UBUNTU Poste Italiane S.p.a. - Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 2 e 3, Roma Aut. N. 6/2008 anno 8 • n. 23 maggio - agosto 2014 .. o. n o d i v i d i ec h c i r u m i utt’uno t n u e m iverso co cui la grande n u ’ l e r e d tà e in i emo a ve l r a i t capire c o s t a u i a r l o e e m s t e t solo omincer rte rifle c a , p à t i i n s g r o in cui sua dive a l l e n a t s bellezza stiamo e v o d e o chi siam rzani) e T o n a i (Tiz www.auci.org ● [email protected] 3 UBUNTU UBUNTU Indice 2 3-5 6-8 9-11 12-13 14-15 16 Editoriale - “Un’unica Famiglia Umana... ancora, purtroppo, con tanti muri” di Pasquale De Sole “We shall overcome: sempre più muri in un mondo senza frontiere (?)” di Carlo Provenzano “I Have a Dream Ieri e Oggi” di Giorgio Placidi “Evangelii Gaudium” di Paolo Acanfora “Non Solo 14 Kilometri” di Christian Scatamacchia Pensare sognando - “L’Autunno di Prospero” di Emanuele Bucci Campagna Nazionale “Una Sola Famiglia Umana, Cibo per Tutti” Un’unica famiglia umana... ancora, purtroppo, con tanti muri di Pasquale De Sole A ragione, in tante parti e in svariate occasioni, viene celebrato nel corso di questo anno il centenario della I Guerra Mondiale, la “Grande guerra”, che iniziò il suo cammino di distruzione e di morte nell’estate del 1914, proseguendo poi in una folle corsa fino al drammatico secondo conflitto mondiale. In meno di cinquanta anni gli stati europei, e buona parte dei paesi ad essi collegati, si sono trovati coinvolti in un vortice di autodistruzione, incapaci di seguire i dettami della pur minima razionalità, arrivando a contare alla fine del secondo conflitto mondiale più di ottanta milioni di morti. Sulle ceneri di tante distruzioni e in ginocchio a fianco della sterminata sequela dei morti in guerra o a causa della guerra, l’umanità ha sentito il bisogno di proclamare, con la solenne dichiarazione universale dei diritti umani, la fondamentale verità basata sull’unità della famiglia umana, i cui membri sono tutti titolari della stessa dignità e degli stessi diritti. Sembrava che il riconoscimento di una così elementare verità costituisse il primo passo verso una umanità rappacificata, senza muri e senza barriere. Purtroppo la realtà ci ha offerto, e ci offre tuttora, un ben diverso scenario: uno scenario segnato da tante, troppe divisioni, dominato da muri e barriere delle più svariate tipologie. Ci troviamo così di fronte al terribile paradosso di una umanità potenzialmente riunita in un’unica famiglia per via dei grandi passi fatti in ambito scientifico e tecnologico, eppure terribilmente frammen- tata sul piano sociale e politico, e incapace di abbattere i muri costruiti dalla sua mente malata come nell’allegoria del Prospero di “Pensare Sognando”. Sono tante le considerazioni che ci dovrebbero spingere a coltivare e accrescere dentro di noi la consapevolezza dell’unità della famiglia umana, da quelle filosofiche a quelle religiose o socio-politiche, fino a semplici “considerazioni biochimiche”, come suggerito in un precedente editoriale (Ubuntu n. 6). Ma così purtroppo non è. Il mondo è ancora – e chissà per quanto tempo! - frantumato in se stesso dalla presenza di numerose barriere e tante “cortine di ferro”, trasformatesi negli anni in “cortine di oro e di argento” che rendono indispensabile la costruzione di sempre nuovi muri, innalzati a loro difesa. Sono trascorsi 25 anni dalla caduta del più emblematico di questi muri, il muro di Berlino, ma si ha l’impressione che esso continuamente si materializzi in altre aree geografiche e in altri contesti sociali, culturali e politici. Con il presente numero di Ubuntu vogliamo contribuire a tenere viva e ad accrescere la consapevolezza di questa amara realtà; nello stesso tempo desideriamo stimolare l’impegno ad operare per l’abbattimento degli innumerevoli “muri di Berlino” che feriscono nel profondo la nostra comune umanità, augurando a tutti di portare, come icona impressa nei cuori e nei volti di ciascuno, l’immagine di Papa Francesco assorto in silenziosa preghiera appoggiato al muro di Betlemme che sembra, quasi, volerlo schiacciare. 2 UBUNTU Quadrimestrale dell’Auci-Onlus Associazione Universitaria per la Cooperazione Internazionale Anno 8 - Numero 23 maggio - agosto 2014 DIREZIONE E REDAZIONE Largo A. Gemelli, 8 00168 Roma Tel. 06/6633321 Fax: 06/35505107 E-mail: [email protected] [email protected] Sito internet: www.auci.org DIRETTORE RESPONSABILE Pasquale De Sole REDAZIONE Emanuele Bucci Diego Casoni Paola Ceccarani Erica Nicolardi Giorgio Placidi Carlo Provenzano Claudia Trevisani LAYOUT GRAFICO Studio Idea Comunicazione Carlo Provenzano CORRETTORE DI BOZZE Pasquale Sbardella CHIUSO IN REDAZIONE IL 1 settembre 2014 Autorizz. del Trib. di Roma n. 157/2007 del 17 Aprile 2007 VIDEO COMPOSIZIONE, INCISIONE, STAMPA E ALLESTIMENTO: Tipografia 360° srl Viale Enrico Ortolani 129 Roma tel. 06/5218318 Testi e immagini possono essere utilizzati liberamente citando la fonte Associazione Universitaria per la Cooperazione Internazionale We shall overcome sempre più muri in un mondo senza frontiere (?) di Carlo Provenzano Nel cuore del Chianti il borgo di Gaiole, e la campagna circostante, ospitano un museo a cielo aperto: ogni anno dal 2000, nell’ambito del progetto “Castello di Ama per l’Arte Contemporanea”, un artista crea un’opera site specific, ispirata al luogo. Nel 2006 il cubano Carlos Garaicoa ha creato Yo no quiero ver màs a mis vecinos (Non voglio vedere più i miei vicini), riproduzione in scala di alcuni muri storici che tengono, o hanno tenuto, separata l’umanità, da quello di Berlino a quello tra le due Coree, alla Grande Muraglia: un racconto di negazione, di privazione della libertà, che si contrappone al chiacchiericcio dei muri a secco locali, strumento di sostegno delle terrazzature per permettere le coltivazioni in collina, e quindi apportatori di vita. E, con lo stesso titolo, Garaicoa ha creato un breve video (http://vimeo. com/61354601) in cui la semplice costruzione di un muro che divide il giardino dell’artista da quello dei vicini assurge a metafora di tutti i muri di confine che separano situazioni storiche conflittuali. www.auci.org ● [email protected] La conclusione del lavoro mostra un candido muro intonacato che non ha niente di bellicoso, ma che cede presto il posto a immagini fisse che documentano barriere sicuramente meno innocenti. All’opera di Garaicoa si contrappone Sulle vigne, punti di vista di Daniel Buren, un muro di specchi lungo 25 metri in cui si aprono 5 finestre: il muro perde la funzionebarriera e, nel suo riflettere l’immagine, ci fonde con il circostante, mentre le finestre diventano paesaggi incorniciati. Una sensazione sconcertante di natura ed arte che fa perdere qualsiasi riferimento, un conti3 nuo rimando tra realtà ed immaginazione. Un muro, quindi, può rivestire differenti e variati ruoli: pensiamo a L’Infinito di Leopardi, dove “questa siepe, che da tanta parte/dell’ultimo orizzonte il guardo esclude./... interminati/spazi di là da quella, e sovrumani/silenzi, e profondissima quiete/io nel pensier mi fingo”. O alle mura megalitiche di Ggantija, sull’isola di Gozo, costruite per racchiuderne i templi: mille anni prima delle prime piramidi egizie, duemila anni prima della civiltà minoico-micenea, una popolazione che non conosceva l’uso dei metalli ha usato massi grandi fino a 50 tonnellate, incastrando sapientemente i monoliti secondo la loro forma, un’opera che è più un omaggio a qualche divinità benefica che dimostrazione della propria bravura. Nel presente si tenta di esorcizzare questa massa monocromatica cieca, sorda, muta, coprendola con graffiti, disegni, colori. Ecco quindi i muri diventare lavagne urbane, per lasciare una traccia del proprio passaggio, un segno della propria esistenza, un messaggio: è il caso de le mur des je t’aime di UBUNTU UBUNTU Frédéric Baron, che ha scritto “ti amo” in 311 lingue e dialetti su un muro in place des Abbesses a Montmartre: un messaggio che avvicina, unisce, sovrappone; un lavoro in cui, sono parole dell’artista, “gli esseri umani invadono tutto lo spazio del foglio, nel sogno che li unisce creano una barriera, un muro contro il disumano, perchè troppo spesso questi [i muri] annichiliscono l’umano, lo dissolvono, non lo rendono più leggibile”. Ma per gli uomini degli ultimi 50 anni, al di là dei discorsi artistici, un muro è solo un muro, una barriera che separa, seclude, difende, che ferma i nostri pensieri e le nostre azioni ancor prima che i nostri corpi. E questa funzione divisoria è stata al centro di innumerevoli studi e convegni susseguitisi negli ultimi anni, i quali hanno evidenziato un dato preoccupante: fino alla costruzione del muro di Berlino (il cui nome ufficiale era antifaschistischer Schutzwall, Barriera di protezione antifascista), nel mondo vi erano solo “muri” archeologici: la Grande Muraglia cinese, la linea Maginot, l’Offa’s Dyke (tra Galles e Mercia), il Danevirke (tra Danimarca e Germania) ed il sistema del limes romano, che si estendeva dal muro di Adriano fino a Palestina e Africa settentrionale, relitti storici costruiti a protezione di una qualche popolazione che esigeva una sovranità territoriale. Da quel 13 agosto 1961 la costruzione di queste barriere fisiche ha conosciuto un successo crescente, all’Est come all’Ovest, in tutti i continenti (escluso solo l’Antartide), suscitando nuove ed irrisolte questioni: è vero che un buon muro fa un buon vicino? Che tipo di sicurezza portano i muri di confine? Che ruolo giocano nello sviluppo dei sensi di sicurezza/insicurezza e nell’assuefarsi alle paure? Dal suo abbattimento, nel novembre di 25 anni fa, confini aperti, libertà di circo- lazione, villaggio globale sono diventate per il riconoscimento ottico ed acustico. E mento all’impotenza, l’espressione fisica le parole d’ordine del progresso politi- Facebook usa la tecnologia dell’israeliana della sconfitta della politica. Barriere conco, culturale ed economico, con il Web a face.com per il riconoscimento dei visi. tro l’immigrazione tra Spagna e Marocco, simboleggiare un mondo senza confini. Piccoli dettagli che fanno capire come il Messico e Usa, India e Bangla Desh, BulCiononostante, le politiche di controllo know-how già in circolazione permetta di garia, Grecia e Turchia. E quelle contro le hanno oramai spostato il loro focus dal attrezzare i muri per rilevare anche il solo guerre: nell’Ulster, tra Turchia e Cipro, terreno geopolitico dei confini esterni a avvicinarsi alla barriera. E che rendono di India e Pakistan, Uzbekistan e Tagikistan, quello biopolitico, definendo chi possa estrema attualità le parole di Honecker, Zimbabwe e Botswana. Ogni Muro ha rappresentare un potenziale una sua storia, una sua giustirischio per la sicurezza in- Un muro può contenere, ma non cancellare, le ficazione. Ma ognuno di questi terna e debba quindi essere aspirazioni alla libertà, all’autodeterminazione Muri racconta di un fallimento. “rimosso” dallo Stato. MuPerché di fronte a chi sente di nazionale, ad una vita non consumata tra rarsi dentro oltre che muranon aver nulla da perdere, non patimenti e sofferenze re fuori, isolarsi perchè “gli c’è Muro divisorio che tenga. Il altri = cattivi”. Ecco che nel mondo post l’ultimo presidente della DDR che, pochi Muro può contenere la rabbia, il dolore, il 11 settembre sono comuni le due equa- mesi prima della caduta del muro di Ber- desiderio di rivalsa di intere popolazioni. zioni “terrorismo = immigrazione” e “im- lino, affermava: “La Direzione delle forze Può contenere, ma non cancellare, le aspimigrazione = illegalità, violenza ed Islam di frontiera...prevede di attrezzare il Muro razioni alla libertà, all’autodeterminazioradicale”: lo svicolare attraverso il confine con sistemi elettronici sofisticati come ne nazionale, ad una vita non consumata diventa quindi il primo passo non solo del un’intera gamma di sensori acustici, otti- tra patimenti e sofferenze. In questo, non migrante, ma anche di qualsiasi cittadino ci, ad infrarossi, magnetici e chimici per c’è “Muro” che tenga. ai margini della propria società, per cerca- evitare il più possibile l’uso delle armi”. re di raggiungere un mondo migliore. Un Muro finisce così per Murare e sorvegliare richiedono l’uso di rappresentare, fisicamentecnologie sempre più sofisticate e costo- te, la psicologia di una se, che hanno portato alla trasformazione comunità che si senta, si di parte dell’industria militare in indu- viva, si pensi alle prese stria della sorveglianza. Un settore che, con una immanente “Minel 2012, ha fatturato 19 miliardi di dol- naccia Esterna”. Mortale. lari, con Israele ed USA in testa alla clas- Proteggersi murandosi. sifica, in un intreccio sempre più stretto e Muri e barriere di difesa complesso: tra i tanti esempi, la israeliana sostituiscono la politica o, Elbit è nel consorzio Boeing per la sorve- meglio, si fanno politica. glianza del confine USA-Messico, mentre Dovrebbero irradiare sil’americana Google ha da poco acquisito curezza, sono invece muri varie start up, incluse alcune israeliane, dell’apartheid, un monu- 4 Associazione Universitaria per la Cooperazione Internazionale www.auci.org ● [email protected] 5 UBUNTU UBUNTU I Have a Dream Ieri e Oggi di Giorgio Placidi Sono passati 51 anni dal giorno in cui Martin Luther King pronunciò lo storico discorso I have a dream. “Ho un sogno” disse a 250.000 neri e bianchi, radunati davanti al Lincoln Memorial di Washington per ascoltare le parole di quel pastore battista nato ad Atlanta. Quel discorso, generato dalla disperazione degli afro-americani vessati e sfruttati, era figlio dell’ondata di protesta antirazziale cominciata da alcuni anni e rappresentava l’atto conclusivo della “grande marcia su Washington”. I have a dream; così lo abbiamo scritto nei temi di attualità, letto nelle pagine dei nostri testi di storia quando anda- 6 vamo al liceo. Eppure, non tutti sanno che quel discorso imbevuto di pacifica armonia inizia con le parole “Oggi sono felice”. Cos’è successo da allora ad oggi? Di fronte alla cronaca contemporanea è ancora lecito chiedersi se la parità dei diritti, senza distinzioni legate al sesso Associazione Universitaria per la Cooperazione Internazionale e alla razza, è stata realmente raggiunta. inneggiava all’odio nei confronti dei siamo tutti uguali, pongono il drammaIl cammino che porta a questo traguar- bianchi. E poi ci sono i quotidiani episo- tico interrogativo del perché si verifichido è stato lungo e tortuoso e non sempre di di razzismo, diffusi e spettacolarizzati no ancora questi fatti. è bastato mettere questo obiettivo nero dai moderni mezzi di comunicazione di “Adesso é il momento di sollevare la su bianco apponendo un nostra nazione dalle sigillo che lo rendesse sabbie mobili dell’inI turbini della rivolta continueranno a scuotere legge. giustizia razziale per le fondamenta della nostra nazione finchè non Il lieto fine di questa collocarla sulla roccia storia, realizzatosi nel compatta della fraterspunterà il giorno luminoso della giustizia. 1964 con l’approvanità”, proclamava con Il 1963 non è una fine, è un principio zione del Civil Rights forza Martin Luther Act e nel 1965 con il King, inneggiando Voting Rights Act, è solo un punto di massa. Uno degli ultimi casi, verificatosi a quella giustizia che avrebbe voluto partenza. Nella realtà dei fatti, esiste negli Stati Uniti, vede protagonista una diventasse una realtà concreta, non solo un mondo sommerso che conosciamo bambina in triciclo picchiata, insultata immaginata e teorizzata, per tutti i figli solo parzialmente come, ad esempio, e umiliata da due bambine di colore, di Dio. Partiva dalla giustizia sociale, gli esperimenti anti-etici del Tuskegee filmate e incoraggiate dal loro fratello ovvero di un’equa ripartizione dei beni Syphilis Study, quando 600 braccianti maggiore per pubblicare su Facebook che abolisse ogni forma di sfruttamento; afro-americani furono impiegati come quest’atto tristissimo in cui bullismo e raggiunto questo obiettivo, il concetto si cavie per “studiare” il decorso naturale razzismo si fondono. Il titolo del video, sarebbe dovuto estendere anche a tutti della sifilide non trattata, nonostante la «Quando i bianchi fanno incavolare i gli altri ambiti, in primis quello dell’imscoperta della penicillina e l’istituzione neri», era di chiara matrice razzista e ha parzialità nell’emissione di un verdetto del Codice di Norimberga. suscitato lo sdegno di oltre duecentomi- di innocenza o colpevolezza. Ad oggi, I colori più oscuri del razzismo si sono la visitatori. negli Stati Uniti il sistema giudiziario palesati dietro i volti coperti dai cap- Abbiamo visto con i nostri occhi quanto continua ad essere considerato antipapucci del Ku Klux Klan che, giunto il tempo possa cambiare le cose, special- ritario e razzista dagli afro-americani, oggi alla sua terza ondata, continua a mente quando incontra sulla sua strada secondo i quali la pena di morte è premietere vittime in nome della superio- uomini capaci di modificare il corso valentemente comminata ai maschi di rità della razza bianca; o nella ricosti- della storia. La logica della non violenza, colore che già portano sulle loro spalle tuzione dei neonazismi sociali e politici, la razionalità di chi mette in discussione il peso dell’emarginazione, dell’alcolidove la paura dell’“immigrato venuto il pregiudizio, la certezza che al mondo smo e della malattia mentale. Due pesi per rubare lavoro” sfocia in slogan che raccolgono consensi di massa soprattutto in casi drammatici, come quello greco di Alba Dorata o quello ungherese di Jobbik. Ma i volti della xenofobia non seguono solo una direzione. Sul versante opposto il “sentimento antibianco” nasce e si sviluppa in paesi assetati di vendetta per lo strapotere lasciato in eredità da vecchi coloni inglesi o francesi nelle terre dell’Africa: basti pensare ai più di 2500 attacchi subiti dagli agricoltori sudafricani al termine dell’era dell’Apartheid; o alla confisca delle terre ai proprietari terrieri bianchi dello Zimbabwe effettuata da parte di bande armate, mentre il presidente Mugabe www.auci.org ● [email protected] 7 UBUNTU UBUNTU e due misure, se si considerano i dati statistici: sebbene i neri costituiscano circa il 12% della popolazione americana, più del 40% dei condannati a morte sono di colore; inoltre, la probabilità che sia condannato a morte un nero macchiatosi dell’omicidio di un bianco è molto più alta rispetto all’inverso. Tale affermazione è confermata da dati che evidenziano una chiara disparità di trattamento: dal 1977 ad oggi, l’85% dei condannati a morte che sono stati giustiziati era riconosciuto colpevole di omicidio verso un bianco, nonostante il fatto che neri e bianchi siano vittime di omicidi in ugual misura. Il 28 Agosto del 1963, un uomo era consapevole di tutto ciò mentre da un palco dico: anche se dobbiamo affrontare le difficoltà di oggi e di domani, io continuo ad avere un sogno. E’ un sogno che ha radici profonde nel sogno americano. Ho un sogno, che un giorno questa nazione sorgerà e vivrà il significato vero del suo credo: noi riteniamo queste verità evidenti di per sé, che tutti gli uomini sono creati uguali. Ho un sogno, che un giorno sulle rosse montagne della Georgia i figli degli ex schiavi e i figli degli ex padroni di schiavi potranno sedersi insieme alla tavola della fraternità. Ho un sogno, che un giorno perfino lo stato del Mississipi, dove si patisce il caldo afoso dell’ingiustizia, il caldo afoso dell’oppressione, si trasformerà in un’oasi di libertà e di ature la vedranno insieme”. Martin Luther King morirà assassinato per la stessa causa per cui si era battuto. Quanti altri uomini dovranno continuare a morire dopo di lui? Gli scontri tra le gang di quartiere, il rifiorire di un sentimento xenofobo nei luoghi dove l’immigrato venuto a cercare fortuna tenta di integrarsi, le inique condanne a morte nei paesi civilizzati, il sentimento antibianco diffusosi in alcuni stati africani, sono uno spettro che, continuando a sopravvivere tra le popolazioni, ne testimonia l’arretratezza mentale. Il discorso di King è di fatto una preghiera che si leva con forza sulle teste dei cittadini del mondo intero, trasformandosi in uno dei più begli inni alla libertà gridava al mondo intero: “I turbini della rivolta continueranno a scuotere le fondamenta della nostra nazione finché non spunterà il giorno luminoso della giustizia (…) Il 1963 non é una fine, é un principio”. Martin Luther King era un uomo lungimirante e sapeva che il mondo sarebbe potuto cambiare e aprirsi uscendo dal provincialismo del pregiudizio e della chiusura mentale. Ai suoi fratelli diceva: “Tornate nel Mississipi, tornate nell’Alabama, tornate nella Carolina del Sud, tornate in Georgia, tornate in Louisiana, tornate alle baraccopoli e ai ghetti delle nostre città del Nord, sapendo che in qualche modo questa situazione può cambiare e cambierà”. E qualche istante dopo entrava nel vivo pronunciando le fatidiche parole che sarebbero rimaste impresse per sempre nella storia, insieme al suo nome: “Oggi, amici miei, vi giustizia. Ho un sogno, che i miei quattro bambini un giorno vivranno in una nazione in cui non saranno giudicati per il colore della pelle, ma per l’essenza della loro personalità. Oggi ho un sogno. Ho un sogno, che un giorno, laggiù nell’Alabama, dove i razzisti sono più che mai accaniti, dove il governatore non parla d’altro che di potere, di compromesso interlocutorio e di annullamento delle leggi federali, un giorno, proprio là nell’Alabama, i bambini neri e le bambine nere potranno prendere per mano bambini bianchi e bambine bianche, come fratelli e sorelle. Oggi ho un sogno. Ho un sogno, che un giorno ogni valle sarà innalzata, ogni monte e ogni collina saranno abbassati, i luoghi scoscesi diventeranno piani, e i luoghi tortuosi diventeranno diritti, e la gloria del Signore sarà rivelata, e tutte le cre- che siano mai stati scritti. E rimane per sempre. Che altro servirà ancora per scuotere la coscienza dell’uomo contemporaneo? Quando si fermeranno le spirali di violenza che residuano da antichi odi razziali? Si può mettere fine alla vita di un uomo con la sua morte, tuttavia le sue idee continueranno a sopravvivere lo stesso. Anzi, risuoneranno con un volume ancora più alto e un’estensione ancora più grande. Il cambiamento non è un’utopia, è una disposizione mentale che deve declinarsi nella logica del dialogo e dell’apertura. Per cambiare le cose occorre solo ascoltarsi reciprocamente, capirsi, e poi ripetersi sempre la stessa domanda: “Cos’ha quel fratello di diverso da me oltre al colore della pelle?” La domanda è retorica e conosce una sola risposta: NIENTE. 8 Associazione Universitaria per la Cooperazione Internazionale Evangelii Gaudium di Paolo Acanfora* Se si potesse consigliare un testo alle classi dirigenti (di tutti i campi) impegnate a gestire oggi la realtà europea ed internazionale, questo dovrebbe essere senza dubbio l’esortazione apostolica Evangelii Gaudium di Papa Francesco (2013). In modo particolare, l’attenzione dovrebbe concentrarsi sul capitolo quarto, dedicato alla “dimensione sociale dell’evangelizzazione”. Lo si legga senza i vecchi timori di imperialismo religioso, senza remore e pregiudizi ideologici, e si scoprirà un testo umile, intelligente, aperto, fattivo, privo di prosopopea e di perentorietà unilaterale. Il fondamentale assunto di partenza è che «il kerygma possiede un contenuto ineludibilmente sociale». Questo contenuto va però continuamente sviscerato perché non è un dato statico ma segue inevitabilmente il corso della storia. Colpisce, a questo proposito, l’affermazione di Papa Bergoglio sulla natura del documento: l’Evangelii Gaudium non può essere inteso come un documento sociale, perché né la Chiesa né il Papa hanno il «monopolio dell’interpretazione della realtà sociale o della proposta di soluzione dei problemi contemporanei». Quale sarebbe, allora, il significato di questa nuova esortazione apostolica? La risposta è nella funzione fondamentalmente riconosciuta a tutta la dottrina sociale cattolica, la quale ha il compito di orientare «un’azione trasformatrice» della realtà, non in modo solipsistico ma congiuntamente all’azione delle altre chiese. Perché, come viene esplicitamente dichiarato nel paragrafo 183, «una fede autentica implica sempre un profondo desiderio di cambiare il mondo». Il grande tema della “trasformazione” della realtà, della costruzione di un ordine nuovo, è largamente presente nella tradizione della cultura sociale cattolica ed è, naturalmente, legato alla stessa concezione paolina dell’«uomo nuovo». Nel secondo dopoguerra – solamente per citare un contesto storico contemporaneo – i richiami ad una rinnovata civiltà cristiana, alla costruzione di un nuovo ordine nazionale ed internazionale cristianamente ispirato, sino ad arrivare a formulazioni quale quella di mons. Adriano Bernareggi della realizzazione www.auci.org ● [email protected] del “nuovo uomo nuovo”, erano all’ordine del giorno. Le tragedie delle due guerre mondiali e la drammatica sfida lanciata dai totalitarismi avevano alimentato la convinzione che un mondo fosse finito, che un’epoca fosse chiusa e che occorresse costruire il “mondo nuovo”. Orientare un’azione trasformatrice implica oggi cose molto diverse dal 1945, ma l’insistenza sul tema da parte di Papa Francesco sembra voler alludere all’urgenza di ripensare un ruolo attivo, incisivo per la definizione di nuove 9 strutture sociali. Il contributo della Chiesa cattolica è indicato sostanzialmente in due direzioni: l’inclusione dei poveri; la ricerca incessante della pace e del dialogo. Due temi che potrebbero rischiare di alimentare ulteriormente il carico di retorica nel discorso pubblico ma che, invece, vengono affrontati con intelligenza e notevole senso pratico. Certamente la parola chiave è – e non potrebbe essere altrimenti – “solidarietà”. Parola spesso vuota, evocata stancamente, impropriamente, con opportunismo ma UBUNTU UBUNTU La solidarietà è uno stile di costruzione della storia, un ambito vitale, dove i conflitti, le tensioni e gli opposti possono raggiungere una pluriforme unità che genera nuova vita. che viene qui recuperata nel suo senso intimo, come un termine che «indica molto più di qualche atto sporadico» e che, ancora una volta, «richiede di creare una nuova mentalità che pensi in termini di comunità». Da ciò consegue anche il recupero di alcune idee ed espressioni ormai scomparse dal lessico politico, come, ad esempio, la «funzione sociale della proprietà» e la «destinazione universale dei beni» da intendersi come «realtà anteriori alla proprietà privata». Non si tratta ovviamente di vagiti tardorivoluzionari ma di implicite deduzioni derivanti dalla posizione assunta dalla Chiesa di Papa Francesco di fronte a quel che viene definito il «paganesimo individualista»: l’«opzione per gli ultimi». Tale opzione per i poveri, viene chiarito, rappresenta per la Chiesa «una categoria teologica prima che culturale, sociologica, politica o filosofica». Una categoria teologica perché nel povero vi è non solo l’immagine riflessa ma la reale conoscenza del “Cristo sofferente”. È per questo che è la Chiesa stessa a dover imparare, apprendere o, se vogliamo, a lasciarsi evangelizzare dai poveri. Anche qui non vi è alcuna banalità nell’affermazione presentata nel paragrafo 200 secondo la quale «la peggior discriminazione di cui soffrono i poveri è la mancanza di attenzione spirituale». È un’espressione invece dal sapore rivoluzionario per la prassi dei fedeli e degli ecclesiastici. Il discorso è tanto più pregnante se si considera che lo sviluppo che ne fa la Evangelii Gaudium arriva a toccare le radici più profonde dell’organizzazione riferimento esclusivo ad una dimensione identitaria chiusa, angusta, asfittica, impermeabile e indisponibile al dialogo. L’atteggiamento del cristiano deve invece essere rivolto all’integrazione, alla ricerca continua di un confronto solidamente strutturato, che non sia cioè rivolto all’autoaffermazione di sé ma sia disponibile ad acquisire nuovi elementi – ed ovviamente a fornirli – nell’ottica della creazione di nuove sintesi culturali. Fondamentale, in questa ottica, è il chiaro rifiuto di qualsiasi approccio irenista da parte di Papa Francesco. Non si tratta, sottolineatura di grandissimo interesse, l’accento è posto sulla dinamicità della storia, sul suo essere un processo continuamente in fieri. All’interno di questa cornice, la solidarietà diventa allora «uno stile di costruzione della storia, un ambito vitale, dove i conflitti, le tensioni e gli opposti possono raggiungere una pluriforme unità che genera nuova vita». Non un sincretismo ma uno stadio ulteriore, nuovo, che contenga in sé le «potenzialità della pluralità in contrasto». L’evidente richiamo allo schema idealistico viene però misurato e contenuto da una considerazione ritenuta basilare e che attesta la dimensione pragmatica dell’impegno cristiano nella società: nella tensione bipolare tra idea e realtà, vi è un’indiscutibile superiorità di quest’ultima. Le idee servono a comprendere e a dirigere ma è il “criterio di realtà” a consentire di evitare i formalismi, «i purismi angelicati», ma la gente. Perché è di un patto sociale e culturale che si tratta. La questione viene esplicitata chiaramente quando si richiama la ragione profonda del dialogo – definito un dovere per il cristiano – che è da intendersi come «un impegno etico che crea nuove condizioni sociali». Per poter raggiungere obiettivi così ambiziosi vi sono molte condizioni da dover soddisfare. Colpisce, tra queste, il richiamo ad una in particolare: la formazione degli interlocutori. Il riferimento è rivolto al dialogo con l’Islam ma può, a buon diritto, ritenersi un principio generale. Non si può ottenere nessun risultato in un dialogo portato avanti da parti che non conoscono il soggetto con cui si relazionano. Questa insistenza sulla formazione degli “operatori” del dialogo è uno dei tratti più significativi dei paragrafi dedicati all’ecumenismo e al dialogo interreligioso ed è fortemente connesso al grande infatti, di invocare retoricamente la pace sociale, l’armonia tra le parti rifiutandosi di vedere le violente contraddizioni della realtà. Semmai, occorre adoperarsi concretamente per individuare dei percorsi di costruzione quotidiana della pace, riconoscendo le ragioni e la natura dei conflitti esistenti e aprendo la via ad un possibile processo di superamento. Ancora una volta però, ed è una «i fondamentalismi antistorici». È, in altri termini, la superiorità della “Parola incarnata”. Anche qui la lettura non è sul piano di una confessionalità autoreferenziale. Tutt’altro. L’obiettivo è invece di fondare correttamente la dimensione dialogica propria del cristiano, di definire un ecumenismo che non riguardi le élite culturali, politiche, economiche, religiose tema dell’identità. Per evitare chiusure ed irrigidimenti reciproci l’unica strada possibile è la conoscenza di sé e degli altri e la disponibilità ad apprendere, a mutare, a ricercare punti di contatto, senza rinunciare alla propria identità ma in un’ottica inclusiva, di disponibilità ad arricchirla. di costruire un diverso approccio alla realtà: «sono convinto che a partire da un’apertura alla trascendenza potrebbe formarsi una nuova mentalità politica ed economica che aiuterebbe a superare L’opzione per i poveri rappresenta, per la Chiesa, una categoria teologica prima che culturale, sociologica, politica o filosofica sociale. Affrontare il grande tema della povertà significa infatti non affidarsi semplicemente al piano assistenziale ma aggredire il problema alle sue fondamenta, da un punto di vista dunque strutturale; significa andare alle cause originarie dell’iniquità (definita «la radice di tutti i mali»). In questa direzione, “persona umana” e “bene comune” dovrebbero essere al centro di qualsiasi idea, concezione o modello economico, mentre ne sono, nella migliore delle ipotesi, una semplice appendice. Un ruolo cruciale dovrebbe spettare, in questa cornice, alla politica e alle sue classi dirigenti. Dopo aver ripreso, senza direttamente citarla, la tesi montiniana della politica come “la più alta forma di carità”, Papa Bergoglio sottolinea l’esigenza per la classe dirigente di ampliare i propri orizzonti, di dotare di senso la propria azione, ispirandosi magari a Dio per la realizzazione dei propri piani. Un richiamo che gli serve per sottolineare nuovamente l’urgenza 10 la dicotomia assoluta tra l’economia e il bene comune sociale». È un discorso che è rivolto innanzitutto ai cristiani e alla Chiesa cattolica. L’impegno deve essere, su questo piano, senza riserve e decisamente più congruo alla propria missione. Il monito non è finalizzato tanto ad un moralistico rimprovero sulle mancanze, sulle incongruità o le scarse applicazioni del recente o lontano passato quanto piuttosto ad un invito, ancora una volta, a superare e a liberarsi da certi schemi cognitivi: «mi interessa unicamente fare in modo che quelli che sono schiavi di una mentalità individualista, indifferente ed egoista, possano liberarsi da quelle indegne catene e raggiungano uno stile di vita e di pensiero più umano, più nobile, più fecondo, che dia dignità al loro passaggio su questa terra». Il cambiamento di mentalità, così ripetutamente evocato, non riguarda solo l’aspetto individualista ma anche quello localistico, inteso nel senso di un Associazione Universitaria per la Cooperazione Internazionale www.auci.org ● [email protected] 11 *Politologo e Storico UBUNTU UBUNTU brutture che stridono e contraddicono un miraggio. Il deserto è protagonista, i è disarmante, ricorda la stessa determinalo straordinari0 spettacolo della natura. tre giovani ne vengono inghiottiti, affoga- zione del protagonista di Welcome intenQueste subito emergono nelle scene suc- no nel Ténéré e sbagliano direzione; qui zionato ad attraversare a nuoto la Manica. cessive, dove vengono presentati i pro- Oliveras ottiene la maggior resa scenica Dalle tribù nomadi dei Tuareg, che non tagonisti della storia: Violeta (Aminata e fotografica, emerge la sua esperienza da riconoscono altro confine oltre le dune Kanta), una ragazzina del Mali, che fugge documentarista e la pellicola trasmette sempre mobili del Ténéré, i protagonisti da una famiglia che vuole svenderla, in sensazioni reali: il sole diventa famelico e raggiungono i posti di blocco dei militari cambio di qualche mucca, ad un vecchio asfissiante, l’aridità del deserto entra nella alla frontiera tra Algeria e Marocco, dove da cui subì molestie già da bambina; Buba gola, la luce diventa abbagliante e il sen- vengono sballottati avanti e indietro come (Adoum Moussa) con l’inarrestabile so- so di smarrimento sopraffà lo spettatore pacchi postali tra nazioni accomunate dal gno nel cassetto di diventare un calciato- così come i tre giovani naufraghi africani. fatto di non volere questi disperati. Qui re famoso ma che si guadagna da vivere Il viaggio diventa odissea, la speranza di- Olivares “gioca” con il concetto della fronfacendo il meccanico in Niger; e Mukela sperazione e il sogno incubo. L’incontro tiera: naturale, artificiale, inadeguata, as(Mahmadam Alzouma, unico attore con con un gruppo di Tuareg evita il naufra- surda, a volte solo soggettiva in base alla un’esperienza precedente, in La gran gio e diventerà un’ancora di salvezza, ma volontà o meno dei gendarmi, ma fondafinal), suo fratello e fan a tempo pieno. non solo: i nomadi del deserto hanno nel mentalmente una barriera che esclude. Tutti e tre coltivano un’idea: abbandonare film una funzione essenziale, una sorta di Gli ultimi 14 kilometros si avvicinano, l’Africa e realizzare i proquesta distanza diviene un pri desideri in Europa. ostacolo invalicabile, reale Continueranno a vivere e a morire, perchè Violeta e i due ragazzi e metaforico insieme, su la storia ha dimostrato che non c’è muro si incontrano durante il cui si infrange la disperata capace di contenere i sogni viaggio verso il Marocco corsa verso il desiderio di e condividono la meta una possibile alternativa dello stretto di Gibilterra, quei 14 chilo- Virgilio nell’inferno dantesco; la voce del- di vita. Il regista si e ci chiede: esistono metri che separano l’Africa dall’Europa, la coscienza profonda dell’Africa. I collo- forse mura capaci di contenere i sogni? … che rappresentano anche la barriera che qui tra i giovani migranti e i Tuareg pro- Continueranno a vivere e a morire, perdivide i sogni di milioni di africani che pongono delle riflessioni importanti, che ché la storia ha dimostrato che non c’è vengono in Occidente per scappare dal- meritano ulteriori approfondimenti, vista muro capace di contenere i sogni, così la fame e dalla miseria. Ma non saranno la drammatica attualità: è giusto che mi- risponde lo stesso Olivares, prendendo in solo 14 kilometros; questa breve distan- gliaia e migliaia di giovani africani abban- prestito una frase della scrittrice spagnola za non deve ingannare, rappresenta sol- donino il proprio paese, vendendo tutto, Rosa Montero e ponendola a chiusura del tanto l’ultimo ostacolo di un viaggio che indebitando le famiglie, mettendo il de- suo lavoro come citazione prima dei titoli può iniziare chissà quanto tempo prima, naro in mano a dei delinquenti, piuttosto di coda, lasciando aperta in tutti noi la rianche anni, e terminare dopo migliaia di che provare a investire sforzi e soldi nel flessione. chilometri impiegati ad attraversare le na- proprio continente? Le parole dei Tuareg: zioni e le loro barriere naturali e artificiali. “L’emigrazione sta dissanguando l’Africa” Dunque, non sono solo pochi chilometri rimbombano nella testa dello spettatore. (*) Insegnante di italiano, storia e geograd’acqua a dividere Violeta, Buba e Muke- Le ferite del continente africano riman- fia presso il CPT di Omegna. Vice-sindaco la dalla felicità, ma un oceano di sabbia, gono il grande sfondo, mentre il viaggio e assessore all’istruzione e ai servizi sociail Sahara, e quei 14 chilometri diventano prosegue; la tenacia dei giovani migranti li del Comune di Omegna (VB) Non Solo 14 Kilometri di Christian Scatamacchia (*) Negli ultimi anni sono stati molti i registi che hanno affrontato il tema dell’immigrazione in Europa; solo per citarne alcuni tra i più significativi e premiati si potrebbero ricordare: Welcome di Philippe Lioret, Miracolo a Le Havre di Aki Kaurismäki, Cose di questo mondo di Michael Winterbottom, Terraferma di Emanuele Crialese. Oltre a questi film più noti, nelle ultime settimane, durante le quali gli sbarchi di immigrati sulle coste del Sud Italia sono aumentati considerevolmente, ritornano di forte attualità altri lungometraggi meno famosi, ma dal grande richiamo sociale. Tra questi sicuramente vi è 14 Kilometros: secondo film del regista spagnolo Gerardo Olivares, vincitore della “Spiga d’oro” al festival castigliano di Valladolid, ospitato da diverse rassegne cinematografiche di rilievo come quelle di Edimburgo, Rio de Janeiro, Il Cairo, ed uscito per la prima volta nelle sale italiane nel lontano 2007. Si tratta di una bella conferma del cineasta di Cordoba dopo il primo film La gran final (2006), che lo ha reso celebre e dal quale ricalca, per alcuni versi, medesime tematiche, ambientazioni e l’occhio indagatore del documentarista, portando la telecamera in aree geografiche (Mongolia, Amazzonia, Sahara), che difficilmente trovano spazio sul grande schermo. La gran final narra l’avventura di tre persone che sono decise a trovare il modo per guardare in televisione la finale dei campionati mondiali del 2002 tra Germania e Brasile. A differenza di questo primo film, 14 Kilometros ha una maggiore tensione moraledrammatica, e le finalità dei protagonisti sono sicuramente più profonde: avere un futuro migliore e coltivare i propri sogni in Europa. È un film di emigrazione diverso dagli altri, che narrano l’arrivo dei migranti e le loro difficoltà a inserirsi nei paesi europei: 14 Kilometros, invece, rac- 12 conta la partenza (i motivi per cui emigrare) e gli enormi rischi e angosce durante il viaggio, in sostanza tutto ciò che avviene prima dello sbarco sulle coste europee, tralasciando ciò che avviene dopo. L’Europa diviene marginale ed è solo un riflesso nei sogni dei migranti, al regista non interessa metterla a fuoco: è l’Africa che interessa ad Olivares, con le sue contraddizioni e la sua disperazione. È un film necessario, con una grande valenza didattica, in cui emergono e si contrastano amarezza e speranza. Girato con pochi mezzi, in un certo stile documentaristico, possiede realismo poetico e delicatezza, aiutato anche da una efficace colonna sonora. Il film viene aperto da una vivida fotografia: le prime immagini ci mostrano l’emozionante fiume Niger al tramonto, in controluce, con le piroghe e i suoi pescatori, la grande bellezza africana che però, come nel film di Sorrentino, nasconde grandi Associazione Universitaria per la Cooperazione Internazionale www.auci.org ● [email protected] 13 UBUNTU UBUNTU Pensare sognando quando ti avrò trovato… Hai paura che voglia ucciderti? Strozzarti, sì, forse. Strozzarti o baciarti, lo capirò in quel momento. Premerò i pollici sulla tua gola per farti uscire qualche parola, anche una sola, purché sia vera. E se uscirà, la coglierò con le labbra, mentre fugge via dalla tua anima d’acqua opaca. Le mie dita tozze da pescatore di morti sembrano fatte apposta per strozzare, non pensi? Sono nate per fare del male a qualcuno, non è questo che pensi? Dillo, se lo pensi! Dillo, smetti di nasconderti, di mentire! Dillo, dillo, dillo… Oh, no, mi scusi, io non volevo metterle le mani addosso, io… com’è che si dice? L’Autunno di Prospero di Emanuele Bucci Sono Prospero, e aspetto l’inverno. Aspetto di affondare nella sua pelle bianca, fredda e luminosa. Non chiedo altro, da quando ho perduto la mia isola. Ora l’autunno è grigio e spesso, e pare eterno. Uomini e donne soli, a pochi passi da me, vagano in attesa di primavere e di estati che non possono arrivare. Mi piacerebbe regalargli un po’ di quelle primavere e di quelle estati, prima che venga il mio inverno. Un tempo avrei potuto, forse. Un tempo sapevo baciare il vento sulla bocca e dare ordini alle nuvole e modellavo la terra come farina. La chiamavo magia. L’avevo usata per creare la mia isola, il mio rifugio dall’odio arrugginito del mondo. Avevo creato labirinti di alberi in cui perdersi era dolce, e sentieri di musica per ritrovare la strada. Ma non ero ancora felice, circondato da un muro gelido, salato e immenso, che mi separava dai sogni degli altri. Volevo abbattere quel muro, volevo abbattere tutti i muri. Doveva essere il mio ultimo incantesimo, il più grande. Volevo sgretolare le fortezze di parole, sangue e incubi che dividono le persone, volevo che la sabbia di cristallo della mia isola sciogliesse la superbia dorata dei tiranni e asciugasse il pianto acido dei miseri. Ma ho fallito. Ora sono qui, perso nella reggia dell’autunno, con altri cortigiani confusi, i loro canti rimbalzano stonati sui muri invisibili che li separano dagli altri e da me. Con tutta la mia magia, non sono riuscito a violare quei muri. Non ci riuscirò adesso, che non so più nemmeno sognare la mia isola, adesso che so solo aspettare la pace pura e silenziosa dell’inverno. Se potessi ascoltare le loro anime, come sapevo ascoltare i capricci del vento, potrei fare qualcosa per loro, potrei aiutarli. Ma non sento nulla. Immagino, piuttosto. Immagino voci rotte che scivolano via… Dove sei? Perché sei fuggita da me? Ti faccio tanta paura? Quanti uomini con la pelle scura hai già visto? O forse temi che ti voglia fare schiava, rinchiusa in una gabbia di stoffa, animale raro nel giardino di un padrone geloso? Ma io sono come te, certe vecchie tradizioni le ho date in pasto alla sabbia. Voglio imparare e costruire e immaginare e voglio farlo con te. Potevi dirmelo subito che ti facevo paura, quando ti ho sfiorato con le mie dita tozze e consumate, da pescatore di cadaveri. Sapessi quanti ne ho visti di corpi morti, prima di arrivare a te. Impiccati, fucilati, annegati. Nella mia terra, e nel mare infernale che ho attraversato. Credevo che non avrei più pensato ai morti, quando ti ho vista. Eri pallida e silenziosa, ragazza madre di mille figli, dama contesa da pretendenti di ogni luogo. Sentivo i tuoi respiri morbidi e profondi, ogni volta che i remi delle gondole carezzavano le guance d’acqua dei tuoi canali. Ho assaporato le isole di palazzi, chiese e storie che sorgevano dal tuo cuore salato, le ho accolte come tu avevi accolto me. Poi mi hai tradito. Mi hai dato in pasto ai tuoi figli più rumorosi e ignoranti. Mi hanno portato via urlando, con quell’accento che non riuscirò mai a imparare, che non mi hai mai voluto insegnare. Ora sono qui e non ti vedo più, ma ti troverò, perché non amo più nessun’altra, nemmeno chi mi ha generato, come amo te, la tua bellezza antica e la tua crudeltà infantile. E Vorrei un ruscello d’acqua dove cantare fino alla morte, se non è troppo. Sono una donna di fango nella sua torretta di pietra, non mi fanno sporgere dalla finestra, dicono che potrei farmi del male. Terra da sempre, fango da quando mi hanno sporcata. Terra che nutre, che genera. Mi hanno insegnato a essere questo. Terra delimitata da mura alte e profonde, i confini di ciò che posso e devo fare, pronta per nutrire e generare la stirpe di un visitatore. Pronta per te. Ti sei chinato per baciarmi, mi hai nutrito con una promessa, hai mangiato i miei frutti, ma poi sei andato via. Mi hai lasciato le bucce di un sogno. Per quanto amiate la terra, la calpestate sempre. Perché dovete muovervi, crescere, possedere, e la terra deve restare ferma sotto di voi, o cambiare, ma solo quando lo decidete voi. Credete che la terra non si muova, senza di voi? Credi che io abbia bisogno di te? No, mi serve solo un po’ d’acqua. Qui però non ce n’è. Non piove mai, qui dentro. Una torretta di pietra dove l’aria non odora di nulla, dove sbarre trasparenti lasciano passare solo i riflessi morti del sole, e la luce in alto è finta e non scalda. E l’acqua non c’è. Solo a piccole dosi, per bere, per pulirsi, ma non si può pulire il fango. Anche la tua promessa era d’acqua, informe, fresca e limpida, e rimandava i colori di giorni semplici e ignari, di alberi e fiori che sarebbero cresciuti da quei giorni. Invece sei andato via, e la promessa d’acqua è servita solo a trasformare la terra morbida e nuda in fango. Ma io non ho bisogno di te, e se qui dentro piovesse, anche dal fango nascerebbero meraviglie che tu non sapresti capire, né immaginare. Meraviglie più vive e più forti dei tuoi passi da gorilla sonnambulo, una foresta di meraviglie soltanto mie. Il mio canto di foglie, di petali e d’acqua, un canto eterno dove morire in pace. Ma qui dentro non piove mai. Posso solo stendermi, su questa cosa liscia e fredda e dura che non è terra, e chiedere al cielo grigio e alla luce finta di far scendere un po’ d’acqua. Chiederlo come si chiederebbe un sorso di vita nel deserto: urlando. Urlando mentre quelli come te camminano, guardano, calpestano. Dentro, lassù, nella mischia, sul palco, nella lotta che continua, nel gioco che si ripete. Con una bella capriola. Risate, applausi del pubblico. Sono il re, lo sapete? Risate, applausi del pubblico. No, dico davvero. Il popolo non mi ha voluto, Dio non mi ha graziato, ma sono re. Ciò che non avevo, l’ho conquistato. Il trono di legno marcio, il mantello di sangue, la corona rubata. Sì, l’ho rubata. Per non rischiare, al proprietario ho preso anche la testa. Non è difficile come sembra staccare una testa, anche quella di un re. Risate, applausi del pubblico. Perché ridete? Erigerò confini di fuoco e muraglie di ossa sulla terra per segnare ciò che è mio, ingrasserò ingoiando sudditi e cenere, i miei capricci armeranno gli eserciti. Posso farlo, perché sono il re. Anche se non trovo più il mio trono, il mio mantello, la mia corona. Mi avete vestito come un buffone, servi infedeli, fantasmi ubriachi e invidiosi. Mi avete ingannato, sollevato e portato via dal trono, ma resto comunque il re. Risate, applausi del pubblico. Anche mia moglie è lì con voi, che ride? Anche lei non mi ha mai preso sul serio. Ma come ha voluto che diventassi re, per ripararsi sotto il mio mantello! Risate, applausi del pubblico. Lo so che non so fare il re, non ho mai saputo fare nulla. Mi parlavano, e non ascoltavo. Mi aggredivano, e non reagivo. Leggevo, e non immaginavo nulla. Pensavo, e non capivo. Amavo, e facevo del male. Salivo sul trono, e sprofondavo giù, nel pozzo di cadaveri e rifiuti. Risate, applausi del 14 Associazione Universitaria per la Cooperazione Internazionale www.auci.org ● [email protected] pubblico. Allora forse una cosa la so fare. Se vi faccio ridere tanto… Non sono il re, sono il buffone, il giullare che salta e tira fuori la lingua e cade e si prende una sberla e combina guai e tutti ridono. Sì, sì però… perché vestito così? Non mi piacciono i vestiti che mi avete dato, farò ridere di più senza questi stracci, col mio corpo bianchiccio e un po’ flaccido, guardate! Il re giullare nudo davanti a voi, che c’è di più buffo? E ora invece non ridete più, gridate e mi portate via, ora che sono nudo… Ma perché? Non ditemi che adesso vi faccio paura! Sono Prospero, e aspetto l’inverno. Se mi avessero fatto di parole in un libro forse la mia magia avrebbe vinto. Avrei davvero potuto oscurare il sole a mezzogiorno, sollevare le acque verso il cielo e frantumare le barriere tra gli uomini. Ma io sono fatto di carne, e i prodigi erano sogni condannati a svanire. Ciò che resta del mio corpo è raggrinzito e stanco, seduto su una sedia con rotelle grandi e piccole, posso girarle avanti e indietro ma resto sempre fermo. Non arrivo mai alla fine, a quell’inverno che aspetto più di ogni cosa. Nell’inverno c’è la vera magia, c’è il bagliore di un sole nudo su un letto di neve, così intenso da lavare le paure degli occhi, i contorni e le distanze tra le forme. Intanto altri destini di carne mi girano intorno, e non capiscono, non si capiscono, non li capisco io. Aspettano con me nella reggia dell’autunno, circondati dai loro muri. Ho cercato di ascoltarli, ho potuto solo immaginarli. Ma ho trovato per loro un piccolo pezzo di estate, se sapranno coglierlo. E’ tutto ciò che sono in grado di offrirgli, mentre mi consumo. Gocce d’acqua salate che scendono lente tra le rughe. Due lacrime di un’estate che non c’è più… “Giornata difficile, Direttore: il paziente 1603 ha tentato di strozzare un’infermiera, il 1602 si è sdraiata a terra e si è messa a urlare, il 1605 si è spogliato davanti a tutti… Ah, e il 1611 non la smette di piangere da ore”. 15 Campagna Nazionale Una sola famiglia umana, cibo per tutti: e compito nostro 9 OTTOBRE 2014 17-18 AULA 716, VII piano Policlinico A. Gemelli Nutrire un Pianeta con 800 Milioni di Affamati (Tatiana Abbonizio, Agata Battaglia; Master in Alimentazione per il Benessere e la Salute) 10 OTTOBRE 2014 16-18 Biblioteca Casa del Parco Via Pineta Sacchetti 68 Nutrirsi Bene per Nutrire Tutti (Silvia Aquili, Paola Iobbi) 17 OTTOBRE 2014 19-20 Parrocchia di S. Filippo Neri Via Martino V 28 Cibo per Tutti: dipende da noi (Tatiana Abbonizio, Paola Iobbi) 10 - 18 OTTOBRE 2014 Settimana di Informazione sulla Corretta Alimentazione Nutrirsi Bene per Nutrire Tutti IV piano Policlinico A. Gemelli DESTINA IL TUO 5 PER MILLE ALL’AUCI Nella tua dichiarazione dei redditi (modello 730, CUD, UNICO), nel riquadro “Sostegno delle organizzazioni non lucrative di utilità sociale...”, firma e indica il codice fiscale dell’ AUCI: 80415960584
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