SPORT- I GRANDI CAMPIONI DELLO SPORT RICORDANDO MARCO SIMONCELLI, NATO IL 20 GENNAIO 1987 di Francesco Gori Ricordo con dolorosa lucidità quel maledetto giorno. Un urlo si propagò nell'aria, poi la fulminante notizia: "Marco Simoncelli ha avuto un incidente durante il Gran Premio di Sepang, in Malesia." Era il 23 ottobre 2011. In Italia una domenica mattina, una maledetta mattina di una maledetta domenica. Era nato il 20 gennaio 1987 in quel di Cattolica, il Sic, emiliano purosangue. Ci eravamo accorti di lui nel lontano 2004 a Jerez quando, a soli 17 anni, conquistò la sua prima vittoria in 125. Chi segue il motociclismo, capì subito che quel ragazzo dalla faccia pulita e i capelli all'epoca ancora corti non era uno qualsiasi. Passato in 250, fu il 2008 a consacrarlo campione del mondo proprio sulla pista di Sepang, dopo una stagione straordinaria, condita da sei successi alla guida della sua Gilera. ilsole24ore.com L'ancor giovane Valentino Rossi sembrava già aver trovato il degno erede. La guida battagliera, l'enorme "casco di capelli", il fisico imponente che si faceva tutt'uno con la carena della sua moto, l'inconfondibile numero 58. Un pilota dalla classe cristallina e dall'enorme sorriso di chi viveva il suo sogno, quello di correre. E Simoncelli correva così forte che, diventato ormai personaggio di richiamo mediatico e pilota vincente, passò in MotoGP nel 2010 col team Gresini. Non senza le ovvie difficoltà di adattamento. Un anno di esperienza, poi la stagione 2011 cominciò con ottimi piazzamenti e due pole position che confermarono il talento assoluto di Marco. Con la sua Honda non ufficiale, a Brno arrivò il primo podio, a Phillip Island il miglior piazzamento di sempre, secondo dietro Casey Stoner. Un'escalation di risultati destinata senza dubbio a elevarsi all'ennesima potenza, prima del brusco scherzo del destino nel Gp della Malesia, appena una settimana dopo. La vita è strana. È fugace. Capace di regalare grandi gioie e dolori indicibili. Ti porta in alto, a toccare il cielo di un sogno impossibile, poi d'improvviso cancella tutto in un attimo. Marco ne è l'esempio lampante, e come lui sono tanti i grandi campioni dello sport e della vita di tutti i giorni richiamati lassù troppo presto. Troppo presto. Ma ripensando al Sic, il doloroso ricordo si fa consapevolezza di un ragazzo che ha lasciato un segno indelebile negli appassionati di motociclismo, negli sportivi tutti e non solo: non solo velocità, quanto simpatia e semplicità, queste le caratteristiche che lo distinguevano in un paddock troppo spesso serioso, privo di vere personalità e specchio dell'enorme giro di affari tutt'intorno. Quando si parla e si rammenta Marco Simoncelli è impossibile essere tacciati di facile ed eccessiva glorificazione. Perché il suo viso raggiante e la sua moto n.58 rimarranno per sempre. MICHELE ALBORETO E LA FERRARI N.27 di Francesco Gori Se mi chiedono chi era Michele Alboreto, non posso che rispondere "la Formula 1 degli anni Ottanta", rappresentante di un mondo lontano, eppur capace ancora di emozionare al ricordo. Erano i primi anni dei "Mitici", e il pilota nato a Milano il 23 dicembre 1956, guidava una Ferrari. Chi scrive era un bambino, e stava assistendo al suo primo gran premio in assoluto da un divano, nel cuore della campagna toscana: fu nel ritiro della Rossa preferita che conobbe per la prima volta il sapore dolce-amaro del tifo motoristico, compresa un'ingenuità tutta infantile: "Ci credo che si è ritirato, si è staccato il volante!" risposi alle affermazioni tecniche del mio amico più grande, da intenditore di motori quale non ero. Michele Alboreto era l'indimenticabile n.27 di Maranello. Un pilota gentleman, capace di andar forte rispettando gli avversari. Anti-personaggio per scelta, faceva della serietà in pista il suo punto forte: le sue indicazioni tecniche erano precise e preziose, la grinta non gli mancava. Ci andò vicino al titolo, Michele. Correva l'anno 1985, il suo secondo di rosso vestito, dapprima con il compagno degli esordi René Arnoux, poi con la meteora Stefan Johansson. A suon di piazzamenti si portò in testa al mondiale, vinse in Canada e soprattutto in Germania (tre i successi con il team di Enzo, compreso il Gp del Belgio 1984, altri due in Tyrrell) con una rimonta spettacolare ai danni del rivale Prost. Ma il finale di stagione fu segnato da guai tecnici continui della sua Ferrari 156-85, con conseguenti ritiri che consegnarono l'iride al francese della McLaren. Anche nelle stagioni successive, la Ferrari non si dimostrò un mostro di affidabilità, e guasti tecnici insieme ad incidenti sfortunati, minarono una carriera che non conobbe più acuti. La magica doppietta Ferrari nel Gran Premio di Monza del 1988, ad un mese dalla morte dell'amato Enzo Ferrari, colui che lo aveva scelto per indossare la tuta di Maranello, fu l'ultimo, amaro podio rosso: a vincere fu infatti Berger, con Alboreto incollato negli scarichi. Conclusa l'epopea rossa, gli ultimi anni in Arrows (poi divenuta Footwork) e Minardi. Ero a Montecarlo per lui, nel 1991: tifavo ancora rosso, ma era un rosso striato, quello della Footwork numero 9 dal casco gialloblu. Mentre cercavo di carpirne i segreti con la macchina fotografica, Michele non apparve più. Si ritirò mestamente, mentre a vincere fu un certo Ayrton Senna, davanti a Nigel Mansell e a Jean Alesi, un altro Paperino della Formula 1 che lo aveva sostituito al volante di una Ferrari. E nel mio futuro cuore ferrarista. Poi le gare a ruote coperte, la Le Mans, le apparizioni in RAI come commentatore, con la sua faccia pacioccona e il suo gergo tecnico. Fino a quel tragico 25 aprile 2001 a Lausitzring quando durante i test di preparazione alla 24 Ore, nella Germania in cui aveva ottenuto la vittoria più bella, una foratura ne cancellò in un istante l'esistenza. Tanti auguri Michele, ultimo italiano a vincere alla guida di una Ferrari. IL MIGLIOR CALCIATORE ITALIANO DI SEMPRE: ROBERTO BAGGIO, DIVIN CODINO di Francesco Gori Il 18 febbraio 1967 nasce a Caldogno Roberto Baggio, il Divin Codino che ha incantato il mondo del calcio con magie da fuoriclasse assoluto dagli anni Ottanta fino al ritiro, avvenuto nel 2004. D'obbligo assegnare a Roberto Baggio la palma di "miglior calciatore italiano di tutti i tempi". Se facciamo un salto indietro nel tempo, Silvio Piola, Giuseppe Meazza, Valentino Mazzola (capitano del Grande Torino), Giacinto Facchetti e Gianni Rivera sono i nomi che più di tutti possono competere per il primo gradino di questa speciale classifica. Personalmente non li ho mai visti giocare - è dunque legittimo metterli in secondo piano rispetto ad un genio vissuto dal vivo -, ma la loro leggenda arde ancora, ben documentata. In tempi più recenti, Francesco Totti e Alessandro Del Piero sono gli altri nomi in lizza. Ma non me ne vogliano i supporters di tali fenomeni del calcio: come Sanremo è Sanremo, Baggio è Baggio. Roberto è stato il Maradona italiano - anche se qui stiamo parlando di un destro, non di un mancino -, l'esteta col pallone attaccato ai piedi, colui che non potevi non applaudire, persino da avversario. Tecnica sopraffina, fantasista dal gol facile, magistrale sui calci di punizione, imprendibile per le difese. "Un 9 e mezzo", lo definì Platinì. E anche quando citiamo il cast planetario del pallone - Di Stefano, Puskas, Pelè, Garrincha, Cruijff, Zico, Maradona, Ronaldo, Messi... - io ci metto anche Roby Baggio, il Divin Codino. Da tifoso viola, ricordo bene gli sfavillanti anni fiorentini e la sua ascesa agli onori delle cronache, nonostante le ginocchia fragili. E drammatico per il tifoso del Giglio, constatarne la cessione all'odiata Juventus nel 1990, nell'era Pontello. Firenze si ribella alla cessione del suo n.10, che però passa in bianconero. Proprio prima dei mondiali di casa, Italia '90, quando la sua serpentina contro la Repubblica Ceca lo consacra agli occhi del mondo. Già, la Nazionale. Anche i grandi possono sbagliare. È ciò che accade al ragazzo di Caldogno nella finale dei mondiali del 1994, quando calcia alto il rigore della speranza contro il Brasile, dopo aver trascinato gli azzurri di Arrigo Sacchi. Amara Nazionale: quella che nel 1998, nell'anno del dualismo con Del Piero, ferma il proprio cammino agli ottavi; quella da assente ingiustificato nel 2002 della disfatta con la Corea, quando un cocciuto Trapattoni gli nega la gioia della convocazione, dopo una stagione d'oro a Brescia e un infortunio recuperato a tempo di record. Ma torniamo alla carriera nei club. Alla Juventus, Roberto Baggio miete successi, tra cui uno scudetto, consolidandosi tra i più forti al mondo e vincendo nel 1993 il Pallone d'Oro. Una caterva di gol e qualche polemica con i tifosi, come nel 1991, quando in occasione della partita contro la sua ex Fiorentina, raccoglie una sciarpa viola gettata da un tifoso. L'idillio a Torino si spezza nel 1995. La parentesi rossonera è tra le più avare di soddisfazioni, quella col Bologna due anni dopo ben più florida, tanto che Massimo Moratti lo porta in nerazzurro. Milano non gli porta proprio fortuna: è l'Inter sperpera-denaro-inutilmente, poi arriva Lippi, che si scontra con la personalità del codino. Baggio regala all'arroganza di Marcello la Champions League, e se ne va da gran signore qual è. Inizia gli anni Duemila in quel di Brescia, un'oasi nella quale vive gli ultimi anni di ritrovata giovinezza, accanto alla guida perfetta di Carletto Mazzone. Le rondinelle, sotto la guida di Roby, si salvano in quegli anni senza problemi, ma il 4 febbraio del 2002 le deboli ginocchia del n.10 fanno di nuovo crack. La lesione al crociato recuperata in soli 77 giorni è l'esempio più lampante della forza interiore di Roberto Baggio, uomo straordinario per dote naturale e sacrificio quotidiano. In Corea il fallimento azzurro sarà colpa di Trapattoni più che dell'arbitro Moreno, e l'eliminazione per mano del golden gol di Ahn la giusta punizione all'indifferenza del CT alla chiamata del capitano del Brescia. Ho ricordato così, quell'infausto 28 aprile 2004, giorno dell'addio in azzurro: "... Era l'ultimo incontro di quello che per me e per molti era un grande. Un idolo calcistico. Era l'addio alla nazionale, il "tolgo la scena", il saluto di Roberto Baggio: il più grande giocatore italiano degli ultimi vent'anni. Per lo meno da quando seguivo il calcio. Roberto Baggio è Roberto Baggio. Anche adesso che non gioca più. Classe cristallina nei piedi e nella testa. Un calciatore-uomo o meglio un uomo-calciatore che mi incantava per giocate e personalità. Per la grande forza interiore, quella ad esempio che in soli settantasette giorni riuscì a farlo recuperare da un brutto infortunio, in tempo per rispondere all'eventuale convocazione della nazionale per l'imminente mondiale. Peccato che la convocazione non arrivò. Un esempio della volontà umana che a volte può varcare limiti impensabili. Ogni volta che lo vedevo, da giovane con la maglia viola, nel fiore degli anni con quella dei "gobbi", da maturo con quella delle rondinelle, beh, rimanevo sempre stregato dalle magie di Roby. Non potevo che gioire dei suoi gol, mai banali, anche se segnava contro la mia Fiorentina. Chi ama il gioco del calcio, ama i grandi giocatori, i grandi numeri 10: Di Stefano, Pelè, Zico, Maradona, Baggio, Zidane, Ronaldinho. Anche se giocano contro i tuoi e magari ti seppelliscono di reti e giocate. Quella sera era il congedo di Roby. L'ultima chiamata per salutare il genio che va in pensione. Quella sera Roby andò vicino alla rete che tutti volevano che segnasse. La sfiorò. E questo bastò per riempire il cuore dei suoi tifosi." (Hasta luego Siviglia, XX, pp. 105-106). Pochi giorni dopo, l'estremo saluto al calcio giocato. Da uomo di spessore - mai sopra le righe, esempio in campo e fuori, praticante buddhista -, nella seconda vita il Mozart del pallone diventa ambasciatore FAO e rappresentante della pace nel mondo. Chapeau, Roberto. DIEGO ARMANDO MARADONA, MANI E PIEDI DE DIOS di Francesco Gori Diego Armando Maradona, El Pibe de Oro, nasce il 30 ottobre del 1960 in quel di Lanús, Argentina. Il suo sinistro fatato ha deliziato le platee degli stadi negli anni Ottanta, trascinando come pochi altri la sua nazionale e il club al quale ancora oggi è associato, il Napoli, ai vertici del calcio. Diego Armando Maradona ai tempi del Napoli - napolicalciolive.com Si è spesso dibattuto su chi sia stato il più grande calciatore di tutti i tempi. Abbiamo parlato di Pelè, ma come dimenticare mostri sacri del calibro di Alfredo Di Stefano, Johann Cruijff, Michel Platini, e non ultimo Lionel Messi? E lui, Dieguito, forse davvero il più grande in assoluto. Per un fisico non certo dei più prestanti, per il suo mancino indimenticabile - e si sa, i mancini in ogni sport hanno qualcosa in più per natura -, per lo stile di vita burrascoso (le note vicende di cocaina, donne e figli extraconiugali) che hanno fatto da contrasto con la sua vita da atleta, senza per questo segnarla, come accaduto per molti altri. Ma lui non era un “altro”, un uomo comune, era un marziano capace di palleggiare con le arance, di sedurre compagni e tifosi nella sua aura di eccezionalità. Mentre Pelè - colui che più degli altri viene messo in competizione per il ruolo di “numero 1 del calcio” col genio argentino - ha giocato in uno sport con ritmi ancora lenti, ed esclusivamente in Brasile (seppur abbia fatto sfracelli per un quindicennio con il dream team verdeoro), Diego Armando è stato il dominatore di un calcio in evoluzione, avviato alla rivoluzione “tutto fisico e velocità” degli anni successivi. È stato capace di vincere due scudetti con una squadra di seconda fascia, mai così forte nella sua storia, unica vera avversaria del grande Milan di quei tempi. Generazioni passate che lo hanno visto dal vivo, generazioni future che possono ammirarlo su youtube: chi mai dimenticherà le sue magie con la maglia azzurra? Ha fatto discutere, Diego Armando Maradona: nel 1986 nei quarti del mondiale casalingo (poi vinto) contro l’Inghilterra ha segnato (link) con la Mano de Dios, salvo poi raddoppiare col gol del secolo; è stato esaltato al San Paolo nel 1990, il “suo” stadio, in occasione della semifinale con l’Italia di Vicini, chiusa con una vittoria ai rigori; è stato massacrato dai media quando trovato positivo all’antidoping, nel 1991 prima, e nella momentanea rinascita del suo quarto mondiale nel 1994 poi, quello che ne ha decretato la fine della carriera calcistica. In mezzo un purgatorio di squadre come il Barcellona, il Siviglia, il Boca Juniors. In ogni maglia indossata ha lasciato il suo profumo di classe, e qualunque tifoso di una squadra di esse può vantarsi a giusto merito di aver visto e tifato Diego Armando Maradona. Non uno qualunque. Ecco chi era Diego Armando Maradona: un artista del pallone, dall’estro infinito e dal carattere unico, dallo stile di vita disordinato e ribelle, eppur vincente, l'uomo da mano ma soprattutto piedi di Dio. Era il Jackson Pollock, il Charles Bukowski, il bohémien scapigliato del calcio. Il genio assoluto, nel bene, e nel male. L'ULTIMA ROVESCIATA DI PELÈ: 1200 GOL NELLA STORIA DEL CALCIO di Emiliano Morozzi Seconda guerra mondiale, nello stadio parigino di Colombes, durante un match tra prigionieri alleati e una selezione tedesca, il trinidadense Luis Fernandez segna con una spettacolare rovesciata il gol del 4-4: è quella l'ultima rete di Edson Arantes do Nascimento, da tutti conosciuto come Pelè, che nella pellicola Fuga per la vittoria interpreta il ruolo del caporale di colore. All'epoca in cui è ambientato il film in realtà il famoso calciatore brasiliano era in fasce, ma fin da giovanissimo la sua stella comincerà a brillare nel firmamento del calcio mondiale: più di 1200 reti realizzate (di cui alcune leggendarie, come quella alla Svezia durante la finale mondiale del 1958), tre Coppe del Mondo vinte e la conquista della Rimet, una gloriosa carriera nel Santos e soprattutto una tecnica sopraffina unita a doti atletiche fuori del comune. Nato da famiglia povera, quando il padre gli disse di imparare a giocare a calcio, il futuro campione, non potendosi comprare un pallone, cominciò ad allenarsi con mezzi di fortuna, calzini o stracci riempiti di carta e legati alla buona o pompelmi. A quindici anni, un talent scout lo notò mentre giocava nelle file del Bauru e lo convinse a trasferirsi al Santos. Passato un anno nelle giovanili, Pelè esordì giovanissimo in prima squadra e condì la sua partita di esordio con una rete: si trattava soltanto di un'amichevole, ma il ragazzo prometteva bene e nella stagione di esordio, a soli 16 anni, si laureò capocannoniere del campionato. A differenza di Maradona, che ottenne la consacrazione mondiale soltanto a 26 anni, Pelè vinse il suo primo Mondiale all'età di 17 anni. Il Brasile è una corazzata e Pelè diventa la sua punta di diamante: la tripletta contro la Francia del capocannoniere Just Fontaine e la successiva doppietta contro la Svezia portano i verdeoro a conquistare il loro primo titolo mondiale, vendicando l'umiliante sconfitta patita in casa propria al Maracanà contro i vicini dell'Uruguay durante la finale mondiale del 1950. Nel 1962 l'asso brasiliano segna una rete e poi si infortuna, ma la nazionale carioca riesce lo stesso a vincere il titolo trascinata da giocatori del calibro di Garrincha, Didì, Vavà, Zagallo. Nel 1966 la storia si ripete: in un'edizione contrassegnata dal gioco duro, le caviglie di Pelè vengono messe a dura prova dai rudi interventi degli avversari. Il fenomeno brasiliano segna nella partita d'esordio contro la Bulgaria, è costretto a saltare il match con l'Ungheria e viene di nuovo azzoppato contro i portoghesi di Eusebio. Inviperito dal comportamento degli avversari, Pelè decide di abbandonare la Nazionale, ma quando il ct Zagallo (suo ex compagno di squadra) decise di richiamarlo per i Mondiali del 1970 in Messico, "O Rei" rispose presente. Anche se le sue reti non sono decisive come quelle dell'edizione svedese, il fenomeno brasiliano dà comunque il suo contributo alla causa mettendo a segno quattro reti. Nella finale mondiale contro l'Italia (la vincente avrebbe conquistato di diritto la Coppa Rimet) è Pelè ad aprire le danze ed è lui a fornire due assist vincenti per le reti di Jairzinho e Carlo Alberto, facendo letteralmente impazzire il proprio marcatore, un difensore tosto e roccioso come Burgnich. Finita la carriera di calciatore, le luci della ribalta non si sono spente sulla vita di Pelè: attore, talent scout, ministro dello sport in Brasile e ambasciatore delle Nazioni Unite per l'ecologia e l'ambiente. Purtroppo esistono pochi video che documentino le reti e le funamboliche giocate di Pelè e forse è per questo che è stato sorpassato da Maradona come calciatore del secolo: in compenso, nell'immaginario, rimane quell'ultima rovesciata che consente a un pugno di prigionieri alleati di guadagnarsi la libertà. LEGGENDE ED EROI DI WIMBLEDON di Nicola Pucci Wimbledon. Basta pronunciarne il nome e par di esserci, tra i verdi prati dell'All England Lawn Tennis and Croquet Club, il circolo del tennis più esclusivo al mondo. 1977, anno del centenario di un torneo che conobbe i suoi primi vagiti ai tempi in cui, ahinoi, Pio IX ancora imperversava dalle nostre parti: ricordo, neanche fosse ieri, l'emozione per la prima finale a cui ho assistito, avviando un rito che anno dopo anno mi conforta ormai lungo le calde settimane di inizio estate. Ho le mie leggende e i miei eroi, al maschile come al femminile, e ve li presento. 1- Bjorn Borg. Lo svedese di ghiaccio, l'orso scandinavo, fascetta a tener raccolti i capelli e l'indimenticabileDonnay a sparacchiar passanti di precisione millimetrica. Tifavo per lui come mai ho fatto poi, in epiche battaglie con Connors e McEnroe: 5 trofei di seguito, dal 1976 al 1980, impresa impensabile per un giocatore da fondocampo ai tempi in cui, che bello, il serve and volley era una religione sacra nel tempio di Wimbledon. Il tie-break del quarto set della finale del 1980 rimane uno dei momenti tennistici più straordinari a cui abbia mai assistito. 2- Pete Sampras. Classe, tecnica, potenza, atleticità, correttezza. Ovvero, cosa chieder di meglio? Sette volte il nome del "Pistola" appare tra i plurivincitori, come solo William Renshaw ma questa è storia di fine Ottocento. Il Centre Court di Wimbledon era il suo giardino e qui ha scritto alcune della pagine più memorabili di una carriera immensa: giudico che per la finale del 1999, contro Agassi, abbia giocato la partita perfetta bjorn borg - http://img.timeinc.net. 3- John McEnroe. Il genio assoluto. Braccio sinistro degno degli dei dell'Olimpo, senza bisogno di scomodare per forza Nostro Signore. Bizzoso, irascibile, maleducato al punto da farsi negare il titolo di "socio onorario" dell' All England Club, concesso ai vincitori del torneo. Tre successi e forse la sensazione che potevano anche esser di più. Ma tra i giocatori di volo il top, e state certi che non ne vedremo altri a questo livello. 4- Roger Federer. Beh, qui la storia è ancora in corso e nulla vieta di pensare che tra qualche anno al primo posto ci sarà lui. Il giocatore più forte tra quelli che ho ammirato, il più completo, praticamente perfetto o quasi. Sei successi, cinque consecutivi - come solo Borg - tra il 2003 e il 2007; alcune sfide appartengono alla cineteca del tennis: con Nadal nel 2008, per esempio, e si tratta di una sconfitta; con Roddick nel 2009, e ad oggi si tratta dell'ultimo trionfo su erba. 5- Boris Becker. Il virgulto tedesco che nel 1985, neppure diciottenne, stupì il mondo vincendo lo Slam londinese senza esser testa di serie. Lo chiamavano "boom boom", ed è diventato un fuoriclasse: non solo potenza, ma anche un'eccellente tecnica e una personalità fuori dal comune. Soprattutto fuori dal campo, con l'impegnativo matrimonio con la modella afroamericana Barbara Feltus. Questi i top five. Ma mi preme ricordare "Jimbo" Connors, lottatore indomito fin oltre la soglia delle 40 primavere, due volte vincitore a distanza di otto anni, 1974 e 1982: la finale con McEnroe trenta anni fa rimane tra le più avvincenti nella storia del torneo; Stefan Edberg, stile, eleganza, maestro della voleè e per tre anni consecutivi, 1988/1989/1990, a contendersi il titolo con Becker; Pat Cash che vince nel 1987 esibendosi forse nel miglior tennis su erba di sempre; Michael Stich che fa altrettanto nel 1991 infilando a sorpresa ancora Becker; Goran Ivanisevic che perde tre finali e nel 2001, a fine carriera e grazie ad una wild card, corona il sogno di una vita sconfiggendo l'australiano Rafter 9-7 al quinto set. E poi ancora chi non ha vinto ma quassù mi ha fatto emozionare: Adriano Panatta che sfiora la semifinale nel 1979 perdendo con il carneade belga Pat Duprè; l'indiano Vijai Amritraj che sui campi verdi dava sempre spettacolo; il "povero" Tim Henman che mai è riuscito a sfatare il tabù che vuole gli inglesi non più trionfatori nel prestigioso torneo di casa dall'ormai giurassico 1936 di Fred Perry. Wimbledon in gonnella ha meno protagoniste, forse, ma i nomi son blasonati e hanno prodotto sussulti importanti. 1- Chris Evert. Ha vinto solo, si far per dire, tre titoli ma ho amato questa biondina tutta grazia e femminilità. Lo devo a lei se il tennis è parte della mia vita e state certi che a Londra forse solo The Queen ha più ammiratori di questa americanina che a cavallo degli anni Settanta/Ottanta ha scritto un capitolo infinito con la sua rivalità/amicizia con Navratilova. 2- Martina Navratilova. Martina, appunto. La più forte tennista di sempre sui campi verdi, un misto di potenza e tecnica che per i tempi in cui si è esibita apparteneva più al genere maschile che alle donzelle. Ineguagliabile il suo gioco di volo, così come le nove vittorie nel torneo...e accidenti a Conchita Martinez, non me ne voglia, che nel 1994 gli ha negato il titolo numero 10. 3- Steffi Graf. La ricordo ancora agli esordi nel 1984, gracilina e tutto naso. Ma poi la valchiria è diventata donna, e poi anche fenomeno e le sue sette vittorie appartengono alla storia così come la grazia e l'eleganza del suo tennis. 4- Jana Novotna/Hana Mandlikova. Le accoppio, ma non fraintendetemi: il loro tennis su erba era una sinfonia, meglio di così il serve and volley non si può proprio giocare, ma la prima ha vinto dopo aver a lungo inseguito il titolo e dopo aver pianto sulla spalla della duchessa di Kent, la seconda ha perso due finali ma ha allenato Jana nel giorno del successo, anno 1998. 5- Evonne Goolagong. Avrebbe meritato Venus Williams di comparire tra le prime cinque, ma ricordo ancora l'aborigena australiana che nel 1980, dopo l'interruzione per la maternità, sorprese la mia Chris Evert. Era pure carina. E da oggi si gioca. Djokovic e Kvitova attendono un successore, alle ore 11.00 inglesi, non un minuto prima, non un minuto dopo, la chiesetta del quartiere di Wimbledon ha suonato e i Doherty Gates si sono aperti a Church Road. Buon tennis a tutti. AYRTON SENNA E LA TRAGICA IMOLA 1994: LA LEGGENDA VIVE ANCORA di Nicola Pucci Non me la sento di ingannar nessuno: non ho amato Ayrton Senna. Ma la tragica fatalità quel maledetto 1 maggio 1994 ha strappato alla vita un uomo vero, ancora prima che un campione immenso. Ed io piansi lacrime innocenti, come un bambino. Come milioni di telespettatori azzannati dall'evento luttuoso. Ayrton Senna siede accanto ai prediletti che Dio ha chiamato a sé ben prima del previsto. Come Coppi, come Pantani, come Simoncelli. Nuvole grigie incombevano sul tracciato di Imola, in quei giorni. Barrichello, brasiliano come Ayrton, aveva conosciuto brutti momenti durante le prove del venerdì; il sabato la morte aveva fatto la sua comparsa colpendo Roland Ratzenberger, austriaco classe 1960. E l'incertezza si era impadronita dell'anima sensibile del pilota di San Paolo. Tracciandola dei segni dell'inquietudine. Guidava la Williams, Senna. Dopo gli esordi da fenomeno con la Toleman nel 1984; dopo le stagioni in casa McLaren; dopo i trionfi, la gloria, gli onori, le battaglie, le polemiche con il compagno/rivale Alain Prost - che sostenevo perché batteva bandiera transalpina -: ecco, il destino amaro reclamava un tributo di vita umana in quella curva del Tamburello che già in passato aveva sfiorato ma risparmiato Piquet, Berger e Alboreto. Uno schianto, fatale, dopo pochi chilometri di corsa. I ricordi sono vividi, li porto ben impressi nella mente. La monoposto che impatta a velocità sostenuta contro il muretto che delimita la pista, diventa ingovernabile, rimbalza in frantumi per poi arrestarsi a pochi metri dal circuito. E Senna che non si muove. Rimane immobile nell'abitacolo. Le immagini dall'alto danno subito idea della gravità della situazione. Trattengo il fiato, un brivido scuote il mio corpo e i minuti, lenti, inesorabili, segneranno quel tardo pomeriggio di un 1 maggio da incubo. Fino all'epilogo, all'annuncio in diretta della morte, all'angoscia che prende il sopravvento. Senna saluta la vita, che amava e che trovava riflesso nel suo sorriso insicuro, ed entra a far parte della leggenda. A distanza di anni, quella, vive ancora. E per sempre. 27 FEBBRAIO, E SE LO CHIAMASSIMO ALBERTO TOMBA-DAY? di Nicola Pucci L’incedere del tempo, tiranno implacabile, annebbia i ricordi ma il nome dell’immenso Alberto Tomba, indelebile, fa bella mostra di sé nella bacheca di chi ha dato lustro allo sport italiano. Oggi, 27 febbraio, ho memoria di un’impresa che accade tanti anni fa, esattamente nel 1988. Siamo a Calgary, nello stato canadese dell’Alberta, il programma olimpico propone lo slalom speciale ed il campione bolognese, da qualche mese divenuto fenomeno dello sci, si presenta al cancelletto di partenza con i favori del pronostico.Appena ventunenne, estroverso, burlone, anche un po’ spaccone, ha già ben salda al collo la medaglia d’oro conquistata due giorni prima nel gigante; nella prima manche disegna traiettorie precise, non rischia e il tabellone lo illumina al terzo posto alle spalle del lanzichenecco di turno, FrankChristian Wörndl, avvantaggiato di 63 centesimi, e dello svedese Jonas Nilsson. Senza la pressione di dover vincere ad ogni costo la seconda discesa della “Bomba” promette spettacolo e merita una vetrina speciale: il Festival della Canzone italiana impone l’alt per trasmettere in diretta la rincorsa all’oro dell’Alberto bolognese che aggredisce il paletto, rischia di deragliare per una buca galeotta, mette in moto le quattro ruote motrici che rendono il suo stile inarrivabile agli altri ed infine taglia il traguardo in prima posizione scatenando il delirio tricolore. Le emozioni sono intense, nel parterre d’arrivo si sussulta per lo svedese che resta dietro; tocca a Wörndl ma il paradiso per lui può attendere. 6 centesimi, un alito, un soffio, è l’impercettibile margine che piazza Tomba lassù, nell’Olimpo di coloro che si son guadagnati l’immortalità sportiva. La macchina del tempo avanza di sei anni e il teatro cambia. 1994, dalle montagne rocciose ci trasferiamo lungo i dolci pendii della Norvegia, siamo a Lillehammer e troviamo un Tomba evoluto. Se lo sportivo ha affinato un bagaglio tecnico già importante, l’uomo rappresenta ora il perfetto business-man che non può fallire, chiamato com’è alla vittoria che si traduce in verdoni. La pressione, stavolta sì, è forte, i media spingono e la prima chance di successo, il gigante, di cui Alberto è bicampione avendo raddoppiato ad Albertville 1992, sfuma per un’uscita di pista quasi rassegnata. 27 febbraio, che coincidenza, l’appuntamento con la storia è fissato e ancora una volta i pali stretti proporranno una vicenda memorabile. Il freddo pungente sembra atrofizzare i muscoli dell’atleta azzurro, pettorale numero 1, che chiude lontano la prima discesa, dodicesimo con l’abissale distacco di 1 secondo 84 centesimi. Son poche le speranze di ribaltare la situazione ma l’orgoglio del campione ferito può far miracoli e per la seconda manche il prodigio è cosa fatta. Pulsa forte il cuore nell’assistere alla recita agonistica con cui Tomba scende a valle: una belva, una furia scatenata suggerisco io, un’incertezza al primo cambio di pendenza ma poi la serpentina si fa sempre più efficace e all’arrivo i cronometri premiano Alberto con l’ovvio primo posto. Basterà? Rammento lo scetticismo, condiviso, del bravo Bruno Gattai, voce di TMC; prima uno, poi un secondo, un altro ancora, gli avversari come birilli si inceppano alle prime porte e il primato regge. Il temibile Thomas Sykora rallenta e finisce lontano, inforca Peter Roth, l’eroe di casa Kjetil André Aamodt mette il sedere a terra e la medaglia a questo punto, insperata, è assicurata. Non sarà d’oro perché al soldatino austriaco Thomas Stangassinger restano 15 miseri centesimi del credito acquisito nella prima manche, tanto basta però all’eroe nazionale per afferrare un argento che di diritto va ad inserirsi tra le imprese olimpiche che racconteremo ai nipotini. Addì, 27 febbraio Anno del Signore 2012, che di anni ne son passati diversi, che fai Alberto: una buona bottiglia di rosso per festeggiare mi pare una buona idea, no? PANTANI, BIOGRAFIA DI UNA VITA IN SALITA di Emiliano Morozzi Marco Pantani al Tour de France, in compagnia di Lance Armstrong (fotopedia.com) "Non c'è niente da fare, quando la strada si rizza sotto i pedali, Pantani è il più forte!": con queste indimenticabili parole e con la voce emozionata di chi sa di commentare un evento di portata storica, Adriano De Zan raccontava l'ascesa del ciclista romagnolo verso la vetta del Galibier e verso la vittoria del Tour de France, in una giornata di luglio flagellata da nebbia, pioggia e un freddo pungente. Sei anni dopo toccò al figlio Davide annunciare, sempre con la voce rotta dall'emozione, la discesa all'inferno di Pantani, morto in una stanza d'albergo sulla riviera romagnola mentre il cielo fuori era livido come quel pomeriggio in terra di Francia. Una vita, quella dello scalatore romagnolo, che sembra il profilo di una di quelle tappe alpine a lui tanto care: rapide ascese verso il successo e la gloria, e altrettanto ripide discese verso il basso, prima nella sfortuna che ha costellato tutta la sua carriera, poi nell’abisso della depressione e della droga. Ma più che il Pantani crocifisso per un sospetto, quel Pantani che dopo la squalifica nella tappa del Giro 1999 a Madonna di Campiglio non risorge più, se non per un disperato canto del cigno al Tour del 2000, voglio ricordare il Pantani che sbatte tante volte il muso per terra, che viene azzoppato da continui infortuni, che cade nella polvere ma ogni volta risale rabbiosamente in sella e torna a fare quello che sapeva fare magnificamente quando la strada si impennava all’insù: pedalare. Il Pantani ciclista appartiene a una specie protetta: in un’epoca in cui passistoni alla Indurain lasciano le briciole agli avversari nelle grandi corse a tappe sbriciolando la concorrenza a cronometro e spianando le grandi salite con il rapportino e frequenze di pedalata fuori dal comune, il romagnolo riporta nel ciclismo emozioni antiche. È scalatore puro, piccolo e fragile in pianura, ma quando la pendenza si fa dura, è capace di seminare qualsiasi avversario. Ma la grandezza di Pantani non sta solo in questo: il romagnolo è un combattente, non è uno che aspetta l’ultima salita per scappare, ma quando vede una salita, fosse anche un cavalcavia, parte all’attacco senza pensarci due volte, movimentando la corsa e regalando spettacolo. Spericolato anche in discesa, costruisce su questa abilità la sua prima vittoria al Giro d’Italia, durante la tappa Lienz – Merano: attacca sul passo del Giovo, si getta in discesa con una posizione pericolosissima (col sedere quasi a sfiorare la ruota posteriore), raggiunge lo svizzero Richard in fuga e lo semina, guadagnando quasi un minuto sul gruppo dei migliori. A fine gara, Pantani si lamenterà degli avversari “Così portano Berzin in carrozza” e prometterà battaglia per il giorno dopo. Sembrano le parole avventate di un ragazzino di 24 anni che ancora non ha imparato a stare in gruppo, ma quel ragazzino ha già le stimmate del campione. Il giorno dopo c'è la tappa più dura del Giro, la Merano – Aprica, con lo Stelvio e la salita più dura del Giro: il Mortirolo. Pantani non aspetta, e dopo appena un paio di chilometri d’ascesa scatta: il campione Indurain, uomo d’esperienza, continua a pedalare del suo passo, Berzin invece, con la spavalderia di chi ha la maglia rosa addosso, lo segue. Il ritmo di Pantani è indiavolato e Berzin naufraga, alle sue spalle però rinviene Indurain che limita i danni in cima al Mortirolo e aggancia Pantani in discesa. Sembra la fine del sogno per il ragazzo di Cesenatico, ma sull’ultima asperità di giornata avviene il miracolo: Pantani scatta ancora e stavolta è Indurain a crollare, vola in discesa e per un pugno di secondi non conquista la prima maglia rosa. Pantani non si dà per vinto e dopo avere perso terreno nella cronometro del Passo del Bocco, ritenta l’impresa sulle Alpi francesi nella tappa che arriva a Le Deux Alpes: scatta sulla prima salita di giornata, il durissimo Colle dell’Agnello, cavalca da solo sulle rampe dell’Izoard ma viene ripreso nel lungo tratto in falsopiano prima del Lautaret. Il ciclista romagnolo, alla seconda partecipazione al Giro, conquista il podio. Qualche mese dopo tenta la fortuna sulle strade di Francia. Il terreno non gli è favorevole: troppo lento nelle cronometro e incapace di fare la differenza sulle lunghe ma regolari salite transalpine, Pantani fa la conoscenza con una compagna di viaggio che lo seguirà per buona parte della sua carriera: la sfortuna. In un breve tratto di discesa durante la salita del Glandon il romagnolo cade e l’infortunio sembra grave, ma dopo essersi rialzato e aver riagganciato il gruppo, firma un’impresa delle sue, scattando sull’ascesa finale e garantendosi col vantaggio accumulato il podio sui Campi Elisi a Parigi. La sfortuna torna a colpire l’anno dopo: alla vigilia del Giro d’Italia, Pantani mentre si allena è travolto da un auto, e l’infortunio lo estromette dalla corsa rosa. In Francia il campione romagnolo non fu capace di lottare per la classifica generale, ma mise il primo sigillo sulla salita dell’Alpe d’Huez e ottenne un secondo successo nella tappa di Guzet Neige dopo una fuga di quasi cinquanta chilometri. La sfortuna è ancora in agguato: durante la Milano – Torino Pantani è investito da un'auto pirata e si rompe tibia e perone. La carriera del ciclista sembra finita, ed invece ancora una volta il romagnolo è capace di tornare in sella e di tornare a vincere, nonostante la sfortuna torni a colpirlo al Giro d’Italia 1997 sotto forma di gatto nero (guardacaso) che gli attraversa la strada nella discesa del Chiunzi: ennesimo capitombolo, lesione muscolare e Giro finito. Pantani ancora una volta non si arrende: va al Tour, prova in tutti i modi ad attaccare il nuovo padrone della corsa, Ullrich, mette per la seconda volta la firma sulla tappa dell’Alpe d’Huez al termine di un'irresistibile cavalcata (neppure un marziano come Armstrong ha saputo fare di meglio) e due tappe dopo si impone a Morzine. Il 1998 è l’anno che chiude questa nostra storia: Pantani arriva finalmente al Giro d’Italia senza essere stato bersagliato dalla sfortuna, ma come nelle altre stagioni, trova di fronte a sé un avversario capace di bastonarlo non solo in pianura e a cronometro, ma anche in salita: lo svizzero Alex Zulle. Sulla salita di Lago Laceno l’elvetico stacca Pantani sul suo terreno, a Piancavallo limita i danni e nella cronometro di Trieste sembra assestare il colpo del k.o. Il distacco dalla maglia rosa è enorme ma sulla Marmolada Pantani smette di vestire i panni del corridore di belle speranze e indossa quelli del campione: con un’impresa d’altri tempi, parte sul pezzo più duro della salita e va in fuga con Guerini, dilatando il vantaggio sul Passo Sella e conquistando la prima maglia rosa della carriera. Sull’Alpe di Pampeago Pantani soffre il ritorno del russo Tonkov e il 4 giugno si arriva al duello finale: appena comincia la salita di Montecampione, Pantani scatta gettando a terra la bandana, gesto che diventerà il simbolo dei futuri attacchi, ma il russo resiste a uno, due, dieci scatti. Quando ormai sembrano non esserci più speranze, Tonkov cede, di schianto, e Pantani conquista quel vantaggio che vale la maglia rosa. Al Tour de France, Pantani parte senza fare troppi proclami, ma dentro di sé cova l’impresa che lo porterà nella storia. L’avversario dell’anno precedente, Ullrich, accumula un enorme vantaggio a cronometro, il romagnolo sulle salite pirenaiche recupera terreno (vincendo la tappa di Plateau de Beille) ma ai piedi delle Alpi, ha ancora cinque minuti da recuperare: un’impresa al limite del disperato. È lì che Pantani vola nel mito e conquista la doppietta Giro – Tour, accoppiata riuscita solo a pochissimi grandi del passato: sulla salita del Galibier, in un clima da tregenda, Pantani scatta in mezzo alla nebbia lasciando sul posto gli avversari e via via che si avvicina la vetta e si dilata il vantaggio, la sua pedalata si fa sempre più decisa e quella del suo avversario sempre più stanca ed appannata. In discesa Pantani stavolta riprende fiato, per poi dare tutto sulla salita finale: il Pirata (questo ormai è il suo soprannome) non smette mai di pedalare, neppure sulla linea del traguardo, Ullrich arriva più di otto minuti dopo, con la faccia di chi ormai si è rassegnato alla sconfitta. Qui si conclude la storia di Pantani ciclista: quello del 1999 non era più un corridore, ma un oggetto da circo mediatico, non più il timido personaggio degli esordi, ma un campione spavaldo, che si fece troppi nemici facendo incetta di tappe al Giro d’Italia, prima della squalifica di Madonna di Campiglio. Preferisco ricordare con le parole di Adriano De Zan quel Pantani gracile e bersagliato dalla sfortuna ma che dopo tante peripezie finalmente nella tappa di Montecampione, con la maglia rosa addosso, “vince, trionfa, alza le braccia al cielo.” SPORT- LE GRANDI SFIDE DELLO SPORT BUGNO E CHIAPPUCCI, LA RIVALITA' DI CARTA di Emiliano Morozzi Bugno e Chiappucci, la rivalità di carta: storia di una sfida rimasta purtroppo spesso un'invenzione giornalistica. Come tutti gli sport, anche il ciclismo ha bisogno di sfide per catalizzare l'attenzione su di sè, per mantenere l'attenzione degli spettatori sull'evento, in particolar modo se il confronto è diluito nell'arco di tre settimane come nel caso delle grandi corse a tappe. Gli annali delle due ruote sono pieni di sfide a due tra nostri connazionali, sfide a volte cruente e senza esclusione di colpi come erano quelle leggendarie tra Coppi e Bartali, sfide invece rimaste sulla carta e diciamo così "gonfiate ad arte" dai giornalisti come sono state quelle tra Bugno e Chiappucci. Gli ingredienti classici per allestire il duello c'erano tutti: due corridori dal carattere così diverso (Bugno schivo e riservato, Chiappucci sfrontato e guascone) e soprattutto dal modo di correre così diverso: lo svizzero trapiantato a Monza sempre timoroso di andare all'attacco ed attento a dosare le forze, il varesino di Uboldo invece sempre pronto a lanciare la sfida sul suo terreno, la salita, anche a costo di scoppiare. Due corridori che sembravano destinati a fare sfracelli e che invece, nei primi anni Novanta, si dovettero accontentare di raccogliere le briciole lasciate da quel fenomeno che rispondeva al nome di Miguel Indurain. Ma partiamo dall'inizio, dalla genesi di questa presunta rivalità: siamo nel 1990 e un italiano, dopo quattro anni di digiuno, torna a vincere il Giro d'Italia, dominandolo dall'inizio alla fine: il suo nome è Gianni Bugno, un predestinato, già trionfatore al Giro dell'Appennino per tre volte di seguito e soprattutto già vincitore nello stesso anno della Milano-Sanremo e del Giro del Trentino, breve corsa a tappe che fa da prologo al Giro d'Italia e che spesso affronta salite molto impegnative. La classifica degli scalatori invece viene conquistata da un allora semisconosciuto scalatore: Claudio Chiappucci. Si arriva al Tour de France e sulle strade transalpine Bugno parte come uno dei favoriti, ma una fuga bidone lancia proprio Chiappucci in maglia gialla. Il corridore varesino, con il simbolo del primato addosso, per una settimana sembra diventare un fenomeno e tiene testa agli attacchi di Lemond, mentre Bugno, costretto in un ruolo non suo, quello dell'inseguitore, si lascia sfuggire l'americano. I giornali di casa nostra cominciano a cantare le lodi di Chiappucci, convinti che possa far tornare un italiano sul gradino più alto del podio dai tempi di Gimondi. Ma ai due corridori di casa nostra manca un ingrediente per essere vincenti: a Bugno manca il carattere, a Chiappucci l'astuzia tattica. Così, come vuole il detto, tra due litiganti il terzo gode, ed il Tour 1990 se lo aggiudica Lemond dopo avere ordito una trappola contro Chiappucci a Saint Etienne ed aver rifilato al primo della classe cinque minuti di distacco. Il copione non cambia al Giro 1991: in assenza di altri grandi nomi, Bugno e Chiappucci partono da favoriti e la loro sfida sembra il piatto forte della corsa rosa. Dal nulla invece sbuca, dopo il trauma della tempesta del Gavia e tre anni di calvario, Franco Chioccioli, che con una condotta di gara sempre all'attacco ed una forma smagliante in montagna lascia le briciole ai due contendenti. Al Tour la storia si ripete: con un Lemond ormai sul viale del tramonto, Bugno e Chiappucci si fanno i dispetti e ad approfittarne è lo spagnolo Miguel Indurain, che dominerà la corsa francese nei successivi cinque anni a venire. Come una specie di mantra, ogni anno i giornali sportivi ripropongono la sfida tra i due campioni nostrani, ma ancora una volta il duello tra i due nostri portacolori è oscurato dallo strapotere di Indurain, che regola Chiappucci al Giro e vince anche al Tour: con Chiappucci in fuga solitaria verso il Sestriere, Bugno si mette a tirare per riprendere il connazionale, favorendo Indurain che, pur piantandosi negli ultimi 2000 metri, tiene la maglia e conquista il suo secondo Tour. La rivalità tra i due si esaurisce qui, anche se in ogni corsa che li vede correre fianco a fianco, Bugno e Chiappucci diventano protagonisti di improbabili sfide. Come già detto in precedenza, la rivalità tra questi due corridori fu molto "artificiosa", anche se in corsa ci furono screzi e sgarbi degni delle migliori rivalità sportive. Nonostante questo, negli anni Novanta, i due riuscirono a catalizzare e dividere l'attenzione dei tifosi italiani e se non fosse stato per lo strapotere di Indurain, i due corridori nostrani avrebbero potuto arricchire di molto i rispettivi palmares. ITALIA-BRASILE, STORIA DI CALCIO EPICO: 1938, 1963, 1970, 1982, 1994 di Nicola Pucci Non è proprio una sfida come le altre. Se Italia-Germania assurge a rivalità europea per eccellenza, ItaliaBrasile è la partita che più di ogni altra rappresenta il meglio di quanto la materia calcistica possa offrire a livello planetario. La maestria tattica latina a contrapporsi al samba sudamericano, velocità e cambio di passo contro ritmi blandi e tecnica sopraffina. Bando alle ciance e spazio alla storia. Anno del Signore 1938. L'Italia del C.T. Vittorio Pozzo scende in terra di Francia da campione in carica e forte del trionfo olimpico a Berlino due anni prima. Si gioca a Marsiglia e i brasiliani, a cui non fa certo difetto la presunzione, prenotano con largo anticipo il volo che li porterà secondo i loro piani a Parigi per la finalissima. Non solo, si presentano all'appuntamento lasciando in panca Leonidas, cannoniere principe della manifestazione. Errore macroscopico, e come vedremo non sarà l'ultima volta. I nostri passano con Colaussi, raddoppiano dal dischetto con Peppino Meazza, detto "Balilla", che trasforma reggendosi i pantaloncini a causa della rottura dell'elastico, inutile nel minuti conclusivi il gol di Romeu. I brasiliani la finale per il titolo se la possono dimenticare, gli azzurri andranno all'ultima sfida con l'Ungheria e si confermeranno campioni del mondo. Italia-Brasile 1970 - www.storiedicalcio.altervista.org 50 anni fa, giorno più giorno meno. 12 maggio 1963, è solo un'amichevole ma a Milano, stadio di San Siro, c'è il fuoriclasse del calcio in azione. Edson Arantes do Nascimento, in arte Pelè, è atteso alla recita con i compagni che nel frattempo hanno acquisito un minimo di accortezza tattica mettendo in bacheca due titoli consecutivi. Si attende la perla nera, ma al proscenio sale invece un giovanotto di belle speranze, tale Giovanni Trapattoni, che non fa veder palla al fenomeno in maglia verdeoro, per la verità malconcio e che sarà costretto ad uscire dopo soli 26 minuti di latitanza. Finisce 3-0, e rimarrà negli almanacchi come il successo più consistente contro i brasiliani. Italia-Brasile 1963 - www.comune.gallieraveneta.pd.it 1970. Ci spostiamo dall'altra parte dell'Oceano e per il Brasile è tempo di iniziare a raccogliere. Siamo in Messico, la platea, prestigiosa, è lo stadio Azteca che solo qualche giorno prima ha conosciuto l'esibizione più straordinaria del gioco del calcio, il 4-3 con cui gli azzurri battendo la Germania si sono garantiti l'accesso alla finale della Coppa Rimet. Proprio la fatica accumulata nei 120 minuti di battaglia in altura impedisce all'Italia di reggere l'onda d'urto dei brasiliani che, stavolta sì, hanno un Pelè in formato gigante. Soprattutto quando sale in cielo per impattare di testa la palla dell'1-0 sovrastando Burgnich, Boninsegna pareggia ma nel secondo tempo cala il buio in Casa Italia. Gerson, Jairzinho e Carlos Alberto firmano il 4-1 che abbatte i nostri, si tornerà in patria tra le polemiche per i miseri 6 minuti che il C.T.Valcareggi concede a Gianni Rivera, emarginato a favore dell'amico-nemico Sandro Mazzola. Estate 1982, Mondiali di Spagna. Ho ricordi vivissimi di quella che classifico come partita più emozionante alla quale abbia mai assistito. Nella fornace dello stadio Sarrià di Barcellona è il giorno della resurrezione di Pablito Rossi. Si gioca con la formula dei gironi agli ottavi e ai brasiliani basterebbe il pareggio per accedere alle semifinali. Ma non possono accontentarsi, loro: hanno Zico, il divino Falcao, Cerezo, il dottor Socrates, Junior. Ed attaccano a pieno organico. E' l'Italia di Bearzot che ha stentato nella prima fase qualificandosi con tre pareggi poveri di gioco; ma è anche l'Italia che non si arrende mai ed è reduce dalla brillante affermazione con l'Argentina del Maradona ancora acerbo; è soprattutto l'Italia che nei momenti che contano riesce a dare il meglio di sè ... ed allora Cabrini pennella il cross che trova pronto Rossi all'incornata dell'1-0; ancora Paolo soffia palla a centrocampo e si invola per trafiggere Valdir Peres con la botta del 2-1; infine la zampata del definitivo 3-2 ad incendiare gli animi. Ad Antognoni, il mio capitano, un guardalinee miope o forse cotto dal sole non convalida una rete regolare, all'ultimo tuffo Dino Zoff agguanta sulla linea il colpo di testa di Eder che ci avrebbe rispediti a casa. Ancora palpito, a distanza di un trentennio. Chiudo con l'amarezza più grande, 1994 al Rose Bowl di Pasadena. E' la finale, bruttina per la verità, con poche occasioni, molto caldo e l'impressione che solo un episodio possa decidere le sorti del match. Massaro si fa stoppare da Taffarel, il palo benevolo salva Pagliuca, Romario mette fuori a porta sguarnita. Il titolo verrà assegnato dalla lotteria dei tiri dagli 11 metri, ed è la prima volta che accade. Ahi, ahi, ahi, sbaglia Baresi, sbaglia Massaro ma nei ricordi di chi sventola bandiera tricolore rimane il Baggio con le mani sui fianchi che calcia alto il rigore che consegna la quarta Coppa del Mondo al Brasile. Con Dunga capitano e Ronaldo pischello tra i ventidue della rosa. Questa è storia, adesso è tempo di far parlare il presente. Che si giochi e buon divertimento. CASSIUS CLAY CONTRO SONNY LISTON, IL GIORNO IN CUI NACQUE LA LEGGENDA DI ALI' di Nicola Pucci Il 25 febbraio 1964 è una data tracciata con pennarello indelebile, sul calendario della boxe. E’ il giorno in cui il nome di Cassius Clay entra prepotentemente a far parte della leggenda, è il giorno della prima, epica sfida tra il moro di Louisville e Sonny Liston, un combattimento destinato ad aprire la pagina più gloriosa della noble art. Un giovanotto baldanzoso e strafottente del Kentucky, già medaglia d’oro alle Olimpiadi romane del 1960, era apparso come una folgore sulla scena del pugilato internazionale con il suo scintillante talento. Cassius Clay, già, proprio lui, aveva bruciato le tappe abbattendo gli ostacoli che si era trovato ad affrontare sulla lunga strada che conduceva alla sfida per la corona mondiale dei pesi massimi. Sonny Liston, di dieci anni più vecchio - anche se la sua età rimane un mistero -, era il campione acclamato, detentore del titolo in virtù delle due vittorie ottenute nei due anni precedenti contro un’altra leggenda del pugilato, Floyd Patterson. I pronostici non concedevano grandi possibilità allo sfidante ed il pubblico, che gremiva le tribune del Convention Center di Miami Beach, attendeva Sonny ad una formalità per conservare la cintura più prestigiosa. Ma le cose, sul ring, andarono diversamente. La presentazione del match - http://tedsmakemyday.blogspot.it Nella sorpresa generale Clay dominò l’avversario nelle prime riprese, costringendo Liston ad una condotta di gara di contenimento, insolita vista la sua proverbiale aggressività e la sua ben nota furia distruttiva. Agile e veloce di gambe Clay affondò i colpi nel terzo round ed impose al campione, i cui pugni si perdevano nel vuoto, di ricorrere ad una pomata cicatrizzante sulla spalla sinistra infortunata. Limitato da un improvviso bruciore agli occhi prodotto dallo sfregamento dei guantoni involontariamente spruzzati di pomata, Cassius Clay venne sopraffatto nel quarto e quinto round dalla riscossa di Liston che si aggiudicò le due riprese, ma al sesto round lo sfidante tornò a danzare e sferrare colpi poderosi. Liston, in evidente difficoltà, non tornò a centro ring per la settima ripresa e la sfida si chiuse con il primo, trionfale, titolo di Campione del Mondo per Cassius Clay che l’indomani dell’incontro, ormai conquistato dalla fede musulmana e seguace convinto delle dottrine di Malcom X, divenne Muhammad Ali. Si è vociferato a lungo, anche se poi l’inchiesta fu archiviata, sull'ipotetica combine che costò la corona a Sonny Liston. I sospetti si sono assommati, dall’abbandono poco credibile del campione in carica alla presunta infiltrazione mafiosa nelle sorti del match. Mai sapremo la verità, probabilmente … quel che è certo è che il 25 febbraio 1964 nasce la leggenda di Cassius Clay, o Muhammad Ali se preferite: semplicemente il più grande. COPPI, BARTALI E IL MISTERO DELLA BORRACCIA di Emiliano Morozzi Coppi, Bartali e il mistero della borraccia 6 luglio 1952: la canicola arroventa le strade di Francia, teatro del Tour, dai transalpini definita la più importante gara a tappe del mondo. I corridori stanno scalando i duri tornanti del Col du Galibier, in attesa che il padrone del Tour metta in atto la sua promessa: attaccare e lasciare, dopo l'arrivo al Sestriere, gli avversari a una distanza di almeno dieci minuti. Il fotografo lo immortala nell'attimo esatto in cui avviene lo scambio di borraccia con un compagno: davanti la maglia gialla, la faccia e il naso adunco protese in avanti, come a voler fendere l'aria rarefatta di montagna, dietro il compagno di squadra, quello dal "naso triste come una salita, la faccia allegra da italiano in gita", come cantava Paolo Conte. Nella foto non si capisce chi è che passa la borraccia all'altro, e se da un lato questo mistero divide i tifosi dei due corridori, dall'altro trasforma subito la foto in un'icona: simbolo di una nazione che è sì divisa, ma che vuole ritrovare un'unità, ma soprattutto simbolo di una grande rivalità sportiva, che in corsa a volte degenera, ma che fuori dalla corsa si trasforma in profonda amicizia e reciproco rispetto. Per descrivere la grandezza delle imprese di Coppi, non si può dimenticare lo sconfitto, ed anche se a volte Bartali non era l'avversario da battere, i due erano attori perfetti per creare la contrapposizione: divisi non solo dalla rivalità sportiva, ma anche dallo stile di vita (sanguigno e amante del bere e del cibo Bartali, schivo e scrupolosissimo nella preparazione alla corsa Coppi) e dalle idee politiche, anche se sul dualismo Coppi comunista - Bartali democristiano ci sarebbe da discutere. La rivalità sportiva tra Coppi e Bartali nasce prima della guerra: siamo nel Maggio 1940, l'Italia si gode la quiete prima di essere travolta dalla tempesta. Si corre il Giro d'Italia, e Bartali, capitano della Legnano, punta a ottenere il tris, ma i sogni di gloria del toscano durano poco: nella seconda tappa, scendendo verso Genova un cane gli taglia la strada, e la rovinosa caduta gli fa perdere minuti preziosi e lo esclude dalla lotta per la rosa. Si arriva alla Firenze - Modena e sull'Abetone un suo gregario si invola da solo in mezzo alla tempesta, semina tutti e arriva al traguardo conquistando il simbolo del primato: il suo nome è Fausto Coppi, quel Coppi che lo stesso Ginettaccio aveva voluto alla sua corte. Tutti sono pronti a osannare il nuovo campione, ma Bartali avverte: "Chi va forte in pianura paga dazio in montagna". Il toscano, che è corridore d'esperienza ma ha anche un gran fiuto nel valutare gli avversari, ha già capito di che pasta è fatto Coppi: se Ginettaccio è duro come legno di quercia e nei momenti di crisi sa tenere duro, Coppi è cristallo puro, brillante ma anche mentalmente fragile. Sulle Dolomiti la maglia rosa accusa una tremenda crisi, scende di bici e medita il ritiro, ma lì Bartali sveste i panni del capitano e indossa quelli del gregario, facendo di tutto per convincere Coppi, con le buone o con le cattive, a ripartire: gli butta brutalmente della neve fredda in faccia, lo insulta, lo scuote. Tuona Gino: "Sei un acquaiolo Coppi! Sei solo un'acquaiolo", ovvero un corridore che si arrende alle prime difficoltà, che non sa stringere i denti, che non diventerà mai un campione. Spronato, quasi sospinto di peso dal proprio capitano, Coppi si riprende e vince il suo primo Giro d'Italia, pochi giorni prima dell'entrata dell'Italia in guerra. Le strade dei due si dividono, per tornare ad intrecciarsi nel dopoguerra, dando vita a una straordinaria rivalità sportiva. Sfide che a volte degenerano in atteggiamenti poco edificanti, come al campionato del mondo di Valkenburg nel 1948, quando Coppi e Bartali, invece di fare gioco di squadra, fecero di tutto per ostacolarsi a vicenda, finirono per ritirarsi entrambi e furono addirittura squalificati dalla Federazione per un mese. Se al Giro i due si dividono, al Tour de France l'anomala formula delle squadre nazionali li costringe a correre sotto la stessa bandiera e insieme i due compiono imprese leggendarie: le vittorie di Fausto al Tour del 1949 e del 1952 sono ottenute grazie anche al valido aiuto di Bartali, e i due spesso arrivano insieme al traguardo, quasi a braccetto. Se in corsa Bartali e Coppi si comportano come cane e gatto, fuori dalle competizioni i due mantengono una salda amicizia. A questo proposito, celebre è la puntata del Musichiere del 1950, quando i due ospiti si prestano al gioco e rievocano le loro imprese e soprattutto i loro dispetti ai danni l'uno dell'altro: lo "schiaffo morale" di Coppi al vincitore Bartali sulle Dolomiti al Giro del 1946, la vittoria di Bartali al Giro di Toscana del 1953, e tanti altri episodi che hanno caratterizzato la rivalità sportiva tra i due. Sempre nello stesso 1959, Bartali, ormai ritirato dalle corse, si ricicla come direttore sportivo fondando una squadra per rilanciare l'amico Coppi scegliendolo come capitano. I due tornano uniti in corsa come avevano fatto venti anni prima, ma ancora una volta il destino ci mette lo zampino: durante una corsa esibizione in Alto Volta, Coppi contrae la malaria, i medici sbagliano la diagnosi e all'alba del 2 Gennaio 1960 (oggi ricorre il 42°anniversario del tragico evento) il Campionissimo muore. Divisi per sempre dalla vita, Bartali e Coppi torneranno insieme alla ribalta qualche decina d'anni dopo: alla morte del toscano, una borraccia contesa tra le mani dei due diventerà il simbolo della loro indissolubile unione nel mito.
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