutti coloro, dai venti anni in su, che vengano nel giorno fissato lo mangino nel santuario del vostro
Dio, davanti al Signore, perché così è stato scritto e stabilito: che lo mangino nel santuario del Signore» (49,1617). In realtà, i fedeli si recavano al tempio (Mikdash) con l'agnello per immolarlo, senza rompere alcun osso (Es
12,6). Quindi, privato del sangue, veniva arrostito tutto intero, con la testa, le zampe e le viscere. Quindi lo si
consumava insieme a tutta la famiglia. Giuseppe Flavio (37-100 d.C.) riferisce che per la Pasqua al tempo di
Nerone accorrevano a Gerusalemme 2.500.000 ebrei, per i quali furono immolati più di 255.000 agnelli (cifre
gonfiate). Tutti i sacerdoti erano mobilitati e il prefetto romano stava ben attento a prevenire le rivolte.
- da un tale (πρὸς τὸν δεῖνα, lett. «da il tale»). Matteo presenta Gesù come uno che domina la situazione e accetta
la propria sorte.
- Il mio tempo è vicino (ὁ καιρός μου ἐγγύς ἐστιν). Mentre Giuda cercava l'εὐκαιρία, eukairía «l'occasione
propizia» per mettere le mani addosso a Gesù (v. 16), Gesù annuncia che il suo καιρός «tempo» è vicino. Il
kairós di Gesù corrisponde alla sua morte e risurrezione.
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- farò la Pasqua da te con i miei discepoli (πρὸς σὲ ποιῶ τὸ πάσχα μετὰ τῶν μαθητῶν μου, lett. «presso di te faccio
la pasqua con i miei discepoli»). In greco il verbo ποιῶ, «faccio» è al presente, che accresce il senso di destino/fato
già marcato in tutto il racconto della passione. Il desiderio di Gesù di celebrare la Pasqua μετὰ τῶν μαθητῶν,
«con i discepoli» fa risaltare un legame che durante la passione si dimostrerà fragile da parte dei discepoli.
- 19I discepoli fecero come aveva loro ordinato Gesù (19καὶ ἐποίησαν οἱ μαθηταὶ ὡς συνέταξεν αὐτοῖς ὁ Ἰησοῦς).
Questa osservazione di Matteo conferma la sicurezza di Gesù che affronta gli avvenimenti della passione con
lucidità, sebbene portino alla sua morte.
- e prepararono la Pasqua (καὶ ἡτοίμασαν τὸ πάσχα). La veglia di Pesach rappresenta «la notte delle notti». Tutte
le altre notti sono metà giudizio e metà misericordia; questa notte, invece, è solo misericordia. Perciò è
chiamata halaila hazév, «notte misericordioso», con l’aggettivo maschile anche se laila «notte» è femminile. È un
modo per indicare l'unicità di questa notte.
26,20-21: Venuta la sera, si mise a tavola con i Dodici. 21Mentre mangiavano, disse: «In verità
io vi dico: uno di voi mi tradirà» (ὀψίας δὲ γενομένης ἀνέκειτο μετὰ τῶν δώδεκα (μαθητῶν). 21καὶ
ἐσθιόντων αὐτῶν εἶπεν• ἀμὴν λέγω ὑμῖν ὅτι εἷς ἐξ ὑμῶν παραδώσει με).
- si mise a tavola con i Dodici (ἀνέκειτο μετὰ τῶν δώδεκα (μαθητῶν). Il verbo ἀνάκειμαι significa «sto a mensa,
sto sdraiato». Nei banchetti formali e per gli invitati di riguardo si usavano divani individuali, più bassi e più
piccoli dei letti. I Giudei avevano preso quest'abitudine dai Greci. Questi divani per mangiare in posizione
reclinata potevano essere usati per il pranzo di Pasqua. L’ora della cena va dal tramonto del sole a mezzanotte.
Il Sèder shel Pèsach «ordine, rituale della Cena pasquale» comprende 14 azioni, di cui ne ricordiamo alcune
tipiche. Innanzitutto si mettono tre matzòt sul tavolo, una sopra l’altra, coperte dalla tovaglia. Esse
simboleggiano i tre tipi di Ebrei: Kohèn, Levi e Israel. Esse ricordano le tre misure di farina fine con cui Avrahàm
disse a Sarà di fare matzòt quando ricevettero la visita dei tre angeli (Gen 18,1-15). Inoltre ricordano la notte
dall'uscita dell'Egitto, quando la pasta non fece a tempo a lievitare, perché il Signore passò all’improvviso.
Quindi si appronta la Ke'arà, il vassoio, su cui si dispone: 1) Betzà, «uovo sodo», posto a sinistra, simbolo di
morte e di immortalità; ricorda il dolore e la distruzione del Tempio. 2) Maròr, «erbe amare»: karpàs, sedano o
hazèret, «lattuga romana» che ricordano l’amarezza della schiavitù. Due sono le intinzioni da praticare: il
sedano nell’aceto o acqua salata; la lattuga amara nel charòset. 3) Zeròa, il collo di pollo arrosto in sostituzione
dell’agnello, che ricorda il sacrificio offerto al Tempio il pomeriggio della vigilia di Pesach e simboleggia il
braccio disteso con cui Dio liberò Israele. 4) Charòseth, impasto di mele, pere, noci e poco vino (preferibilmente
rosso). Questo miscuglio ricorda la malta e simboleggia quella che i figli di Israele, schiavi in Egitto, usavano
per fare i mattoni. 5) Chazeret, altre erbe amare: cren/rafano, cipolla cruda, patata bollita e sbucciata, cicoria, da
usare nel sandwic” «Korech». 6) Acqua salata o con aceto o con limone in cui vengono intinte le erbe amare.
Ricorda le lacrime per le piaghe d’Egitto e l’afflizione dei nemici. A questa pratica si ispirano le parole di Gesù
rivolte a Giuda: colui che intinge con me nel piatto (Mc 14,20).
- uno di voi mi tradirà (εἷς ἐξ ὑμῶν παραδώσει με). Consapevole della sua prossima fine, Gesù siede per l'ultima
volta a tavola con i suoi discepoli e annuncia solennemente: «In verità io vi dico: uno di voi mi tradirà». Derivata
da Mc 14,18, questa affermazione di Gesù indica la sua consapevolezza del complotto ordito contro di lui.
26,22-23: Ed essi, profondamente rattristati, cominciarono ciascuno a domandargli: «Sono
forse io, Signore?». 23Ed egli rispose: «Colui che ha messo con me la mano nel piatto, è
quello che mi tradirà (καὶ λυπούμενοι σφόδρα ἤρξαντο λέγειν αὐτῷ εἷς ἕκαστος• μήτι ἐγώ εἰμι, κύριε;
ὁ δὲ ἀποκριθεὶς εἶπεν• ὁ ἐμβάψας μετ' ἐμοῦ τὴν χεῖρα ἐν τῷ τρυβλίῳ οὗτός με παραδώσει).
- profondamente rattristati (λυπούμενοι σφόδρα, lett. «rattristatosi molto»). Dopo questo annuncio, una profonda
tristezza invade l'animo dei discepoli. Sembra che tutti si sentano capaci di tradirlo, perché gli domandano
uno dopo l'altro: «Sono forse io, Signore?».
- cominciarono ciascuno a domandargli (ἤρξαντο λέγειν αὐτῷ εἷς ἕκαστος). Diversi importanti testimoni, tra i
quali il papiro Michigan 137 (9537) e il papiro Chester Beatty I come anche il codice di Beza (D), non hanno il
pronome al dativo αὐτῷ «a lui». In questo caso i discepoli non si rivolgerebbero a Gesù ma si confronterebbero
tra loro. Ma il vocativo κύριε «signore» a fine domanda, che è bene attestato, indica chiaramente che la
domanda è riferita al Signore. Alla fine del v. 23 nel Vangelo ebraico di Matteo del medico giudeo spagnolo Shem
Tov ben Isaac (XIV sec.), riportato nella sua opera polemica Even Bohen «Pietra di Paragone», si trova un
interessante ampliamento esplicativo che vuol rendere ragione della domanda sono forse io?: «Tutti mangiavano
da uno stesso piatto. Perciò non lo riconobbero [colui a cui si riferiva Gesù], perché se l'avessero riconosciuto
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l'avrebbero distrutto». Gesù non identifica il traditore, ma dice semplicemente che è uno di quelli che
mangiano con lui.
- Sono forse io, Signore? (μήτι ἐγώ εἰμι, κύριε;). Il modo in cui è formulata la domanda dei discepoli richiede una
risposta negativa.
- Colui che ha messo con me la mano nel piatto (ὁ ἐμβάψας μετ' ἐμοῦ τὴν χεῖρα ἐν τῷ τρυβλίῳ). La pratica di
prendere il cibo da un piatto comune fa parte del rito di Pasqua. In questo caso il traditore si sottrae ai valori di
Pesach che vede la famiglia come un luogo di solidarietà: «Anche l'amico in cui confidavo, che con me divide il pane,
contro di me alza il suo piede» (Sal 41,10). Il linguaggio sottolinea la prossimità e l'intimità del traditore rispetto
a Gesù.
26,24: Il Figlio dell’uomo se ne va, come sta scritto di lui; ma guai a quell’uomo dal quale il
Figlio dell’uomo viene tradito! Meglio per quell’uomo se non fosse mai nato!» (ὁ μὲν υἱὸς τοῦ
ἀνθρώπου ὑπάγει καθὼς γέγραπται περὶ αὐτοῦ, οὐαὶ δὲ τῷ ἀνθρώπῳ ἐκείνῳ δι' οὗ ὁ υἱὸς τοῦ ἀνθρώπου
παραδίδοται• καλὸν ἦν αὐτῷ εἰ οὐκ ἐγεννήθη ὁ ἄνθρωπος ἐκεῖνος).
- come sta scritto di lui (καθὼς γέγραπται περὶ αὐτοῦ). Nell'AT non esiste nessun testo che parli specificamente
delle sofferenze e della morte del Ben adam, υἱὸς τοῦ ἀνθρώπου, «Figlio dell'uomo». Il versetto palesa la
convinzione della Chiesa giudeo-cristiana, secondo cui la sofferenza e la morte di Gesù sono avvenute
«secondo le Scritture».
- guai a quell’uomo (οὐαὶ δὲ τῷ ἀνθρώπῳ ἐκείνῳ). Nonostante il riferimento alle Scritture, la seconda parte del
detto attribuisce la responsabilità del tradimento a Giuda. Il «guai» (οὐαί) pronunciato da Gesù non è una
profezia della sua condanna eterna. Il giudizio di Gesù è rivolto all'azione e non alla persona. È vero che il
peccatore ha la sua parte di responsabilità, ma è altrettanto vero che solo Dio è in grado di discernere i pensieri
e le intenzioni del cuore (Eb 4,12). Gesù denuncia il tradimento di Giuda, come prima aveva denunciato la
gravità dello scandalo (18,6).
26,25: Giuda, il traditore, disse: «Rabbì, sono forse io?». Gli rispose: «Tu l’hai detto»
(ἀποκριθεὶς δὲ Ἰούδας ὁ παραδιδοὺς αὐτὸν εἶπεν• μήτι ἐγώ εἰμι, ῥαββί; λέγει αὐτῷ σὺ εἶπας).
- Giuda, il traditore (Ἰούδας ὁ παραδιδοὺς αὐτὸν, lett. «Giuda, colui che lo consegna»). Girolamo, pur conoscendo i
termini proditor «traditore» e perfidus «perfido, ingannatore», preferisce tradurre: qui tradidit eum «colui che lo
consegna». Il verbo παραδίδωμι è importante perché, trovandosi già all'inizio del racconto della passione
(26,2), accompagnerà sempre l'azione di Giuda che diventa per definizione: ὁ παραδιδούς, «colui che
consegna».
- Rabbì, sono forse io? (μήτι ἐγώ εἰμι, ῥαββί;). Giuda pone la domanda nella stessa forma degli altri discepoli (v.
22), ma usando il titolo «rabbì» al posto di κύριε, «Signore». Allo stesso modo, al momento di tradire Gesù,
Giuda lo chiamerà ancora di ῥαββί «rabbí» (26,49). Questo titolo era già stato disapprovato da Gesù in Mt 23,8:
«Ma voi non fatevi chiamare "rabbì"».
- Tu l’hai detto (σὺ εἶπας). Il verbo εἶπας è ind. aor. di λέγω, «parlo, dico, affermo». Gesù usa la stessa
espressione nel rispondere al sommo sacerdote (Mt 26,64) e a Pilato (27,11), per confermare che l'interlocutore
ha detto la verità. Qui Giuda si aspetterebbe una risposta negativa e riceve una risposta positiva. Giuda si
sente scoperto.
26,26: Ora, mentre mangiavano, Gesù prese il pane, recitò la benedizione, lo spezzò e,
mentre lo dava ai discepoli, disse: «Prendete, mangiate: questo è il mio corpo» (ἐσθιόντων δὲ
αὐτῶν λαβὼν ὁ Ἰησοῦς ἄρτον καὶ εὐλογήσας ἔκλασεν καὶ δοὺς τοῖς μαθηταῖς εἶπεν• λάβετε φάγετε, τοῦτό
ἐστιν τὸ σῶμά μου).
- Ora, mentre mangiavano (ἐσθιόντων δὲ αὐτῶν). Il verbo ἐσθιόντων è part. pres. di ἐσθίω «mangio, consumo».
Mt presenta l'ultima cena come un pasto pasquale celebrato all'imbrunire quando appaiono le prime 3 stelle
(v. 20) del 14 di Nisàn (cf Es 12). Non possiamo ricostruire con assoluta certezza lo sviluppo storico della Cena,
perché i testi riflettono la liturgia dei pasti eucaristici come erano celebrati dalle prime comunità cristiane. Gesù
celebra la Pasqua con i suoi discepoli con l'intenzione di congedarsi da loro e in attesa del regno di Dio.
- Gesù prese il pane (λαβὼν ὁ Ἰησοῦς ἄρτον). Mt descrive l'azione sul pane con cinque verbi che
caratterizzeranno l'Eucaristia. L'espressione λαβὼν ἄρτον, «avendo preso il pane» ma tradotto con «prese il
pane», presenta Gesù come il padre di famiglia che presiede il pasto. È lui il soggetto degli altri quattro verbi:
εὐλογήσας «pronunciata la benedizione», ἔκλασεν «spezzò» il pane, δοὺς «dando(lo)» ai discepoli, εἶπεν
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«disse». Il capofamiglia ebreo infatti distribuisce prima un pezzo di pane a ogni commensale, poi ne prende un
pezzo lui stesso e inizia a mangiare. Questo è il segnale che il pasto è iniziato e che tutti possono mangiare. In
questo caso non si dice che Gesù ne mangiò. La peculiarità del pane spezzato da Gesù deriva da queste parole:
τοῦτό ἐστιν τὸ σῶμά μου «questo è il mio corpo». La parola σῶμα, «corpo», designa tutta la persona capace
di entrare in relazione con gli altri. Questo unico pane condiviso indica che tutti i commensali devono divenire uno grazie alla comunione con il corpo di Cristo. La mensa eucaristica è un pasto comunitario che unisce
tutti i presenti, poiché tutti partecipano della stessa fonte di vita. L'invito a «prendere» (λαμβάνω) e a
«mangiare» (φάγω) esprime il dono totale di Gesù e la sua volontà di comunione con i discepoli. Il pane
eucaristico non costituisce solo una nuova forma di presenza, ma intende essere un incontro personale.
Condividere il pane con Gesù significa condividere la sua morte. In tal modo Gesù attribuisce un nuovo
significato a gesti abituali nei pasti ebraici.
- recitò la benedizione (εὐλογήσας, lett. «avendo benedetto»). Il verbo εὐλογήσας, part. aor. di εὐλογέω «benedico,
lodo, celebro, ringrazio», traduce l'ebraico barèk che caratterizza tutta la preghiera ebraica. Una berakà
«benedizione» tipica si esprime in questi termini: «Benedetto sei tu, Signore nostro Dio, re dell'universo, che
produci il pane dalla terra...». Nella benedizione sopra il vino Dio è chiamato «creatore del frutto della vite».
26,27-28: Poi prese il calice, rese grazie e lo diede loro, dicendo: «Bevetene tutti, 28perché
questo è il mio sangue dell’alleanza, che è versato per molti per il perdono dei peccati (καὶ
λαβὼν ποτήριον καὶ εὐχαριστήσας ἔδωκεν αὐτοῖς λέγων• πίετε ἐξ αὐτοῦ πάντες, 28τοῦτο γάρ ἐστιν τὸ
αἷμά μου τῆς διαθήκης τὸ περὶ πολλῶν ἐκχυννόμενον εἰς ἄφεσιν ἁμαρτιῶν).
- Poi prese il calice (καὶ λαβὼν ποτήριον, lett. «e avendo preso il calice»). Durante il Sèder si bevono 4 calici di vino
rosso, in riferimento ai 4 verbi usati nella Torah per parlare della redenzione operata da Dio: vi ha fatti uscire, vi
ho salvati, vi ho liberati, vi ho presi (Es 6,6s). Questi quattro verbi vengono applicati alla liberazione dall’Egitto,
da Babilonia, dalla Grecia e da Roma. Il primo calice o calice di santificazione si beve dopo il Kiddush,
benedizione che dà inizio alla cena. Poi si procede con l'urchatz «lavaggio delle mani»; mentre l’acqua viene
versata sulle mani si dice: «Io dedico le mie mani al Messia, per servire lui solo». Segue il primo intervento
riservato al commensale più giovane o, in coro, ai più giovani; si tratta del Mah nishtannah: «Come è diversa
questa sera da tutte le altre sere!». È l'inizio di un canto che comprende quattro domande che il bambino
rivolge agli adulti: «Perché tutte le altre sere mangiamo pane, e questa sera azzima? Perché tutte le altre sere
mangiamo qualsiasi tipo di verdura, e questa sera erba amara? Perché tutte le altre sere non intingiamo (riferito
al sedano intinto in acqua e sale o aceto) neppure una volta, e questa sera due volte? Perché tutte le altre sere
mangiamo seduti, e questa sera sdraiati?». In questa sera si scambiano domande il saggio, l’empio, l’ingenuo
e l’infante. Le domande danno il via alle risposte, impartite attraverso la lettura della Haggadàh, «narrazione»
degli eventi legati all’uscita dall’Egitto. Questa è la sera delle differenze, in cui si appoggia il gomito alla
mensa, segno di libertà. I servi mangiano in piedi. Il secondo calice è quello del ringraziamento o di liberazione.
Quindi si spezza la seconda matzah e la si distribuisce. Forse a questo punto Gesù ha preso l'afikomen, parola
greca che significa «quello che viene dopo, dessert» o «quello che verrà di nuovo» e ha detto: «Questo è il mio
corpo, che è dato per voi; fate questo in memoria di me» (Lc 22,19). Il terzo calice è il calice della Redenzione. Il frutto
della vite, a Pasqua, è sempre rosso, per ricordarsi del sangue prezioso dell'agnello pasquale. Alla stessa
maniera, il sangue di Cristo è stato versato per riscattare tutti dalla schiavitù del peccato e della morte.
Probabilmente su questo terzo calice Gesù ha pronunciato la sua parola: «Questo calice è la nuova alleanza nel
mio sangue, che è versato per voi» (Lc 22,20). Probabilmente a questo punto del Seder, quando si effettuava un
secondo lavaggio delle mani, Gesù ha lavato i piedi ai suoi discepoli (Gv 13,1-17). Poi segue un quarto calice,
il calice della Lode o il calice del Regno. Si continua con l'Hallel (Salmi 113-118, la cui prima parte è stata cantata
prima del pasto), in particolare con il Sal 115. Esiste anche un quinto calice, il calice di Elia che non si beve. Mal
3,23 parla del ritorno di Elia, prima del «giorno grande e terribile» del Messia. L’ultimo esilio è ancora in corso e
terminerà con l’avvento del Mashìach.
- Bevetene tutti (πίετε ἐξ αὐτοῦ πάντες). Ciò che Mc 14,23 esprime in forma narrativa («lo diede loro e ne bevvero
tutti») Matteo lo trasmette come un comando di Gesù, che stabilisce simmetria tra il pane e il calice;
probabilmente era questa la formula «liturgica» in uso nella comunità di Matteo che ribadisce il tema della
padronanza di Gesù sugli avvenimenti della passione.
- il mio sangue dell’alleanza (τὸ αἷμά μου τῆς διαθήκης). Il riferimento all'alleanza (berit, διαθήκη) richiama alla
memoria il ricordo dell'esodo, quando Mosè asperse gli israeliti con il sangue dell'alleanza (Es 24,8). In questo
contesto la menzione del sangue (αἷμα) versato evoca la morte di Cristo sulla croce. Nel codice Alessandrino
14
(A), di Efrem riscritto (C), di Beza (D), di Washington (W) e in alcuni altri manoscritti e traduzioni si trova
l'aggettivo καινῆς «nuova» prima di διαθήκης «alleanza», col risultato che Gesù avrebbe detto «questo, infatti,
è il sangue della nuova alleanza». La presenza di questo aggettivo è senza dubbio dovuta all'armonizzazione
con 1Cor 11,25 e Lc 22,20, favorendo così nella storia dell'esegesi l'idea scellerata del «nuovo Israele», o,
peggio, del «vero Israele», estraneo a Matteo. La tendenza armonizzatrice è presente in diverse versioni
antiche: nella tradizione latina, nelle versioni siriache e nei dialetti sahidico e bohairico dei copti. Tali versioni
hanno influenzato molto anche le preghiere eucaristiche: hic est enim sanguis meus novi testamenti «questo,
infatti, è il mio sangue del nuovo testamento»; oppure, in un codice del V sec.: novi et aeterni testamenti «del
nuovo ed eterno testamento», fino ai giorni nostri.
- che è versato (ἐκχυννόμενον). Il verbo ἐκχυννόμενον è part. pres. pass. di ἐκχύνω o ἐκχέω, «verso, spando,
effondo, dono» che può indicare anche un'azione futura: «che sarà versato». Questa è la lezione che si trova nel
Vangelo ebraico di Matteo di Shem Tov, dove il verbo è all'imperfetto (che rimanda appunto a un'azione non
ancora compiuta). Il verbo ebraico usato shapak, corrispondente di ἐκχέω, è usato cinque volte in Lv 4,7-34, per
descrivere come i sacerdoti del tempio versavano il sangue delle vittime sacrificali per la remissione dei peccati.
- per molti (περὶ πολλῶν). Questa espressione semitica non ha un senso escludente, perciò equivale a «per
tutti» ed è eco di Is 53,11: «Il giusto mio servo giustificherà molti, egli si addosserà le loro iniquità». Come nel caso del
pane, Gesù usa il calice per invitare i suoi discepoli a condividere la sua sorte.
- per il perdono dei peccati (εἰς ἄφεσιν ἁμαρτιῶν). Solo Matteo attribuisce questa finalità all'Eucaristia,
rifacendosi al quarto cantico del Servo (Is 52,13-53,12). Questa espressione esprime il pieno significato della
missione redentrice di Cristo. La sua morte è l'atto redentore, la vera pasqua, che libera tutti dal potere del
peccato.
26,29: Io vi dico che d’ora in poi non berrò di questo frutto della vite fino al giorno in cui lo
berrò nuovo con voi, nel regno del Padre mio» (λέγω δὲ ὑμῖν, οὐ μὴ πίω ἀπ' ἄρτι ἐκ τούτου τοῦ
γενήματος τῆς ἀμπέλου ἕως τῆς ἡμέρας ἐκείνης ὅταν αὐτὸ πίνω μεθ' ὑμῶν καινὸν ἐν τῇ βασιλείᾳ τοῦ
πατρός μου).
- non berrò (οὐ μὴ πίω). Gesù lascia intendere che la sua Ultima Cena è un'anticipazione del banchetto nel
regno di Dio. Due particolari sono tipici di Matteo: ἀπ' ἄρτι «da ora» indica che questo rappresenta una
predizione della passione; μεθ' ὑμῶν «con voi» mette in evidenza il rapporto comunitario che Gesù ha con i
suoi discepoli.
- nel regno del Padre mio (ἐν τῇ βασιλείᾳ τοῦ πατρός μου). Anche qui Gesù lascia intravedere i suoi sentimenti
di fiducia nel Padre. In questo contesto l'immagine del banchetto indica la comunione perfetta dei discepoli
con il loro Signore e con lo stesso Dio. Al momento del congedo lo sguardo di Gesù si rivolge al futuro regno
di Dio, che riguarderà il futuro della comunità. I Dodici non rappresentano un gruppo isolato, ma la promessa
di una moltitudine di futuri credenti. Mt sottolinea la dimensione comunitaria del pasto escatologico: tutti si
ritroveranno alla stessa tavola nel regno del Padre. L'aggettivo καινὸν, «nuovo» non significa che poi ci sarà un
nuovo tipo di vino, ma richiama l'attenzione sulla radicale novità del regno futuro.
26,30-31: Dopo aver cantato l’inno, uscirono verso il monte degli Ulivi. 31Allora Gesù disse
loro: «Questa notte per tutti voi sarò motivo di scandalo. Sta scritto infatti: Percuoterò il
pastore e saranno disperse le pecore del gregge (καὶ ὑμνήσαντες ἐξῆλθον εἰς τὸ ὄρος τῶν ἐλαιῶν.
Τότε λέγει αὐτοῖς ὁ Ἰησοῦς• πάντες ὑμεῖς σκανδαλισθήσεσθε ἐν ἐμοὶ ἐν τῇ νυκτὶ ταύτῃ, γέγραπται γάρ
πατάξω τὸν ποιμένα, καὶ διασκορπισθήσονται τὰ πρόβατα τῆς ποίμνης).
- Dopo aver cantato l’inno (καὶ ὑμνήσαντες). La cena di Pasqua tradizionalmente si concludeva con il canto dei
Salmi 113-118, il cosiddetto grande Hallèl, che proclama il potere redentivo di Dio e la sua fedeltà nel portare
Israele alla liberazione.
- uscirono verso il monte degli Ulivi (ἐξῆλθον εἰς τὸ ὄρος τῶν ἐλαιῶν). L'Har haZeitim, il « monte degli Ulivi»
(815 m s.l.m.) è situato a est di Gerusalemme. Nelle feste di pellegrinaggio come la Pasqua il monte degli Ulivi
serviva da accampamento per le grandi folle che non trovavano dove alloggiare. Gesù alloggiava a Betania (cf
Mt 21,17), ma dopo l'Ultima Cena è andato sul monte degli Ulivi.
- 31Questa notte per tutti voi sarò motivo di scandalo (πάντες ὑμεῖς σκανδαλισθήσεσθε ἐν ἐμοὶ ἐν τῇ νυκτὶ
ταύτῃ). Terminata la cena, Gesù annuncia ai discepoli quello che doveva succedere nella notte. Egli stesso
sarebbe divenuto motivo di scandalo (σκανδαλίζω) per loro, pietra d'inciampo, immagine richiamata già in Mt
11,6; 13,57; 15,12.
31
15
- Percuoterò il pastore e saranno disperse le pecore del gregge (πατάξω τὸν ποιμένα, καὶ διασκορπισθήσονται τὰ
πρόβατα τῆς ποίμνης). La libera citazione è tratta da Zc 13,7 e serve a confermare l'adempimento delle
Scritture anche nell'ora più tragica della vita di Gesù. Sia il testo ebraico che è al singolare hak ´et-haro'eh
«percuoti il pastore», che quello greco che è al plurale πατάξατε τοὺς ποιμένας «percuotete i pastori» riportano
il verbo all'imperativo. Il futuro πατάξω «percuoterò» di Mt e Mc suggerisce che è Dio colui che percuote e
conferma l'idea del piano divino. Il verbo greco διασκορπίζω, diascorpízō, «spargo, semino, disperdo, dissipo»
è applicato alle pecore del gregge messianico. In italiano abbiamo il termine «scorporare» che deriva da questo
verbo greco.
26,32: Ma, dopo che sarò risorto, vi precederò in Galilea». 33Pietro gli disse: «Se tutti si
scandalizzeranno di te, io non mi scandalizzerò mai» (Μετὰ δὲ τὸ ἐγερθῆναί με προάξω ὑμᾶς εἰς
τὴν Γαλιλαίαν. 33ἀποκριθεὶς δὲ ὁ Πέτρος εἶπεν αὐτῷ• εἰ πάντες σκανδαλισθήσονται ἐν σοί, ἐγὼ οὐδέποτε
σκανδαλισθήσομαι).
- vi precederò in Galilea (προάξω ὑμᾶς εἰς τὴν Γαλιλαίαν). Gesù propone di ritornare alle origini, là dove aveva
chiamato i suoi primi discepoli e avviato il suo ministero pubblico. Solo Matteo parla di un'apparizione di Gesù
risorto su un monte della Galilea (Mt 28,16-20).
- io non mi scandalizzerò mai (ἐγὼ οὐδέποτε σκανδαλισθήσομαι). La negazione di Pietro del suo potersi
scandalizzare di Gesù ironicamente prelude al suo triplice rinnegamento (26,69-75). Il rifiuto della passione di
Gesù era già stato sostenuto da Pietro in occasione della sua prima predizione (16,21-23).
26,34: Gli disse Gesù: «In verità io ti dico: questa notte, prima che il gallo canti, tu mi
rinnegherai tre volte» (ἔφη αὐτῷ ὁ Ἰησοῦς• ἀμὴν λέγω σοι ὅτι ἐν ταύτῃ τῇ νυκτὶ πρὶν ἀλέκτορα
φωνῆσαι τρὶς ἀπαρνήσῃ με).
- prima che il gallo canti (πρὶν ἀλέκτορα φωνῆσαι). In alcuni importanti testimoni, tra cui il papiro Michigan 137
(P37) e il papiro Chester Beatty I (P45) si trova invece ἀλεκτοροφωνία, «canto del gallo» (cf Mc 13,35). Il gallo
canta al mattino molto presto, da mezzanotte alle 3.00.
26,35: Pietro gli rispose: «Anche se dovessi morire con te, io non ti rinnegherò». Lo stesso
dissero tutti i discepoli (λέγει αὐτῷ ὁ Πέτρος• κἂν δέῃ με σὺν σοὶ ἀποθανεῖν, οὐ μή σε ἀπαρνήσομαι.
ὁμοίως καὶ πάντες οἱ μαθηταὶ εἶπαν).
In tutta questa sezione Mt indica ripetutamente che Gesù è «con i suoi discepoli». Tuttavia, i discepoli non sono
realmente con Gesù. Giuda, «uno dei Dodici» (vv. 14.47), che nell'ultima cena aveva mangiato dallo stesso
piatto (v. 23), lo consegna nelle mani dei suoi avversari (vv. 14-16). E lo stesso Pietro, che aveva fatto una ferma
professione di fedeltà (vv. 33-35) dopo averlo riconosciuto come «Cristo, il Figlio del Dio vivente» (16,16), lo
rinnega tre volte (vv. 69-75).
La cena di Gesù fu pasquale? Oggi gran parte della letteratura sull'argomento esita a
identificare l'ultima cena con un seder pasquale. Essa viene invece considerata come una cena inserita nel
contesto della settimana di Pasqua. Il vocabolario pasquale in Matteo è molto debole, mentre Marco insiste di
più nel sostenere che si trattava di un banchetto pasquale. Nella descrizione della cena di Gesù, contro le 99
parole di Marco, Matteo ne usa solo 62 per descrivere i preparativi della Pasqua.
Tra i quattro evangelisti, Matteo è colui che usa meno il termine πάσχα «Pasqua»: 4 volte
(26,2.17.18.19), contro le 5 di Marco, le 7 di Luca e le 10 di Giovanni, però è colui che più dà risalto
all'espiazione dei peccati tramite il sangue. Nel sistema giudaico la «materia» di un sacrificio serviva ad
assicurare la relazione con la divinità, mentre il sangue assicurava l'espiazione dei peccati. In altre parole
Matteo con la sua sensibilità sembra essere più vicino alla festa di Kippur, «Espiazione» (10 di Tishrì), che a
quello di Pesach (15 di Nisàn).
La cena coi Dodici (26,20-35). Terminati i preparativi per la cena, inizia il secondo atto della passione di
Matteo. La notazione temporale «venuta la sera» (26,20) dice che può iniziare la celebrazione del seder. In esso
però più che gli elementi riguardanti la Pasqua ebraica, vengono sottolineati i gesti e le parole del Signore. Al
termine della cena Gesù si avvia verso il monte degli Ulivi e parla della sorte dei suoi discepoli (26,31-35).
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La consegna di Gesù (26,20-25). Mentre Gesù si appresta a donare la sua vita, «uno di loro» lo consegnerà
ai pagani. Non si riscontra nessuna idea di predestinazione. Mentre nell'apocrifo gnostico Vangelo di Giuda (II
sec.) l'apostolo è il «prescelto» a tradire Gesù, i vangeli segnalano la libertà delle persone che Gesù ha di
fronte.
Giuda durante la cena si rivolge a Gesù dicendo: «Rabbi, sono forse io?» (v. 25). Nel primo vangelo
solo gli estranei si rivolgono a Gesù con questo titolo, col quale Giuda saluterà ancora il Maestro dandogli
un bacio come segnale per l'arresto (cf 26,49). «Mettendo in bocca a Giuda la parola "rabbi", Matteo vuol dire
che Giuda parla come i nemici di Gesù, senza scorgere la reale identità del suo Maestro. Questa cecità non è
soltanto la conseguenza dell'ingordigia, ma anche di una fede frantumata» (D. Senior).
Il corpo e il sangue (26,26-30). Matteo, rispetto alle altre tre testimonianze sulla cena di Gesù (Marco,
Luca, 1 Corinzi), si distingue per le parole sul calice e il sangue dell'alleanza. Lo scopo precipuo di queste
parole è il perdono dei peccati. Viene così giustificato il nome dato a Gesù (cf 1,21). Il peccato ha una
dimensione comunitaria e sociale nel rapporto col fratello (cf 5,21-24), con l'avversario (cf 5,25-26), nella sfera
familiare (cf 5,31-32). Il male può essere vinto solo con la misericordia, amando perfino i nemici, i cattivi (cf
5,45) ai quali Dio non toglie la luce del sole. Non bastano gli esorcismi di Gesù (cf 8,16.28-34) e nemmeno le
guarigioni. Solo con le parole sul calice si capisce a cosa tendeva la predicazione di Gesù: la liberazione dai
peccati si potrà realizzare solo col dono della vita del Messia. La morte di Gesù è per il bene dei peccatori e,
in Matteo, ha un significato chiaramente espiatorio.
La formula «per molti» (v. 28) - ricca di allusioni bibliche e già presente nel detto sul «riscatto» di 20,28 richiama Is 53,11-12, testo nel quale il servo sofferente è descritto come colui che espia i delitti di molti, cioè il
popolo di Israele e tutti gli altri popoli. La formula «per la remissione dei peccati» in Matteo è riservata
esclusivamente all'ultima cena, mentre Mc 1,4 la attribuisce a Giovanni Battista. Il primo evangelista sembra
voler correggere Marco non riconoscendo al battesimo di Giovanni la facoltà di rimettere i peccati, potere che
Matteo evidentemente vuole collegare in maniera esclusiva alla morte espiatrice di Gesù.
La profezia dell'abbandono (26,31-35). Matteo trova nella fonte marciana (Mc 14,27) la citazione della
profezia di Zc 13,7, nella quale si parla di un pastore che sarebbe stato percosso, e di conseguenza il suo gregge
si sarebbe disperso. Il riferimento storico è all'ultimo re di Giuda, Sedecìa (Tzidqiyahu ben Yo’shiyahu, Melekh
Yehudah, 619 - 585 a.C. Il suo nome significa «la mia giustizia è il Signore»). I cristiani la applicheranno a Gesù e
ai suoi discepoli.
Il canto del gallo di cui Gesù parla al v. 34 ha suscitato diverse interpretazioni. Sulla base di
dichiarazioni contenute nella Mishnàh, Baba Kamma 7,7, alcuni sostengono che a Gerusalemme non si
allevavano galli, perché ritenuti animali impuri. Pertanto il «canto del gallo» si potrebbe identificare con il
gallicinium romano, un segnale che veniva dato con uno strumento a fiato dalla guardia romana di stanza dai
bastioni della fortezza Antonia al termine della terza vigilia della notte (dalla mezzanotte alle tre del mattino).
Tuttavia alcuni riferimenti del Talmud indicano che a quei tempi a Gerusalemme non era del tutto esclusa la
presenza di galli (cf Eduyyoth 6,1). Gesù stesso si è paragonato a una «chioccia che raccoglie i suoi pulcini sotto
le ali» (Mt 23,37). Anche nella letteratura rabbinica il «canto del gallo» indica l'appello dell'ufficiale del
tempio che richiama al loro servizio, tramite lo shofar, tutti i sacerdoti, i leviti e i fedeli (cf Talmud babilonese, Yoma 20b). Non si può escludere perciò che al momento del rinnegamento di Pietro, il canto del gallo
possa essere stato lo shofar, «corno d'ariete» che ricorda l'aqedà di Isacco, a permettere al discepolo di rendersi
conto di quanto aveva fatto e quindi a pentirsi.
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