L’OSSERVATORE ROMANO pagina 8 «Paolo VI domenica 3 agosto 2014 Lello Scorzelli alle Nazioni Unite» Papa Montini e la Trasfigurazione Programma cristiano di VINCENZO BERTOLONE «Noi siamo come il messaggero che, dopo lungo cammino, arriva a recapitare la lettera che gli è stata affidata». Con queste parole di speranza papa Paolo VI iniziò il suo discorso all’Onu, l’Organizzazione delle nazioni unite, il 4 ottobre 1965, “evento singolare sotto ogni aspetto”, nel ventesimo anniversario della sua costituzione. Dinanzi ai rappresentanti di 115 Nazioni si celebrò «l’epilogo di un faticoso pellegrinaggio in cerca di un colloquio con il mondo intero». Nel simbolismo kafkiano del messaggero c’è tutto lo stile di Paolo VI: servo dei servi, grande nella sua umiltà, autorevole nella sua fede, cor inquietum, esperto in umanità. «Sì, voi ricordate: è da molto tempo che siamo in cammino e portiamo con noi una lunga storia», iniziata con il mandato «andate e portate la buona novella a tutte le genti». Di quelle genti ora in quell’assise si sente più un fratello, che governante, senza «alcuna potenza temporale, né alcuna ambizione di competere». Nulla da sollevare né da chiedere, bensì con «disinteresse, umiltà e amore» desidera servire e portare a ciascuno «un messaggio felice». Nulla del messaggero, dell’imperatore e del palazzo del racconto di Kafka è rintracciabile quel giorno entrato nella storia, il 4 ottobre 1965. «Umilissimo suddito», «minuscola ombra sperduta nel più remoto cantuccio dinanzi al sole imperiale», è il messaggero dello scrittore boemo. Montini, al contrario, nel suo abito bianco, fa risuonare con forza il suo Jamais plus les uns contre le autres, jamais plus, jamais, riportando a una memoria non lontana lo struggente e accorato appello rielaborato per incarico di Pio XII che lo lanciò il 24 agosto 1939 nel tentativo estremo di scongiurare il conflitto mondiale: «Nulla è perduto con la pace, tutto può esserlo con la guerra». Racconta Kafka, inginocchiato dinanzi all’imperatore, un messaggio bisbigliato all’orecchio, un cammino fatto di situazioni avverse, ostacoli insormontabili — moltitudine di persone, palazzi, scale, cortili — che non gli faranno mai raggiungere la meta, lasciando tuttavia l’attesa del suo arrivo: «Tu, però, stai alla tua finestra e lo sogni, quando scende la sera». Non messaggio bisbigliato, bensì annunciato da molto tempo quello di Montini, che gli fa percepire «la fortuna di questo, sia pur breve, momento in cui si adempie il voto che noi portiamo nel cuore da quasi venti secoli». Un cammino, certamente irto, tortuoso, faticoso, ha condotto il successore di Pietro dinanzi ai popoli riuniti nel Palazzo di vetro. Le sue parole, tuttavia, sono chiare, decise, senza alcun tentennamento. È la sua prima dichiarazione a nome personale, dell’intera famiglia umana, dell’intero cattolicesimo e di tutti i cristiani che ne condividono sentimenti e contenuti lì espressi. Paolo VI è il papa di tante “prime volte”: del primo viaggio apostolico in aereo verso la Terra Santa, dell’abbraccio al patriarca Atenagora, della rinuncia alla tiara papale, del sinodo dei vescovi, della prima messa in un impianto industriale, nell’Italsider di Taranto accanto agli operai, della giornata mondiale per la pace, il primo a visitare i cinque continenti, il primo a disporre un Messa di Francesco con studenti gesuiti a Santa Marta Papa Francesco ha celebrato nella mattina di sabato 2 agosto, nella cappella di Santa Marta, la messa alla quale ha partecipato un gruppo di giovani studenti gesuiti che erano stati presenti anche alla sua visita del 31 luglio scorso nella sede della curia generalizia della Compagnia di Gesù. Lo riferisce Radio vaticana, sottolineando anche che all’omelia il Pontefice ha parlato di san Pietro Favre, all’indomani della prima memoria liturgica. Com’è noto, infatti, Favre è stato proclamato santo da Papa Francesco, con canonizzazione equipollente, lo scorso 17 dicembre. «Al tramonto della festa della Trasfigurazione di Gesù, Paolo VI si congeda dalla vita terrena in grande umiltà e serenità. Il mistero della Trasfigurazione doveva essere un destino per lui». Con queste parole monsignor Leonardo Sapienza, reggente della Prefettura della Casa Pontificia, introduce il volume Paolo VI una vita trasfigurata (edizioni Viverein, pagine 114, euro 15), quattordicesima opera della collana su Papa Montini da lui curata. L’opera contiene un’antologia di testi del Pontefice lombardo sul tema. Di seguito pubblichiamo stralci dell’omelia pronunciata il 27 maggio 1976, solennità dell’Ascensione del Signore, durante la messa celebrata nella basilica vaticana con venti nuovi cardinali creati nel concistoro del giorno precedente. Rilettura del discorso di Paolo VI all’O nu Il messaggero di Kafka funerale sobrio, in una semplice bara di legno su cui viene posato un Vangelo sfogliato dal vento, in una tomba nella nuda terra con il solo nome impresso sulla pietra. La sua “prima volta” all’Onu è un momento semplice, com’è semplice quel piccolo uomo vestito di bianco. Piccolo, ma esperto in umanità, come definisce la Chiesa. Ma anche un momento grande, sia per lui, sia per gli Stati lì rappresentati. Il papa, infatti, può parlare, per loro tramite al mondo intero. Quattro sono i punti propositivi del memorabile messaggio. L’O nu deve offrire al pluralismo degli Stati una formula di convivenza pacifica. L’organizzazione esiste e opera per unire le Nazioni, per collegare gli Stati, per mettere insieme gli uni con gli altri, per gettare ponti fra i popoli. L’Onu deve seguire la formula della eguaglianza, cioè nessuno potrà essere superiore agli altri: non l’uno sopra l’altro, non gli uni contro gli altri. Infine, la formula cristiana e operativa per l’edificazione della pace, che non si costruisce soltanto con la politica e con l’equilibrio delle forze e degli interessi, bensì con lo spirito, con le idee, con le opere della pace. Bisogna lasciar cadere le armi, come si stava dicendo nell’aula conciliare. I contenuti della dichiarazione all’assemblea generale dell’Onu furono infatti in piena armonia con quanto la Chiesa, riunita a Roma durante il concilio Vaticano II, stava a mano a mano consegnando al mondo: «aggiornamento» al suo interno, condurre all’unità tutti i cristiani, dialogare con l’uomo contemporaneo. Le sue “lettere al mondo” — dalla programmatica Ecclesiam suam (6 agosto 1964) fino alla Humanae vitae (25 luglio 1968), passando per la Populorum progressio (26 marzo 1967) — raccontano il suo cor inquietum per l’uomo, quale risuonano le parole del vescovo d’Ippona: Si hominem te fecit Deus, et iustum tu te facis, che si può rendere così: se Dio ha fatto l’uomo senza di lui, non può operare la sua redenzione senza di lui. Non senza l’uomo, ma non senza Dio! Paolo VI era consapevole che dire uomo significava riportarlo a Dio, far riscoprire quella tensione verso la verità che da sempre ha caratterizzato il cammino dell’umanità. Può davvero e onestamente l’uomo moderno nutrire la convinzione che Dio rappresenti per noi una alienazione? Che solo senza Dio sia possibile questa pienezza di libertà e di responsabilità che consentirebbe di intraprendere con successo la costruzione del mondo e della storia? Al contrario, afferma Montini memore ancora di sant’Agostino, «non si dovrà riconoscere che è proprio per la mancanza e il rifiuto di Dio – fondamento dell’essere, della verità, della moralità, di tutti i valori – che l’uomo si “altera” nel suo stesso equilibrio essenziale, per precipitare nella disumanità dell’egoismo, della tecnocrazia, dell’oppressione?». Il vero umanesimo suscita insuperabile fraternità, risponde riprendendo quanto si legge nella Gaudium et spes (n. 19): «L’aspetto più sublime della dignità umana consiste nella sua vocazione alla comunione con Dio». Cercare Dio è trovare l’uomo. Si amano gli altri non perché si comportano in un certo modo, diceva Montini a Jean Guitton, poiché gli altri potrebbero essere anche nostri avversari, malati, ingrati, vili, uomini caduti in basso: «Il vero motivo dell’amore dell’uomo è che esso è fatto a somiglianza di Dio». È desolante constatare che «in questo momento l’uomo cerca l’uomo, ma non lo ama. E non può farlo dal momento che ignora l’amore di D io». La Chiesa, riunita in concilio, «al codice delle sole speranze terrene ha opposto l’inno della verità e della speranza cristiane» e «al segno dell’ateismo e dell’egoismo, il segno di Dio e dell’amore». La scelta per Montini è vitale: o essere di più o perire. «Se ci ricordiamo che nel volto di ogni uomo, specialmente se reso trasparente dalle lacrime e dalle sofferenze, noi possiamo e dobbiamo riconoscere il volto di Cristo (cfr. Matteo, 25, 40), il nostro umanesimo diventa cristianesimo, e il nostro cristianesimo si fa teocentrico, tanto che possiamo altresì affermare: per conoscere Dio bisogna conoscere l’uomo». Noi guardiamo in questo momento l’orologio della nostra storia, e francamente crediamo e diciamo: adesso, sì, Egli, Cristo, risorto, vivo e celeste, è con noi; oggi noi onoriamo e proclamiamo a noi stessi, all’assemblea circostante, e ai Popoli dei quali noi rispettivamente siamo figli, e investiti, in certo modo, della loro rappresentanza: Cristo, il buon Pastore dell’umanità, il Maestro e il Salvatore del mondo, colui che «è chiamato: Consigliere ammirabile, Dio potente, Padre per sempre, Principe della Pace» (Is 9, 5) è con noi. Egli l’ha detto: «Dove sono due o tre riuniti nel mio nome, Io sono in mezzo a loro» (Mt 18, 20); e noi, quanti qui siamo, appunto siamo riuniti nel Tuo nome. E così intimo, così urgente si fa il senso di codesta divina, ineffabile presenza di Cristo, che un infantile, ma evangelico desiderio ci sorprende: «Signore, noi vorremmo vederti!» (cfr. Gv 12, 21). Com’è il volto di Cristo? Quante, quante immagini Tue, o Gesù, la pietà e l'arte cristiana hanno messo davanti ai nostri occhi; e molte di queste ci raffigurano, in qualche maniera, non solo l’aspetto umano e doloroso di Gesù, ma alcune anche l’aspetto celeste e glorioso; pensiamo a quello della trasfigurazione, descritto dal Vangelo: «La sua faccia divenne risplendente come il sole e le sue vesti candide come la luce» (Mt 17, 2). Noi dovremo portare nell’anima il mistero dell’Ascensione come il punto trascendente, sì, e per ora invisibile e ineffabile, oltre la cortina del nostro orizzonte sensibile e temporale; e riferire a quel punto celeste l’asse della nostra esistenza presente. «Se siete risorti con Cristo — ci ammonisce San Paolo — cercate le cose di lassù, dove si trova Cristo, assiso alla destra di Dio: pensate alle cose di lassù, non a quelle della terra» (Col 3, 1-2). E ancora: «La nostra patria è nei cieli e di là aspettiamo come salvatore il Signore Gesù Cristo» (Fil 3, 20) Noi sappiamo che la mentalità moderna rifiuta questo disegno costitutivo dell’esistenza umana. La mentalità moderna, vogliamo dire quella priva del faro orientatore della speranza cristiana, è tutta impegnata nella conquista del benessere temporale, attuale. La scienza naturale è la sola sua luce; il benessere economico il suo paradiso terrestre; e talora i bisogni legittimi e gravi della vita naturale e presente si vorrebbero strumentalizzare in contrapposizione della finalità religiosa della vita, come prevalenti, anzi come i soli meritevoli dell’umana ricerca, e come degni di piegare a sé e di sostituire i bisogni e doveri dello spirito e le promesse della fede. Questo non è conforme al programma cristiano, il cui disegno, pur riconoscendo e servendo le necessità del tempo, spazia ben oltre i confini degli interessi materiali e dei piaceri momentanei del carpe diem. E meraviglia! il cristiano, pellegrino verso il Cristo oltre il Lewis Bowman, «Transfiguration» tempo, e perciò libero ed agile, disancorato nel cuore dalla scena effimera di questo mondo (cfr. 1 Cor 7, 31), proprio in virtù del suo insonne amore al Cristo glorioso dell’al di là, sa scoprire il Cristo bisognoso dell’al di qua; egli intravede il suo Cristo, degno di totale dedizione, nel fratello povero, piccolo, sofferente ove l’immagine mistica di Gesù celeste, secondo la sua divina parola, s’incarna nell’umano dolore terrestre. La nostra festa dell’Ascensione di Cristo può infatti celebrarsi anche così, ascoltando e realizzando la sua travolgente parola d’amore sociale: «In verità vi dico, ogni volta che avrete fatto del bene ai miei fratelli più piccoli, voi l’avete fatto a me» (cfr. Mt 25, 40). Presentato il logo della visita del vescovo di Roma in Sri Lanka Nel segno della croce L’arcidiocesi di Colombo ha reso noto il logo della visita che Papa Francesco farà dal 12 al 15 gennaio in Sri Lanka. Il viaggio papale proseguirà poi, dal 15 al 19, nelle Filippine. In attesa della presentazione del programma ufficiale, il logo suggerisce una prima chiave di lettura della visita del Pontefice nel Paese asiatico. Al centro, infatti, vi campeggia la «croce dello Sri Lanka» ispirata alla croce di san Tommaso rinvenuta, un secolo fa, negli scavi archeologici nell’antica capitale Anuradhapura. La croce è colorata in blu per ricordare la consacrazione del Paese a Nostra Signora di Lanka, in seguito alla seconda guerra mondiale. L’arcidiocesi di Colombo ha scelto proprio questo simbolo perché «parla anche del nostro amore e della devozione alla Madonna». Fa da sfondo una mitra rossa e gialla, che intende rappresentare proprio quella del Pontefice. Le fasce della mitra ricadono morbide lungo i lati e abbracciano le parole «Pope Francis» e «Sri Lanka 2015». Su entrambi i lati della mitra del Papa tratteggiata nel logo vi sono quattro colori — marrone, arancione, verde e giallo — che simboleggiano lo spiccato carattere multietnico e multireligioso dello Sri Lanka. Sul lato destro della croce è raffigurato il beato Joseph Vas, beatificato da Giovanni Paolo II durante la sua visita all’isola nel 1995. Il suo arrivo nel Paese risale al 1687. Per ventiquattro anni, sino alla morte avvenuta nel 1711, l’ha percorso in lungo e in largo. Un ultimo particolare: il logo riproduce, nel suo insieme, la sagoma del fiore di loto che è il fiore nazionale. Verso il viaggio in Albania In Europa, cominciando dalla periferia. Così in Albania vedono la prima visita di Papa Francesco nel vecchio continente che sarà, appunto, a Tirana il 21 settembre. «Se si intende il benessere materiale come il centro, allora sicuramente l’Albania è una periferia» dice l’arcivescovo Rrok K. Mirdita, intervistato da Radio Vaticana. «Ma il nostro Paese — precisa — è ricco di altri valori. Abbiamo la popolazione più giovane del continente, nonostante i flussi migratori». Insomma, per il presule, «Papa Francesco entra nel continente europeo tramite l’incontro con un popolo che ha molto sofferto, ma che anche ha molto da dare all’Europa». Ad accogliere il Pontefice sarà «una Chiesa rimasta sempre vicino alla gente» in un contesto che porta oggi l’Albania a essere «un modello di convivenza religiosa». E un contributo per raggiungere questi traguardi è venuto dalla testimonianza della beata Teresa di Calcutta, nativa di Skopje, il cui nome resta legato anche al popolo albanese.
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