come fiori nella polvere

khalil gibran
come fiori
nella polvere
a cura di
Hafez Haidar
Dedico questo libro ai presidenti Rina Gambini,
Mario Esposito, Mariolino Papalia,
Santino Bonsera e Mirco Manuguerra
e ai miei collaboratori: Rosella, Miriam e Andrea.
Redazione: Edistudio, Milano
I Edizione 2010
© 2010 - EDIZIONI PIEMME Spa
20145 Milano - Via Tiziano, 32
[email protected] - www.edizpiemme.it
Stampa: Mondadori Printing S.p.A. - Stabilimento NSM - Cles (Trento)
Introduzione
Questo libro racchiude racconti imperniati sul mondo
femminile, storie di donne ingannate dalla perfidia
dell’uomo ricco e prepotente, comprate e vendute a
un prezzo vile, esposte nei saloni come oggetti di ornamento, motivo di vanto e di grandezza.
Contiene riflessioni, poesie e lettere d’amore inedite,
che ci permettono di conoscere il vero volto di Gibran,
profondamente credente in Dio, attaccato alle proprie
radici e agli amici, e alla continua ricerca di se stesso.
Scopriremo un autore che ha lottato per i diritti della
donna e l’ha posta al centro della sua attività di pittore
e letterato.
Le storie che testimoniano la sofferenza femminile si
svolgono nel passato, ma sono ancor oggi tristemente attuali e si ripetono immutate nella società araba.
La donna è tutto per Gibran, è come il Sole intorno
al quale navigano le stelle eternamente e va sottratta alla
tirannia dell’uomo spietato, privo di cuore e di anima.
È fonte di vita e sorgente d’amore; senza di lei il mondo
è un vasto e sconfinato deserto, un teatro ottenebrato
dall’odio e dall’indifferenza. La donna è la via che conduce alla gioia, è l’essenza delle nostre azioni, è la compagna dei nostri giorni e dei nostri alati sogni.
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Il grido di Gibran si leva imperioso contro l’infamia e
la perfidia di uomini che considerano la donna un mero
oggetto di piacere, la discriminano in ogni modo, la riducono in schiavitù, cancellano ogni suo diritto, la costringono a subire violenza anche tra le mura domestiche, la stuprano. Ancora oggi ci sono donne che urlano
senza essere ascoltate, circondate da persone che fingono di non vedere e di non sentire.
Questo è il grande cuore dell’umanità che non
ha il coraggio di denunciare l’infamia e la cupidigia
dell’uomo!
Quante donne sono tutt’ora private dei propri diritti,
offese, oltraggiate, segregate, linciate, uccise! Quante
storie di dolore, quante lacrime e quanta disperazione
ignoriamo ancor oggi?
In un mondo indifferente c’è chi arriva a sgozzare
la propria figlia perché ha osato vivere come un’europea, ha tradito la propria fede, le proprie tradizioni, i propri costumi e le proprie usanze, si è tolta
il velo che avrebbe dovuto nasconderle il volto da occhi estranei. La religione, qualunque religione, ci insegna ad amare i figli, a prenderci cura di loro e a difenderli dalle avversità esterne, ci insegna a rispettare
e onorare la donna.
O uomo violento e malvagio, non dimenticare che sei
fatto di carne e di ossa, sei come una stella cadente, un
breve lampo nello sconfinato cielo! Rammenta che non
vivrai in eterno! Non aver paura di amare e di rispettare chi ti sta accanto!
O donna,
sei il Sole che irradia il mio cammino
verso l’infinito.
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L’alba e il tramonto
coronano il tuo capo
e io navigo intorno a te nel tempo.
In questo misterioso e sconfinato mondo
sei la luce dei miei occhi,
la melodia, la rima dei miei versi.
Sei la sorridente luna tra le stelle,
la terra e il cielo senza nessuna barriera,
la mia dimora, il cuore pulsante della mia vita.
O donna,
perdonami se ti ho tanto amata,
venerata.
Un mondo senza donna
è privo d’amore,
deserto.
Non è il mio mondo.
Perdonami.
Hafez Haidar
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Parte Prima
Fiori nella polvere
Marta al-Bania
Suo padre morì quando lei era ancora nella culla; sua madre spirò prima che lei compisse dieci anni. Rimasta orfana, fu abbandonata nell’umile dimora di un vicino, che
viveva, con la compagna e i figli, dei frutti della terra in un
piccolo podere isolato, in una splendida valle del Libano.
Suo padre esalò l’ultimo respiro, consegnandole in
eredità soltanto il nome e una misera casupola in mezzo
agli alberi di noce e di pioppo. Sua madre scomparve
lasciandole solo lacrime di dolore e l’umiliazione di essere orfana, rendendola straniera nella sua terra natale,
solitaria tra rocce torreggianti e fitti alberi.
Ogni mattina procedeva scalza, vestita di stracci, dietro una mucca da latte nella parte di valle in cui il pascolo era abbondante, poi si sedeva sotto l’ombra dei
rami cantando con le capinere, piangendo con i ruscelli
e invidiando alla mucca l’abbondanza di cibo. Osservava i fiori che crescevano e le farfalle che volteggiavano.
E quando il sole volgeva al tramonto e la fame tormentava il suo corpo emaciato, ritornava alla casupola
e sedeva accanto alla giovane figlia del suo tutore, mangiando avidamente pane di granoturco e una manciata
di frutta secca intinta nell’olio e nell’aceto.
Poi, spargeva a terra un po’ di paglia secca, vi si disten11
deva, appoggiando il capo sulle braccia, quindi si addormentava sospirando e desiderando che tutta la vita fosse
un sonno profondo, non disturbato dai sogni, mai interrotto dal risveglio. Ma, al sorgere dell’alba, il padrone
la chiamava bruscamente per aiutarlo nelle faccende e
la scuoteva dal letargo in cui era piombata, lasciandola
tremante e impaurita di fronte a tanta rabbia e asprezza.
Così trascorrevano gli anni per la povera Marta, tra
colline e lontane vallate. Mentre nel suo cuore nascevano emozioni mai conosciute prima, simili al profumo
che scorre nella profondità di un fiore. Sogni e tormenti
si affollavano in lei, come gli animali di un gregge alle acque di un fresco ruscello. Diventò una fanciulla e si sentì
simile a una terra fertile vergine in cui non sono stati piantati i semi del sapere e che avverte su di sé passare i segni dell’esperienza. Aveva un animo puro e grande, anche se era stata esiliata dal destino in quel podere dove la
vita scorreva inesorabile al ritmo delle stagioni. Era simile
all’ombra di un dio sconosciuto seduto tra la terra e il sole.
Noi che abbiamo speso la maggior parte della nostra
esistenza in città affollate, poco sappiamo della vita degli abitanti dei villaggi e delle fattorie isolate del Libano.
Siamo stati trascinati dalla corrente della civiltà moderna
finché abbiamo dimenticato oppure abbiamo finto di non
ricordare la filosofia di quella meravigliosa vita semplice,
colma di purezza e di candore. Se ci voltassimo a contemplarla, la vedremmo sorridere a primavera, sonnecchiare
al sole in estate, mietere in autunno e riposare in inverno,
come madre natura nelle sue varie fasi. Noi siamo più ricchi di beni degli abitanti dei villaggi, ma i loro spiriti sono
più nobili dei nostri. Noi seminiamo molto senza raccogliere niente, loro tutto ciò che seminano raccolgono. Noi
siamo schiavi dei nostri appetiti, loro sono figli della con12
tentezza. Noi beviamo dalla coppa della vita un liquido
intorbidito dall’amarezza, dalla disperazione, dalla paura
e dalla noia, loro sorseggiano acqua limpida e pura.
Marta compì sedici anni: la sua anima era uno specchio sfolgorante in cui si rifletteva la bellezza dei campi e
il suo cuore era un’ampia vallata in cui risuonava l’eco di
tutte le voci. In un giorno d’autunno colmo dei lamenti
della natura, sedette accanto a una sorgente; si sentiva
liberata dalla prigione terrena come pensieri affrancati
dall’immaginazione di un poeta. Si soffermò a scrutare
i volteggi delle foglie autunnali ingiallite con le quali il
vento giocava, come la morte gioca con le anime degli
uomini. Poi, fissò lo sguardo sui fiori e vide che erano
appassiti, i cuori disseccati e spezzati. Avevano riposto i
loro semi al sicuro sotto terra, così come le dame nascondono i loro gioielli in tempo di rivoluzioni e di guerre.
E mentre guardava i fiori e gli alberi, condividendone
lo strazio al passare dell’estate, udì uno scalpitio di zoccoli sui sassi della valle. Voltò il capo e vide un cavaliere
che avanzava lentamente verso di lei. I suoi abiti e il suo
aspetto rispecchiavano nobiltà e ricchezza.
Smontò dal destriero e la salutò con gentilezza, come
nessun uomo aveva fatto prima d’allora. Poi le chiese:
«Ho smarrito la strada che conduce verso la costa. Fanciulla, potresti indicarmela?».
Tesa come un ramo sul bordo della sorgente, rispose:
«Non la conosco, mio signore, ma vado a chiedere al mio
padrone, che sicuramente saprà indicartela».
Pronunciò queste parole con timidezza e umiltà, che
misero in risalto la sua bellezza. E quando stava per andarsene, l’uomo la fermò. Nelle sue vene scorreva il
granato vino della giovinezza e i suoi occhi cambiarono
espressione mentre diceva: «No, non andare!».
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Rimase immobile e stupita: percepiva in quella voce
una forza che le impediva di muoversi. E quando si sentì
liberata dalla timidezza e gli lanciò un’occhiata sfuggente,
notò che l’uomo la scrutava con molta attenzione, ma
non riuscì a capirne il motivo. Poi lui le rivolse un sorriso talmente magico da farla piangere dinanzi a tanta
dolcezza. L’uomo si soffermò con lo sguardo sui piedi
scalzi, sui bei polsi, sul collo liscio e sui capelli morbidi
e folti. Contemplava con ammirazione la pelle resa lucente dai raggi solari e le braccia che la natura aveva
modellato forti. Lei, intimorita e piena di vergogna, non
voleva andare via, né riusciva a proferir parola, senza capirne la ragione.
Quella sera, la mucca da latte tornò da sola nella
stalla, mentre Marta non fece ritorno. E quando il suo
guardiano rincasò dal campo, la cercò dappertutto, inutilmente. La chiamò, ma ottenne risposta solo dall’eco
delle grotte e dal fremito del vento tra gli alberi. Ritornò
alla casupola con il volto segnato dal dolore e annunciò
la triste notizia alla consorte, che pianse tutta la notte,
mormorando tra sé: «Una volta ho sognato la giovane
tra gli artigli di una bestia rapace che la divorava mentre lei sorrideva e piangeva».
Questo è tutto ciò che riuscii a sapere della vita di
Marta in quel bel villaggio, ascoltando il racconto di un
vecchio contadino che l’aveva conosciuta quando ancora era una bambina.
Scomparve da quei luoghi senza lasciare alcuna traccia, tranne le lacrime negli occhi della moglie del suo
padrone e un pietoso ricordo, trascinato in quella valle
dalla brezza del mattino e subito svanito, come il respiro
di un bambino sul vetro di una finestra.
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Venne l’autunno del 1900 e ritornai a Beirut dopo
aver trascorso le vacanze scolastiche nel Nord del Libano. Prima di ritornare a scuola, passai un’intera settimana vagabondando con i miei amici nella città; godemmo insieme le gioie della libertà di cui la gioventù è
golosa, ma che sono proibite nelle case dei genitori come
tra i muri della scuola. Eravamo simili a uccelli che avevano visto le porte delle gabbie dischiuse dinanzi a loro
e spiccavano il volo saziando il cuore con canti di gioia.
La gioventù è un bel sogno, ma la sua dolcezza è consumata dallo squallore dei libri e il suo risveglio è brusco. Verrà un giorno in cui i saggi saranno in grado di
unire i sogni della gioventù e il piacere della conoscenza
come i rimproveri uniscono i cuori in conflitto? Verrà
un giorno in cui la natura diventerà maestra del figlio
d’Adamo, l’umanità il suo libro e la vita la sua scuola?
Verrà quel giorno? Non lo sappiamo, però sentiamo che
camminiamo in perpetuo verso un progresso spirituale,
che quel progresso consiste nel raggiungimento della
bellezza di tutte le creature attraverso la nostra bontà
e che la diffusione della felicità avverrà grazie al nostro
attaccamento a quella bellezza.
Un giorno, al calare della sera, mentre, seduto sulla
veranda della casa, osservavo l’affannato andirivieni dei
passanti nella piazza e ascoltavo le grida dei venditori
ambulanti che decantavano la bontà delle loro merci
e dei loro cibi, si avvicinò a me un bambino. Doveva
avere cinque anni, indossava vecchi stracci e portava
sulle spalle un cesto colmo di mazzi di fiori. Con un filo
di voce soffocato dall’umiliazione e dalla rassegnazione
domandò: «Compri un fiore, signore?».
Guardai il piccolo viso pallido e notai gli occhi cer15
chiati dalle ombre della povertà e della stanchezza, la
bocca dischiusa appena, come una ferita profonda in
un petto trucidato, le braccia nude ed emaciate, l’esile
corpo piegato sotto il peso dei fiori come una rosa ingiallita e appassita in mezzo a erbe verdi e rigogliose. Vidi
tutto ciò con un solo sguardo e mostrai la mia compassione con un sorriso più amaro delle lacrime. Uno di
quei sorrisi che scaturiscono dalla profondità dei nostri
cuori per affiorare sulle labbra. Uno di quei sorrisi che
arrivano sino agli occhi.
Comprai alcuni fiori, ma volevo le sue parole perché
percepii che dietro quello sguardo triste si celava un piccolo cuore in cui si condensava un capitolo della tragedia dei poveri, quella che si recita all’infinito sul palcoscenico dei giorni e che solo pochi desiderano vedere perché
troppo dolorosa. Quando gli rivolsi parole affettuose, si
rasserenò. Mi guardò stupefatto, poiché era, come i suoi
poveri amici, abituato alle aspre parole di coloro che guardano i ragazzi di strada come oggetti immondi senza valore
e non come piccole anime ferite dalle frecce del destino.
Gli domandai: «Come ti chiami?».
Rispose, tenendo gli occhi fissi a terra: «Mi chiamo
Fouad».
Gli chiesi: «Di chi sei figlio e dove sono i tuoi genitori?».
«Sono figlio di Marta al-Bania.»
«E dov’è tuo padre?»
Scosse la testa come chi non conosce cosa significhi
la parola padre.
Gli chiesi allora: «Dov’è tua madre, Fouad?».
«È a casa, malata.»
Rimasi colpito da queste ultime parole del bambino,
che suscitarono tristi fantasmi. Improvvisamente com16
presi che la povera Marta, le cui vicende mi erano state
narrate da quel contadino, si trovava a Beirut, malata.
Quella giovane che viveva un tempo quieta e sicura tra
gli alberi e le valli, soffriva le angherie della fame, della
povertà e della sofferenza. Quell’orfana che aveva speso
i giorni della sua gioventù nel cuore della natura, conducendo le mucche al pascolo nei campi fioriti, era stata
trascinata dalla corrente della città corrotta ed era preda
della povertà e della desolazione.
Mentre riflettevo, il bimbo continuava a scrutarmi,
come se con la sua anima pura avesse visto il mio cuore
andare in pezzi. E quando si mosse per andarsene, gli
afferrai la mano e gli dissi: «Portami da tua madre perché desidero vederla».
Camminò dinanzi a me stupefatto e silenzioso. Di
tanto in tanto si voltava per vedere se davvero stavo seguendo i suoi passi.
In quelle viuzze sporche dove l’aria era intrisa del respiro della morte, tra quelle case diroccate dove i malvagi
compivano i loro crimini al riparo della notte, in quei
vicoli che guizzavano a destra e a sinistra come serpenti
neri, camminai impaurito e attento dietro al bambino
che, nonostante l’età e la purezza del cuore, mostrava il
coraggio di chi è esperto dei tranelli e degli inganni dei
bassifondi di una città nota agli orientali come “Sposa
della Siria” e “Perla sulla corona dei sultani”.
Arrivammo infine nella periferia del quartiere e il ragazzo entrò in una misera casa che con il passare degli
anni aveva conservato solo mura diroccate.
Entrai dietro di lui e il mio cuore batteva all’impazzata. Mi ritrovai al centro di una camera dall’aria umida.
Non c’erano mobili, solo una lampada a olio, la cui debole luce lottava contro l’oscurità con lampi giallastri,
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e un umile letto il cui aspetto rispecchiava un’estrema
povertà. Sul giaciglio era sdraiata una donna addormentata con il viso rivolto verso la parete per cercare protezione dall’ingiustizia del mondo.
Il ragazzino si avvicinò a lei chiamando: «Mamma».
La donna voltò il capo verso di lui e lo vide indicare me.
Si mosse sotto le coperte rattoppate e con una voce sofferente e interrotta dai lamenti amari dell’anima esclamò:
«Cosa vuoi, uomo? Sei venuto a comprare gli ultimi giorni
della mia vita, insozzandola con i tuoi desideri carnali?
Vattene. Le strade sono piene di donne disposte a venderti i loro corpi e le loro anime a un vile prezzo. Ormai
io posso vendere solo i residui di un’anima spezzata! Tra
non molto la morte la comprerà con la pace della tomba».
Addolorato nel sentire quelle parole che celavano il
suo doloroso calvario, mi avvicinai al suo giaciglio.
Cercando di trasmetterle i miei sentimenti attraverso
le parole, le dissi: «Non devi temermi, Marta! Non sono
venuto da te come bestia famelica, ma come un uomo
addolorato. Sono libanese e ho vissuto a lungo in quelle
vallate e in quei villaggi vicini alla foresta di cedri. Non
avere paura di me, Marta!».
Ascoltò le mie parole attentamente e comprese che
provenivano dal profondo di un’anima che soffriva con
lei, scossa sul suo giaciglio dal tremore, come un ramo
spoglio al vento invernale. Poggiò le mani sul viso, come
se volesse nascondersi da un ricordo, spaventoso nella
sua dolcezza, amaro nella sua bellezza.
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