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recupero ontologico e testuale del corpo
come (s)oggetto dialetticamente aperto nei confronti della realtà costituisce il
nodo centrale della poetica di Mancinelli,
la cui percezione corporale della poesia
è particolarmente vicina alle metamorfosi
dell’io di Elisa Biagini in Nel Bosco (Einaudi 2007) e Da una crepa (Einaudi 2014).
Tuttavia, mentre in Biagini la riscoperta
del corpo è piegata alla definizione della
propria identità, Mancinelli, per dirla con
Mario Benedetti, mira a costruire «un’i-
dentità». L’esistenza diventa così forma
di scrittura, e la vita, priva oramai di quel
‘peso’ ‘umano’ che l’«alba» ha «raccolto in sacchi scuri», assume i contorni di
una stanza, dove il (s)oggetto poetico si
è metamorfizzato in una finestra socchiusa. Attraverso questa suggestiva immagine («quello che sono è una finestra»),
che figura quale manifesto poetico della
raccolta, Mancinelli unisce tra le pieghe
anatomiche di Pasta madre lo spazio
esterno e il tempo interiore in un unico
movimento armonico, dove il mondo
degli animali e la presenza corpuscolarecorporale dell’io promuovono sincronicamente una palingenesi laica del dettato
poetico; così facendo, Franca Mancinelli
ristabilisce l’ordine e l’equilibrio tra l’io e
l’altro, secondo un principio di conservazione piegato alla riscoperta della materialità dell’esistenza all’interno del corpo
letterario.
GUIDO MONTI, Fa freddo
nella storia, Azzate, Stampa
2009, 2014, pp. 74, € 12,00.
ta, sopra le nostre fragili spalle di postumi
novecenteschi: Scalia, Caproni, Giudici,
i pittori concreti, da Morandi a Rosai,
gli amici scrittori da Bertoni a Cucchi, i
campioni sportivi del suo mito, da Bartali
a Saronni, il guerriero dalle bande nere;
lentamente la lirica privata e la memoria
ossessionata dalla sparizione dei testimoni, si sfilano verso l’epica del personaggio che prende il posto dell’autore
lirico. Il realismo, secondo Pasternak, è
questo oltrepassamento dell’indirizzo letterario, della corrente precostituita, non
essendo invece forse nient’altro che «un
grado di artisticità, il livello più alto della precisione di un autore»; precisi sono
i contorni di questo cinema evocativo,
preciso il lessico del paesaggio emiliano,
la compresenza dei suoi tempi storici,
l’evocazione «dell’era dell’ultra capitale», che ci perseguita senza posa, e del
mondo medievale e contadino, con la
fitta memoriale dell’infanzia, inerme e pugnace. Giovanni, Elda, Francesca, il Marco sparito di Berlino, il prete del dialogo
del «Temp…», con le proiezioni nobili dei
campioni e degli artisti, sono figure buone e memorabili, che l’incalzante finale
riconvoca alla ‘sparizione scongiurata’,
nel personaggio del poeta Giovanni forse
Giudici, disorientato e veridico, allegoria
delle voci interiori in subbuglio; e poi la
metrica, si direbbe roversiana, doppio
settenario o doppio ottonario, esametro
con sei accenti forti, che vira la lirica in
poema. Si apprezza quindi il lavoro che
Monti ha compiuto forse in dialogo con
altri autori anche sul versante stilistico.
Non c’è più quella frase slentata, troppo
prosa-prosa, troppo lunga, come a volte accade nella plaquette del 2008 Eri
Bartali nel gioco o troppo franta come
ricordo in Millenario inverno, ma una forma (che Cucchi nella nota introduttiva
chiama «materica», originale), e che forse poi tanto originale non è, se l’impeto
dell’esametro, come si accennava, pare
ricomporre una metrica barbara e carducciana, profondamente radicata nella
tradizione emiliana, fino a Delfini, se non
ci sbagliamo; irregolare, ma non troppo,
se si conta sempre una costante di sedici sillabe, quindici, diciotto, in cui ballano
i sottomultipli degli emistichi ‘barbarici’,
settenario, ottonario, novenario, liberamente combinati per il flusso, a nostro
avviso, filmico, sempre da inquadratura
o piano-sequenza, passeggiata per l’audio, incontro, memoria scolpita come in
Vite (Bartali vs Bobet): «e Bartali ce l’hai
sempre in testa? nel gioco di gambe /
te l’ho mimato, alzava la testa solo per
guardare il cielo come quella volta sul
Mont Ventoux». Questa forma metrica
insomma pare il vero mito e il racconto
dello spasmo memoriale, che si fa durata: una gran tappa, vinta, con tutti gli
applausi del caso.
LI 02/2014
Si esce dalla prima lettura del nuovo
libro di Guido Monti (che è quella che
conta, le nuove approfondendo l’emozione metrica) con la convinzione lieta del
suo valore; la lingua di questa ‘cronica’,
quasi una cronica di Bologna, come nella
poesia Osteria del sole: «noi traversando
del novecento ultimo di Bologna / questo
suo concorde concènto di finissima civiltà / di uomo su uomo arrangiata, come
sonata sul riso», si sgrana nella forma del
canzoniere epicizzante, con prudente
scioltezza, dal surplace alla corsa veloce, dalle liriche narranti e figurate agli
scioltissimi poemetti finali, sui miti personali, poetici e ciclistici, letterari e paterni.
Sembra un libro sui padri, anche, sul loro
caldo cappotto, sulla nostra storia gela-
(Alberto Comparini)
(Gianni D’Elia)
Poesia Italiana
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