Ringraziamenti Ricorderò sempre con gratitudine l

Ringraziamenti
Ricorderò sempre con gratitudine l’aiuto generosamente offertomi da Sua Maestà Angun Tenzing Trandul,
defunto re di Lo e rajah del Mustang. A suo figlio, Jigme
Dorje Trandul, attuale re, esprimo i miei rispettosi ringraziamenti per l’accoglienza e la gentilezza riservatemi
durante il mio soggiorno.
Sono molto riconoscente a Sua Altezza Reale il principe Basundhara del Nepal per avermi aiutato a ottenere l’autorizzazione per recarmi in Mustang.
Ringrazio il Ministro degli Affari Esteri del Nepal,
che mi ha accordato l’autorizzazione per risiedere in
Mustang, e in particolare il comandante in capo dell’armata nepalese, il generale Surendra Shah, Sua Eccellenza Prakash Chand Thakur, e Sua Eccellenza il generale Padma Bahadur Khatri.
A Tashi Sonam Karmy, mio compagno d’avventura e
amico, va quanto a me il merito che potrebbe avere questo libro. Gli esprimo qui la mia ammirazione e il mio
affetto sincero.
Ringrazio il professore Diurna Harsha della sezione
archeologica nepalese, per il suo aiuto e la sua comprensione.
Boris Lissanevitch di Katmandu mi ha generosamente prestato una parte del mio equipaggiamento; oltre
alla sua regale ospitalità, mi ha donato delle provviste e
ha facilitato la mia partenza in tutti i modi possibili.
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MUSTANG, UN REGNO TIBETANO PROIBITO
Ringrazio ancora i numerosi abitanti di Katmandu,
che mi hanno offerto avvisi e consigli, e in particolare il
maresciallo Kaiser Shumsher Jung Bahadur Rana, il
colonnello Charles Wylie, colonnello J. Roberts, Padre
Moran, S. J., e il signor Peter Aufschnaiter.
Debbo gran parte delle informazioni raccolte in questo libro all’Onorevole Pemba Gyaltsen e a Sua Santità
il Lama di Tsarang, così come agli altri loba* che mi
hanno offerto il loro aiuto e la loro amicizia.
Vorrei esprimere la mia riconoscenza al professor
Christopher Bon Fürer-Heimendorf della scuola di studi
orientali e africani dell’Università di Londra per i suoi
consigli e i suoi incoraggiamenti.
Infine ho contratto un enorme debito nei confronti di
Samten-Karmay, fratello di Tashi Karmay, per la sua
traduzione di documenti tibetani e loba che ho portato
dal Mustang.
M. P.
Capitolo I
LO YAK E LO STATUS QUO
È la dimora degli dei e, da migliaia di anni, preti,
monaci e sapienti sono andati a morirvi. Da secoli
l’Himalaya affascina gli uomini e le sue cime maestose nascondono ancora oggi molti misteri.
Installato per sei mesi a Katmandu, la capitale del
Nepal, avevo vissuto all’ombra dell’Himalaya. A
primavera le nuvole si schiudevano sulla città per
rivelare la massa scintillante di quel continente dalle
nevi eterne, che si estende per tremila chilometri
attraverso l’Asia. Da sopra le pagode della città
ammiravo continuamente la barriera bianca. Il mio
sguardo però non si fermava sulle grandi vette; lo
spirito cercava più lontano, io inseguivo un sogno,
un sogno che milioni di altri uomini hanno fatto
prima di me. Sognavo un orizzonte perduto, certo
com’ero che esistesse, da qualche parte, un paese
ancora vergine, un mondo inesplorato.
Credere a simili sogni, nel 1964, sembrava irragionevole. Eppure ecco il racconto del viaggio che
intrapresi nella primavera di quell’anno...
* POPOLAZIONE DEL SUD-OVEST DELLA CINA, PRECISAMENTE DELL'AREA DI YONGNING, DIVISA IN DUE PARTI DALLA CINA MAOISTA, RIUNITE DOPO
IL 1984 E DAL 1987 NUOVAMENTE DIVISE IN YONGNING XIANG E LABO
XIANG. I LOBA FANNO PARTE DELLA COMUNITÀ MOSO. NEL 1999 I MOSO
ERANO CIRCA 10.750
Il 23 aprile fui svegliato da un domestico che bussava alla porta del bungalow di cemento dove abitavo a Katmandu.
Erano le cinque di mattina e alzandomi realizzai
che finalmente era arrivato il giorno tanto atteso e
che tutt’a un tratto mi faceva paura.
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MUSTANG, UN REGNO TIBETANO PROIBITO
LO YAK E LO STATUS QUO
Fuori era grigio e plumbeo e compresi allora che
quella era l’ultima volta, per lunghi mesi, che mi
sarei alzato in un’atmosfera appena appena calda.
Anche mia moglie si alzò. Benché in attesa di un
bambino aveva voluto assolutamente accompagnarmi in aereo fino allo sperduto villaggio di Pokhara
per assistere alla mia partenza.
Un rumore di stivali che si trascinavano sul terreno annunciò l’arrivo di Calay. Non aveva un’aria
molto seria con i vestiti che gli avevo comprato. Le
gambe storte erano nascoste da ampi pantaloni bianchi infilati nelle scarpe da montagna. Portava una
camicia a quadri, come un boscaiolo americano, e un
maglione rosa acceso che apparteneva a mia moglie.
Calay era il mio cuoco e il mio sirdar 1, il solo servitore che ero riuscito a trovare in tutta la vallata di
Katmandu disposto a partecipare alla mia spedizione. Credevo di conoscere bene Calay ma, da alcuni
mesi, avevo iniziato a dubitare di poter contare su di
lui, così come avevo iniziato a dubitare di tutto,
compresa la mia capacità di condurre a buon fine il
progetto da me ideato e che adesso, alle cinque del
mattino, mi appariva più irragionevole che mai.
Le stanze del nostro bungalow assomigliavano al
deposito di una stazione di autobus. Due grandi bauli
di lamiera stavano accanto a due enormi casse di
legno che Calay e io avevamo inchiodato la sera
prima. Alcune sacche da viaggio erano disseminate
al suolo, un immenso paniere di vimini stipato di
pentole e barattoli di plastica era appoggiato al tavo-
lo. Da quel momento in poi sapevo che tutti quegli
oggetti sarebbero diventati il mio unico legame con
una parvenza di civiltà.
Qualche minuto dopo l’arrivo di Calay, Tashi
bussò alla porta. Indossava eleganti pantaloni stretti
scuri e un’impeccabile camicia bianca. Mi chiesi se
avesse un’idea di ciò che l’attendeva. Tashi era tibetano e aveva ventun anni. Diceva di essere un amdo
sherpa 2, cioè un amdo dell’est, il che ufficialmente
faceva di lui un cittadino cinese. Ma se dicevo questo a Tashi si metteva di malumore, poi rideva
dichiarando con sicurezza che un tempo gli amdo
tibetani erano stati i padroni del mondo, una razza di
re... Mi chiedevo come sarebbero trascorsi i tre mesi
che avrei vissuto in compagnia di uno sherpa amdo...
Tashi sarebbe stato il mio unico compagno e parlava
solo il tibetano. Quanto a Calay, sapevo che non mi
sarebbe stato di grande compagnia. Speravo però
che sarebbe stato efficiente come nel 1959, quando
l’avevo portato sul massiccio dell’Everest. Là Calay
era stato impagabile per bravura e onestà. La sua
fedeltà e il suo coraggio erano tipiche del misterioso
popolo tamang al quale apparteneva; a quel tempo
pensavo che Calay si sarebbe fatto uccidere per proteggermi. Ma ora, cinque anni più tardi, sembrava
cambiato, invidioso, più ambizioso. Aveva ventisette anni come me e nel suo paese era considerato un
vecchio. Mia moglie mi aveva supplicato di cercare
2 TERMINE INGLESE PER INDICARE PORTATORE, FACCHINO, PERLOPIÙ
CINESE O INDIANO. DALLA VOCE TIBETANA “SHARPA”: ABITANTE DELLA ZONA
ORIENTALE.
1 CAPO DEI PORTATORI.
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LO YAK E LO STATUS QUO
qualcun altro, ma mi fidavo ciecamente di Calay,
ricordando le prove che avevamo affrontato insieme
e d’altronde nessun altro a Katmandu voleva accompagnarmi.
L’equipaggiamento e le casse furono caricati su
due jeep. Lasciammo la cinta del Royal Hotel nel
frastuono dei motori e prendemmo la strada dove già
numerosi coolies 3 avanzavano silenziosi verso
misteriose mete in direzione del bazar.
Mi sembrava impossibile essere finalmente pronto a partire. In tasca custodivo il documento prezioso che tanto avevo impiegato a ottenere: un permesso debitamente firmato che mi autorizzava, a mio
rischio e pericolo (cosa che mi era stata spiegata
molto chiaramente), a recarmi nel territorio proibito
del Mustang. Mi ci erano voluti sei mesi di negoziati interminabili per procurarmi quel documento che
mi autorizzava ad attraversare le zone strategiche
dove il Nepal confina con il Tibet, occupato dalla
Cina comunista.
Mi avevano ricordato che nel Tibet c’era la guerra, ma non era l’armata cinese ciò che temevo di più.
La mia preoccupazione principale erano i khampa.
La reputazione di queste orde di banditi si estendeva
ben oltre la barriera delle nevi, fino a Katmandu. Da
tempi immemorabili, molto prima di Marco Polo,
quel nome aveva diffuso il terrore nel Tibet. I khampa erano sempre stati la piaga delle carovane
dell’Asia centrale. Ma, dal 1959, a causa di un sus-
3 PORTATORI DI ETNIA TIBETO-BIRMANA CHE PARTECIPANO ALLE SPEDIZIONI SULL'HIMALAYA.
seguirsi d’avvenimenti inattesi, erano diventati gli
ultimi difensori del Tibet contro i cinesi. Ora si trovavano sulle frontiere del Nepal e combattevano contro
le forze di Pechino. Costituivano altresì una minaccia
per i mercanti nepalesi o per qualsivoglia straniero
che avesse avuto la cattiva sorte d’incontrarli.
Si diceva che penetrare nelle zone di frontiera
occupate da loro significasse andare incontro al disastro e a Katmandu mi avevano spesso ripetuto che
avrebbero fermato il mio piccolo gruppo, ci avrebbero uccisi o, nella migliore delle ipotesi, derubati.
Non avevo proprio avuto il tempo di pensare a
loro, tanto mi era sembrato meraviglioso essere il
primo straniero a cui fosse stato graziosamente
concesso un permesso di soggiorno, nonché la
facoltà di circolare liberamente nel regno del
Mustang, la regione più isolata e meno conosciuta
dell’Himalaya. Era il Mustang, ne ero certo, il vero
regno sperduto di cui avevo sempre fantasticato. Il
nome lo avevo sentito menzionare la prima volta
per caso in Nepal. Nessuno sapeva granché sul
Mustang tranne che era proibito andarci e che il territorio cominciava a un centinaio di chilometri al di
là del massiccio dell’Annapurna e di quello del
Dhaulagiri, ossia al di là delle più alte catene montuose del nostro pianeta.
Per me non c’è mai stato niente di più appassionante di ciò che è proibito ed ero stato immediatamente affascinato dal Mustang. Mi sembrava impossibile che potesse esistere un tale luogo nella nostra
era di esplorazioni spaziali. Quando poi scoprii il
Mustang sulla carta geografica, ne fui più affascinato ancora. Il suo territorio, di circa 1200 chilometri
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MUSTANG, UN REGNO TIBETANO PROIBITO
LO YAK E LO STATUS QUO
quadrati, si inoltrava a partire dal Nepal come una
penisola verso l’interno del Tibet occupato dai
comunisti. Un’unica pista collegava il Mustang al
Nepal e le mie stime, che in seguito si sarebbero
rivelate esatte, dimostravano che il Mustang doveva
essere il regno più elevato del mondo, con un’altitudine media di 5000 metri.
Il fatto che quel territorio costituisse un autentico
regno sembrava sorprendente: nel 1964, malgrado le
rare allusioni al re del Mustang in taluni libri che
trattavano dell’Himalaya, era tutto da dimostrare. Il
più antico riferimento al Mustang che fossi riuscito a
trovare nella letteratura inglese risaliva al 1793 4. Nel
suo libro di viaggi, W.J. Kirkpatrick, il primo inglese che visitò il Nepal, segnalava che qualcuno gli
aveva parlato del fiume Kali Gandaki, a proposito
del quale scriveva: “Pare che la sorgente di questo
fiume sia situata a nord di Mookti, in direzione di
Moostang.” Aggiungeva poi: “Il Moostang è un
luogo di una certa importanza nell’alto Tibet o
Boot.” Nove anni dopo, nel 1802, F. Buchnan parlava del “Mastang, una signoria del Tibet” che costituiva “il territorio di un capo del Boot, chiamato il
rajah del Mustang.” A partire da quell’epoca, il nome
di “Mastang” o “Mustang”, secondo l’ortografia
successiva al 1858, compariva di tanto in tanto. Tutti
questi riferimenti citano lo statuto indipendente del
misterioso “re o rajah di Mustang, che è tibetano”.
Fu necessario aspettare 159 anni, dopo i primi
commentari di W.J. Kirkpatrick sul paese, perché il
primo europeo potesse mettervi piede. Fu solo nel
1952 che il geologo svizzero Tony Hagen, nel corso
dei suoi lunghi viaggi nel territorio dell’Himalaya
raggiunse, primo straniero, il Mustang, a proposito
del quale, dopo una breve visita, scrive: “È così lontano da tutto che è virtualmente indipendente.”
4 SEMBRA CHE IL PIÙ ANTICO RIFERIMENTO AL MUSTANG SIA IN UNA
LETTERA SCRITTA DA BETIA IN INDIA DA UN CAPPUCCINO NEL 1759, CHE
DICE DI AVER SENTITO PARLARE DEL REGNO DEL MUSTANG, INDIPENDENTE
DA LHASSA MA FACENTE PARTE DEL TIBET.
Finalmente, verso mezzogiorno, prendemmo
posto a bordo del traballante “DC 3” che doveva
portarci a Pokhara e che così ci avrebbe fatto rispar-
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Che cosa era esattamente il Mustang? Chi ne era
davvero il sovrano? Che estensione aveva e quali
erano i confini del suo territorio e del suo potere?
Nel 1964 lo si ignorava ancora. Ero partito per trovare risposta a queste domande.
Durante gli anni successivi alla prima visita di
Tony Hagen, il Mustang era divenuto territorio proibito a causa delle complicazioni politiche con la
Cina e i khampa, ed era un fatto del tutto inaspettato
che il governo nepalese, che controllava l’accesso al
paese, concedesse a me la prima autorizzazione
assoluta per un soggiorno prolungato. Prima di me,
un numero impressionante di alpinisti, esploratori e
antropologi celebri si erano visti rifiutare il permesso di recarcisi.
Ciò non toglie che avevo ancora davanti a me la
maggior parte delle difficoltà, lungo tutti i 300 chilometri di piste poco sicure attraverso le quali, solo
e a piedi, dovevo attraversare tutta la catena dell’Himalaya.
MUSTANG, UN REGNO TIBETANO PROIBITO
LO YAK E LO STATUS QUO
miare otto giorni di viaggio supplementare a piedi.
Allacciai la cintura di sicurezza con la consueta
impressione che, nel giro di qualche istante, ci
saremmo disintegrati. Mentre rollavamo sulla pista
di decollo stringevo nervosamente la mano di mia
moglie. Calay invece sorrideva calmo con aria di
superiorità e Tashi – che aveva visto il suo primo
aereo solo pochi anni prima e che non aveva mai
volato – rilassato e rapito, guardava a occhi spalancati fuori dall’oblò.
Come diavolo avevo fatto, mi domandavo, per
ritrovarmi così in partenza verso il Tibet in piena
epoca di esplorazioni spaziali!
La mia attuale situazione dipendeva, senza dubbio, dalla sete di esotismo che la vita monotona e
troppo civilizzata nella casa della mia infanzia nello
Hertfordshire aveva fatto nascere in me. Presto ne
avevo avuto abbastanza di contemplare passeri e
topi, i soli animali selvatici della Gran Bretagna,
ridicolmente stupidi se paragonati ai mostri giganteschi che immaginavo la sera, prima di addormentarmi sul cuscino. Ero cresciuto con il desiderio d’essere coraggioso e cavalleresco in un’atmosfera di cure
affettuose, un mondo timido popolato di nurse e di
suore. Un mondo di proibizioni dove si sentiva continuamente: “Non giocare là, finirai con lo sporcarti!”
Insomma, mi piaceva fare ciò che non si fa, come per
esempio imparare il tibetano e vagare a piedi attraverso l’Himalaya nell’epoca dei “jet”. In fondo, non
c’era niente di più proibito che andare nel Mustang,
ed è forse questo il motivo per cui mi ci recavo.
Ma ce ne sarebbe voluto di tempo per arrivarci.
Le cose cominciarono a prendere forma quando,
avendo saltato una lezione di diritto durante i miei
studi a Parigi, finii per caso in una libreria polverosa
accanto alla chiesa di Saint-Sulpice. Mi ero rifugiato
là più per sfuggire alla strada che per uno scopo preciso. Quando la porta si richiuse dietro di me con un
fastidioso tintinnio di campanellini, mi resi conto di
trovarmi in una libreria orientale. Tutto ciò che si
collegava all’Oriente mi aveva sempre procurato un
leggero brivido, dovuto senza dubbio al disagio che
provo davanti a statuette, mobili o quadri cinesi.
“Desidera?” mi chiese con voce ossequiosa il
libraio, il signor Prévoisin. Detesto essere colto alla
sprovvista e risposi a caso che cercavo una grammatica tibetana. A quell’epoca non sospettavo nemmeno l’esistenza di una lingua tibetana scritta ed ero
assolutamente convinto che quanto richiesto non esistesse.
Perciò la mia sorpresa fu grande quando il signor
Prévoisin, trascinando i piedi, si diresse verso un
angolo male illuminato del suo negozio, afferrò con
vigore una scaletta traballante e mi allungò un libretto verde “La grammatica del tibetano parlato” di Sir
Charles Bell. “Questo va bene?” mi chiese dall’alto
del suo trespolo. “È proprio quello che voglio” gli
risposi stupefatto.
Da quel giorno ho perso un numero considerevole di orologi, una ventina di accendini e tutte le
penne che abbia mai posseduto. Perdo assolutamente tutto e sono diventato celebre in famiglia per la
mia distrazione. Ma mai, proprio mai ho perso la
grammatica di Bell. Mi ha sempre seguito, spuntando nei momenti più imprevedibili, finché alla fine
non ho cominciato a leggerla.
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