Classe V P La musica: il sollievo più possente della vita

ANDREA MARIA ZUPPARDO
Classe V P
La musica: il sollievo più possente della vita
“La poesia è la musica dell’anima…”. Questo è un celebre aforisma del cantautore Fabrizio
De Andrè, che fa capire come la musica e la poesia siano in stretta correlazione. Molti poeti
italiani, infatti, hanno un rapporto speciale con essa, intendendola come strumento
essenziale per evadere dalla realtà e sognare.
Uno tra questi è Clemente Rebora, presbitero e importante poeta del Novecento.
Egli pubblica diverse opere, poi diventate famose, come i Frammenti lirici; ma prima di
diventare un affermato poeta, egli compie un accurato studio sui rapporti di Leopardi con la
musica, in una tesina di laurea, in parte pubblicata sulla «Rivista d’Italia» col titolo: Per un
Leopardi mal noto.
Approfondendo quest’argomento, egli rimane colpito da come il poeta di Recanati riuscisse
a fare della musica non soltanto una forza divina e liberatrice, ma anche un’ideale
espressione del proprio mondo interiore; infatti Rebora scopre che, nella mente di Leopardi,
la musica aveva una posizione di privilegio rispetto alla poesia, perché quest’ultima era
limitata dal significato delle parole, a differenza della musica, che diventa “lo strumento
ideale per esprimere l’indefinito della propria anima”.
Una delle caratteristiche principali della poetica di Leopardi è il tema dell’infinito; ciò lo sa
anche Rebora, ma egli nella sua tesi accosta l’infinito alla musica, notando che, nelle opere
del poeta recanatese, i suoni sono la chiave per aprire la porta dell’infinito e addirittura,
come dirà il critico Gualtiero De Santi: “L’infinito stesso è in Leopardi suono”. Questo
aspetto è riscontrabile in moltissime sue poesie come: A Silvia, dove i versi 7-9 recitano:
“Sonavan le quiete / stanze, e le vie dintorno, / al tuo perpetuo canto” e fanno capire che i
suoni, in cui il poeta è immerso, lo distraggono dalle “sudate carte”; Il passero solitario, che
inizia col canto di questo uccello che si espande sempre di più, rendendosi udibile per spazi
indeterminati, per poi essere accompagnato dal “belar” delle greggi e dal “muggir” degli
armenti; L’infinito, dove Leopardi cerca di vedere oltre l’ultimo orizzonte dello sguardo,
stimolato da “sovrumani silenzi, e profondissima quiete”, da lui immaginati, che gli causano
prima una forte sensazione di paura e poi un senso di dolcezza nel cuore; inoltre il silenzio
dell’infinito viene paragonato al suono della stagione presente.
Rebora, quindi, vede in Leopardi un grande poeta, che riesce ad armonizzare perfettamente
la musica e la poesia e decide di fare di lui un modello di stile da seguire.
Nelle opere del poeta di Milano, infatti, si nota una continua apertura verso ampi orizzonti
spaziali, non visibili, che inducono il poeta a immaginare suoni che riportano a
quell’infinito da lui aspirato.
Un esempio è un verso del Frammento XV, una metafora predicativa che recita così:
“Lontanissimo arpeggia il tramontare” e che sintetizza quanto abbia imparato Rebora da
Leopardi: la musica è l’unico mezzo di collegamento tra l’uomo e infinito; quest’ultimo, per
via della sua immensità, è immaginabile soltanto grazie alle sensazioni uditive che vanno
oltre quelle visive.
La musica origina e permea ogni cosa, persino la parola che, per essere sublime, ha bisogno
di riferimenti musicali, anche per descrivere un semplice paesaggio alpino, come leggiamo
in una lettera che Rebora scrive all’amica Daria Malaguzzi nel 1909 : “L’infinita bellezza
sinfonica delle valli e delle vette”.
Rebora chiarisce ancora di più il suo pensiero sulla musica nel Frammento XVI, famoso per
il suo verso iniziale: “O musica soave conoscenza”. In questo sonetto il poeta afferma che la
musica, una forma di conoscenza, “innatura l’anima”, ovvero sta all’origine dell’uomo
stesso, nel suo cuore. La verità eterna gli appare nella musica come armoniosa e bella:
“Armoniosa in te non si cancella / L’eterna verità mentre è parvenza”; la musica, secondo
lui, col suo ritmo ci mostra l’amore che discende dall’universo, rivelandoci la meta del
nostro cammino: “Ma il ritmo snuda l’amor che discende / dall’universo a rivelar la meta”;
e in più nella musica vi è sia una consapevole conoscenza della realtà, sia una componente
misteriosa, come affermano gli ultimi versi della poesia: “Amor che nel cammino nostro
accende / l’inconsapevol brama triste, o lieta, / e in te, raggiunto il tempo, lo trascende”.
Nei “Frammenti lirici”, inoltre, è particolarmente consistente e significativo il linguaggio
musicale, basato sull’uso di parole prettamente tecniche o anche comuni, come : “arpeggio”,
“armonia”, “canto”, “canzone”, “melodia”, “nota” e “suono”, e di altre onomatopeiche
come : “tonfo”, “fragore”, “boato”, “crepolio” e “schianto”, che rimandano a suoni sia
melodiosi, sia assordanti; ciò perché, se da un lato il poeta vuole armonizzare i suoi versi
con la natura che lo circonda, dall’altro si scontra con una turpe realtà esterna.
Questa continua e raffinatissima ricerca di musicalità delle parole è tipica anche di un altro
poeta del Novecento: Giovanni Pascoli. Egli, nelle sue poesie, vuole esprimere le voci
misteriose che la natura gli sussurra, perciò usa un linguaggio poetico fatto di echi,
risonanze melodiche, rime particolari e parole onomatopeiche. Un esempio chiaro del suo
fonosimbolismo, al quale si ispira anche Rebora, è la poesia L’assiuolo, dove l’allitterazione
di “fr”, nel verso 12, riprende il rumore dei cespugli: “sentivo un fru fru tra le fratte”,
mentre l’anafora di “chiù”, ripetuto alla fine di ogni strofa, riproduce il verso dell’assiuolo.
Queste sono solo alcune delle tecniche usate da Pascoli per creare l’effetto sonoro
desiderato.
Il rapporto speciale di Rebora con la musica non è limitato solo alle poesie, ma si estende
anche nella sua vita privata di tutti i giorni. Egli infatti suona il pianoforte assiduamente,
prima improvvisando, come scrive a Daria Malaguzzi nel 1909: “Mi stacco ora dal
pianoforte dove (per due o tre – quanto? – ore) ho improvvisato in un dolore sì fecondo che
pareva letizia un tema grave”, poi studiando rigorosamente, come si evince da un’altra
lettera: “Mi sono proposto d’iniziare lo studio del pianoforte secondo regola e ragione…”.
Rebora, inoltre, ama sentire concerti, preferendo le musiche di Bach, Beethoven e Chopin e,
addirittura, prima di morire scriverà : “Strano il successo delle mie poesie! Io le facevo così,
come realizzazione di qualcosa, stati d’animo. Ma volevo diventare compositore e direttore
d’orchestra”.
Egli, nei suoi scritti, critica spesso D’Annunzio, perché lo ritiene troppo presuntuoso ed
egocentrico. I due poeti, però, hanno in comune proprio il forte amore per la musica, infatti,
Gabriele D’Annunzio inserisce nelle sue opere riferimenti espliciti alla musica, come ne Il
piacere, dove La sonata al chiaro di luna di Beethoven fa da cornice all’incontro tra Andrea
Sperelli ed Elena Muti, e nella poesia La pioggia nel pineto, massimo esempio di partitura
musicale in forma di poesia; inoltre, anche D’Annunzio, nella vita privata, ama molto la
musica: suona diversi strumenti e ascolta frequentemente le melodie di Beethoven e Chopin,
che forse fanno sognare anche un “superuomo” . La musica, dunque, come scrive Rebora, è
“il sollievo più possente della vita”, in cui le nostre anime si rifugiano, soprattutto quelle dei
poeti. Leopardi, Pascoli, D’Annunzio e Rebora sono, infatti, diversi per molti aspetti, ma
hanno in comune la presenza della musica nella loro vita.