II domenica di Quaresima A 2014

II domenica di Quaresima A
Gn 12,1-4a; Sal 33; 2Tm 1,8b-10; Mt 17,1-9
Prima Lettura Gn 12, 1-4a
Vocazione di Abramo, padre del popolo di Dio.
Dal libro della Gènesi
In quei giorni, il Signore disse ad Abram:
«Vàttene dalla tua terra, dalla tua parentela
e dalla casa di tuo padre, verso la terra che io ti
indicherò. Farò di te una grande nazione
e ti benedirò, renderò grande il tuo nome
e possa tu essere una benedizione.
Benedirò coloro che ti benediranno e coloro che
ti malediranno maledirò, e in te si diranno
benedette tutte le famiglie della terra». Allora Abram partì, come gli aveva ordinato il Signore.
Seconda Lettura 2 Tm 1, 8b-10
Dio ci chiama e ci illumina.
Dalla lettera di san Paolo apostolo a Timòteo
Figlio mio, con la forza di Dio, soffri con me per il Vangelo. Egli infatti ci ha salvati e ci ha chiamati con
una vocazione santa, non già in base alle nostre opere, ma secondo il suo progetto e la sua grazia. Questa
ci è stata data in Cristo Gesù fin dall’eternità, ma è stata rivelata ora, con la manifestazione del salvatore
nostro Cristo Gesù. Egli ha vinto la morte e ha fatto risplendere la vita e l’incorruttibilità per mezzo del
Vangelo.
Vangelo Mt 17, 1-9
Il suo volto brillò come il sole.
Dal vangelo secondo Matteo
In quel tempo, Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni suo fratello e li condusse in disparte, su un
alto monte. E fu trasfigurato davanti a loro: il suo volto brillò come il sole e le sue vesti divennero candide
come la luce. Ed ecco apparvero loro Mosè ed Elia, che conversavano con lui.
Prendendo la parola, Pietro disse a Gesù: «Signore, è bello per noi essere qui! Se vuoi, farò qui tre capanne,
una per te, una per Mosè e una per Elia». Egli stava ancora parlando, quando una nube luminosa li coprì
con la sua ombra. Ed ecco una voce dalla nube che diceva: «Questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto
il mio compiacimento. Ascoltatelo».
All’udire ciò, i discepoli caddero con la faccia a terra e furono presi da grande timore. Ma Gesù si
avvicinò, li toccò e disse: «Alzatevi e non temete». Alzando gli occhi non videro nessuno, se non Gesù
solo.
Mentre scendevano dal monte, Gesù ordinò loro: «Non parlate a nessuno di questa visione, prima che il
Figlio dell’uomo non sia risorto dai morti».
La prima lettura (Gn 12,1-4a) ci propone il racconto della vocazione di Abramo.
Gn 12,1: Il Signore disse ad Abram: «Vattene dalla tua terra, dalla tua parentela e dalla
casa di tuo padre, verso la terra che io ti indicherò (wayyó'mer hashem 'el-'avram lek-lekà
me'artzeka umimmoladteka umibbet 'avíka el-ha'áretz 'asher 'ar'ékka).
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- Il Signore disse ad Abram (wayyó'mer hashem 'el-'avram). L’origine della vocazione e il protagonista della
storia è il Signore che parla. La chiamata improvvisa e inattesa di Abramo è riconosciuta come passaggio
«dalla preistoria alla storia della salvezza». Tale svolta avviene attraverso un brusco restringimento: da una
prospettiva che abbraccia l’intera umanità (Gn 11: Babele) a una che si concentra su un uomo: 'Avram,
«Padre di molti» o «mio padre è grande, cioè dio»; in Gn 17,5 Dio gli modifica il nome in Avrahàm «Padre
dei popoli». Secondo l'halakhah (Talmud, Berakhot 13a) è proibito pronunciare questo nome senza la lettera
Hei (‫)ה‬, che Dio stesso ha aggiunto ad Avram, per non trasgredire il divieto che afferma non ti chiamerai più
Avram, proibizione cui si fa eccezione solo quando si spiega la storia di questo nome o ci si riferisce al
cambiamento, ad esempio nella preghiera di Shachrit (da shachar "luce mattutina"). Abram cittadino prima di
Ur e poi di Carran (Gn 11,31) viene reso «non cittadino»; la chiamata di Dio infatti lo rende aramì ‘oved,
«arameo errante», come è detto di Giacobbe (Dt 26,5). L’esodo di Abram da Ur è il vero inizio dell’essere
ebreo, dell’essere cioè il partner di Dio: «Vattene dal tuo paese, dalla tua patria e dalla casa di tuo padre» (Gn 12,1).
Del resto Abram è il primo ad essere chiamato ivrì. Abramo risulta una figura mitica elaborata durante
l’esilio e divenuto padre e modello di tutti i credenti in un solo Dio. Esce da Ur (citato solo 3x: Gn 11,31; 15,7;
Ne 9,7), Mesopotamia, a 75 anni (tempo dell’esilio) e si reca in Canaan e in Egitto. In Canaan è considerato
uno straniero, ma si muove come se fosse la sua vera terra. Il territorio che ha conservato le sue memorie è
Ebron, il sud. Giacobbe invece è legato al nord. Questo sta a significare che il sud è più importante del
nord nella storia di Israele e il sud è ben rappresentato da colui che viene ritenuto il padre, il più anziano:
Abramo che morì a 175 anni. Questo viaggio ricorda la storia di Israele, perché ciò che è stato vissuto dai
figli è attribuito anche ai padri (Abramo, Isacco e Giacobbe). Abramo è rappresentato come un anziano
perché anticamente l’età avanzata era tenuta in gran conto, donava autorevolezza alla persona. Ciò
nonostante Abramo si mostra giovane, intraprendente perché accetta la scommessa offertagli da Dio:
lasciare una terra per andare in cerca di un’altra terra che non conosce e attendere una discendenza
numerosa quando non riesce ad avere figli. È la parabola della storia biblica. È chiamato anche rea’ ha-Shem
«amico di Dio» (2Cr 20,7; Is 41,8; Dan 3,36; Gc 2,23). Il Corano lo chiama el-Khalil. La radice di khalil in arabo
significa svuotare. L’amico è colui che riesce a svuotarsi di sé, per far posto all’altro. Abramo si è svuotato
del proprio io, per accogliere il divino; ha lasciato alle sue spalle il politeismo (shirk), per riconoscere
l’armonia dell’Uno (achad) da cui tutto deriva. Primo vero monoteista (chanif), Abramo viene riconosciuto
padre del tawchid (monoteismo, unificazione), poiché ha riconosciuto l’origine unica di tutto e di tutti. Egli
è il primo musulmano, perché è stato il primo islàm, il primo sottomesso all’Unico. Abramo è chiamato anche
«servo» di Dio (Es 32,13), «amante di Dio» (2Cr 20,7), «profeta» (Gn 20,7).
- «Vattene» (lek-lekà). Letteralmente «Va’ a te», dativo di vantaggio o di interesse. Ti conviene andare, è
meglio che tu vada. Davar acher, «altra interpretazione»: «Mettiti in movimento verso te stesso», come
spiega lo Zohar. Una ricerca di Dio, e al tempo stesso una ricerca di te stesso. Il viaggio di Abramo non
consiste tanto in uno spostamento puramente geografico, bensì in uno spirituale. Il comando «vattene» perciò
può essere tradotto anche con «va’ verso te stesso» (leki-lak «e va a te» Ct 2,10). Ogni viaggio, ogni esperienza
proposta da Dio prevede un esodo interiore, un viaggio di ritrovamento di sé per non entrare nella
confusione di Babele. La chiamata ad ascoltare non solo è rivolta a tutto il popolo (Shemà Jisrael, Dt 6,4), ma
anche a ciascuno: Il Signore disse ad Abram… La capacità di ascoltare rivela la qualità della vita intima e
spirituale della persona. Limitarsi a incontrare gli altri, senza incontrare l’Altro nella propria vita, equivale a
smarrirsi. Già in origine (Gn 2,24) il Creatore aveva stabilito: L’uomo abbandonerà suo padre e sua madre e si
unirà a sua moglie e i due saranno una sola carne. Alla luce di questa chiamata nuziale che riguarda tutti gli
esseri umani, ci è dato comprendere che in Gn 12,1 l’UNO (Dio) chiama l’Uno (Abramo) a stringere un
rapporto nuziale, a divenire una sola carne con Colui che lo chiama.
La storia di Abramo è segnata da uno stesso comando: «Vattene dalla tua terra… Prendi il tuo figlio, il tuo
unico, quello che ami, Isacco, e vattene nella terra di Moria» (Gn 22,2). In entrambi i casi, Abramo «partì senza
sapere dove andava» (Eb 11,8). Il Midrash Rabbà commenta: «Da un capo all’altro della storia di Abramo
troviamo uno spaesamento». Per Abramo si tratta sempre di ricominciare da capo, di rimettersi in cammino
verso un luogo che non è luogo. Il vero «Luogo», infatti, è Dio, come insegna Giacobbe quando «si imbattè
nel luogo» (Gn 28,11). Per i rabbini, ha-Maqom, il «Luogo», è un epiteto divino: «Colui che è presente in ogni
luogo». Il viaggio verso questo «Luogo» è un’avventura infinita. La terra per Abramo sarà sempre ‘erez
megurîm, terra di soggiorno, terra in cui si vive da forestieri, e dunque terra di esilio.
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Con un’interpretazione simbolica e mistica, Filone di Alessandria (filosofo ellenistico di origine ebraica 20
a.C. - 50 d.C.ca.) legge nel testo non il comando di compiere un viaggio verso un luogo esteriore, ma verso il
luogo dell’interiorità, che è la vera casa di Dio: «Una sola dimora è degna di Dio, l’anima conforme alla sua
volontà» (De Cherubim 100). Scopo di ogni ‘pellegrinaggio’ è allora ritrovare un centro che non è al di fuori
di noi, ma dentro di noi. Il pellegrinaggio è ricerca di orientamento, è un volgersi a oriente per sfuggire al
senso di smarrimento; è un ritrovare «l'albero della vita» per sottrarsi all’ombra della morte.
Abramo quando fu chiamato era solo davanti al Signore. Alla solitudine di Abramo corrispondeva la
solitudine di Dio. La solitudine di Abramo rispecchiava quella di Dio. L’uno, solo nel suo cielo; l’altro, solo
in un mondo dedito all'idolatria. Narra il midrash: «Il nostro padre Abramo aveva detto: Si direbbe che il
mondo non ha chi se ne occupi. Lo guardò il Santo, Egli sia benedetto, e gli disse: “Io sono il Padrone del
mondo”» (Genesi Rabbah, 39,1). Questo racconto ci indica che il nuovo corso del mondo, iniziatosi con
Abramo, ha avuto luogo solo perché era avvenuto un incontro tra due solitudini.
12,2: Farò di te una grande nazione e ti benedirò, renderò grande il tuo nome e possa tu
essere una benedizione (we'e'eska legoy gadol w'avárekeká wa'agaddelah sheméka weheyeh berakah).
- e possa tu essere una benedizione (weheyeh berakah, lett. «e sarai benedizione»). La Settanta traduce: «e tu sarai
benedetto» (καὶ ἔσῃ εὐλογητός). Dall’unione nuziale tra l’Amore chiamante di Dio e l'uomo che accoglie la
sua Parola deriva una fecondità straordinaria: Farò di te una grande nazione e ti benedirò (Gn 12,2). Guarda il
cielo e conta le stelle … tale sarà la tua discendenza (Gn 15,5). Renderò numerosa la tua discendenza come le stelle del
cielo e come la sabbia che è sul lido del mare (Gn 22,17).
12,3: Benedirò coloro che ti benediranno e coloro che ti malediranno maledirò, e in te si
diranno benedette tutte le famiglie della terra» (wa'avarakah mevárkeýka umeqallelka 'a'or
wenivreku veka kol mishpechot ha'adamah).
- e coloro che ti malediranno maledirò (umeqallelka 'a'or, lett. «e disprezzante te maledirò»). Si rende in questo modo
la sinonimia dei due diversi verbi usati in ebraico per esprimere la medesima azione di maledizione: qalal e
arar, (da cui 'arah «maledizione», 'arur «maledetto») di cui il primo ha una sfumatura di significato più
leggera rispetto al secondo.
- e in te si diranno benedette (wenivreku veka, lett. «e saranno benedette in te»). Si tratta della corretta
interpretazione del verbo barak, «benedire», al nifal (passivo) «saranno benedette» uno dei punti più discussi
all'interno del libro della Genesi. Sono sostanzialmente tre le valenze con cui abitualmente si tenta di
risolvere tale questione ermeneutica: a) quella passiva («saranno benedette in te tutte le famiglie della terra»); b)
quella riflessiva («si benediranno in te tutte le famiglie della terra»); c) quella media («acquisteranno benedizione
in te tutte le famiglie della terra»), pur non essendo, quest'ultima, eccessivamente dissimile dalla valenza
riflessiva. Occorre altresì precisare che il significato passivo del verbo è quello verso il quale si dirigono
anche alcune importanti versioni: si vedano la Settanta (ἐνευλογηθήσονται e le sue citazioni in At 3,25 e Gal
3,8; cf anche Sir 44,21: ἐνευλογηθῆναι; il manoscritto B, invece, ha solo l'infinito barak) la Vulgata (benedicentur). Tuttavia, secondo diversi studi in merito, nello sviluppo della lingua - e, dunque, in epoche più recenti
di composizione - l'assimilazione del nifal allo hithpael (nella sua comprensione riflessiva) si fece sempre più
evidente. Alcuni paralleli al contesto di benedizione che caratterizza Gn 12,3b paiono assecondare un
medesimo senso riflessivo: il nome autorevole e benedetto di una determinata persona (YHWH, il re...) viene
usato da altri (Israele, le nazioni...) per benedirsi reciprocamente. In Gn 12,3b, il verbo usato con valenza
riflessiva esprimerebbe, dunque, il seguente significato: «Che noi, famiglie tutte della terra, ci benediciamo
a vicenda così come Abràm è stato da YHWH benedetto». In questo caso, Gn 12,3 si troverebbe a sottolineare
come tutta la terra dovrà arrivare a riconoscere quanto Abràm sia stato benedetto da Dio. L'accento viene
così a posarsi sull'elezione del patriarca e non tanto sull'universalità della benedizione a tutte le nazioni
(come accadrebbe nel caso dell'interpretazione passiva).
- famiglie (mishpechot). In ebraico il termine mishpachah indica, di per sé, il «clan», ovvero un'entità più
ampia e allargata della semplice «famiglia» (cf 10,5.18.20.31.32; 24,38.40.41; 28,14; 36,40).
Ogni uomo che riconosce la propria vocazione ad ascoltare la Parola e vi obbedisce diventa fonte di
benedizione per altri che, a loro volta, potranno dire: Hinnéni, Eccomi (Gn 22,1). Un commento di Nechama
Leibowitz (biblista 1905-1997: Nechama «consolazione») rileva come Abramo sia divenuto l'origine di una
nuova creazione: «Notiamo che la parola benedizione e benedire ritorna per Abramo cinque volte, come per
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cinque volte è usata la parola luce ('or) per la creazione del primo giorno (Gn 1,3-5). Con la venuta di
Abramo si ha la creazione di un secondo mondo, un mondo di benedizione, data agli uomini per mezzo di
un uomo». Non a caso altri commenti mettono in rilievo che, nell’episodio in cui Abramo invia il proprio
servo a cercare una sposa per Isacco, dapprima lo fa giurare in nome del «Dio del cielo e della terra» (Gn 24,3);
ma poi, quando rievoca il Dio che lo prese dalla sua terra, lo chiama semplicemente «Dio del cielo». Da ciò si
deduce che prima della chiamata di Abramo il Santo, benedetto egli sia, poteva estendere la propria sovranità solo al cielo, ma dopo di essa il suo dominio comprendeva tanto il cielo quanto la terra. Con la
chiamata di Abramo egli stesso diventa il luogo di benedizione per «tutte le famiglie della terra (‘adamàh)» (Gn
12,3). Questa benedizione corrisponde alla revoca dell’antica maledizione che aveva colpito il suolo a causa
di Adamo peccatore (Gn 3,17). Alle «famiglie della terra» spetta riconoscere l’esistenza di un solo Dio: «Se
qualche famiglia della terra non salirà a Gerusalemme per adorare il Re, il Signore Şeva’òt, su di essa non ci sarà
pioggia» (Zc 14,17). Il riferimento alla pioggia deve essere considerato tutt’altro che marginale. Non a caso il
midrash interpreta il versetto: «E saranno benedette in te tutte le famiglie della terra» affermando: «Le piogge
verranno per merito tuo [Abramo]» (Genesi Rabbah, 39,12).
«“Tu sarai una benedizione”, il che comporta che solo con il nome di Abramo noi dobbiamo concludere le
benedizioni, e non con quello degli altri due» (Rashi a Gn 12,2; cf. b. Pesachim, 117b). Tre padri restano,
Abramo, Isacco e Giacobbe, ma tra essi il più grande è Abramo. Abramo rappresenta l’Unico, le «famiglie»
delle nazioni formano il tutto e Dio vuole che il tutto sia benedetto come lo è stato l’Unico: in questo
senso l’umanità diventa una, dopo essere stata divisa a Babele.
12,4: Allora Abràm partì, come gli aveva ordinato il Signore (wayyélek 'avram ka'asher
dibber 'elayw hashem).
La scena che si era aperta con haShem che chiama, si chiude con Abràm che obbedisce al comando di haShem.
Il viaggio verso la terra di Canaan. Gn 12,1 inizia improvvisamente con l'irruzione di
Adonay nella famiglia di Tèrach (padre di Abramo). Abràm, unico tra tutti i suoi familiari, riceve da Dio
l'ordine di lasciare la patria e le sue origini per recarsi in una terra che Egli stesso gli avrebbe indicata e che
in seguito si sarebbe individuata nella terra di Canaan (12,5), la stessa terra verso la quale avrebbe voluto
dirigersi suo padre Tèrach (cf 11,31). I confini di quella terra, già conosciuta dal libro della Genesi, sono stati
genericamente abbozzati in 10,19: essi, tuttavia, saranno più precisamente enunciati in Nm 34,2-12. Con il
comando della partenza, YHWH si impegna con quattro particolari promesse: 1) far diventare Abràm una
grande nazione, 2) donargli la benedizione, 3) far diventare grande il suo nome concedendogli fama, 4) far
diventare lui stesso una benedizione per tutti coloro che lo avessero riconosciuto benedetto da Dio.
In 18,18 la promessa di diventare una «grande nazione» (goy gadol) verrà di nuovo ribadita a
proposito di Abràm, così come sarà confermata anche a riguardo di Ismaele (cf 17,20; 21,18) e di Giacobbe (cf
46,3). In Es 32,10 e in Nm 14,12 sarà Mosè a divenire il depositario della medesima promessa, mentre in Dt
4,7.8 essa sarà finalmente applicata al popolo di Israele e in lui ratificata e definitivamente compiuta. Per
quanto invece riguarda il «nome grande» (verbo gadal o aggettivo gadol + shem) promesso da Dio ad Abram,
esso si accosta sia a quello assicurato a David (cf 2Sam 7,9; 1Cr 17,8) che a quello augurato al figlio
Salomone (cf 1Re 1,47). D'altra parte, sarà lo stesso YHWH a essere invocato proprio per il suo «grande
nome» (cf Gs 7,9; 1Sam 12,22; 2Sam 7,26; 1Re 8,42; 1Cr 17,24; 2Cr 6,32; Sal 76,2; 99,3; Ger 10,6; 44,26; Ez 36,23;
Ml 1,11). In questo senso, il «nome» (shem) che i costruttori di Babele avrebbero voluto farsi da soli in virtù
dei loro sforzi e dei loro progetti (cf 11,4), qui è lo stesso Dio ad adoperarsi per assicurarlo solidamente ad
Abram e, in lui, a tutti i suoi discendenti. L'essere stato scelto e, quindi, «benedetto» (barak) da YHWH, pone
Abram in una posizione particolare rispetto al resto dell'umanità: egli diverrà una fonte di benedizione
(hayah berakà «essere benedizione»; cf Is 19,24; Zc 8,13), al punto che sarà il suo nome a costituirsi portatore
della stessa benedizione per tutti coloro che lo accoglieranno (cf 12,3; 18,18; 22,18; Sir 44,21; At 3,25; Gal
3,8). Questo rimarrà vero per tutte le generazioni a venire: le persone e i popoli che riconosceranno
l'elezione e la preminenza di Abràm e dei suoi discendenti saranno benedetti con la stessa benedizione.
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La figura di Abramo non tardò a esercitare il suo fascino sulla comunità dei rimpatriati israeliti
dall'esilio in Babilonia. Nel post-esilio un autore post-Sacerdotale ha avuto l'acume di creare una figura di
autentico riferimento che fosse di esempio e stimolo per affrontare le difficili contingenze che quel presente
offriva a coloro che si ritrovavano a lasciare Babilonia vinta da Ciro, re di Persia, per tornare a Gerusalemme.
Come Abram fu obbediente a YHWH nel lasciare Ur dei Caldei - in Mesopotamia - per dirigersi verso la
terra che Dio gli avrebbe mostrato, così Israele avrebbe parimenti dovuto seguire il suo autorevole
esempio nel lasciare Babilonia per mettersi in marcia verso la terra promessa ai padri.
Tramite l'episodio della «vocazione», i redattori post-Sacerdotali di Israele hanno iniziato a fare di
Abram non solo il prototipo dell'Ebreo obbediente alla voce di YHWH, ma anche il capostipite di tutti
coloro che erano rimpatriati dalla Mesopotamia, a esilio terminato.
Una volta arrivato in terra di Canaan, Abram l'«attraversa», in una sorta di simbolica e quanto mai
prefigurante appropriazione, fino ad arrivare a Sichem (l'attuale Nablus), località di grande importanza situata fra il monte Efràyim e il monte Garizìm -, anche per la presenza di un famoso santuario, per la futura
storia d'Israele (cf Gs 24,1.25.32; Gdc 9,6; 1Re 12,1.25; 2Cr 10,1; Sal 60,8; 108,8).
La seconda lettura (2Tm 1,8b-10) ricorda che anche i cristiani hanno ricevuto una «vocazione santa»
e una salvezza gratuita, grazie all'offerta di Cristo Gesù.
2Tm 1,8b: [Figlio mio,] con la forza di Dio, soffri con me per il Vangelo ([τέκνον μου]
συγκακοπάθησον τῷ εὐαγγελίῳ κατὰ δύναμιν θεοῦ,).
- con la forza di Dio (κατὰ δύναμιν θεοῦ). Il riferimento alla divina potenza intende esprimere il concetto
«come Dio ti dà la forza di fare».
- soffri con me per il Vangelo (συγκακοπάθησον τῷ εὐαγγελίῳ, lett. «soffri con [me] per il vangelo»).
L'espressione τῷ εὐαγγελίῳ deve essere considerata come dativo di vantaggio. Si afferma l'indole vittimale
del ministero: non si tratta solo di portare un annuncio ma pure di subirne le conseguenze conformemente
a Cristo e a beneficio del Vangelo.
1,9: Egli infatti ci ha salvati e ci ha chiamati con una vocazione santa, non già in base alle
nostre opere, ma secondo il suo progetto e la sua grazia. Questa ci è stata data in Cristo
Gesù fin dall’eternità, (τοῦ σώσαντος ἡμᾶς καὶ καλέσαντος κλήσει ἁγίᾳ, οὐ κατὰ τὰ ἔργα ἡμῶν
ἀλλὰ κατὰ ἰδίαν πρόθεσιν καὶ χάριν, τὴν δοθεῖσαν ἡμῖν ἐν Χριστῷ Ἰησοῦ πρὸ χρόνων αἰωνίων,)
- Egli infatti ci ha salvati (τοῦ σώσαντος ἡμᾶς, lett. «l'avente salvato noi»). Il participio aoristo del verbo σῴζω
«salvare» si riferisce a un atto compiuto (Tt 3,5; Ef 2,5.8).
- e ci ha chiamati con una vocazione santa (καλέσαντος κλήσει ἁγίᾳ, lett. «e avente chiamato con una chiamata
santa»). La vocazione alla salvezza cristiana viene definita «santa» perché proveniente da Dio e capace di
condurre a una conseguente fedeltà nella vita (Tt 2,12.14). Vi è un riferimento alla dottrina paolina della
giustificazione iniziale per fede, qui estesa con il rimando al piano salvifico di Dio, comprensibile nel
contesto delle dilaganti spinte eretiche di matrice giudeocristiana; l'autore non mancherà di rimarcare anche
il giudizio finale di Dio sulle opere degli uomini (4,14; cf Rm 2,6; 2Cor 11,15).
1,10: ma è stata rivelata ora, con la manifestazione del salvatore nostro Cristo Gesù. Egli
ha vinto la morte e ha fatto risplendere la vita e l’incorruttibilità per mezzo del Vangelo
(φανερωθεῖσαν δὲ νῦν διὰ τῆς ἐπιφανείας τοῦ σωτῆρος ἡμῶν Χριστοῦ Ἰησοῦ, καταργήσαντος μὲν τὸν
θάνατον φωτίσαντος δὲ ζωὴν καὶ ἀφθαρσίαν διὰ τοῦ εὐαγγελίου).
- Egli ha vinto la morte (καταργήσαντος μὲν τὸν θάνατον, lett. «avendo reso inoperante da una parte la morte»). Il
verbo καταργέω «distruggere» (part. aoristo) è usato anche altrove in riferimento alla morte (1Cor 15,26) o a
proposito del diavolo (che ha il potere sulla morte, Eb 2,14) e dell'anticristo (2Ts 2,8). E, infatti, il sostantivo
θάνατος, «morte» può indicare una distruzione sia fisica che spirituale.
- e ha fatto risplendere (φωτίσαντος, lett. «avendo fatto risplendere»). Con il verbo causativo φωτίζω, «illuminare»,
l'autore indica una proiezione di luce sulle cose, non un'illuminazione dall'interno; ciò rafforza il senso del
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precedente verbo causativo φανερόω «rivelare». Si verifica qui la stessa combinazione di verbi che troviamo
in 1Cor 4,5. Nel nostro contesto, è implicita la dialettica peccato-morte-tenebra / salvezza- vita-luce.
- la vita e l’incorruttibilità (ζωὴν καὶ ἀφθαρσίαν). I due termini formano una combinazione che esprime
l'unico concetto di «vita immortale». Si tratta di una caratteristica di Dio (1Tm 1,17) che, in Cristo, viene
estesa ai credenti, i quali hanno così accesso alla salvezza eterna.
Dalla fede alla grazia ministeriale. In Timoteo oltre a essere presente la fede trasmessa in
famiglia, è attivo anche il dono spirituale elargitogli nell'ordinazione (cf 1Tm 4,14). La presupposta vitalità di
fede del discepolo costituisce il motivo per cui Paolo lo esorta a ravvivare anche il carisma del ministero.
Fede e grazia ministeriale appaiono distinte e contigue. Lo specifico dono si alimenta «soffiando sul
fuoco», metafora con cui l'autore descrive il dinamismo dello Spirito Santo (v. 7). Non si tratta di incendiare
qualcosa di spento, ma di ravvivare una fiamma già attiva. Analogamente, in 1Ts 5,19-20 Paolo afferma che
il fuoco da non spegnere è quello dello Spirito, operante peraltro nelle profezie. Ciò è congruente con il
nostro brano, ove l'autore si riferisce soprattutto alla testimonianza che Timoteo deve rendere a Cristo e a
Paolo (v. 8) con profetica franchezza, senza lasciarsi inibire dalla propria giovane età (cf 1Tm 4,12) ma
confidando nello Spirito Santo. Alla «timidezza» - che presumibilmente connotava Timoteo - l'autore oppone
un duplice riferimento alla «forza» divina che dà coraggio (vv. 7-8). Sarà lo Spirito a concedergli questa forza
e l'amore necessario, temperando al contempo queste qualità con il prudente autocontrollo che aiuta a non
eccedere in uno zelo immoderato. Certamente, l'attività del ministero esporrà il discepolo alla sofferenza,
come è già avvenuto per Paolo, incarcerato a Roma, ma proprio la potenza divina aiuterà il giovane ministro
a patire in comunione con il suo maestro, a vantaggio del Vangelo. La sofferenza ministeriale torna a
beneficio del Vangelo, proprio come l'Apostolo in catene dichiara esplicitamente in Fil 1,12-13: «Ora, fratelli,
voglio che sappiate che le mie vicende hanno contribuito piuttosto al progresso del Vangelo, cosicché in tutto il pretorio e
ovunque è manifesto che io sono in catene per Cristo».
Un compendio dell'annuncio. Nel nostro brano, quindi, gli avversari a cui si allude sono sia esterni alla
Chiesa (come quelli che hanno determinato l'arresto dell'Apostolo) sia interni (gli eretici). Pertanto, l'autore
suggerisce a Timoteo una sorta di breve compendio dottrinale per il suo annuncio.
Questi gli elementi essenziali del messaggio da proclamare: 1) anzitutto, la vocazione alla salvezza
stabilita da Dio in Cristo sin dall'eternità (si afferma così la pre-esistenza di Cristo, 1Tm 3,16) e non in base
a particolari opere meritorie degli uomini (v. 9); 2) tale disegno salvifico viene rivelato solo ora, cioè nell'era
cristiana, con la manifestazione dell'intero evento-Cristo, il cui mistero pasquale produce l'effetto negativo
della distruzione della morte e l'effetto positivo della vittoria della vita (v. 10a); 3) il mezzo per renderlo noto
è il Vangelo di cui Paolo è «messaggero, apostolo e maestro» (v. 11). Risuona la cristologia di Ef 1,4-5, dove si
afferma la scelta di Dio: «prima della creazione del mondo» i credenti sono stati chiamati, in Cristo, a
essere santi e immacolati secondo la benevolenza della volontà divina. D'altro canto, sussistono contatti con
Ef 3,1-13, in cui si menziona il divino disegno, eterno e misterioso, ora rivelato in Cristo e annunciato da
Paolo ministro del Vangelo, detenuto in prigionia. E in effetti, con la triplice qualifica paolina di 2Tm 1,11 si
ribadisce che, oggetto della testimonianza, non è solo il Vangelo ma anche lo stesso Paolo e il suo «deposito»
apostolico (v. 12), cioè il patrimonio di verità a lui affidato, che occorre diffondere e, ancor prima, difendere
dagli attacchi dei falsi maestri. La garanzia della sua custodia è data - ancora una volta - dalla potenza
divina. In modo solenne, ma con espressione quasi intima, Paolo esprime la sua fede in Cristo, colui che non
delude le aspettative dei credenti perché è degno di fede. Paolo lo «sa», possedendone un'autentica
conoscenza, quella che deriva dall'esperienza. Per annunciare il Vangelo, egli è chiamato anche a patire,
rendendo evidente che le afflizioni sono parte integrante del suo ministero (Col 1,24). Ma attribuendo a se
stesso questo «soffrire», l'autore chiarisce pure l'imperativo del v. 8 in cui invitava Timoteo a «soffrire
insieme» (συγκακοπαθέω, 1,8) senza aggiungere alcuna specificazione. Paolo e Timoteo, quindi, accomunati
dal servizio a Cristo, sono uniti pure nella stessa chiamata a soffrire per lui (cf Fil 1,29).
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Nel vangelo (Mt 17,1-9) Gesù ci invita a seguirlo, sospinti dallo Spirito Santo, non solo nel deserto
(come nella domenica scorsa), ma anche su un alto monte. In entrambi i casi serve uno spirito pronto: nel
primo caso per sostenere la lotta contro le seduzioni del diavolo, nel secondo caso per sperimentare la luce
abbagliante della Pasqua e della Parusia. «La luce del Tabor prefigura la gloria della parusia» (s. Basilio, 330 † 379). Il mistero di Dio si offre a noi come fuoco che brucia e come acqua viva che spegne la sete dei
viandanti. Alcuni ne ricevono una goccia, altri fiumi in piena per poter dissetare quanti sperimentano
l’aridità del cuore.
Mt 17,1: Sei giorni dopo, Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni suo fratello e li
condusse in disparte, su un alto monte (Καὶ μεθ' ἡμέρας ἓξ παραλαμβάνει ὁ Ἰησοῦς τὸν Πέτρον
καὶ Ἰάκωβον καὶ Ἰωάννην τὸν ἀδελφὸν αὐτοῦ καὶ ἀναφέρει αὐτοὺς εἰς ὄρος ὑψηλὸν κατ' ἰδίαν).
- Sei giorni dopo (Καὶ μεθ' ἡμέρας ἓξ). L'inciso μεθ' ἡμέρας ἓξ, «sei giorni dopo» (ripreso da Mc 9,2; cf Lc
9,28, «circa otto giorni dopo») è stato oggetto di varie interpretazioni. Qualcuno ritiene che tale frase sia un
richiamo prolettico alla settimana della passione che terminerà con la risurrezione gloriosa di Gesù. Si può
invece leggere «sei giorni dopo» sullo sfondo del racconto del libro dell'Esodo, dove è scritto che la gloria del
Signore dimorò sul Sinai per «sei» giorni, e «al settimo giorno il Signore chiamò Mosè dalla nube» (Es 24,16).
Altra ipotesi è il riferimento alla festa delle Capanne (Sukkòt) che si celebra il 15 di Tishrì, quindici giorni
dopo la festa di Capodanno (Rosh hashanà) e cinque giorni dopo il Giorno dell'Espiazione (Kippur).
- Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni suo fratello (παραλαμβάνει ὁ Ἰησοῦς τὸν Πέτρον καὶ Ἰάκωβον
καὶ Ἰωάννην τὸν ἀδελφὸν αὐτοῦ). Gesù, raccolta la professione di fede di Pietro presso Cesarèa di Filippo
(16,16), riconosce che è giunta l’ora di parlare apertamente ai suoi discepoli (16,21). Segue il primo annuncio
della sua passione che scandalizza Pietro (16,22s). Quindi Gesù detta le condizioni per essere suoi discepoli
e con tono profetico dichiara: In verità io vi dico: vi sono alcuni tra i presenti che non moriranno, prima di aver visto
venire il Figlio dell’uomo con il suo regno (16,28). È possibile che questa profezia si riferisca proprio all’episodio
della Trasfigurazione. Notiamo che Matteo usa solo una volta il termine apostoli (οἱ ἀπόστολοι, 10,2).
Abitualmente parla di discepoli (οἱ μαθηταί).
- su un alto monte (εἰς ὄρος ὑψηλὸν). La stessa espressione è già stata usata nel contesto della terza tentazione
di Gesù, con l'aggiunta λίαν, «molto» alto (Mt 4,8). Il monte è una cifra caratteristica del vangelo di Matteo:
oltre a essere il luogo-culmine della scena delle tentazioni, è su un monte che Gesù tiene il suo primo
discorso (cf 5,1), e ancora su un monte Gesù risorto si mostrerà per l'ultima volta ai suoi discepoli (28,16). I
monti sono luoghi abituali per rivelazioni e teofanie. La tradizione situa la trasfigurazione sul monte Tabor
(600 m s.l.m.). Ma, per alcuni, non si esclude che possa essere il monte Hermon (massiccio montuoso al
confine tra Siria e Libano. Costituisce la parte più meridionale della catena dell'Antilibano. È formato da tre
cime, la più alta delle quali raggiunge 2.814 m.). La trasfigurazione sul monte, come il battesimo nel fiume
Giordano sono narrati con il metodo del midrash. Gesù sale su un alto monte, e porta con sé solo tre discepoli:
Pietro, Giacomo e Giovanni. Questo particolare ci ricorda Mosè che sale sul monte Sinai portando con sé
Aronne e i suoi due figli, Nadav e Avihu (cf Es 24,1ss). Il prendere con sé (παραλαμβάνω, paralambánō) i tre
discepoli, alcuni Padri della Chiesa lo interpretano come se Gesù abbia «caricato sulle spalle» i tre
discepoli, perché l’uomo da solo non può giungere al monte della visione con le proprie forze.
17,2: E fu trasfigurato davanti a loro: il suo volto brillò come il sole e le sue vesti
divennero candide come la luce (καὶ μετεμορφώθη ἔμπροσθεν αὐτῶν, καὶ ἔλαμψεν τὸ πρόσωπον
αὐτοῦ ὡς ὁ ἥλιος, τὰ δὲ ἱμάτια αὐτοῦ ἐγένετο λευκὰ ὡς τὸ φῶς).
- E fu trasfigurato (καὶ μετεμορφώθη, lett. «e fu trasformato»). Il verbo è un «passivo teologico», il cui agente è
Dio stesso. Non si tratta di metamorfosi come intesa nel mondo greco, né di una trasformazione interiore (cf
Rm 12,2; 2Cor 3,18). È solo un'anteprima dell'éschaton. Il verbo μεταμορφόω, metamorphóō, si può tradurre in
maniera più esatta con «trasformare» a ragione dell'idea di «forma» (μορφή) presente nel verbo stesso, e
anche perché il Risorto è descritto così da Mc 16,12, come colui che apparve «in altra forma» (ἐφανερώθη ἐν
ἑτέρᾳ μορφῇ; cf Fil 2,6.7). Il Padre vuole mostrare ai discepoli («fu trasformato») la gloria del suo Figlio
Gesù, come ricordato anche nella 2Pt: Egli infatti ricevette onore e gloria da Dio Padre, quando giunse a lui questa
voce dalla maestosa gloria: «Questi è il Figlio mio, l’amato, nel quale ho posto il mio compiacimento» (2Pt 1,17).
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Le metamorfosi è il titolo di un poema epico-mitologico di Publio Ovidio Nasone (Sulmona 43 a.C. - 18)
incentrato sul fenomeno della metamorfosi. Ovidio ha reso celebri storie e racconti mitologici
dell'antichità greca e romana.
Il concetto di metamorfosi transita nel Cristianesimo. Nel rito bizantino si parla di γία Μεταμόρφωσι
«Santa Metamorfosi» a proposito della Trasfigurazione di Cristo sul Monte Tabor. Tuttavia, la metamorfosi
del Cristo è definita φρικτή, «tremenda» nel senso che gli Apostoli «non sopportando il fulgore del tuo
volto e lo splendore delle tue vesti, oppressi stavano curvi col volto a terra». Non è difficile rendersi conto
che il concetto si basa sulla duplice natura del Cristo che «pur essendo nella condizione di Dio … svuotò se
stesso assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini» (Fi 2,6-7). Siamo dunque di fronte
ad una metamorfosi volontaria, consapevole e reversibile. L’espressione «Santa Metamorfosi» viene
riservata unicamente al Signore e non può essere usata per fenomeni analoghi riguardanti Santi o
Patriarchi: non la si ritrova infatti riguardo a Mosè, il cui volto era divenuto splendente.
Una forma di metamorfosi forse lo è anche la transustanziazione, che si verifica per opera dello Spirito
Santo con la Consacrazione eucaristica. Si tratta di un caso del tutto particolare, perché qui la
trasformazione avviene da cosa a Persona (metamorfosi ascendente: un riscontro di questo tipo di
metamorfosi può vedersi nel mito di Deucalione, che dopo il diluvio getta a terra sassi, «ossa della terra»,
che si trasformano in uomini); inoltre, nella transustanziazione la trasformazione non è percepibile ai
sensi. In tal senso Tommaso d’Aquino, nell’inno eucaristico Pange linguam, afferma: Verbum caro, panem
verum verbo carnem efficit: fitque sanguis Christi merum. Et si sensus deficit ad firmandum cor sincerum sola
fides sufficit.
Vanno però citati i numerosi miracoli eucaristici, avvenuti in tutto il mondo, in cui la trasformazione è
diventata visibile, come nei casi più noti dei miracoli di Lanciano (750), di Bolsena (1264), di Offida
(1273-1280), di Macerata (1356), di Morrovalle (1560).
Un concetto affine a quello della metamorfosi è la μετεμψύχωσις, metempsýchosis, «metempsicosi»,
intesa come trasmigrazione dell’anima in altro corpo. Si tratta di una trasmigrazione post mortem, un
passaggio totale e definitivo da uno stato all’altro. Il termine metempsicosi è considerato sinonimo di
reincarnazione. La credenza della trasmigrazione dell’anima in un altro corpo è diffusa da tempi
antichissimi presso diverse civiltà e religioni. È una delle credenze più diffuse in ambienti legati
all'Induismo, al Giainismo, al Sikhismo e al Buddhismo, anche se in quest'ultimo caso non riguarda la
reincarnazione dell'anima ma quella del karma (la parte non-materiale delle azioni e la causa del destino
degli esseri viventi), ad alcune religioni africane e altre filosofie o movimenti religiosi. La maggior parte
dei non credenti in Dio di oggi crede nella reincarnazione. Nell'ambito della filosofia occidentale antica,
Pitagora e la sua scuola sembrano essere stati fra i primi a sostenere la dottrina della metempsicosi,
seppure sulla base di culti orfici preesistenti. Altri aderenti furono: Platone (428 - 347 a.C.), Plotino
(203/205 - 270 d.C.), Giamblico (250ca. - 330) e Proclo (412 - 485). Nel secolo scorso, uno dei più
importanti propugnatori della reincarnazione in Occidente è stato il filosofo austriaco Rudolf Steiner
(1861-1925), nell'ambito della sua corrente di pensiero denominata antroposofia. Più di recente, la
dottrina della reincarnazione ha formato parte integrante del movimento New Age.
- il suo volto brillò come il sole (ἔλαμψεν τὸ πρόσωπον αὐτοῦ ὡς ὁ ἥλιος). Nell'organizzare la scena, Matteo si
distingue dagli altri vangeli per alcuni elementi peculiari, alcuni dei quali si spiegano a partire dalla
tradizione rabbinica. La Scrittura dice che Mosè quando scese dal monte Sinai non sapeva che la pelle del suo viso
era diventata raggiante (Es 34,29). Il volto glorioso di Cristo si trasformerà in πρόσωπον, «volto» sofferente e
oltraggiato nel racconto della passione (26,67). In prospettiva escatologica, i giusti brilleranno come il sole nel
regno del Padre (Mt 13,43).
- le sue vesti divennero candide come la luce (τὰ δὲ ἱμάτια αὐτοῦ ἐγένετο λευκὰ ὡς τὸ φῶς). Il dettaglio delle
«vesti» luminose di Gesù è interessante, perché per Matteo esse non sono semplicemente bianche, ma sono
«come la luce» (17,2). Il codice di Beza (D), il codice Curetoniano (syc) e altri testimoni hanno ὡς χιών «come
la neve». Le vesti «come la neve» sono quelle dell'angelo della risurrezione (28,3). Il colore bianco, la luce
intensa sono simbolo della realtà celeste. L'idea potrebbe rievocare la visione del libro del profeta Daniele,
quando appare un vegliardo la cui veste «era bianca come neve» (Dn 7,9), oppure quello della Genesi. Nelle
fonti giudaiche antiche si legge che la prima conseguenza della caduta di Adamo ed Eva fu che divennero
nudi. I loro corpi, nel loro stato originario, non erano «nudi», ma avvolti da una nube di gloria o di un
manto di luce; appena violato il comando di Dio questa veste cadde, ed essi provarono vergogna. Giocando
sul fatto che in ebraico «pelle» (or) e «luce» ('or) si scrivono quasi allo stesso modo, l'interpretazione
rabbinica attestata già nei Targumim (Targum Pseudo Gionata a Gn 3,7.21) sembra insistere sulla relazione tra
l'uomo e la donna, che «dovevano essere trasparenti l'uno all'altro. Questa trasparenza doveva essere fonte
di gioia e di luce. Dopo il peccato, persero questo vestito di luce che si trasformò in pelle. Adamo ed Eva
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conobbero la sensualità, la volontà di dominarsi l'un l'altro e di trarre piacere l'uno dall'altro. Il loro
itinerario spirituale consisterà così nel ritrovare la luce nonostante la sensualità. Il Messia, quando verrà
riporterà il vestito di luce di Adamo» (F. Manns). Queste suggestive interpretazioni chiariscono il dettaglio
dell'abito di luce di Gesù e riportano il lettore competente alla scena del giardino, dove la trasparenza non è
solo nella relazione uomo-donna, ma una possibilità di incontro con Dio. L'espressione «il Figlio amato»,
così carica di richiami biblici (Isacco, «figlio amato», Gn 22,2; popolo di Israele, «figlio» per eccellenza di
Adonay, Es 4,22; Os 11,1; cf Dt 14,1; 32,6.18; Is 43,6) probabilmente rimanda così anche al primo Adamo, al
quale Gesù trasfigurato ha fatto ritrovare la sua originaria trasparenza.
17,3: Ed ecco, apparvero loro Mosè ed Elia, che conversavano con lui (καὶ ἰδοὺ ὤφθη αὐτοῖς
Μωϋσῆς καὶ Ἠλίας συλλαλοῦντες μετ' αὐτοῦ).
- Ed ecco (καὶ ἰδοὺ). Questa espressione (in ebr. we-hinnè) è comunissima in Matteo (3 volte in questo solo
brano) e serve a cambiare il punto di vista, da quello del narratore a quello di uno dei protagonisti: in questo
caso, siamo invitati a guardare con gli stessi occhi dei discepoli.
- apparvero (ὤφθη). Il verbo è al singolare; nel codice di Efrem riscritto (C), nel codice di Beza (D), nel codice
Regio (L) e in altri testimoni c'è una correzione a senso, perciò si trova il plurale ὤφθησαν «apparvero» (cf
At 2,3).
- Mosè ed Elia (Μωϋσῆς καὶ Ἠλίας). Poiché in Mc 9,4 è scritto Ἠλίας σὺν Μωϋσεῖ, «Elia con Mosè», si
potrebbe pensare che Matteo invertendo i nomi voglia insistere sul rapporto di Gesù con la Torà e i Profeti,
le prime due parti del Tanak, cioè la Bibbia ebraica. Vi può anche essere un riferimento al fatto che sono stati
entrambi assunti in Cielo (Dt 34,6; 2Re 2,11) o al ruolo che dovranno svolgere nel regno che verrà (Dt
18,15.18; Ml 3,23-24). Davar acher, «altra interpretazione: Mosè ed Elia hanno vissuto eventi paragonabili
alla reazione di Pietro all'annuncio della passione di Gesù (cf 16,21-23). L'analogia tra gli eventi è data dal
fatto che al modo in cui Gesù interpreta il rifiuto di Pietro (come una nuova tentazione perché Pietro è come
Satana: cf 16,23), così Mosè provò l'esperienza del vitello d'oro ed Elia quella della fuga verso l'Horeb.
Questi due fatti ebbero luogo proprio su un monte, dopo un fallimento del popolo di Israele che aveva, nel
primo caso, costruito un idolo e, nel secondo, sostenuto i profeti di Ba'al contro cui Elia doveva lottare. A
fronte di queste due delusioni, sia Mosè sia Elia chiedono a Dio di morire (cf Es 32,32; 1Re 19,4), ma, come
risposta, a tutti e due è concessa la visione di Dio. Mosè, spaventato, però, si nasconde nella rupe (Es 33,21 22), ed Elia si copre il volto (1Re 19,13). Mentre questi non videro Dio, ora stanno davanti a Gesù e non si
velano più il volto perché Gesù è il «Figlio amato» del Padre, «l'eletto» (Lc 9,35), è egli stesso la visibilità del
Padre: «Chi ha visto me, ha visto il Padre» (Gv 14,9). In lui Mosè ed Elia si incontrano, vedono Gesù nella
gloria, e gli portano il loro conforto. Al termine, il Padre conferma ai tre discepoli, Pietro incluso, la strada
che Gesù dovrà intraprendere. È interessante notare come queste due figure si mostrino
nell’atteggiamento di conversare con Gesù, come due discepoli con il loro Maestro. Gesù, figlio di Davide,
figlio di Abramo (Mt 1,1), è indicato come il centro di tutta la rivelazione biblica, la chiave di comprensione
di tutte le Scritture. Il Risorto lo spiegherà ai discepoli di Emmaus: E cominciando da Mosè e da tutti i profeti
spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui (Lc 24,27). Di cosa conversavano? Secondo l’evangelista
Luca del suo esodo, che stava per compiersi a Gerusalemme (Lc 9,31), cioè del mistero pasquale che avrebbe dato
compimento a tutte le Scritture nella città di Dio: Yerushalaim.
17,4: Prendendo la parola, Pietro disse a Gesù: «Signore, è bello per noi essere qui! Se
vuoi, farò qui tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia» (ἀποκριθεὶς δὲ ὁ Πέτρος
εἶπεν τῷ Ἰησοῦ• κύριε καλόν ἐστιν ἡμᾶς ὧδε εἶναι• εἰ θέλεις, ποιήσω ὧδε τρεῖς σκηνάς σοὶ μίαν καὶ
Μωϋσεῖ μίαν καὶ Ἠλίᾳ μίαν).
- Signore (κύριε). Pietro chiama Gesù Kýrie. Matteo evita di riferire a Gesù il titolo di «Rabbì» (23,8).
- è bello per noi essere qui (καλόν ἐστιν ἡμᾶς ὧδε εἶναι). La contemplazione di Dio rapisce non solo i sensi, ma
tutta l’anima. La trasfigurazione di Gesù diventa anche trasfigurazione dei discepoli, che trasalgono dinanzi
a tanta bellezza. La bellezza dell'amore si tramuta poi in una gioia incontenibile.
- Se vuoi, farò qui tre capanne (εἰ θέλεις, ποιήσω ὧδε τρεῖς σκηνάς). Anziché il singolare, in molti testimoni
c'è il plurale ποιήσωμεν «faremo», che però è lezione sospetta, perché si trova nei paralleli di Mc 9,5 e Lc
9,33, e dunque potrebbe essere semplicemente un'assimilazione. Forse Matteo qui vuole dare ancora una
volta importanza alla figura di Pietro, che nel primo vangelo svolge la funzione di mediatore e portavoce di
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Gesù. Pietro si offre a costruire da solo le capanne (σκηναί, skēnaí). Probabile riferimento alla festa delle
Capanne (Sukkot, Lv 23,39-43). Matteo tralascia l'osservazione di Mc 9,6 «Non sapeva infatti che cosa dire, poiché
erano stati presi dallo spavento». La trasfigurazione dunque non è solo un momento di consolazione per Gesù,
che viene rafforzato nel proposito di dover salire a Gerusalemme, ma è anche un insegnamento per gli
apostoli, in primo luogo per Pietro che non ha capito la logica di Dio e perciò segue quella «degli uomini»
(16,23). Il primo dei discepoli, però, nemmeno ora mostra di capire e pensa di poter rimanere sul monte
pur di non andare a Gerusalemme; la voce di Dio allora viene a istruire lui e gli altri: «Ascoltatelo»
(ἀκούετε αὐτοῦ, 17,5).
Precaria e fragile come l’esistenza giudaica, la sukkàh (capanna) è la casa divina, patria dell’errare, la
dimora santa del vento. Ma il vento (in ebraico ruach) è anche lo spirito. Così il soffio dall’alto, la luce e
la notte la abitano ugualmente. Essa non verrà chiusa da un vero tetto: questo dev’essere fatto di rami di
salice o di palma intrecciati liberamente, attraverso i quali filtra la luce delle stelle. Questa è la regola
millenaria emanata dai saggi. Nella sukkah si comunica con il flusso del vento. È vietato chiuderla perché
l’ospite possa andarsene e venire a modo suo, e perché l’altro, lo straniero, non sia escluso dalla festa.
La sukkah non è né proprietà privata né domicilio fisso. Chiunque può andare a rifugiarsi in essa,
come fanno il vento e la luce del cielo sempre visibile attraverso le fessure dei rami. Vengono appesi ad
essa dei frutti autunnali, melagrane, datteri, uva e gli uccelli vengono a beccarli (Claude Vigée, La manna e
la rugiada, p. 205).
È la festa per eccellenza in cui si fondono l’amore di Dio per gli uomini, quello degli uomini per Dio,
l’amore degli uomini fra loro espresso nella comune umiltà dell’abitare in capanne, nella comunione del
sacrificio per tutte le nazioni della terra; nella fusione di questi tre amori ci si avvicina alla redenzione
nell’abbraccio finale con i rotoli della Toràh, la parola di Dio che guida nel cammino del tempo della
vita. I simboli di questa festa sono di nuovo molti e ne abbracciano i vari aspetti. La capanna che il
contadino prepara nel campo della vendemmia è la stessa che protegge Israele nel deserto e che, con la
precarietà delle sue frasche, è simbolo della transitorietà dell’uomo. Il mazzo festivo composto di foglie
di cedro (etrog, etroghim), mirto (hadas), palma (lulav), salice (‘aravah), con il suo rituale scuotimento
(na'anuim) verso i quattro punti cardinali ripetuto nei vari giorni della festa, riporta alle usanze di un
popolo agricolo trasferite con significato mistico al rapporto dell’uomo con Dio. L’ottavo giorno della
festa, sheminì ‘azèret (che vuol dire "ottavo di chiusura". Questo giorno infatti chiude il ciclo delle feste di
Tishrì ed è Moed), è dedicato al ringraziamento per la pioggia. Segue Simchat Torah: festa della «gioia
della Torah». La Torah gode di essere stata data a Israele e Israele esulta per aver ricevuto la Torah, che è
per lui come una siepe che lo difende. Si portano in processione i rotoli avvolti in un manto (meil) con
sopra una corona (atarah o kéter). Tutti danzano per strada. Si legge Qoèlet, l’ultima sezione di Devarim
(Deuteronomio) e si ricomincia con le prime pagine di Bereschìt (Genesi).
La festa più importante nell’Israele preesilico non era la Pasqua, ma la grande festa autunnale
delle Capanne, che inizia il 15 di tishrì (settembre-ottobre).
17,5: Egli stava ancora parlando, quando una nube luminosa li coprì con la sua ombra.
Ed ecco una voce dalla nube che diceva: «Questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il
mio compiacimento. Ascoltatelo» (ἔτι αὐτοῦ λαλοῦντος ἰδοὺ νεφέλη φωτεινὴ ἐπεσκίασεν αὐτούς
καὶ ἰδοὺ φωνὴ ἐκ τῆς νεφέλης λέγουσα• οὗτός ἐστιν ὁ υἱός μου ὁ ἀγαπητός ἐν ᾧ εὐδόκησα• ἀκούετε
αὐτοῦ).
- una nube luminosa (νεφέλη φωτεινὴ). Si tratta di un ossìmoro (dal greco ὀξύμωρον, composto da ὀξύς,
«acuto» e μωρός, «ottuso») figura retorica che consiste nell'accostare due termini di senso contrario o in forte
antitesi tra loro. Evidente è l'allusione alla nube dell'Esodo che accompagnava Israele e che segnalava la
presenza di Dio sul Sinai (cf Es 34,5) e nella tenda del convegno (cf Es 40,34-38). Quella nube ('anan),
secondo Es 14,20, era fonte di luce per gli Ebrei, mentre era tenebrosa per gli Egiziani. Nel vangelo di
Matteo l'immagine della nuvola ritornerà quando Gesù parlerà della venuta del Figlio dell'uomo «sulle nubi» del cielo (cf 24,30; 26,64), dove però il riferimento è alla scena da Dn 7,9-14, riletto attraverso il Libro delle
parabole di Enoch.
- li coprì con la sua ombra (ἐπεσκίασεν αὐτούς). Il verbo ἐπισκιάζω, «adombro, avvolgo con l'ombra», è lo
stesso che viene usato per indicare l'effetto della nuvola che riempiva la tenda costruita da Mosè nel deserto,
quando scendeva la gloria del Signore (Es 40,35). La LXX traduce l'ebraico shakan, dal quale deriva
l'espressione targumica e rabbinica Shekinà, «Presenza divina nel mondo». Nm 14,42: «non c'è il Signore in
mezzo a voi», è reso dal Targum con «la Shekinà di Dio non è in mezzo a voi». L'idea della Shekinà nel primo
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vangelo tornerà poco dopo, al v. 18,20, nelle parole di Gesù «dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lì sono io
in mezzo a loro».
- Ed ecco una voce dalla nube (καὶ ἰδοὺ φωνὴ ἐκ τῆς νεφέλης). Subentrate la nube e la Voce dal cielo, non c’è
più bisogno di capanne, perché la Presenza di Dio (Shekinà) si offre a loro come la vera Sukkà (Ap 21,3: Ecco
la tenda di Dio con gli uomini!). Rispetto a quanto già notato a riguardo della scena del battesimo (cf 3,17), si
deve aggiungere un riferimento a un episodio narrato dalle fonti rabbiniche. Nel Talmud babilonese (Baba
Mesi 'a 59a-b) si racconta di una disputa tra Rabbì Eli'èzer e Rabbì Yoshùa su una questione di purità legale.
Dopo lunga discussione, Rabbì Elièzer invoca una prova: «"Se la halakà mi dà ragione, sia provato dal Cielo".
Ed ecco una voce divina (bat qol) esclamare: "Perché disputate con Rabbì Elièzer? La halakà è in accordo con
lui in tutto"». Secondo questo racconto, non è strano che Dio intervenga direttamente in una discussione, e la
voce accrediti uno dei due contendenti. Altrettanto avviene nel nostro racconto, dove Gesù viene accreditato
davanti a Pietro e agli altri discepoli. La bat qol, la «figlia di una voce» dal cielo cita quattro passi essenziali
del Tanak, tratti due dalla Torah, uno dai Profeti (Nevi’im) e uno dagli Scritti (Ketuvim): Questi è il Figlio mio
(Sal 2,7: Messia); l’amato (ὁ ἀγαπητός, ho agapētós) (Gn 22,2: Isacco); in lui ho posto il mio compiacimento (Is 42,1:
Servo); ascoltatelo (Dt 18,15: il profeta, nuovo Mosè).
- Questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento (οὗτός ἐστιν ὁ υἱός μου ὁ ἀγαπητός ἐν ᾧ
εὐδόκησα). Alla lettera la voce dice: «Questo è il figlio di me l'amato, in cui mi sono compiaciuto».
- ascoltatelo (ἀκούετε αὐτοῦ). L'imperativo dell'ascolto espresso nello Shemà, Yisrael è tutto incentrato sul
«Signore nostro Dio» (Dt 6,4); d'ora in poi l'ascolto verrà rivolto al Figlio Gesù. Io sono la via, la verità e la vita.
Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me (Gv 14,6). Uno solo, infatti, è Dio e uno solo anche il mediatore fra Dio
e gli uomini, l'uomo Cristo Gesù (1Tm, 2,5). Prestate attenzione a Gesù, l’apostolo e sommo sacerdote della fede che noi
professiamo (Eb 3,1). Una Chiesa che non pone al centro della sua missione l'ascolto del Maestro, non potrà
più essere riconosciuta tale. Ogni discepolo scopre la sua identità di fede nella misura in cui presta ascolto al
Signore risorto, che parla per mezzo dello Spirito Santo, che a sua volta «ha parlato per mezzo dei profeti».
Oggi, la Voce dal cielo continua a ricordarci che «ascoltare» rende possibile «vedere» Gesù trasfigurato.
La contemplazione del volto radioso del Padre passa attraverso l’ascolto e l’obbedienza alla parola del Figlio.
In questo racconto riconosciamo l’intervento della SS. Trinità. «Una nube luminosa li coprì con la sua ombra»
(Mt 17,5). Un'interpretazione spirituale della trasfigurazione vede in questa nube l’immagine dello Spirito
Santo: Tota Trinitas apparuit: Pater in voce, Filius in homine, Spiritus in nube clara, «apparve tutta la Trinità: il
Padre nella voce, il Figlio nell’uomo, lo Spirito nella nube luminosa» (Tommaso d’Aquino 1225 - 1274,
Summa theologiae, III, 45, 4 ad 2um). Inoltre nel Padre possiamo riconoscere la fonte di ogni santità e bontà,
nello Spirito Santo la fonte della bellezza, nel Figlio la fonte della verità. Con penetrante intuizione, i
Padri della Chiesa hanno qualificato questo cammino spirituale come filocalìa, ossia amore per la bellezza
divina, che è irradiazione della divina bontà. La persona che dalla potenza dello Spirito Santo è condotta alla
piena configurazione a Cristo, riflette in sé un raggio della luce inaccessibile e nel suo peregrinare terreno
cammina fino alla Fonte inesauribile della luce. In tal modo la vita cristiana risulta l’espressione dell’identità
della Chiesa che è sposa, condotta dallo Spirito a riprodurre in sé i lineamenti dello sposo, comparendogli
davanti «tutta gloriosa, senza macchia né ruga o alcunché di simile, ma santa e immacolata» (Ef 5,27).
La Filocalia (in greco Φιλοκαλíα, «amore della bellezza») è una raccolta di testi di ascetica e mistica della
Chiesa cristiana ortodossa. Fu pubblicata in greco a Venezia nel 1782 da Nicodemo l'Agiorita (cioè del
Monte Athos) e Macario di Corinto. Ebbe un immenso successo nel mondo slavo grazie alla traduzione di
Paisij Velicovskij. Oltre alla Bibbia e ad alcuni testi dei primi Padri della Chiesa, la Filocalia è una delle più
ammirate e feconde testimonianze a stampa della pietà cristiana ortodossa. All'assidua lettura di essa da
parte dei fedeli si fa continuamente riferimento nei celebri Racconti di un pellegrino russo, testo ascetico
scritto fra il 1853 e il 1861 da un anonimo russo. Esso divulgò la pratica mistica della preghiera interiore
perpetua, la preghiera del cuore ed è assieme alla Filocalia una delle opere più diffuse prodotte dalla
spiritualità ortodossa.
17,6: All’udire ciò, i discepoli caddero con la faccia a terra e furono presi da grande timore
(καὶ ἀκούσαντες οἱ μαθηταὶ ἔπεσαν ἐπὶ πρόσωπον αὐτῶν καὶ ἐφοβήθησαν σφόδρα).
- furono presi da grande timore (ἐφοβήθησαν σφόδρα, lett. «ed ebbero paura molto»). Alcuni copisti, forse non
comprendendo il senso del mysterium tremendum che si prova davanti al manifestarsi del divino, hanno
attenuato il senso della frase sostituendo il verbo ἐφοβήθησαν con ἐθαύμασαν «si stupirono» (verbo
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Θαυμάζω, cf Mt 8,27); tuttavia il verbo φοβέομαι è ben attestato nei testimoni più antichi. Matteo insiste
sulla paura di Pietro, Giacomo e Giovanni, che li porta a cadere faccia a terra (17,6). Anche in Mc 9,6 si
accenna a una reazione dei tre spettatori, ma Matteo la amplifica e la rilegge alla luce di Dn 10. Per Matteo,
però, diversamente da Marco, la paura non nasce dall'aver visto qualcosa, ma dall'aver ascoltato la voce di
Dio (la bat qol già udita nel battesimo di Gesù, 3,17), che ammonisce i tre discepoli a fidarsi del Maestro. Si
viene così ricondotti ancora una volta al momento in cui Dio parla dalla montagna del Sinai, e il popolo,
che ha paura della sua voce, chiede di non udirla più: «18Tutto il popolo percepiva i tuoni e i lampi, il suono del
corno e il monte fumante. Il popolo vide, fu preso da tremore e si tenne lontano. 19Allora dissero a Mosè: «Parla tu a noi
e noi ascolteremo; ma non ci parli Dio, altrimenti moriremo!» (Es 20,18-19). Mentre la voce di Adonay era temuta,
si poteva però ascoltare quella di Mosè. Allo stesso modo, anche ora i tre discepoli hanno paura della voce
di Dio, ma il Figlio amato si può ascoltare.
17,7: Ma Gesù si avvicinò, li toccò e disse: «Alzatevi e non temete» (καὶ προσῆλθεν ὁ Ἰησοῦς
καὶ ἁψάμενος αὐτῶν εἶπεν ἐγέρθητε καὶ μὴ φοβεῖσθε).
- Gesù si avvicinò (προσῆλθεν ὁ Ἰησοῦς). Il verbo προσέρχομαι, prosérchomai, «avvicinarsi» caratterizza non
solo il lessico di Matteo (52 occorrenze contro le 10 di Luca e le 5 di Marco), ma anche la sua teologia. Il verbo
compare in Matteo la maggior parte delle volte per esprimere l'azione di persone che si avvicinano a Gesù
per rivolgergli qualche domanda o per cercare una guarigione; viene usato dieci volte per gli avversari
(scribi, farisei, sadducei, capi dei sacerdoti), che tuttavia lo riconoscono come un maestro autorevole.
All'inizio del vangelo, Gesù viene avvicinato da potenze soprannaturali, sempre nella scena della prova: in
4,3 dal diavolo e in 4,11 dagli angeli. Per due volte, il verbo è usato per dire che Gesù si avvicina ai
discepoli, qui e in 28,18. Esso per l'evangelista «costituisce un continuo richiamo e una continua
attualizzazione dell'annuncio iniziale del vangelo: Gesù è il Dio con noi (1,23). In Gesù, Dio si rende
presente e si affianca all'uomo afflitto dall'ignoranza, dalla malattia, dalla sofferenza, dal peccato. Nei
racconti di miracolo, nei dialoghi con i discepoli, negli incontri con le persone che si portano a Gesù, negli
scontri con gli avversari προσέρχομαι, prosérchomai costituisce un rimando continuo all'annuncio iniziale e
nello stesso tempo diviene ponte di collegamento con la promessa finale: io sono con voi tutti i giorni (28,20).
Mediante questo verbo Matteo ricorda, richiama e ribadisce continuamente la presenza in Gesù dell'
Emmanuel, del Dio con noi» (G. Boscolo). Gesù viene sostenuto dal Padre nel suo progetto di andare a
Gerusalemme, ma non insiste nel rimproverare coloro che non hanno ancora capito: in un gesto di
prossimità, li tocca e li invita a non temere. Insiste però su quanto aveva annunciato sei giorni prima, e
come un buon maestro, lo ripete: parla ancora della sua morte e della sua risurrezione (Mt 17,12b; 22-23).
Questa volta Pietro tace.
17,8: Alzando gli occhi non videro nessuno, se non Gesù solo (ἐπάραντες δὲ τοὺς ὀφθαλμοὺς
αὐτῶν οὐδένα εἶδον εἰ μὴ αὐτὸν Ἰησοῦν μόνον).
L'esperienza termina bruscamente. Vedere Gesù solo equivale a rendersi conto che egli rappresenta la
sintesi delle Scritture, il solo che basta per conoscere la volontà del Padre. Egli è il solo pane che
accompagna i discepoli sulla barca dell’esistenza (cf Mc 8,14; Mt 16,5-12), ove normalmente la gloria del
volto di Cristo resta nascosta. E anche la nostra!
17,9: Mentre scendevano dal monte, Gesù ordinò loro: «Non parlate a nessuno di questa
visione, prima che il Figlio dell’uomo non sia risorto dai morti» (Καὶ καταβαινόντων αὐτῶν ἐκ
τοῦ ὄρους ἐνετείλατο αὐτοῖς ὁ Ἰησοῦς λέγων• μηδενὶ εἴπητε τὸ ὅραμα ἕως οὗ ὁ υἱὸς τοῦ ἀνθρώπου ἐκ
νεκρῶν ἐγερθῇ).
- Non parlate a nessuno di questa visione (μηδενὶ εἴπητε τὸ ὅραμα). Con il termine ὅραμα, hórama, Matteo
dichiara qual è la propria interpretazione della trasfigurazione: è una visione apocalittica, la visione del
Figlio dell’uomo nella sua gloria (cf Dn 7,13-14), visione che non sarà piena, fino a quando il Figlio dell’uomo
non sia risorto dai morti. L'invito a non rivelare la visione conferma che la trasfigurazione è interpretata come
una rivelazione o apocalisse, che ordinariamente esige il segreto.
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La trasfigurazione (17,1-9). L'episodio della trasfigurazione è comune a tutti e tre i vangeli
sinottici. Questi sono anche concordi nel riportare la sequenza degli episodi che precedono il racconto, e cioè
la confessione di Pietro a Cesarea (cf 16,1-20) e il primo annuncio della passione, morte e risurrezione (cf
16,21-23). È in relazione a questi eventi già accaduti che bisognerà interpretare quanto avviene dopo (17,1)
sul monte, e in relazione a quelli che non hanno ancora avuto luogo, ma che vengono anticipati dalle parole
di Gesù. La collocazione più probabile della trasfigurazione è dunque prima della passione e morte di
Gesù, oppure dopo la Pasqua.
Il racconto della trasfigurazione unisce elementi della teofania sinaitica (Es 24) con le visioni
apocalittiche tipiche del libro di Daniele, le quali avevano già influenzato il trasferimento del regno e del
potere giudiziario dal Padre al Figlio (cf 16,27s).
La scena della trasfigurazione non va interpretata solo come anticipazione di una realtà escatologica
(la risurrezione), bensì anche come manifestazione di ciò che è già presente in Gesù, ma che non può essere
visto o che ancora non si manifesta completamente.
La trasfigurazione nella prospettiva dei discepoli è certamente un’esperienza estetica, riconosciuta
nell’uso dell’aggettivo ‘bello-buono’: «è bello per noi essere qui!» (17,4: καλόν ἐστιν ἡμᾶς ὧδε εἶναι, kalón estin
hemãs ỗde eĩnai). Ma questa esperienza supera i limiti umani e rimanda alla rivelazione divina, che rende
l’uomo in grado di percepire «di più».
Già Origene (185 - 254, il più grande erudito dell’antichità cristiana, chiamato Adamántios, uomo
d’acciaio dal vescovo e storico della Chiesa Eusebio di Cesarea (265-340), che gli attribuisce più di 2000
opere) faceva notare in Comment. in Matth., 12,37 che fu trasfigurato «davanti a loro» (v. 2): egli non si
manifestò a tutti, ma solo ad alcuni, i quali non lo conobbero solo secondo la carne «attraverso i suoi miracoli
e i suoi discorsi», ma lo videro nella sua forma divina. Questa nuova forma di conoscenza di Cristo,
secondo Origene, avviene «attraverso tutti i Vangeli», cioè tramite l’accoglienza fiduciosa e obbediente di tutto
il messaggio che ci rende figli della luce, partecipi della risurrezione. Qui sul monte Gesù «nascose un po’ la
carne che aveva assunta e si trasfigurò davanti a loro, manifestandosi nella forma corrispondente alla
bellezza originale» (Inno della Litia).
L'episodio della Trasfigurazione, perciò, collega l’esperienza della fede all’esperienza «estetica»
della bellezza divina al di sopra delle possibilità umane. Può essere utile ricordare la proposta di Pavel A.
Florensky (filosofo, matematico, teologo, sacerdote ortodosso, morto fucilato dal regime staliniano: 18821937): «La verità manifestata è amore. L’amore realizzato è bellezza». Nel processo della conoscenza, cioè,
la verità è da riconoscere in funzione della bellezza, obiettivo ultimo della conoscenza stessa.
Questa estetica è esperienza di luce sia in Cristo e sia nell’uomo. La manifestazione della gloria di
Dio o la risurrezione di Cristo non coinvolge solo il suo corpo morto, ma anche il suo corpo che è la
Chiesa, traducendosi in salvezza per tutti gli uomini.
Il discepolo che segue Gesù giunge a esclamare: «Vedo la bellezza della tua grazia, ne contemplo il
fulgore, ne rifletto la luce; sono preso dal suo ineffabile splendore; sono condotto fuori di me mentre penso a
me stesso; vedo com’ero e cosa sono divenuto. O prodigio! Sto attento, sono pieno di rispetto per me stesso,
di riverenza e di timore, come davanti a Te stesso; non so cosa fare, poiché mi ha preso la timidezza; non so
dove sedermi, a che cosa avvicinarmi, dove riposare queste membra che ti appartengono; per quale impresa,
per quale opera impiegarle, queste sorprendenti meraviglie divine» (Simeone il nuovo teologo, Inni, II, vv.
19-27). Così la vita cristiana diviene una delle tracce concrete che la Trinità lascia nella storia, perché gli
uomini possano avvertire il fascino e la nostalgia della bellezza divina (cf. VC 20).
Quando il Santo, benedetto Egli sia, dette la Torah sul Sinai, fece vedere a Israele cose meravigliose
attraverso la voce … Tutto il popolo vide le voci (rō´îm ´et-haqqôlōt Es 20,18). Perché le “voci”? Perché
la voce del Signore si trasformava in sette suoni e da questi nelle settanta lingue, affinché tutti i
popoli potessero comprendere (Shem.R. 5).
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