Numero 23 – maggio – agosto 2014

UBUNTU
Poste Italiane S.p.a. - Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 2 e 3, Roma Aut. N. 6/2008
anno 8 • n. 23
maggio - agosto 2014
..
o.
n
o
d
i
v
i
d
i
ec
h
c
i
r
u
m
i
utt’uno
t
n
u
e
m
iverso co cui la grande
n
u
’
l
e
r
e
d
tà e in
i
emo a ve
l
r
a
i
t
capire
c
o
s
t
a
u
i
a
r
l
o
e
e
m
s
t
e
t
solo
omincer
rte rifle
c
a
,
p
à
t
i
i
n
s
g
r
o
in cui
sua dive
a
l
l
e
n
a
t
s
bellezza
stiamo
e
v
o
d
e
o
chi siam
rzani)
e
T
o
n
a
i
(Tiz
www.auci.org ● [email protected]
3
UBUNTU
UBUNTU
Indice
2
3-5
6-8
9-11
12-13
14-15
16
Editoriale - “Un’unica Famiglia Umana... ancora, purtroppo, con tanti muri” di Pasquale De Sole
“We shall overcome: sempre più muri in un mondo senza frontiere (?)” di Carlo Provenzano
“I Have a Dream Ieri e Oggi” di Giorgio Placidi
“Evangelii Gaudium” di Paolo Acanfora
“Non Solo 14 Kilometri” di Christian Scatamacchia
Pensare sognando - “L’Autunno di Prospero” di Emanuele Bucci
Campagna Nazionale “Una Sola Famiglia Umana, Cibo per Tutti”
Un’unica famiglia umana...
ancora, purtroppo, con tanti muri
di Pasquale De Sole
A ragione, in tante parti e in svariate
occasioni, viene celebrato nel corso
di questo anno il centenario della I
Guerra Mondiale, la “Grande guerra”,
che iniziò il suo cammino di distruzione e di morte nell’estate del 1914,
proseguendo poi in una folle corsa
fino al drammatico secondo conflitto
mondiale. In meno di cinquanta anni
gli stati europei, e buona parte dei
paesi ad essi collegati, si sono trovati
coinvolti in un vortice di autodistruzione, incapaci di seguire i dettami della
pur minima razionalità, arrivando a
contare alla fine del secondo conflitto mondiale più di ottanta milioni di
morti.
Sulle ceneri di tante distruzioni e in
ginocchio a fianco della sterminata
sequela dei morti in guerra o a causa
della guerra, l’umanità ha sentito il
bisogno di proclamare, con la solenne
dichiarazione universale dei diritti
umani, la fondamentale verità basata
sull’unità della famiglia umana, i cui
membri sono tutti titolari della stessa
dignità e degli stessi diritti.
Sembrava che il riconoscimento di una
così elementare verità costituisse il
primo passo verso una umanità rappacificata, senza muri e senza barriere.
Purtroppo la realtà ci ha offerto, e ci
offre tuttora, un ben diverso scenario:
uno scenario segnato da tante, troppe
divisioni, dominato da muri e barriere
delle più svariate tipologie. Ci troviamo così di fronte al terribile paradosso
di una umanità potenzialmente riunita
in un’unica famiglia per via dei grandi
passi fatti in ambito scientifico e tecnologico, eppure terribilmente frammen-
tata sul piano sociale e politico, e incapace di abbattere i muri costruiti dalla
sua mente malata come nell’allegoria
del Prospero di “Pensare Sognando”.
Sono tante le considerazioni che ci
dovrebbero spingere a coltivare e
accrescere dentro di noi la consapevolezza dell’unità della famiglia umana,
da quelle filosofiche a quelle religiose o socio-politiche, fino a semplici
“considerazioni biochimiche”, come
suggerito in un precedente editoriale
(Ubuntu n. 6). Ma così purtroppo non
è. Il mondo è ancora – e chissà per
quanto tempo! - frantumato in se stesso dalla presenza di numerose barriere
e tante “cortine di ferro”, trasformatesi negli anni in “cortine di oro e di
argento” che rendono indispensabile
la costruzione di sempre nuovi muri,
innalzati a loro difesa.
Sono trascorsi 25 anni dalla caduta
del più emblematico di questi muri, il
muro di Berlino, ma si ha l’impressione
che esso continuamente si materializzi
in altre aree geografiche e in altri contesti sociali, culturali e politici. Con il
presente numero di Ubuntu vogliamo
contribuire a tenere viva e ad accrescere la consapevolezza di questa amara
realtà; nello stesso tempo desideriamo stimolare l’impegno ad operare
per l’abbattimento degli innumerevoli
“muri di Berlino” che feriscono nel
profondo la nostra comune umanità,
augurando a tutti di portare, come
icona impressa nei cuori e nei volti di
ciascuno, l’immagine di Papa Francesco
assorto in silenziosa preghiera appoggiato al muro di Betlemme che sembra,
quasi, volerlo schiacciare.
2
UBUNTU
Quadrimestrale
dell’Auci-Onlus
Associazione Universitaria
per la Cooperazione
Internazionale
Anno 8 - Numero 23
maggio - agosto 2014
DIREZIONE E REDAZIONE
Largo A. Gemelli, 8
00168 Roma
Tel. 06/6633321
Fax: 06/35505107
E-mail: [email protected]
[email protected]
Sito internet: www.auci.org
DIRETTORE RESPONSABILE
Pasquale De Sole
REDAZIONE
Emanuele Bucci
Diego Casoni
Paola Ceccarani
Erica Nicolardi
Giorgio Placidi
Carlo Provenzano
Claudia Trevisani
LAYOUT GRAFICO
Studio Idea Comunicazione
Carlo Provenzano
CORRETTORE DI BOZZE
Pasquale Sbardella
CHIUSO IN REDAZIONE IL
1 settembre 2014
Autorizz. del Trib. di Roma
n. 157/2007 del 17 Aprile 2007
VIDEO COMPOSIZIONE,
INCISIONE, STAMPA
E ALLESTIMENTO:
Tipografia
360° srl
Viale Enrico Ortolani 129
Roma
tel. 06/5218318
Testi e immagini possono essere
utilizzati liberamente citando
la fonte
Associazione Universitaria per la Cooperazione Internazionale
We shall overcome
sempre più muri in un mondo senza frontiere (?)
di Carlo Provenzano
Nel cuore del Chianti il borgo di Gaiole,
e la campagna circostante, ospitano un
museo a cielo aperto: ogni anno dal 2000,
nell’ambito del progetto “Castello di Ama
per l’Arte Contemporanea”, un artista
crea un’opera site specific, ispirata al luogo. Nel 2006 il cubano Carlos Garaicoa ha
creato Yo no quiero ver màs a
mis vecinos (Non voglio vedere
più i miei vicini), riproduzione
in scala di alcuni muri storici
che tengono, o hanno tenuto,
separata l’umanità, da quello di
Berlino a quello tra le due Coree, alla Grande Muraglia: un
racconto di negazione, di privazione della libertà, che si contrappone al chiacchiericcio dei
muri a secco locali, strumento
di sostegno delle terrazzature
per permettere le coltivazioni
in collina, e quindi apportatori
di vita. E, con lo stesso titolo, Garaicoa
ha creato un breve video (http://vimeo.
com/61354601) in cui la semplice costruzione di un muro che divide il giardino
dell’artista da quello dei vicini assurge
a metafora di tutti i muri di confine che
separano situazioni storiche conflittuali.
www.auci.org ● [email protected]
La conclusione del lavoro mostra un candido muro intonacato che non ha niente
di bellicoso, ma che cede presto il posto a
immagini fisse che documentano barriere
sicuramente meno innocenti. All’opera
di Garaicoa si contrappone Sulle vigne,
punti di vista di Daniel Buren, un muro
di specchi lungo 25 metri in cui si aprono 5 finestre: il muro perde la funzionebarriera e, nel suo riflettere l’immagine, ci
fonde con il circostante, mentre le finestre
diventano paesaggi incorniciati. Una sensazione sconcertante di natura ed arte che
fa perdere qualsiasi riferimento, un conti3
nuo rimando tra realtà ed immaginazione.
Un muro, quindi, può rivestire differenti
e variati ruoli: pensiamo a L’Infinito di
Leopardi, dove “questa siepe, che da tanta parte/dell’ultimo orizzonte il guardo
esclude./... interminati/spazi di là da quella, e sovrumani/silenzi, e profondissima
quiete/io nel pensier mi fingo”. O
alle mura megalitiche di Ggantija, sull’isola di Gozo, costruite per
racchiuderne i templi: mille anni
prima delle prime piramidi egizie, duemila anni prima della civiltà minoico-micenea, una popolazione che non conosceva l’uso
dei metalli ha usato massi grandi
fino a 50 tonnellate, incastrando
sapientemente i monoliti secondo la loro forma, un’opera che è
più un omaggio a qualche divinità
benefica che dimostrazione della
propria bravura. Nel presente si
tenta di esorcizzare questa massa monocromatica cieca, sorda, muta, coprendola
con graffiti, disegni, colori. Ecco quindi
i muri diventare lavagne urbane, per lasciare una traccia del proprio passaggio,
un segno della propria esistenza, un messaggio: è il caso de le mur des je t’aime di
UBUNTU
UBUNTU
Frédéric Baron, che ha scritto “ti amo” in
311 lingue e dialetti su un muro in place
des Abbesses a Montmartre: un messaggio che avvicina, unisce, sovrappone; un
lavoro in cui, sono parole dell’artista, “gli
esseri umani invadono tutto lo spazio del
foglio, nel sogno che li unisce creano una
barriera, un muro contro il disumano,
perchè troppo spesso questi [i muri] annichiliscono l’umano, lo dissolvono, non lo
rendono più leggibile”.
Ma per gli uomini degli ultimi 50 anni, al
di là dei discorsi artistici, un muro è solo
un muro, una barriera che separa, seclude, difende, che ferma i nostri pensieri e
le nostre azioni ancor prima che i nostri
corpi. E questa funzione divisoria è stata
al centro di innumerevoli studi e convegni
susseguitisi negli ultimi anni, i quali hanno evidenziato un dato preoccupante: fino
alla costruzione del muro di Berlino (il
cui nome ufficiale era antifaschistischer
Schutzwall, Barriera di protezione antifascista), nel mondo vi erano solo “muri”
archeologici: la Grande Muraglia cinese,
la linea Maginot, l’Offa’s Dyke (tra Galles
e Mercia), il Danevirke (tra Danimarca e
Germania) ed il sistema del limes romano,
che si estendeva dal muro di Adriano fino
a Palestina e Africa settentrionale, relitti
storici costruiti a protezione di una qualche popolazione che esigeva una sovranità territoriale. Da quel 13 agosto 1961 la
costruzione di queste barriere fisiche ha
conosciuto un successo crescente, all’Est
come all’Ovest, in tutti i continenti (escluso solo l’Antartide), suscitando nuove ed
irrisolte questioni: è vero che un buon
muro fa un buon vicino? Che tipo di sicurezza portano i muri di confine? Che
ruolo giocano nello sviluppo dei sensi di
sicurezza/insicurezza e nell’assuefarsi alle
paure?
Dal suo abbattimento, nel novembre di
25 anni fa, confini aperti, libertà di circo-
lazione, villaggio globale sono diventate per il riconoscimento ottico ed acustico. E mento all’impotenza, l’espressione fisica
le parole d’ordine del progresso politi- Facebook usa la tecnologia dell’israeliana della sconfitta della politica. Barriere conco, culturale ed economico, con il Web a face.com per il riconoscimento dei visi. tro l’immigrazione tra Spagna e Marocco,
simboleggiare un mondo senza confini. Piccoli dettagli che fanno capire come il Messico e Usa, India e Bangla Desh, BulCiononostante, le politiche di controllo know-how già in circolazione permetta di garia, Grecia e Turchia. E quelle contro le
hanno oramai spostato il loro focus dal attrezzare i muri per rilevare anche il solo guerre: nell’Ulster, tra Turchia e Cipro,
terreno geopolitico dei confini esterni a avvicinarsi alla barriera. E che rendono di India e Pakistan, Uzbekistan e Tagikistan,
quello biopolitico, definendo chi possa estrema attualità le parole di Honecker, Zimbabwe e Botswana. Ogni Muro ha
rappresentare un potenziale
una sua storia, una sua giustirischio per la sicurezza in- Un muro può contenere, ma non cancellare, le
ficazione. Ma ognuno di questi
terna e debba quindi essere aspirazioni alla libertà, all’autodeterminazione Muri racconta di un fallimento.
“rimosso” dallo Stato. MuPerché di fronte a chi sente di
nazionale, ad una vita non consumata tra
rarsi dentro oltre che muranon aver nulla da perdere, non
patimenti e sofferenze
re fuori, isolarsi perchè “gli
c’è Muro divisorio che tenga. Il
altri = cattivi”. Ecco che nel mondo post l’ultimo presidente della DDR che, pochi Muro può contenere la rabbia, il dolore, il
11 settembre sono comuni le due equa- mesi prima della caduta del muro di Ber- desiderio di rivalsa di intere popolazioni.
zioni “terrorismo = immigrazione” e “im- lino, affermava: “La Direzione delle forze Può contenere, ma non cancellare, le aspimigrazione = illegalità, violenza ed Islam di frontiera...prevede di attrezzare il Muro razioni alla libertà, all’autodeterminazioradicale”: lo svicolare attraverso il confine con sistemi elettronici sofisticati come ne nazionale, ad una vita non consumata
diventa quindi il primo passo non solo del un’intera gamma di sensori acustici, otti- tra patimenti e sofferenze. In questo, non
migrante, ma anche di qualsiasi cittadino ci, ad infrarossi, magnetici e chimici per c’è “Muro” che tenga.
ai margini della propria società, per cerca- evitare il più possibile l’uso delle armi”.
re di raggiungere un mondo migliore.
Un Muro finisce così per
Murare e sorvegliare richiedono l’uso di rappresentare, fisicamentecnologie sempre più sofisticate e costo- te, la psicologia di una
se, che hanno portato alla trasformazione comunità che si senta, si
di parte dell’industria militare in indu- viva, si pensi alle prese
stria della sorveglianza. Un settore che, con una immanente “Minel 2012, ha fatturato 19 miliardi di dol- naccia Esterna”. Mortale.
lari, con Israele ed USA in testa alla clas- Proteggersi
murandosi.
sifica, in un intreccio sempre più stretto e Muri e barriere di difesa
complesso: tra i tanti esempi, la israeliana sostituiscono la politica o,
Elbit è nel consorzio Boeing per la sorve- meglio, si fanno politica.
glianza del confine USA-Messico, mentre Dovrebbero irradiare sil’americana Google ha da poco acquisito curezza, sono invece muri
varie start up, incluse alcune israeliane, dell’apartheid, un monu-
4
Associazione Universitaria per la Cooperazione Internazionale
www.auci.org ● [email protected]
5
UBUNTU
UBUNTU
I Have a Dream Ieri e Oggi
di Giorgio Placidi
Sono passati 51 anni dal giorno in cui
Martin Luther King pronunciò lo storico
discorso I have a dream.
“Ho un sogno” disse a 250.000 neri
e bianchi, radunati davanti al Lincoln
Memorial di Washington per ascoltare
le parole di quel pastore battista nato ad
Atlanta. Quel discorso, generato dalla
disperazione degli afro-americani vessati e sfruttati, era figlio dell’ondata di
protesta antirazziale cominciata da alcuni anni e rappresentava l’atto conclusivo
della “grande marcia su Washington”.
I have a dream; così lo abbiamo scritto
nei temi di attualità, letto nelle pagine
dei nostri testi di storia quando anda-
6
vamo al liceo. Eppure, non tutti sanno
che quel discorso imbevuto di pacifica
armonia inizia con le parole “Oggi sono
felice”.
Cos’è successo da allora ad oggi? Di
fronte alla cronaca contemporanea è
ancora lecito chiedersi se la parità dei
diritti, senza distinzioni legate al sesso
Associazione Universitaria per la Cooperazione Internazionale
e alla razza, è stata realmente raggiunta. inneggiava all’odio nei confronti dei siamo tutti uguali, pongono il drammaIl cammino che porta a questo traguar- bianchi. E poi ci sono i quotidiani episo- tico interrogativo del perché si verifichido è stato lungo e tortuoso e non sempre di di razzismo, diffusi e spettacolarizzati no ancora questi fatti.
è bastato mettere questo obiettivo nero dai moderni mezzi di comunicazione di “Adesso é il momento di sollevare la
su bianco apponendo un
nostra nazione dalle
sigillo che lo rendesse
sabbie mobili dell’inI turbini della rivolta continueranno a scuotere
legge.
giustizia razziale per
le fondamenta della nostra nazione finchè non
Il lieto fine di questa
collocarla sulla roccia
storia, realizzatosi nel
compatta della fraterspunterà il giorno luminoso della giustizia.
1964 con l’approvanità”, proclamava con
Il 1963 non è una fine, è un principio
zione del Civil Rights
forza Martin Luther
Act e nel 1965 con il
King,
inneggiando
Voting Rights Act, è solo un punto di massa. Uno degli ultimi casi, verificatosi a quella giustizia che avrebbe voluto
partenza. Nella realtà dei fatti, esiste negli Stati Uniti, vede protagonista una diventasse una realtà concreta, non solo
un mondo sommerso che conosciamo bambina in triciclo picchiata, insultata immaginata e teorizzata, per tutti i figli
solo parzialmente come, ad esempio, e umiliata da due bambine di colore, di Dio. Partiva dalla giustizia sociale,
gli esperimenti anti-etici del Tuskegee filmate e incoraggiate dal loro fratello ovvero di un’equa ripartizione dei beni
Syphilis Study, quando 600 braccianti maggiore per pubblicare su Facebook che abolisse ogni forma di sfruttamento;
afro-americani furono impiegati come quest’atto tristissimo in cui bullismo e raggiunto questo obiettivo, il concetto si
cavie per “studiare” il decorso naturale razzismo si fondono. Il titolo del video, sarebbe dovuto estendere anche a tutti
della sifilide non trattata, nonostante la «Quando i bianchi fanno incavolare i gli altri ambiti, in primis quello dell’imscoperta della penicillina e l’istituzione neri», era di chiara matrice razzista e ha parzialità nell’emissione di un verdetto
del Codice di Norimberga.
suscitato lo sdegno di oltre duecentomi- di innocenza o colpevolezza. Ad oggi,
I colori più oscuri del razzismo si sono la visitatori.
negli Stati Uniti il sistema giudiziario
palesati dietro i volti coperti dai cap- Abbiamo visto con i nostri occhi quanto continua ad essere considerato antipapucci del Ku Klux Klan che, giunto il tempo possa cambiare le cose, special- ritario e razzista dagli afro-americani,
oggi alla sua terza ondata, continua a mente quando incontra sulla sua strada secondo i quali la pena di morte è premietere vittime in nome della superio- uomini capaci di modificare il corso valentemente comminata ai maschi di
rità della razza bianca; o nella ricosti- della storia. La logica della non violenza, colore che già portano sulle loro spalle
tuzione dei neonazismi sociali e politici, la razionalità di chi mette in discussione il peso dell’emarginazione, dell’alcolidove la paura dell’“immigrato venuto il pregiudizio, la certezza che al mondo smo e della malattia mentale. Due pesi
per rubare lavoro”
sfocia in slogan che
raccolgono consensi
di massa soprattutto
in casi drammatici,
come quello greco di
Alba Dorata o quello
ungherese di Jobbik.
Ma i volti della xenofobia non seguono
solo una direzione.
Sul versante opposto il “sentimento
antibianco” nasce e
si sviluppa in paesi
assetati di vendetta per lo strapotere
lasciato in eredità da
vecchi coloni inglesi
o francesi nelle terre
dell’Africa: basti pensare ai più di 2500
attacchi subiti dagli
agricoltori sudafricani al termine dell’era
dell’Apartheid; o alla
confisca delle terre
ai proprietari terrieri bianchi dello
Zimbabwe effettuata da parte di bande
armate, mentre il
presidente Mugabe
www.auci.org ● [email protected]
7
UBUNTU
UBUNTU
e due misure, se si considerano i dati
statistici: sebbene i neri costituiscano
circa il 12% della popolazione americana, più del 40% dei condannati a morte
sono di colore; inoltre, la probabilità
che sia condannato a morte un nero
macchiatosi dell’omicidio di un bianco
è molto più alta rispetto all’inverso.
Tale affermazione è confermata da dati
che evidenziano una chiara disparità
di trattamento: dal 1977 ad oggi, l’85%
dei condannati a morte che sono stati
giustiziati era riconosciuto colpevole di
omicidio verso un bianco, nonostante il
fatto che neri e bianchi siano vittime di
omicidi in ugual misura.
Il 28 Agosto del 1963, un uomo era consapevole di tutto ciò mentre da un palco
dico: anche se dobbiamo affrontare le
difficoltà di oggi e di domani, io continuo ad avere un sogno. E’ un sogno che
ha radici profonde nel sogno americano. Ho un sogno, che un giorno questa
nazione sorgerà e vivrà il significato
vero del suo credo: noi riteniamo queste verità evidenti di per sé, che tutti
gli uomini sono creati uguali. Ho un
sogno, che un giorno sulle rosse montagne della Georgia i figli degli ex schiavi
e i figli degli ex padroni di schiavi
potranno sedersi insieme alla tavola
della fraternità. Ho un sogno, che un
giorno perfino lo stato del Mississipi,
dove si patisce il caldo afoso dell’ingiustizia, il caldo afoso dell’oppressione,
si trasformerà in un’oasi di libertà e di
ature la vedranno insieme”.
Martin Luther King morirà assassinato
per la stessa causa per cui si era battuto.
Quanti altri uomini dovranno continuare a morire dopo di lui? Gli scontri tra
le gang di quartiere, il rifiorire di un
sentimento xenofobo nei luoghi dove
l’immigrato venuto a cercare fortuna
tenta di integrarsi, le inique condanne a
morte nei paesi civilizzati, il sentimento
antibianco diffusosi in alcuni stati africani, sono uno spettro che, continuando
a sopravvivere tra le popolazioni, ne
testimonia l’arretratezza mentale.
Il discorso di King è di fatto una preghiera che si leva con forza sulle teste dei
cittadini del mondo intero, trasformandosi in uno dei più begli inni alla libertà
gridava al mondo intero: “I turbini della
rivolta continueranno a scuotere le fondamenta della nostra nazione finché
non spunterà il giorno luminoso della
giustizia (…) Il 1963 non é una fine, é
un principio”. Martin Luther King era
un uomo lungimirante e sapeva che
il mondo sarebbe potuto cambiare e
aprirsi uscendo dal provincialismo del
pregiudizio e della chiusura mentale.
Ai suoi fratelli diceva: “Tornate nel
Mississipi, tornate nell’Alabama, tornate nella Carolina del Sud, tornate in
Georgia, tornate in Louisiana, tornate
alle baraccopoli e ai ghetti delle nostre
città del Nord, sapendo che in qualche modo questa situazione può cambiare e cambierà”. E qualche istante
dopo entrava nel vivo pronunciando le
fatidiche parole che sarebbero rimaste
impresse per sempre nella storia, insieme al suo nome: “Oggi, amici miei, vi
giustizia. Ho un sogno, che i miei quattro bambini un giorno vivranno in una
nazione in cui non saranno giudicati
per il colore della pelle, ma per l’essenza della loro personalità.
Oggi ho un sogno.
Ho un sogno, che un giorno, laggiù
nell’Alabama, dove i razzisti sono più
che mai accaniti, dove il governatore
non parla d’altro che di potere, di compromesso interlocutorio e di annullamento delle leggi federali, un giorno,
proprio là nell’Alabama, i bambini neri
e le bambine nere potranno prendere
per mano bambini bianchi e bambine
bianche, come fratelli e sorelle. Oggi ho
un sogno. Ho un sogno, che un giorno
ogni valle sarà innalzata, ogni monte e
ogni collina saranno abbassati, i luoghi
scoscesi diventeranno piani, e i luoghi
tortuosi diventeranno diritti, e la gloria
del Signore sarà rivelata, e tutte le cre-
che siano mai stati scritti. E rimane per
sempre. Che altro servirà ancora per
scuotere la coscienza dell’uomo contemporaneo? Quando si fermeranno le spirali di violenza che residuano da antichi
odi razziali? Si può mettere fine alla vita
di un uomo con la sua morte, tuttavia le
sue idee continueranno a sopravvivere
lo stesso. Anzi, risuoneranno con un
volume ancora più alto e un’estensione
ancora più grande. Il cambiamento non
è un’utopia, è una disposizione mentale che deve declinarsi nella logica del
dialogo e dell’apertura. Per cambiare le
cose occorre solo ascoltarsi reciprocamente, capirsi, e poi ripetersi sempre la
stessa domanda: “Cos’ha quel fratello
di diverso da me oltre al colore della
pelle?” La domanda è retorica e conosce
una sola risposta: NIENTE.
8
Associazione Universitaria per la Cooperazione Internazionale
Evangelii Gaudium
di Paolo Acanfora*
Se si potesse consigliare un testo
alle classi dirigenti (di tutti i campi)
impegnate a gestire oggi la realtà europea
ed internazionale, questo dovrebbe essere
senza dubbio l’esortazione apostolica
Evangelii Gaudium di Papa Francesco
(2013). In modo particolare, l’attenzione
dovrebbe concentrarsi sul capitolo
quarto, dedicato alla “dimensione sociale
dell’evangelizzazione”. Lo si legga senza
i vecchi timori di imperialismo religioso,
senza remore e pregiudizi ideologici, e
si scoprirà un testo umile, intelligente,
aperto, fattivo, privo di prosopopea e di
perentorietà unilaterale.
Il fondamentale assunto di partenza è
che «il kerygma possiede un contenuto
ineludibilmente
sociale».
Questo
contenuto va però continuamente
sviscerato perché non è un dato statico ma
segue inevitabilmente il corso della storia.
Colpisce,
a
questo
proposito,
l’affermazione di Papa Bergoglio sulla
natura del documento: l’Evangelii
Gaudium non può essere inteso come
un documento sociale, perché né la
Chiesa né il Papa hanno il «monopolio
dell’interpretazione della realtà sociale o
della proposta di soluzione dei problemi
contemporanei».
Quale sarebbe, allora, il significato di
questa nuova esortazione apostolica?
La
risposta
è
nella
funzione
fondamentalmente riconosciuta a tutta
la dottrina sociale cattolica, la quale
ha il compito di orientare «un’azione
trasformatrice» della realtà, non in modo
solipsistico ma congiuntamente all’azione
delle altre chiese. Perché, come viene
esplicitamente dichiarato nel paragrafo
183, «una fede autentica implica sempre
un profondo desiderio di cambiare il
mondo».
Il grande tema della “trasformazione”
della realtà, della costruzione di un
ordine nuovo, è largamente presente nella
tradizione della cultura sociale cattolica
ed è, naturalmente, legato alla stessa
concezione paolina dell’«uomo nuovo».
Nel secondo dopoguerra – solamente per
citare un contesto storico contemporaneo
– i richiami ad una rinnovata civiltà
cristiana, alla costruzione di un nuovo
ordine nazionale ed internazionale
cristianamente ispirato, sino ad arrivare
a formulazioni quale quella di mons.
Adriano Bernareggi della realizzazione
www.auci.org ● [email protected]
del “nuovo uomo nuovo”, erano all’ordine
del giorno. Le tragedie delle due guerre
mondiali e la drammatica sfida lanciata
dai totalitarismi avevano alimentato la
convinzione che un mondo fosse finito,
che un’epoca fosse chiusa e che occorresse
costruire il “mondo nuovo”.
Orientare
un’azione
trasformatrice
implica oggi cose molto diverse dal
1945, ma l’insistenza sul tema da parte
di Papa Francesco sembra voler alludere
all’urgenza di ripensare un ruolo attivo,
incisivo per la definizione di nuove
9
strutture sociali. Il contributo della Chiesa
cattolica è indicato sostanzialmente in
due direzioni: l’inclusione dei poveri; la
ricerca incessante della pace e del dialogo.
Due temi che potrebbero rischiare di
alimentare ulteriormente il carico di
retorica nel discorso pubblico ma che,
invece, vengono affrontati con intelligenza
e notevole senso pratico. Certamente
la parola chiave è – e non potrebbe
essere altrimenti – “solidarietà”. Parola
spesso vuota, evocata stancamente,
impropriamente, con opportunismo ma
UBUNTU
UBUNTU
La solidarietà è uno stile
di costruzione della storia,
un ambito vitale, dove i
conflitti, le tensioni e gli
opposti possono raggiungere
una pluriforme unità che
genera nuova vita.
che viene qui recuperata nel suo senso
intimo, come un termine che «indica
molto più di qualche atto sporadico» e
che, ancora una volta, «richiede di creare
una nuova mentalità che pensi in termini
di comunità».
Da ciò consegue anche il recupero
di alcune idee ed espressioni ormai
scomparse dal lessico politico, come,
ad esempio, la «funzione sociale della
proprietà» e la «destinazione universale
dei beni» da intendersi come «realtà
anteriori alla proprietà privata».
Non si tratta ovviamente di vagiti tardorivoluzionari ma di implicite deduzioni
derivanti dalla posizione assunta dalla
Chiesa di Papa Francesco di fronte a
quel che viene definito il «paganesimo
individualista»: l’«opzione per gli ultimi».
Tale opzione per i poveri, viene chiarito,
rappresenta per la Chiesa «una categoria
teologica prima che culturale, sociologica,
politica o filosofica». Una categoria
teologica perché nel povero vi è non solo
l’immagine riflessa ma la reale conoscenza
del “Cristo sofferente”. È per questo
che è la Chiesa stessa a dover imparare,
apprendere o, se vogliamo, a lasciarsi
evangelizzare dai poveri. Anche qui non
vi è alcuna banalità nell’affermazione
presentata nel paragrafo 200 secondo
la quale «la peggior discriminazione di
cui soffrono i poveri è la mancanza di
attenzione spirituale». È un’espressione
invece dal sapore rivoluzionario per la
prassi dei fedeli e degli ecclesiastici.
Il discorso è tanto più pregnante se si
considera che lo sviluppo che ne fa la
Evangelii Gaudium arriva a toccare le
radici più profonde dell’organizzazione
riferimento esclusivo ad una dimensione
identitaria chiusa, angusta, asfittica,
impermeabile e indisponibile al dialogo.
L’atteggiamento del cristiano deve
invece essere rivolto all’integrazione,
alla ricerca continua di un confronto
solidamente strutturato, che non sia cioè
rivolto all’autoaffermazione di sé ma sia
disponibile ad acquisire nuovi elementi –
ed ovviamente a fornirli – nell’ottica della
creazione di nuove sintesi culturali.
Fondamentale, in questa ottica, è il chiaro
rifiuto di qualsiasi approccio irenista da
parte di Papa Francesco. Non si tratta,
sottolineatura di grandissimo interesse,
l’accento è posto sulla dinamicità della
storia, sul suo essere un processo
continuamente in fieri. All’interno di
questa cornice, la solidarietà diventa
allora «uno stile di costruzione della
storia, un ambito vitale, dove i conflitti, le
tensioni e gli opposti possono raggiungere
una pluriforme unità che genera nuova
vita». Non un sincretismo ma uno stadio
ulteriore, nuovo, che contenga in sé le
«potenzialità della pluralità in contrasto».
L’evidente
richiamo
allo
schema
idealistico viene però misurato e
contenuto da una considerazione ritenuta
basilare e che attesta la dimensione
pragmatica
dell’impegno
cristiano
nella società: nella tensione bipolare
tra idea e realtà, vi è un’indiscutibile
superiorità di quest’ultima. Le idee
servono a comprendere e a dirigere ma è il
“criterio di realtà” a consentire di evitare
i formalismi, «i purismi angelicati»,
ma la gente. Perché è di un patto sociale
e culturale che si tratta. La questione
viene esplicitata chiaramente quando si
richiama la ragione profonda del dialogo
– definito un dovere per il cristiano – che
è da intendersi come «un impegno etico
che crea nuove condizioni sociali».
Per poter raggiungere obiettivi così
ambiziosi vi sono molte condizioni da
dover soddisfare. Colpisce, tra queste,
il richiamo ad una in particolare:
la formazione degli interlocutori. Il
riferimento è rivolto al dialogo con l’Islam
ma può, a buon diritto, ritenersi un
principio generale. Non si può ottenere
nessun risultato in un dialogo portato
avanti da parti che non conoscono il
soggetto con cui si relazionano.
Questa insistenza sulla formazione degli
“operatori” del dialogo è uno dei tratti
più significativi dei paragrafi dedicati
all’ecumenismo e al dialogo interreligioso
ed è fortemente connesso al grande
infatti, di invocare retoricamente la pace
sociale, l’armonia tra le parti rifiutandosi
di vedere le violente contraddizioni
della realtà. Semmai, occorre adoperarsi
concretamente per individuare dei
percorsi di costruzione quotidiana della
pace, riconoscendo le ragioni e la natura
dei conflitti esistenti e aprendo la via ad
un possibile processo di superamento.
Ancora una volta però, ed è una
«i fondamentalismi antistorici». È, in
altri termini, la superiorità della “Parola
incarnata”.
Anche qui la lettura non è sul piano di
una confessionalità autoreferenziale.
Tutt’altro. L’obiettivo è invece di fondare
correttamente la dimensione dialogica
propria del cristiano, di definire un
ecumenismo che non riguardi le élite
culturali, politiche, economiche, religiose
tema dell’identità. Per evitare chiusure
ed irrigidimenti reciproci l’unica strada
possibile è la conoscenza di sé e degli
altri e la disponibilità ad apprendere,
a mutare, a ricercare punti di contatto,
senza rinunciare alla propria identità ma
in un’ottica inclusiva, di disponibilità ad
arricchirla.
di costruire un diverso approccio alla
realtà: «sono convinto che a partire da
un’apertura alla trascendenza potrebbe
formarsi una nuova mentalità politica
ed economica che aiuterebbe a superare
L’opzione per i poveri rappresenta, per la Chiesa,
una categoria teologica prima che culturale,
sociologica, politica o filosofica
sociale. Affrontare il grande tema della
povertà significa infatti non affidarsi
semplicemente al piano assistenziale ma
aggredire il problema alle sue fondamenta,
da un punto di vista dunque strutturale;
significa andare alle cause originarie
dell’iniquità (definita «la radice di tutti
i mali»). In questa direzione, “persona
umana” e “bene comune” dovrebbero
essere al centro di qualsiasi idea,
concezione o modello economico, mentre
ne sono, nella migliore delle ipotesi, una
semplice appendice.
Un ruolo cruciale dovrebbe spettare, in
questa cornice, alla politica e alle sue
classi dirigenti. Dopo aver ripreso, senza
direttamente citarla, la tesi montiniana
della politica come “la più alta forma
di carità”, Papa Bergoglio sottolinea
l’esigenza per la classe dirigente di
ampliare i propri orizzonti, di dotare
di senso la propria azione, ispirandosi
magari a Dio per la realizzazione dei
propri piani. Un richiamo che gli serve
per sottolineare nuovamente l’urgenza
10
la dicotomia assoluta tra l’economia e il
bene comune sociale».
È un discorso che è rivolto innanzitutto ai
cristiani e alla Chiesa cattolica. L’impegno
deve essere, su questo piano, senza riserve
e decisamente più congruo alla propria
missione. Il monito non è finalizzato
tanto ad un moralistico rimprovero
sulle mancanze, sulle incongruità o
le scarse applicazioni del recente o
lontano passato quanto piuttosto ad un
invito, ancora una volta, a superare e a
liberarsi da certi schemi cognitivi: «mi
interessa unicamente fare in modo che
quelli che sono schiavi di una mentalità
individualista, indifferente ed egoista,
possano liberarsi da quelle indegne
catene e raggiungano uno stile di vita e
di pensiero più umano, più nobile, più
fecondo, che dia dignità al loro passaggio
su questa terra».
Il cambiamento di mentalità, così
ripetutamente evocato, non riguarda
solo l’aspetto individualista ma anche
quello localistico, inteso nel senso di un
Associazione Universitaria per la Cooperazione Internazionale
www.auci.org ● [email protected]
11
*Politologo e Storico
UBUNTU
UBUNTU
brutture che stridono e contraddicono un miraggio. Il deserto è protagonista, i è disarmante, ricorda la stessa determinalo straordinari0 spettacolo della natura. tre giovani ne vengono inghiottiti, affoga- zione del protagonista di Welcome intenQueste subito emergono nelle scene suc- no nel Ténéré e sbagliano direzione; qui zionato ad attraversare a nuoto la Manica.
cessive, dove vengono presentati i pro- Oliveras ottiene la maggior resa scenica Dalle tribù nomadi dei Tuareg, che non
tagonisti della storia: Violeta (Aminata e fotografica, emerge la sua esperienza da riconoscono altro confine oltre le dune
Kanta), una ragazzina del Mali, che fugge documentarista e la pellicola trasmette sempre mobili del Ténéré, i protagonisti
da una famiglia che vuole svenderla, in sensazioni reali: il sole diventa famelico e raggiungono i posti di blocco dei militari
cambio di qualche mucca, ad un vecchio asfissiante, l’aridità del deserto entra nella alla frontiera tra Algeria e Marocco, dove
da cui subì molestie già da bambina; Buba gola, la luce diventa abbagliante e il sen- vengono sballottati avanti e indietro come
(Adoum Moussa) con l’inarrestabile so- so di smarrimento sopraffà lo spettatore pacchi postali tra nazioni accomunate dal
gno nel cassetto di diventare un calciato- così come i tre giovani naufraghi africani. fatto di non volere questi disperati. Qui
re famoso ma che si guadagna da vivere Il viaggio diventa odissea, la speranza di- Olivares “gioca” con il concetto della fronfacendo il meccanico in Niger; e Mukela sperazione e il sogno incubo. L’incontro tiera: naturale, artificiale, inadeguata, as(Mahmadam Alzouma, unico attore con con un gruppo di Tuareg evita il naufra- surda, a volte solo soggettiva in base alla
un’esperienza precedente, in La gran gio e diventerà un’ancora di salvezza, ma volontà o meno dei gendarmi, ma fondafinal), suo fratello e fan a tempo pieno. non solo: i nomadi del deserto hanno nel mentalmente una barriera che esclude.
Tutti e tre coltivano un’idea: abbandonare film una funzione essenziale, una sorta di Gli ultimi 14 kilometros si avvicinano,
l’Africa e realizzare i proquesta distanza diviene un
pri desideri in Europa.
ostacolo invalicabile, reale
Continueranno a vivere e a morire, perchè
Violeta e i due ragazzi
e metaforico insieme, su
la storia ha dimostrato che non c’è muro
si incontrano durante il
cui si infrange la disperata
capace di contenere i sogni
viaggio verso il Marocco
corsa verso il desiderio di
e condividono la meta
una possibile alternativa
dello stretto di Gibilterra, quei 14 chilo- Virgilio nell’inferno dantesco; la voce del- di vita. Il regista si e ci chiede: esistono
metri che separano l’Africa dall’Europa, la coscienza profonda dell’Africa. I collo- forse mura capaci di contenere i sogni? …
che rappresentano anche la barriera che qui tra i giovani migranti e i Tuareg pro- Continueranno a vivere e a morire, perdivide i sogni di milioni di africani che pongono delle riflessioni importanti, che ché la storia ha dimostrato che non c’è
vengono in Occidente per scappare dal- meritano ulteriori approfondimenti, vista muro capace di contenere i sogni, così
la fame e dalla miseria. Ma non saranno la drammatica attualità: è giusto che mi- risponde lo stesso Olivares, prendendo in
solo 14 kilometros; questa breve distan- gliaia e migliaia di giovani africani abban- prestito una frase della scrittrice spagnola
za non deve ingannare, rappresenta sol- donino il proprio paese, vendendo tutto, Rosa Montero e ponendola a chiusura del
tanto l’ultimo ostacolo di un viaggio che indebitando le famiglie, mettendo il de- suo lavoro come citazione prima dei titoli
può iniziare chissà quanto tempo prima, naro in mano a dei delinquenti, piuttosto di coda, lasciando aperta in tutti noi la rianche anni, e terminare dopo migliaia di che provare a investire sforzi e soldi nel flessione.
chilometri impiegati ad attraversare le na- proprio continente? Le parole dei Tuareg:
zioni e le loro barriere naturali e artificiali. “L’emigrazione sta dissanguando l’Africa”
Dunque, non sono solo pochi chilometri rimbombano nella testa dello spettatore. (*) Insegnante di italiano, storia e geograd’acqua a dividere Violeta, Buba e Muke- Le ferite del continente africano riman- fia presso il CPT di Omegna. Vice-sindaco
la dalla felicità, ma un oceano di sabbia, gono il grande sfondo, mentre il viaggio e assessore all’istruzione e ai servizi sociail Sahara, e quei 14 chilometri diventano prosegue; la tenacia dei giovani migranti li del Comune di Omegna (VB)
Non Solo 14 Kilometri
di Christian Scatamacchia (*)
Negli ultimi anni sono stati molti i registi
che hanno affrontato il tema dell’immigrazione in Europa; solo per citarne alcuni tra
i più significativi e premiati si potrebbero
ricordare: Welcome di Philippe Lioret,
Miracolo a Le Havre di Aki Kaurismäki,
Cose di questo mondo di Michael Winterbottom, Terraferma di Emanuele Crialese. Oltre a questi film più noti, nelle ultime
settimane, durante le quali gli sbarchi di
immigrati sulle coste del Sud Italia sono
aumentati considerevolmente, ritornano
di forte attualità altri lungometraggi meno
famosi, ma dal grande richiamo sociale.
Tra questi sicuramente vi è 14 Kilometros:
secondo film del regista spagnolo Gerardo Olivares, vincitore della “Spiga d’oro”
al festival castigliano di Valladolid, ospitato da diverse rassegne cinematografiche
di rilievo come quelle di Edimburgo, Rio
de Janeiro, Il Cairo, ed uscito per la prima
volta nelle sale italiane nel lontano 2007.
Si tratta di una bella conferma del cineasta di Cordoba dopo il primo film La gran
final (2006), che lo ha reso celebre e dal
quale ricalca, per alcuni versi, medesime
tematiche, ambientazioni e l’occhio indagatore del documentarista, portando la
telecamera in aree geografiche (Mongolia,
Amazzonia, Sahara), che difficilmente trovano spazio sul grande schermo. La gran
final narra l’avventura di tre persone che
sono decise a trovare il modo per guardare in televisione la finale dei campionati
mondiali del 2002 tra Germania e Brasile.
A differenza di questo primo film, 14 Kilometros ha una maggiore tensione moraledrammatica, e le finalità dei protagonisti
sono sicuramente più profonde: avere un
futuro migliore e coltivare i propri sogni
in Europa. È un film di emigrazione diverso dagli altri, che narrano l’arrivo dei
migranti e le loro difficoltà a inserirsi nei
paesi europei: 14 Kilometros, invece, rac-
12
conta la partenza (i motivi per cui emigrare) e gli enormi rischi e angosce durante il
viaggio, in sostanza tutto ciò che avviene
prima dello sbarco sulle coste europee,
tralasciando ciò che avviene dopo. L’Europa diviene marginale ed è solo un riflesso
nei sogni dei migranti, al regista non interessa metterla a fuoco: è l’Africa che interessa ad Olivares, con le sue contraddizioni e la sua disperazione. È un film necessario, con una grande valenza didattica, in
cui emergono e si contrastano amarezza
e speranza. Girato con pochi mezzi, in un
certo stile documentaristico, possiede realismo poetico e delicatezza, aiutato anche
da una efficace colonna sonora.
Il film viene aperto da una vivida fotografia: le prime immagini ci mostrano l’emozionante fiume Niger al tramonto, in controluce, con le piroghe e i suoi pescatori,
la grande bellezza africana che però, come
nel film di Sorrentino, nasconde grandi
Associazione Universitaria per la Cooperazione Internazionale
www.auci.org ● [email protected]
13
UBUNTU
UBUNTU
Pensare sognando
quando ti avrò trovato… Hai paura che voglia ucciderti?
Strozzarti, sì, forse. Strozzarti o baciarti, lo capirò in quel
momento. Premerò i pollici sulla tua gola per farti uscire
qualche parola, anche una sola, purché sia vera. E se uscirà,
la coglierò con le labbra, mentre fugge via dalla tua anima
d’acqua opaca. Le mie dita tozze da pescatore di morti sembrano fatte apposta per strozzare, non pensi? Sono nate per fare
del male a qualcuno, non è questo che pensi? Dillo, se lo pensi!
Dillo, smetti di nasconderti, di mentire! Dillo, dillo, dillo… Oh,
no, mi scusi, io non volevo metterle le mani addosso, io… com’è
che si dice?
L’Autunno di Prospero
di Emanuele Bucci
Sono Prospero, e aspetto l’inverno. Aspetto di affondare
nella sua pelle bianca, fredda e luminosa. Non chiedo altro,
da quando ho perduto la mia isola. Ora l’autunno è grigio
e spesso, e pare eterno. Uomini e donne soli, a pochi passi
da me, vagano in attesa di primavere e di estati che non
possono arrivare. Mi piacerebbe regalargli un po’ di quelle
primavere e di quelle estati, prima che venga il mio inverno. Un tempo avrei potuto, forse. Un tempo sapevo baciare
il vento sulla bocca e dare ordini alle nuvole e modellavo
la terra come farina. La chiamavo magia. L’avevo usata
per creare la mia isola, il mio rifugio dall’odio arrugginito
del mondo. Avevo creato labirinti di alberi in cui perdersi
era dolce, e sentieri di musica per ritrovare la strada. Ma
non ero ancora felice, circondato da un muro gelido, salato
e immenso, che mi separava dai sogni degli altri. Volevo
abbattere quel muro, volevo abbattere tutti i muri. Doveva
essere il mio ultimo incantesimo, il più grande. Volevo sgretolare le fortezze di parole, sangue e incubi che dividono
le persone, volevo che la sabbia di cristallo della mia isola
sciogliesse la superbia dorata dei tiranni e asciugasse il
pianto acido dei miseri. Ma ho fallito. Ora sono qui, perso
nella reggia dell’autunno, con altri cortigiani confusi, i loro
canti rimbalzano stonati sui muri invisibili che li separano
dagli altri e da me. Con tutta la mia magia, non sono riuscito a violare quei muri. Non ci riuscirò adesso, che non
so più nemmeno sognare la mia isola, adesso che so solo
aspettare la pace pura e silenziosa dell’inverno. Se potessi
ascoltare le loro anime, come sapevo ascoltare i capricci del
vento, potrei fare qualcosa per loro, potrei aiutarli. Ma non
sento nulla. Immagino, piuttosto. Immagino voci rotte che
scivolano via…
Dove sei? Perché sei fuggita da me? Ti faccio tanta paura?
Quanti uomini con la pelle scura hai già visto? O forse temi
che ti voglia fare schiava, rinchiusa in una gabbia di stoffa,
animale raro nel giardino di un padrone geloso? Ma io sono
come te, certe vecchie tradizioni le ho date in pasto alla sabbia. Voglio imparare e costruire e immaginare e voglio farlo
con te. Potevi dirmelo subito che ti facevo paura, quando ti
ho sfiorato con le mie dita tozze e consumate, da pescatore di
cadaveri. Sapessi quanti ne ho visti di corpi morti, prima di
arrivare a te. Impiccati, fucilati, annegati. Nella mia terra,
e nel mare infernale che ho attraversato. Credevo che non
avrei più pensato ai morti, quando ti ho vista. Eri pallida
e silenziosa, ragazza madre di mille figli, dama contesa da
pretendenti di ogni luogo. Sentivo i tuoi respiri morbidi e
profondi, ogni volta che i remi delle gondole carezzavano
le guance d’acqua dei tuoi canali. Ho assaporato le isole di
palazzi, chiese e storie che sorgevano dal tuo cuore salato, le
ho accolte come tu avevi accolto me. Poi mi hai tradito. Mi
hai dato in pasto ai tuoi figli più rumorosi e ignoranti. Mi
hanno portato via urlando, con quell’accento che non riuscirò mai a imparare, che non mi hai mai voluto insegnare.
Ora sono qui e non ti vedo più, ma ti troverò, perché non
amo più nessun’altra, nemmeno chi mi ha generato, come
amo te, la tua bellezza antica e la tua crudeltà infantile. E
Vorrei un ruscello d’acqua dove cantare fino alla morte, se non
è troppo. Sono una donna di fango nella sua torretta di pietra,
non mi fanno sporgere dalla finestra, dicono che potrei farmi
del male. Terra da sempre, fango da quando mi hanno sporcata. Terra che nutre, che genera. Mi hanno insegnato a essere
questo. Terra delimitata da mura alte e profonde, i confini di
ciò che posso e devo fare, pronta per nutrire e generare la stirpe di un visitatore. Pronta per te. Ti sei chinato per baciarmi,
mi hai nutrito con una promessa, hai mangiato i miei frutti,
ma poi sei andato via. Mi hai lasciato le bucce di un sogno.
Per quanto amiate la terra, la calpestate sempre. Perché
dovete muovervi, crescere, possedere, e la terra deve restare
ferma sotto di voi, o cambiare, ma solo quando lo decidete voi.
Credete che la terra non si muova, senza di voi? Credi che io
abbia bisogno di te? No, mi serve solo un po’ d’acqua. Qui però
non ce n’è. Non piove mai, qui dentro. Una torretta di pietra
dove l’aria non odora di nulla, dove sbarre trasparenti lasciano passare solo i riflessi morti del sole, e la luce in alto è finta e
non scalda. E l’acqua non c’è. Solo a piccole dosi, per bere, per
pulirsi, ma non si può pulire il fango. Anche la tua promessa
era d’acqua, informe, fresca e limpida, e rimandava i colori di
giorni semplici e ignari, di alberi e fiori che sarebbero cresciuti
da quei giorni. Invece sei andato via, e la promessa d’acqua è
servita solo a trasformare la terra morbida e nuda in fango.
Ma io non ho bisogno di te, e se qui dentro piovesse, anche dal
fango nascerebbero meraviglie che tu non sapresti capire, né
immaginare. Meraviglie più vive e più forti dei tuoi passi da
gorilla sonnambulo, una foresta di meraviglie soltanto mie. Il
mio canto di foglie, di petali e d’acqua, un canto eterno dove
morire in pace. Ma qui dentro non piove mai. Posso solo stendermi, su questa cosa liscia e fredda e dura che non è terra, e
chiedere al cielo grigio e alla luce finta di far scendere un po’
d’acqua. Chiederlo come si chiederebbe un sorso di vita nel
deserto: urlando. Urlando mentre quelli come te camminano,
guardano, calpestano.
Dentro, lassù, nella mischia, sul palco, nella lotta che continua,
nel gioco che si ripete. Con una bella capriola. Risate, applausi
del pubblico. Sono il re, lo sapete? Risate, applausi del pubblico. No, dico davvero. Il popolo non mi ha voluto, Dio non mi
ha graziato, ma sono re. Ciò che non avevo, l’ho conquistato. Il
trono di legno marcio, il mantello di sangue, la corona rubata. Sì, l’ho rubata. Per non rischiare, al proprietario ho preso
anche la testa. Non è difficile come sembra staccare una testa,
anche quella di un re. Risate, applausi del pubblico. Perché
ridete? Erigerò confini di fuoco e muraglie di ossa sulla terra
per segnare ciò che è mio, ingrasserò ingoiando sudditi e cenere, i miei capricci armeranno gli eserciti. Posso farlo, perché
sono il re. Anche se non trovo più il mio trono, il mio mantello,
la mia corona. Mi avete vestito come un buffone, servi infedeli,
fantasmi ubriachi e invidiosi. Mi avete ingannato, sollevato e
portato via dal trono, ma resto comunque il re. Risate, applausi del pubblico. Anche mia moglie è lì con voi, che ride? Anche
lei non mi ha mai preso sul serio. Ma come ha voluto che diventassi re, per ripararsi sotto il mio mantello! Risate, applausi
del pubblico. Lo so che non so fare il re, non ho mai saputo fare
nulla. Mi parlavano, e non ascoltavo. Mi aggredivano, e non
reagivo. Leggevo, e non immaginavo nulla. Pensavo, e non
capivo. Amavo, e facevo del male. Salivo sul trono, e sprofondavo giù, nel pozzo di cadaveri e rifiuti. Risate, applausi del
14
Associazione Universitaria per la Cooperazione Internazionale
www.auci.org ● [email protected]
pubblico. Allora forse una cosa la so fare. Se vi faccio ridere
tanto… Non sono il re, sono il buffone, il giullare che salta e tira
fuori la lingua e cade e si prende una sberla e combina guai e
tutti ridono. Sì, sì però… perché vestito così? Non mi piacciono
i vestiti che mi avete dato, farò ridere di più senza questi stracci, col mio corpo bianchiccio e un po’ flaccido, guardate! Il re
giullare nudo davanti a voi, che c’è di più buffo? E ora invece
non ridete più, gridate e mi portate via, ora che sono nudo…
Ma perché? Non ditemi che adesso vi faccio paura!
Sono Prospero, e aspetto l’inverno. Se mi avessero fatto di
parole in un libro forse la mia magia avrebbe vinto. Avrei
davvero potuto oscurare il sole a mezzogiorno, sollevare le
acque verso il cielo e frantumare le barriere tra gli uomini.
Ma io sono fatto di carne, e i prodigi erano sogni condannati
a svanire. Ciò che resta del mio corpo è raggrinzito e stanco,
seduto su una sedia con rotelle grandi e piccole, posso girarle
avanti e indietro ma resto sempre fermo. Non arrivo mai alla
fine, a quell’inverno che aspetto più di ogni cosa. Nell’inverno
c’è la vera magia, c’è il bagliore di un sole nudo su un letto di
neve, così intenso da lavare le paure degli occhi, i contorni e le
distanze tra le forme. Intanto altri destini di carne mi girano
intorno, e non capiscono, non si capiscono, non li capisco io.
Aspettano con me nella reggia dell’autunno, circondati dai
loro muri. Ho cercato di ascoltarli, ho potuto solo immaginarli.
Ma ho trovato per loro un piccolo pezzo di estate, se sapranno
coglierlo. E’ tutto ciò che sono in grado di offrirgli, mentre mi
consumo. Gocce d’acqua salate che scendono lente tra le rughe.
Due lacrime di un’estate che non c’è più…
“Giornata difficile, Direttore: il paziente 1603 ha tentato di
strozzare un’infermiera, il 1602 si è sdraiata a terra e si è
messa a urlare, il 1605 si è spogliato davanti a tutti… Ah, e il
1611 non la smette di piangere da ore”.
15
Campagna Nazionale
Una sola famiglia umana,
cibo per tutti:
e compito nostro
9 OTTOBRE 2014
17-18 AULA 716, VII piano Policlinico A. Gemelli
Nutrire un Pianeta con 800 Milioni di Affamati (Tatiana Abbonizio, Agata
Battaglia; Master in Alimentazione per il Benessere e la Salute)
10 OTTOBRE 2014
16-18 Biblioteca Casa del Parco Via Pineta Sacchetti 68
Nutrirsi Bene per Nutrire Tutti (Silvia Aquili, Paola Iobbi)
17 OTTOBRE 2014
19-20 Parrocchia di S. Filippo Neri Via Martino V 28
Cibo per Tutti: dipende da noi (Tatiana Abbonizio, Paola Iobbi)
10 - 18 OTTOBRE 2014
Settimana di Informazione sulla Corretta Alimentazione
Nutrirsi Bene per Nutrire Tutti
IV piano Policlinico A. Gemelli
DESTINA IL TUO 5 PER MILLE ALL’AUCI
Nella tua dichiarazione dei redditi (modello 730, CUD, UNICO), nel riquadro “Sostegno delle
organizzazioni non lucrative di utilità sociale...”, firma e indica il codice fiscale dell’ AUCI:
80415960584