sInIstra lavoro settImanale anno II - numero 9 - 17 febbraio 2015 www.sinistralavoro.it - [email protected] qualche domanda dopo una bella giornata bella giornata il 14 febbraio a roma, bella manifestazione. la prima nota positiva è l’evento in sé: non era scontato riuscire a organizzare un corteo (non un semplice appuntamento di piazza) in sostegno del nuovo governo greco in poco tempo e con una piattaforma così lucida. la seconda nota positiva è l’adesione e la partecipazione di un arco di forze molto ampio, praticamente tutta la sinistra politica, sociale e sindacale del nostro paese, e di figure importanti, anche per quello che rappresentano, sul piano materiale e simbolico. di Danilo Borrelli e Simone Oggionni è il segno che qualcosa sta maturando, una nuova consapevolezza – anche all’interno della cgil – che richiama ciascuno alle proprie responsabilità: perché tra la speranza di tsipras e le politiche di renzi c’è un abisso e una incompatibilità irriducibile (di stile, orientamento strategico, prospettiva). vi è una terza nota positiva, che parla della presenza dopo diverso tempo in forma coordinata di esperienze sociali di lotta, autoorganizzate, che in questo percorso hanno deciso di esserci, a inaugurare – con la giornata di ieri – un percorso che condurrà al 18 marzo europeo di francoforte. però ci sono anche diversi “però”, che faremmo bene ad affrontare. nominiamo soltanto il primo, il più grande: e il nostro popolo – in tutto il suo peso, in tutta la sua dimensione – dov’è? qual è la relazione tra questa bella manifestazione, le sue prime file fotografate e intervistate, i gruppi dirigenti delle tante formazioni della sinistra, e il paese reale, i suoi sentimenti, le sue preoccupazioni, addirittura il sentire comune? quanta connessione sentimentale c’è tra questa piazza e la vita quotidiana di milioni di precari, disoccupati, studenti che dovrebbero comporre la ragione sociale della sinistra politica? quanta consapevolezza c’è – a livello popolare – del bisogno di solidarizzare con syriza contro bce, merkel, governo renzi e, ancor di più, del bisogno di farlo attraverso la piazza di oggi? sono domande, purtroppo, retoriche, che segnalano una insufficienza e uno scarto dai quali non si sfugge, perché un progetto di trasformazione e di cambiamento (simile a quello incarnato in grecia da syriza, per esempio) non esiste senza popolo, senza determinare passioni diffuse e travolgenti, contagiose al punto da diventare maggioritarie. questo significa cedere alla moda dell’anti-politica oppure sparare a zero su quel che esiste, magari per affidare fideisticamente a un diverso ceto politico (quello della società civile organizzata e progressista) la direzione del processo? tutto il contrario: significa provare a cogliere i nostri limiti, i punti deboli di quel che oggi è in campo, e intravedere – nel correggerli – la direzione di marcia. dove? precisamente qui: sul piano della proposta politica. ci sono, una di fianco all’altra, tutte le formazioni politiche ma manca un soggetto politico? costruiamolo, magari smettendo di evocare l’obiettivo (perché altrimenti “sinistra” rischia di trasformarsi in una categoria metafisica) ma mettendo in campo da subito un progetto concreto che parta da ciò che e da chi si è reso disponi- 1 bile, dimostrandosi in sintonia con questa necessità. ci sono le strutture ma manca il popolo? mettiamolo al centro del progetto, trovando le modalità migliori per sostituire all’apatia e all’autoreferenzialità il protagonismo diretto e la partecipazione di settori sempre più ampi della società (cominciando da noi e allargando la democrazia, coinvolgendo sempre più, per ogni scelta cruciale, la nostra gente, in una prima fase almeno in forma di consultazione). e poi partiamo. davvero non c’è più tempo. ricominciamo, dalle prossime settimane, a fare politica, a raccontare casa per casa quali sono le nostre proposte per uscire dalla crisi, cosa faremmo se fossimo al posto di renzi, cosa faremo già da domani mattina – a tutti i livelli in cui siamo presenti – per alleviare il dolore e la sofferenza sociale. questo, crediamo, è il profilo di una nuova sinistra, utile e vincente. che assomigli poco alla testimonianza e alla somma delle opposizioni e molto a un processo ampio di ricostruzione di un punto di vista autonomo, alternativo, con un’ambizione finalmente maggioritaria che metta nel mirino, da subito, il governo dei processi politici e sociali. così, solo così, sta cambiando la grecia, cambierà l’europa e – se ci impegniamo – cambierà anche l’italia. italia/politica luciana castellina perché diciamo grazie alla grecia l’intervento dal palco di luciana castellina alla manifestazione nazionale del 14 febbraio non so se sono i greci che debbono ringraziarci per questa manifestazione grande, bella, unitaria che abbiamo promosso in tutta fretta perché a bruxelles capissero bene che quanto lì si decide in questi giorni non riguarda solo atene, ma tutti noi, tutti gli europei che vogliono un’unione in grado di garantire più uguaglianza più democrazia più pace. un’europa che almeno la smetta di ritenersi faro della civiltà quando è incapace di accogliere chi fugge da terre devastate dalla pesante eredità coloniale e dalle nostre più recenti, dissennate spedizioni militari. proprio per questo sarebbe forse meglio dire che non sono i greci a dover ringraziare noi, ma noi che ringraziamo loro per quello che stanno facendo anche per noi. noi che ringraziamo alexis e Yannis — (li chiamiamo ormai per nome perché non sono più solo compagni ma sono diventati amici). siamo noi che li ringraziamo perché lì a bruxelles stanno combat- tendo anche per noi. sono lì ed hanno avuto accesso a quelle stanze perché hanno avuto la forza e il coraggio di sfidare golia e la capacità di ricevere dal popolo greco la legittimazione a farlo. sono lì a farsi ascoltare anche a nome nostro. (direi che se la cavano piuttosto bene. la prova, lo sappiamo, è durissima, ma già dopo questi pochi/ primi giorni sembrano procedere con fermezza, con la sicurezza di rodati statisti.) ne siamo orgogliosi e soddisfatti. (avete visto le loro immagini in tv, sono loro a dominare la scena, e tutti si affrettano ad avvicinarsi a loro per stringergli la mano). perché hanno capito che i nostri amici hanno aperto un nuovo capitolo della storia dell’unione europea: perché hanno avuto la determinazione — che fino ad oggi era mancata a tutti — di dire che così non va, che occorre cambiare proprio se si vuole salvare il progetto d’europa. non sono andati a buxelles a scusarsi per il 2 loro debito e a mendicare aiuto, ma per dire alla troika che deve chiedere scusa. scusa per i danni che ha prodotto con le sue politiche. scusa per essersi irresponsabilmente fidata, di un governo corrotto e incapace. la catastrofe è oggi sotto gli occhi di tutti di anno in anno, dal 2008, le medicine di bruxelles anziché alleviare i mali e avviare un nuovo corso hanno peggiorato la situazione della grecia. qualsiasi menager che avesse prodotto in quattro anni un crollo del pil pari al 25 % e ritenesse questo il metodo migliore per accumulare le risorse per ripagare un debito, verrebbe licenziato. con tanto parlare di efficienza, il criterio potrebbe esser applicato anche ai funzionari di bruxelles! se hanno rovinato così la grecia vanno messi in condizione di non nuocere più. è necessario farglielo capire. noi siamo qui per far sentire anche la nostra voce. buon lavoro alexis, buon lavoro Yannis. al centro il lavoro il SinDacatO DOpO il jOBS act con il varo dei decreti attuativi sul Jobs act, il mondo del lavoro cambia in modo radicale. personalmente non ho esperienza di cosa significhi fare il sindacalista e il delegato senza lo statuto dei lavoratori e in un sistema contrattuale violato nei suoi principi. non lo so perché siamo tutti cresciuti e abbiamo fatto sindacato in un’epoca di garanzie e tutele certe. quest’epoca viene chiusa dal Jobs act. di Maurizio landini se lo sarà per sempre o no dipende soprattutto da noi e da ciò che faremo, visto che – considerando ciò che è successo in parlamento in queste ultimi mesi – dall’attuale composizione mondo politico non credo ci si possa aspettare molto. ma per essere in grado di riprenderci ciò che hanno tolto ai lavoratori e dare nuove tutele a chi non le ha mai avute dobbiamo in primo luogo essere coscienti della svolta radicale avvenuta. prenderne atto, capirne le conseguenze profonde e elaborare un pensiero e una strategia adeguati al nuovo contesto. che non ci piace,. ma che non possiamo ignorare. per un sindacato la prima cosa è capire come affrontare questa nuova realtà nella contrattazione. che significa come riconquistare contrattualmente le tutele cancellate dalle leggi e, da subito, come dare tutele ai nuovi assunti e a chi passa da un posto di lavoro a un altro perdendo le precedenti garanzie. perché saranno proprio loro a vivere in prima persona le conseguenze del Jobs act, a loro si deve rivolgere e deve coinvolgere chi – nell’accentuato apartheid creato dal governo – può ancora usufruire dei diritti garantiti dallo statuto dei lavoratori. credo che dobbiamo costruire, nella discussione e nel confronto con i delegati, gli iscritti e i lavoratori, delle piattaforme rivendicative che si pongano quell’obiettivo. la riconquista del contratto collettivo nazionale di lavoro non può essere solo una parola d’ordine pronunciata quasi ritualmente o addirittura con rassegnazione. per noi è essenziale che il prossimo contratto nazionale di categoria – la cui sorte è tutta da verificare persino nella sua stessa esistenza – debba porre al centro l’obiettivo della ri/conquista dei diritti cancellati o mai avuti. di fronte alle disuguaglianze salariali e di diritti in cui è stato scomposto il nostro mondo dovremo ricostruire un contratto unificante con rivendicazioni di stampo universale: nell’emergenza salariale e dei redditi che il paese sta vivendo vanno defiscalizzati i salari, non i bilanci d’impresa; è ora che i minimi del 3 contratto nazionale diventino il salario minimo orario di legge; a fronte del dilagare del lavoro straordinario va incentivato il ricorso ai contratti di solidarietà come alternativa ai licenziamenti e va redistribuito il lavoro riducendo l’orario nell’ambito di un diverso e più articolato utilizzo degli impianti; nel contratto dovremo saper rappresentare e conquistare tutele per tutte le forme di lavoro e incentivare la partecipazione delle persone a partire dalla possibilità per i lavoratori e i loro rappresentanti di poter intervenire nelle scelte delle imprese, per discutere di cosa e come si produce, di quali siano le scelte strategiche e non dover sempre e solo giocare in difesa sui prestazioni e diritti. landini il sindacato dopo il jobs act sarà su questo che siamo chiamati a sperimentare cosa voglia dire fare sindacato nel “nuovo mondo” che da fine febbraio sarà una realtà; e sarà su questo che dovremo qualificare la nostra capacità di rappresentare gli interessi delle lavoratrici e dei lavoratori. senza escludere alcun tipo di iniziativa, anche giuridica e legislativa per riconquistare i diritti sottratti, fino alla possibilità di ricorrere a un referendum abrogativo del Jobs act. insieme ad alcune nostre proposte da mettere in campo, senza le quali il discorso rimarrebbe troppo parziale; a partire da una riforma degli ammortizzatori sociali al reddito minimo, in entrambi i casi per allargare le tutele e contrastare la deriva dell’impoverimento e della disgregazione sociale del lavoro subordinato, in tutte le sue frammentate forme. un altro punto centrale dovrà essere il nodo degli appalti. che ormai dilagano in tutte le produzioni innestando precarietà e illegalità, abbassando fino al “livello zero” il potere contrattuale dei lavoratori. questo lo dobbiamo fare per via contrattuale mettendo questo punto al centro delle piattaforme (lo stiamo tentando nella vertenza fincantieri, perché l’azienda si assuma la responsabilità della filiera di appalti e subappalti, metterli sotto controllo e limitarne l’uso attraverso la stabilizzazione dei rapporti di lavoro e generando nuova occupazione), aprendo vere e proprie vertenze “dedicate”; lo dobbiamo fare in senso più generale, rovesciando il quadro di divisione che gli appalti oggi determinano per unificare il mondo del lavoro (in questo senso va la raccolta di firme per una legge di iniziativa popolare promossa dalla cgil sul tema degli appalti). e, poi, non dimentichiamo due altri temi di rivendicazione. in primo luogo le pensioni - che vogliamo riformare davvero a partire dall’abbassamento dell’età pensionabile, dal ripristino delle pensioni d’anzianità e dalla correzione del metodo retributivo per garantire una pensione alle giovani generazioni; e poi il fisco, su cui stiamo organizzando uno specifico convegno a roma il prossimo 19 febbraio – per diminuire la pressione fiscale sulle fasce più deboli, contrastare la depenalizzazione progettata dal governo e combattere davvero l’evasione, destinando nuove risorse allo sviluppo. qui si evidenzia come la battaglia per i diritti abbia bisogno di congiungere l’azione contrattuale con un’iniziativa politica generale; perché il cambiamento determinato dall’azione congiunta di crisi economica, politica d’austerity dettata da bruxelles e leggi del nostro governo ci impone d’affrontare la situazione a tutto campo. proprio perché, come abbiamo promesso alle lavoratrici e ai lavoratori, noi non intendiamo fermarci nella battaglia per i diritti con il Jobs act diventato legge, vogliamo affrontare le novità della nuova fase anche dal punto di vista politico ed essere un soggetto che si confronta e si coalizza con tutti coloro che nel paesi si muovono per contrastare un governo che sembra volersi rifiutare di ascoltare la società. di questo atteggiamento è un significativo indice il rapporto tra l’esecutivo e i sindacati; o, meglio, il modo in cui il governo imposta il rapporto con i sindacati. che in realtà è un non-rapporto. nemmeno ti ascoltano, al massimo ti considerano un interlocutore nella gestione delle crisi aziendali, ma senza un confronto vero. tantomeno sulle scelte di carattere generale, come si è chiaramente visto nella vicenda Jobs act: noi abbiamo chiesto, alzato la voce, protestato, scioperato e manifestato, ma il governo non ha nemmeno dato udienza alle confederazioni, persino a prescindere dalle loro posizioni più o meno contrarie al suo operato. al massimo ha “concesso” un paio di brevi udienze per illustrare ciò che intendeva fare, vagamente e sempre in modo molto generico, senza mai affrontare il merito delle questioni. poi è andato avanti sulla sua strada, parlando più con i giornali che con le forze sociali. d’altro canto, anche nel mondo politico, tra i partiti e in parlamento, il confronto è stato molto relativo e il governo ha sempre proceduto a colpi di fiducia, concedendo quasi nulla all’azione emendativa parlamentare o alla discussione tra le forze politiche. di fronte a una simile situazione la battaglia per i diritti di chi per vivere deve lavorare non può che essere generale e – accanto a uno specifico contrattuale – ha bisogno di una forte iniziativa sociale e politica. in questo senso dobbiamo rivolgerci in primo luogo ai movimenti, alle associazioni e ai singoli cittadini per costruire un antidoto allo scollamento tra paese reale e paese ufficiale, che mina la partecipazione e debilita la democrazia. credo che in quella parte del paese possiamo trovare le alleanze e le risorse per rafforzare le nostre ragioni, rendere più efficace ogni nostra battaglia e costruire dal basso un’alternativa. e’ su tutto questo che vogliamo chiamare a discutere tutta la fiom - a partire dagli attivi regionali per arrivare all’assemblea nazionale del 27 e 28 febbraio – e alla mobilitazione le lavoratrici e i lavoratori. (da www.cgil.it) 4 al centro il lavoro quale rifOrMa Della pOrtualità italiana? con la conversione del d.l. 133/2014, “sblocca italia”, entro pochi mesi dovrebbe essere adottato il piano nazionale della portualità e della logistica che, almeno per ora, sarà l’unico risultato concreto del dibattito per un generale riassetto nella governance dei porti italiani. di andrea Olivieri* riforma invocata da più parti e da diversi anni, che rischia ancora una volta di arenarsi sugli scogli dei veti incrociati, delle rendite di posizione, delle logiche spartitorie ma soprattutto, secondo alcuni osservatori indipendenti, su un’errata visione del ruolo dell’economia portuale italiana: non solo il sistema portuale italiano si caratterizza per la sua frammentazione organizzativa e operativa nel complesso quadro globale dell’economia del trasporto marittimo e della logistica, ma in questo stesso quadro tenta di rincorrere i propri concorrenti sul mercato più saturo, quello del container. la storia recente della portualità italiana ha il suo punto di svolta nella riforma portuale introdotta con la legge 84 del 1994. con quel provvedimento la gestione degli spazi demaniali, che fino a quel momento rispondeva a un modello organizzativo di tipo “public service” governato da enti e consorzi autonomi, veniva affidata a 24 autorità portuali (ap), enti pubblici con funzioni di indirizzo e controllo, teoricamente separate da quelle operative da affidare a soggetti privati. la riforma avveniva in un momento di grandi cambiamenti nel mercato mondiale dello shipping, e provava appunto a rispondere all’esigenza di integrare la portualità italiana nel contesto di progressiva globalizzazione dei mercati, soprattutto attraverso concessioni di lungo termine delle banchine nella tipologia di traffico maggiormente in crescita, quella delle portacontainer. nel giro di pochi anni ad aggiudicarsi la gestione dei terminal container italiani erano i grandi gruppi stranieri appartenenti alle maggiori compagnie terminaliste o marittime mondiali, mentre dal lato del lavoro si riusciva quasi ovunque a erodere le conquiste sindacali precedenti, trasformando le compagnie portuali da soggetti pubblici a società di diritto privato e deregolamentando un settore nel quale tutele e sicurezza dei lavoratori dovrebbero essere aspetti imprescindibili. le regole della 84/94 non hanno impedito che le ap finissero per fare ognuna storia a sé, sia per 5 quanto riguarda gli agreement sulle concessioni di spazi e l’uso di infrastrutture ai privati – terminalisti, caricatori, spedizionieri, autotrasportatori, operatori della logistica e del terziario marittimo, etc.. –, sia sotto il profilo strategico, che manca completamente nell’individuare gli obiettivi di sistema e cogliere le opportunità di specializzazioni e professionalità che pure non mancherebbero. le ap italiane – le cui dirigenze sono frutto di una concertazione tra organi politici locali e nazionali, e che vedono rappresentate nei propri organi decisionali (comitati portuali) anche le rappresentanze dei concessionari privati e quelle sindacali – sono spesso sottoposte a pressioni particolaristiche a. olivieri i porti italiani che agiscono in funzione di rendite di posizione difficilmente contestabili. uno scenario dal quale è difficile aspettarsi l’emergere di una visione strategica innovativa e globale. l’interscambio commerciale marittimo dell’italia nel 2013 era di 230 miliardi di euro. la strategicità del porti relativa a questo dato è maggiormente intuibile osservando i dati relativi alle esportazioni. un recente studio[1] sottolinea che il settore portuale rappresenta “il principale partner distributivo e di posizionamento della manifattura del paese”, detenendo nel 2012 il 55% sul totale dell’export italiano extra-ue e il 30% sul totale dell’export italiano mondiale. oltre a ciò lo studio suggerisce che va considerata anche una percentuale tra il 65 e l’80% sul totale dell’export solo verso usa, brasile, india e cina. dati importanti ma tutto sommato non sorprendenti per un paese che, per storia, cultura e collocazione geografica, ha un rapporto molto stretto con una risorsa come il mare ma che, nell’odierna e complessa economia dei trasporti globali, non può contare su posizioni strategiche tali da configurare naturalmente un vantaggio competitivo. su un piano globale, negli stessi anni in cui veniva varata la riforma portuale del 1994, si verificava anche lo spostamento di quote consistenti di traffico dalla northern atlantic trade lane alla pacific trade lane, ovvero l’aumento vertiginoso dei traffici sulla rotta far east-europa. sbilanciamento che, nel periodo cosiddetto del super-cycle (2002–2007), comportava per il mediterraneo attraversato dalla rotta di suez una nuova centralità nei traffici marittimi europei e globali. dal 2000 al 2013 questo significava un +105% di traffici, e una modesta crescita anche negli ultimi anni, malgrado la crisi, da +15% nel 2005 a +19% nel 2013 (dati srm, panaro). alla radice del super-cycle vi era, oltre all’aumento della domanda da nord america ed europa dalla cina, un elemento tecnico di primaria importanza: la nave portacontainer. la cantieristica navale veniva infatti investita da una valanga di ordinativi da parte delle compagnie di navigazione impegnate in una rincorsa a costruire navi sempre più capaci e veloci di quelle dei concorrenti. il fenomeno del gigantismo navale si giustificava con le economie di 6 scala e produceva un abbassamento costante e importante dei costi di spedizione della merce via container. nell’arco di appena quindici anni la capacità di carico delle portacontainer transoceaniche era pressoché raddoppiata, passando da navi capaci di trasportare circa 8.000 teu[2], agli attuali 18.000. il gigantismo avrebbe però anche prodotto distorsioni notevoli nel rapporto tra domanda e offerta, soprattutto nel momento in cui i consumi sarebbero crollati per effetto della crisi, oltre ad avere implicazioni di carattere finanziario notevoli considerando i costi di costruzione di una nave[3]. ciò che ci interessa maggiormente è che non tutti i porti sarebbero stati in grado di consentire operazioni di ormeggio, di carico e di scarico a navi di queste dimensioni. e che anche quando lo fossero stati, avrebbero dovuto fronteggiare problemi di congestione, logistici e distributivi a volte irrisolvibili. i porti italiani movimentano circa 10 milioni di teu/anno, ovvero quanto il solo porto olandese di rotterdam, primo scalo europeo. un quarto di questi sono trasbordi, contenitori sbarcati da una grande portacontainer in un porto cosiddetto hub per essere subito reimbarcati su una nave più piccola, detta feeder e inviati ad altre destinazioni. il rapporto tra il fatturato di un container in transito e uno lavorato è quasi 1 a 8[4]. ai fini statistici il container viene conteggiato due volte, e molto spesso il trasbordo configura un’operazione estero su estero, elemento quest’ultimo che ha tratto spesso in inganno, facendo illudere molti sulla reale consistenza e potenzialità del settore in questo paese. un porto la cui quota di trasbordi superi il 50% del totale movimentato è detto di transhipment. nella classifica mondiale dei primi cento porti per traffico container relativa a dati del 2011, troviamo solo tre porti italiani: gioia tauro al centro il lavoro (53°), genova (70°) e la spezia (87°). gioia tauro con il 97% di trasbordi è un porto di transhipment puro e sta scontando negli ultimi anni la rapida ascesa dei porti della sponda meridionale del mediterraneo, a dimostrazione del fatto che, nel contesto globale di questo mercato, non esistono collocazioni geografiche privilegiate e rendite sicure. la percentuale di trasbordi a genova, si aggira intorno al 15%, lo scalo pertanto si configura come porto gateway che, a differenza di gioia tauro, alle spalle ha un hinterland reale che abbraccia un mercato potenziale formato da pianura padana, sudest della francia, svizzera e sud della germania. il problema però, lasciando da parte la questione dei fondali non sufficientemente profondi, sta in ciò che manca o è inadeguato alle spalle del primo porto italiano in termini di collegamenti ferroviari, strutture, operatori e sistemi logistici. tale situazione, generalizzata pressoché in tutti i porti italiani, implica che sarebbero quasi 500.000 i teu – quanto il totale di quelli movimentati in un solo anno dal porto di napoli – con origine o destinazione l’italia che, anziché approdare nei porti del paese, passerebbero attraverso quelli del nord europa[5]. tali carenze, che appunto accomunano la maggior parte degli scali italiani, sono un limite che determina l’impossibilità a incrementare le quote di traffico, ma molti osservatori notano anche che l’italia non ha, e probabilmente non avrà mai, una domanda sufficiente per attirare servizi di linea regolari, stabili e bilanciati con grandi navi portacontainer[6]. eppure l’impressione è che questa tipologia di trasporto sia l’unica presa seriamente in considerazione ogni qualvolta si apre la discussione sulla necessità di riformare in termini di sistema la portualità italiana e, soprattutto, al momento di discutere di inve- stimenti in infrastrutture. scorrendo un recente studio sulla programmazione infrastrutturale dei porti italiani[7] una delle voci più ricorrenti riguarda dragaggi ed escavazioni destinati, guarda caso, ad accogliere portacontainer medio-grandi, fino ad arrivare a progetti faraonici come quello dell’ap di venezia, porto che notoriamente è penalizzato da fondali bassissimi, che intenderebbe costruire un megaterminal offshore che, in fase di progettazione della sola infrastruttura, costerebbe circa 2,5 miliardi di euro. è evidente che di fronte a questo scenario, quale che sia il giudizio sul governo in carica, l’annunciata riforma dei porti rischia di non partorire nemmeno il classico topolino. molto poco si sa infatti del piano nazionale della portualità e della logistica previsto nello sblocca italia, salvo che lo stesso dovrebbe agire su due leve: sul lato della governance riducendo da 24 a 15 le autorità portuali esistenti, da quello degli investimenti intervenendo sull’attuale meccanismo di finanziamenti a pioggia alle ap, per individuare invece alcune opere infrastrutturali “più urgenti per migliorare la competitività del sistema portuale e logistico e agevolare la crescita dei traffici”. sul primo aspetto è noto che la riduzione del numero delle ap è già stata cassata dai veti incrociati e persino interni alla principale forza politica del governo. sul secondo c’è da augurarsi che l’individuazione delle priorità sia capace, come non è stata finora, di non arrendersi alla monocultura del container, ten- 7 tando invece di individuare competenze e specializzazioni che in questo settore non mancherebbero. *dottorato università della calabria note: [1] il rilancio della portualità e della logistica italiana come leva strategica per la crescita e la competitività del paese, the european house – ambrosetti, 2013. [2] il teu (twenty–foot equivalent unit) è l’unità di misura standard equivalente a un container da 20 piedi (6,10 metri) che viene utilizzata per misurare la capacità di trasporto delle navi portacontainer e le quantità movimentate nei porti. buona parte dei container misurano 20 o 40 piedi, anche se sono possibili eccezioni sia in lunghezza che in altezza. un container da 40 piedi viene quindi conteggiato come 2 teu. [3]dei rischi che proprio dal mercato dello shipping possa formarsi una bolla speculativa paragonabile se non peggiore di quella del mercato immobiliare americano del 2008 tratta anche un recente report dell’economist consultabile all’indirizzo http://www.economist.com/sites/default/files/20140510_international_banking.pdf. il settimanale italiano internazionale ha pubblicato la traduzione di alcuni articoli del report sul numero 1057 uscito a fine maggio 2014. [4] secondo una stima srm–panaro su dati del mit, il fatturato di un container in transito si aggira intorno ai 300 euro, quello di un container lavorato è di 2.300 euro. [5]osservatorio srm sull’economia del mare, rapporto annuale italian maritime economy, napoli 2014 [6]sergio bologna nell’intervista realizzata dal sottoscritto e da stefano lucarelli lo scorso 8 luglio 2014. [7]osservatorio srm sull’economia del mare, analisi della programmazione infrastrutturale e finanziaria dei porti italiani, collana “public finance”, napoli 2014 da economiaepolitica.it appello 8 marzo dedicato alle donne curde da sengal a kobane viva la resistenza delle YpJ dedichiamo la giornata internazionale delle donne 2015 alla rivoluzione delle donne nel roJava e alla resistenza delle unità di difesa delle donne YpJ! l’8 marzo 2015, 104 anni dopo la proclamazione della giornata internazionale delle donne, le donne di tutto il mondo combattono ancora contro il sistema di dominio patriarcale. in ricordo delle lavoratrici tessili a new York che hanno perso la vita nella loro resistenza, in occasione della 2a conferenza internazionale delle donne nel 1910 su proposta di clara zetkin è stata istituita la giornata dell‘8 marzo come simbolo per la lotta e la resistenza delle donne. questo movimento e questo grido risuonano ancora nelle strade. la rivoluzione contro disuguaglianza, sessismo e ogni forma di violenza è arrivata fino a oggi e continua a difendere tutti i valori umani. come risultato della grinta e capacità delle donne nel 1977 l‘8 marzo è stato proclamato dall’onu giornata mondiale delle donne, ma nonostante questo non è riconosciuto in nessuno a livello ufficiale in alcuno degli stati membri. oggi come allora le donne sono esposte a diverse forme di discriminazione e pensieri e azioni patriarcali. più le donne ne prendono coscienza e più si organizzano, più aumenta la forza con la quale vengono sistematicamente attaccate. gli attacchi contro le donne che si organizzano e lottano diventano sempre più profondi e si sviluppano in un femminicidio sistematico della cui esistenza non c’è consapevolezza e che non viene riconosciuto come tale. questo femminicidio viene brutalmente portato avanti a livello mondiale, dall‘europa fino all‘africa, dal medio oriente fino all’america latina. contro le donne viene con- dotta una vera e propria guerra non dichiarata. con lo sfruttamento e la violenza si mira a intimidire sistematicamente le donne come gruppo sociale. senza dubbio le donne hanno fatto resistenza contro questi brutali attacchi, si sono organizzate e hanno portato avanti la loro lotta con costanza. attraverso la loro lotta che dura da secoli, le donne hanno ottenuto molti progressi che favoriscono anche l’estensione dei valori democratici e di libertà nell‘intera società. in parallelo si sono rafforzati la violenza e i crimini di guerra contro le donne ed è aumentata sempre di più la discriminazione e la lesione o l’assenza di diritti delle donne. le donne sono vittime di cosiddetti “delitti d’onore”, vengono costrette a matrimoni forzati, stuprate, subiscono molestie sessuali, mutilazioni, vengono 8 spinte al suicidio, schiavizzate e trattate come bottino di guerra. attualmente gli attacchi contro il corpo, l’identità, il pensiero e i sentimenti delle donne in medio oriente vengono perpetrati in modo crudele da gruppi terroristici come is. colpiscono tutti i gruppi etnici e le comunità religiose che si oppongono alla loro ideologia, curde, turkmene, assire, armene, arabe, yezide curde, cristiane, sciite, kakai, alevite e molte altre. nel 21° secolo, il sistema patriarcale e il suo pensiero hanno ulteriormente perfezionato la loro politica di femminicidio. in ucraina 400 donne sono state deportate come bottino di guerra, stuprate e assassinate. nello shengal nel kurdistan del sud, oltre 3000 curde yezide sono state deportate e stuprate e vengono vendute nei mercati degli schiavi. nel corso di un anno in appello 8 marzo 2015 dedicato alle donne curde nigeria sono state assassinate almeno 350 donne e almeno 300 bambine e ragazze tra i dodici e i sedici anni sono state rapite dal gruppo terroristico boko haram. il numero reale probabilmente è molto più elevato. qui si tratta solo di tre esempi estremi che segnalano sviluppi a livello mondiale. per le donne in questo mondo non esiste sicurezza. per questo le donne devono più che mai provvedere alla propria protezione e organizzare la loro autodifesa. è proprio questo che attualmente sta succedendo nel rojava (espressione curda per il kurdistan occidentale). nei tre cantoni curdi dell’amministrazione autonoma nel nord della siria le unità di difesa delle donne YpJ combattono per la sicurezza delle donne e dell’intera società. le YpJ da mesi sono sulla linea del fronte nella difesa di kobane contro gli attacchi delle bande di is. la lotta delle YpJ ha creato voglia di libertà e spirito di resistenza non solo a livello militare, ma anche nella coscienza sociale. le YpJ conducono una lotta contro tutti i livelli di femminicidio. come nel 1857 le 129 donne hanno perso la vita nella lotta come lavoratrici, oggi le combattenti delle YpJ combattono senza esitazioni in modo deciso per i valori delle donne e per i valori dell’umanità intera. non limitano la loro lotta contro il femminicidio a una sola giornata, ma con la loro lotta trasformano ogni giorno nell’8 marzo. la loro lotta di liberazione è allo stesso tempo un abbraccio alle donne di tutto il mondo. in occasione dell‘8 marzo 2015 prendiamo coscienza degli attacchi contro le donne a shengal, mossul, kirkuk, in nigeria, a gaza, in ucraina e altrove considerandoli un femminicidio e facciamo vivere lo spirito di resistenza delle SOStieni SiniStra lavOrO tutte le informazioni su www.sinistralavoro.it fai una donazione con bonifico bancario: sinistra lavoro, iban it23e0312703201000000002143 (indicare la causale) iscriviti alla newsletter Spargi la vOce! donaci il tuo account twitter e facebook per aiutarci ad amplificare la nostra voce online. scegli la frequenza con la quale vuoi permetterci di ricondividere nostri tweet e post sui tuoi account. 9 YpJ come difesa di tutte le donne in ogni luogo. organizziamo la resistenza ovunque nel mondo le donne subiscano violenza. diffondiamo insieme lo spirito di resistenza che ci unisce e ci rafforza contro ogni manifestazione del sistema di dominio patriarcale. per questo chiamiamo tutte le donne, iniziative e organizzazioni di donne a dedicare le loro manifestazioni e azioni per la giornata internazionale delle donne alla rivoluzione delle donne nel rojava e alla resistenza delle unità di difesa delle donne YpJ. viva la solidarietà internazionale delle donne! resistenza vuol dire vita! jin jiyan azadî Donne vita libertà Rappresentanza Internazionale del Movimento delle Donne Curde Facebook: https://www.facebook.com/8marzo2015? ref=hl
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