Cesarina “la levatrice”: confidenze (postume) di

Cesarina “la levatrice”: confidenze (postume) di una giovane emigrante a
Capracotta
Premessa: Ricordavo che mia madre Cesarina, da molti affettuosamente considerata un autentico
personaggio capracottese (di adozione), avrebbe desiderato scrivere altre memorie del suo periodo
iniziale nel nostro paese; non essendo poi riuscita a farlo, ho pensato di renderle omaggio, a quattro
anni dalla sua scomparsa, riassumendole io fedelmente in questo racconto: ed ho avuto l’ardire di
farlo in prima persona come se si trattasse di un suo manoscritto. Sono certo che me lo
perdoneranno quanti avranno la bontà di leggerlo.
Aldo Trotta
Giovanissima diplomata del 1936 presso la Scuola di Ostetricia dell’Arcispedale “S. Anna” di
Ferrara, che raggiungevo quotidianamente in bicicletta, non avrei mai potuto immaginare che il mio
destino mi conducesse in un paese di alta montagna, per i tempi così “lontano”, come Capracotta:
per restarvi poi definitivamente fissandovi la mia residenza; avevo solo verificato, tra le offerte di
lavoro per un incarico “interinale” di ostetrica condotta, che le maggiori segnalazioni provenivano
dal Centro-Sud ed in particolare dal Molise. Del resto mi consideravo disposta ad affrontare
qualsiasi difficoltà per una prima esperienza
di lavoro che, oltre tutto, avrebbe finalmente
compensato di tanti sacrifici anche mia madre vedova. Non avevo peraltro riflettuto al prevedibile
disagio rappresentato dalle rilevanti diversità socio-culturali esistenti allora tra Nord e SUD Italia:
tanto è vero che accettai a caso il primo dei tre comuni che mi propose la Prefettura di Campobasso
notando solo che, assai singolarmente, la lettera iniziale dei loro nomi era per tutti e tre una “ P”
(come “Prova”?).
Ero soddisfatta, anche se abbastanza spaventata e ricordo che, affamata e stanca dopo il lungo
viaggio, mi fermai a pranzo in una simpatica trattoria: in cui ebbi grande esitazione prima di farmi
servire, tra l’altro, una porzione di “caciocavallo”: che, pensavo fosse un formaggio ottenuto dal
latte equino! Lo gradii invece moltissimo, ma di lì a poco fui costretta a prendere un autobus per la
destinazione “P” in cui sarei rimasta meno di tre mesi: e non mancò infatti il primo impatto assai
negativo in quanto fui costretta a raggiungere il centro abitato percorrendo a piedi, da sola, al buio
e con una pesante valigia oltre un Km. dalla fermata del pullman. Nulla da eccepire poi per quanto
riguarda la buona famiglia presso cui fui ospitata “a pensione”, ma con la padrona di casa che, ogni
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volta che uscivo, mi terrorizzava raccomandandomi in assoluto di non fermarmi per strada neppure
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a chiedere al postino se fosse arrivata una lettera di mia madre: era cioè assai preoccupata del mio
buon nome e della mia reputazione (o piuttosto della sua ?); perciò mi divertivo talora ad
immaginare l’espressione accigliata e severa del suo viso se avessi potuto dimostrarle tutta la mia
disinvolta sicurezza in bicicletta: per quei tempi considerata da vero “maschiaccio”; ma preferisco
sorvolare sui diversi altri aspetti
negativi di quel breve periodo che mi lasciarono davvero
sconcertata e delusa: mi sembrava a volte di vivere in un altro pianeta e maturai così la decisione di
“gettare la spugna”: mi dispiaceva però di apparire sconfitta così presto e, testardamente, decisi di
fare un ulteriore tentativo presso la Prefettura di Campobasso alla ricerca di altri sbocchi e
cancellando le mie nerissime previsioni. Fu così che mi segnalarono la disponibilità temporanea
anche del comune di Capracotta e la lettera iniziale di questo stranissimo, ma simpatico nome
(“C”), mi suonò paradossalmente come una garanzia di “Cambiamento”: non diedi peso perciò a
quanto, in perfetta buona fede, il funzionario di turno mi raccontava in merito alla sua terribile
stagione invernale ed alla neve che anche in quel mese di febbraio vi era scesa copiosamente.
Fu in questo modo che iniziò la svolta più imprevedibile ed importante della mia vita, sia pure
essendomi “vaccinata” così negativamente, mio malgrado, contro tutto il Molise; perciò fu
inevitabile che io mi dimostrassi, anche a Capracotta, assai prevenuta e molto poco socievole: a
cominciare dal mio arrivo in treno alla stazione ferroviaria di San Pietro Avellana in cui fui costretta
a sostare a lungo prima della coincidenza di una “corriera” e proprio per la grande quantità di neve.
Già temendo un ulteriore e più grande insuccesso, ricordo che osservavo con una certa diffidenza il
solo passeggero sceso con me dal treno: che mi tenne invece, molto signorilmente, tanta compagnia
mentre io apparivo palesemente sorpresa per la sua alta statura e l’inconsueta mole corporea; si
trattava infatti, come appresi in seguito, del notissimo avvocato don Giulio Conti (di cui poi
conobbi anche il buffo nomignolo di Giù-Giù”) e che, quasi leggendomi nel pensiero, si prodigò in
una appassionata “difesa d’ufficio” della neve in cui mi vedevo immersa per la prima volta.
Nel periodo iniziale del mio soggiorno a Capracotta, sempre considerandolo del tutto temporaneo,
ebbi la fortuna di essere accolta “a pensione” proprio accanto alla piazza Stanislao Falconi presso la
famiglia del compianto Giovanni Borrelli la cui mamma (zia Antonietta) divenne presto la mia
migliore confidente; e potrei raccontare tantissimi episodi in cui mi fu di grande conforto e di
fondamentale aiuto psicologico: a cominciare dalla prima domenica in cui, ritenendo che l’orario
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della Santa Messa nella Chiesa Madre fosse alle ore 8.30, la raggiunsi a stento con delle scarpe del
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tutto inadeguate alla montagna. Ebbi la sorpresa di non vedere nessuno nella bella cattedrale, ad
eccezione di due gruppi di uomini avvolti in grandi mantelli a ruota neri (“i cappotti”) che, seduti a
semicerchio intorno ad altrettanti bracieri accesi, si alternavano in due cori accompagnati
dall’organo nel canto dei Salmi alla Vergine Maria (il cosiddetto “Ufficio”) e prima della
Celebrazione vera e propria. Attirò la mia attenzione uno di loro, (si trattava del sig. Giovanni
“Grifa”), che mi invitava con grandi ed affettuosi gesti della mano a raggiungerli: intendeva solo
associarmi al loro calore umano prima ancora che a quello dei bracieri di cui avevo parimenti
bisogno, ma io scappai via impaurita per rifugiarmi tra le braccia della zia Antonietta: che mi diede
spiegazione di tutto, compreso il fatto che lo “zio Giovanni”, suo parente, aveva già appreso proprio
da lei del mio arrivo in paese. Feci comunque in tempo a tornare sui miei passi ascoltando la Santa
Messa alle ore 9: in verità con un po’ di rimorso ricevendo di nuovo i saluti, ancora più affettuosi,
di quei buonissimi “angeli neri”.
Negli stessi giorni era stato inevitabile suscitare la curiosità di tante persone a Capracotta; in
particolare, essendomi recata spesso in municipio, ebbi occasione di conoscere uno stimato
funzionario, amico da sempre del mio futuro marito Ottaviano Trotta: il Sig. Michele Ianiro
(“Giorgett”).
Perciò anche
sua
moglie, la signora Penelope Carnevale, non resistette alla
tentazione di chiedergli che cosa si dicesse in giro di me; e la sua schiettissima quanto telegrafica
risposta fu: “E’ come una gatta foresta”, cioè è come una “gatta selvatica” e nessuno certamente
avrebbe potuto dipingermi meglio in così poche parole; per fortuna, grazie alla incredibile
indulgenza dei capracottesi, ebbi modo di demolire abbastanza presto questa mia poco lusinghiera
immagine iniziale: anche e soprattutto agli occhi di Penelope e per di più accettando poi la
proposta di matrimonio del loro carissimo amico Ottaviano (che avrei sposato nel 1940).
Sempre restando a quel periodo, non posso non ricordare il mio stupore per l’arrivo inatteso di
mia madre Guglielma; neanche il tempo di farle superare lo shock della neve per dirle, tra l’altro,
che non sarebbe stato possibile disporre di carne vaccina perché nel paese veniva utilizzata quasi
esclusivamente carne ovina e suina o del pollame; e lei mi tranquillizzò con molta serenità dicendo:
“Se tante persone così amabili sopravvivono agevolmente, non vedo perché noi dovremmo
preoccuparci!”. Finché, un giorno in cui avevo assistito a ben due parti durante la notte e rientrando
spossata a casa, sentii l’odore del brodo in pentola e vidi sul tavolo dei tagliolini all’uovo di sfoglia
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appena tirata a mano: ne fui lietissima illudendomi che un nipote della Sig.ra Antonietta fosse stato
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incaricato di acquistare della carne vaccina a Campobasso e certa soprattutto di poterne conservare
a lungo una certa scorta in un frigorifero naturale come Capracotta; ne trangugiai in un fiato ben
due piatti colmi e solo allora mia madre, confessando di avermi tratta in inganno, mi rivelò che
avevo appena consumato del
brodo di “pecora”: senza neppure accorgermene e per di più
apprezzandone moltissimo il sapore.
Ricordo poi che, ancora ospite della famiglia Borrelli, capitò per la prima volta che fossi chiamata
ad assistere un parto in una lontana casa colonica in contrada “Masserie di Guastra”, allora
raggiungibile solo a piedi o a cavallo: ed io non sapevo certo cavalcare ma la zia Antonietta,
dimostrando grande lungimiranza, mi convinse a indossare un paio di pantaloni da sci di sua figlia
Elena e riuscii perciò a superare lo spavento di appollaiarmi sullo scomodissimo “basto” per
raggiungere quella “masseria”. Mi commossero poi sinceramente la grande attenzione e la premura
nei miei confronti da parte dei congiunti della puerpera (di cui mi spiace non ricordare il nome) e
poi la loro gratitudine dopo la nascita di un bel bambino: al punto da farmi dimenticare prestissimo
il grosso “mal di schiena”, dovuto allo sforzo di sorreggermi a cavallo, che inevitabilmente mi
accompagnò nei giorni successivi. In definitiva ero orgogliosa di cominciare a sentirmi, sia pure
immeritatamente, una “immigrata” molto ben “integrata”: eppure riuscivo a comprendere ancora
pochissimo dello splendido dialetto capracottese anche se, d’altro canto, mi rendevo conto che
nessuno in assoluto riusciva a capire i colloqui in dialetto ferrarese tra me e mia madre.
Altrettanto emozionante ed affettuoso è il ricordo del compianto farmacista (allora anche
Podestà del Comune) don Costantino Carnevale: ad esempio parlandogli del mio scrupolo di non
riuscire talora a mantenere abbastanza sterile quanto occorreva per l’assistenza ai parti ecc.: specie
allorquando, inevitabilmente, dal soffitto in travi di legno di molte povere, ma dignitosissime case
di allora, cadeva un po’ di polvere; e mi sono rimaste impresse le sue parole rassicuranti, forse un
po’troppo, che pronunciava in una pericolosa era pre-antibiotici: “Vedrà che molto difficilmente,
qui in montagna e tra i montanari, le capiterà un caso di “sepsi puerperale”; e posso confermare
che, per mia grande fortuna, è stato un buonissimo profeta. Don Costantino si prodigò anche per
rassicurarmi circa l’innocuità della fasciatura molto costrittiva per i neonati (cui non ero assuefatta)
e dell’uso, purché sporadico ed oculato, dei succhiotti di tela imbevuti con un po’ di zucchero (“la
pupattella”): tutte cose, lui ribadiva, che facevano parte di una consolidata e antichissima tradizione
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a Capracotta come le famose culle di legno (“le scionne” ) fatte a mano da bravissimi falegnami e
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davvero ottimali quanto a stabilità ed efficacia.
Di moltissime altre esperienze relazionali e soprattutto del grandissimo affetto ricevuto a
Capracotta ho trattato in alcuni miei precedenti, piccoli documenti: specie in riferimento al
tristissimo periodo della distruzione del paese durante l’ultimo conflitto mondiale e ad essi
naturalmente rimando per non tediarvi oltre modo e soprattutto per non essere ripetitiva.
Ciò che ho voluto aggiungere in questo racconto è solo per sottolineare ancora una volta e molto
sinceramente la differenza tra la pur innocente “povertà socio-culturale” della mia prima sede
molisana e l’elevatissimo livello di apertura mentale di Capracotta: beneficiandone poi per circa 22
anni. Non esagero affermando che si trattava davvero di una incredibile disposizione
alla
“accoglienza” di cui non sono mai riuscita a darmi una spiegazione completa; pur essendo convinta,
da “emigrante atipica” qual ero, che il suo segreto fondamentale risiedesse nell’antico e faticoso
curriculum di “emigranti tipici” che il popolo di Capracotta aveva dovuto e saputo costruirsi: non è
forse assai emblematico il monumento eretto davanti al Santuario della Vergine di Loreto? Ora il
mio augurio è che, pur nell’inevitabile mutare dei tempi, questo enorme patrimonio non solo resti
come la migliore eredità per le giovani generazioni, ma si accresca diffondendosi a macchia d’olio;
ce ne sarebbe ancora, infatti, un bisogno enorme come le tristi cronache attuali di intolleranza e di
conflitti dovrebbero rammentare.
Avviandomi così alla mia ultima confidenza, non mi vergogno di confessare che, allorquando nel
1959 mi sono trovata nella necessità assoluta di trasferirmi di nuovo, questa volta a Bojano per le
esigenze di studio dei miei figli, ho pianto tantissimo: assai di più e più a lungo di quando ero
partita come anomala “emigrante NORD-SUD” (sia pure con la classica valigia); a proposito, mi
piace sperare che si intraveda anche un po’ del mio profilo, pur così “atipico”, nel volto della
giovane donna del monumento appena citato. Se così fosse, ne sarei umilmente lusingata, ma il
merito andrebbe tutto a quella profetica “ C” di Capracotta: che ringrazio ancora di cuore con un
abbraccio per tutti.
Aldo Trotta
P.S.: Cesarina Lanzoni Trotta (per tutti “la Levatrice”), tornata stabilmente a Capracotta
solo nell’ultimo periodo del suo percorso terreno, vi è deceduta serenamente all’età di 98 anni nella
sua abitazione di Via Nicola Falconi il giorno 7 Luglio 2010; ed ora riposa accanto al marito
Ottaviano nel nostro Cimitero (all’ombra di Monte Campo, come le piaceva ripetere):
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REQUIESCAT IN PACE
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