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Il Decreto legge 90, la riforma della Pubblica amministrazione
Dopo l'approvazione degli emendamenti, il provvedimento è in Aula: staffetta
generazionale, mobilità concertata e precari delle Province tra i nodi sciolti
Oltre 3 milioni di lavoratori sono coinvolti in prima persona nella riforma della Pubblica
amministrazione, avviata dal Governo con il Dl 90. Un provvedimento importante però
per tutti i cittadini, ovviamente, e non solo per il pubblico impiego. Per questo nelle
scorse settimane una gran parte del lavoro parlamentare si è svolta nelle Commissioni
per esaminare ed emendare il Dl che, assieme a molte misure valide, presentava
(inevitabilmente, vista la corposità del provvedimento) criticità che andavano risolte.
Nella notte – letteralmente – di venerdì 25 luglio si è concluso il lavoro emendativo e ora
la Camera sta per votare il Decreto (che poi passa immediatamente al Senato) cui farà
seguito in autunno una legge delega di portata ancor più ampia.
Il Dl 90 è composto da 54 articoli raggruppati in 4 “Titoli”, ovvero temi principali di
intervento. Il primo è specificatamente incentrato sull'efficienza della Pa, la sua
organizzazione, il pubblico impiego e contiene le misure per lo sblocco graduale del
turn over e per agevolare il ricambio generazionale. Il secondo Titolo riguarda un
miglior accesso ai servizi della Pa da parte dei cittadini, la cosiddetta “semplificazione”.
Poi si agisce sulla questione della correttezza delle procedure nei lavori pubblici e negli
appalti, con un rafforzamento previsto nel Titolo III dell'Autorità Nazionale Anticorruzione
(Anac) presieduta dal magistrato Raffaele Cantone. All'Anac vengono destinati poteri
rilevanti di vigilanza, controllo e possibilità di commissariamento (come già segnalavo in
una newsletter alcune settimane fa). Infine, l'ultimo tema affrontato dal Dl 90 è lo
snellimento del processo amministrativo e l'attuazione del processo civile telematico.
Con interventi sull'informatizzazione che possono accelerare alcune forme della
giustizia.
Mi soffermo inevitabilmente solo su alcuni temi in relazione ai primi due Titoli del Dl,
perché coinvolgono più da vicino le persone, i lavoratori e possono, a mio avviso,
interessare maggiormente.
L'articolo 1 detta norme per favorire il ricambio generazionale nella Pa abrogando il
trattenimento in servizio. È una misura molto importante perché toglie la possibilità –
ora contemplata – che un lavoratore con i requisiti per andare in pensione possa
decidere di restare al proprio posto per altri 2 anni, ritardando di fatto l'ingresso dei
giovani. L'articolo amplia anche l'ambito dell'istituto della risoluzione unilaterale del
contratto nei confronti dei dipendenti che abbiano maturato i requisiti pensionistici
estendendolo anche al personale delle autorità indipendenti e ai dirigenti medici.
L'articolo 3 contiene nuove disposizioni sul turn over nella Pa: si rimodulano le limitazioni
degli anni precedenti, legate al numero dei pensionamenti. Il principio cambia e non
sono più le unità lavorative a essere contemplate, ma i risparmi di spesa sulle
cessazioni dell'anno precedente. La regola non è più che se cinque unità vanno in
pensione, una viene assunta. Ma che se il costo complessivo dei cessati è 100, l'anno
dopo si potrà spendere 40. La Pa deve risparmiare ancora sul personale (fino al 2018),
ma non da un punto di vista di “unità” sostituibili. L'anno prossimo, ad esempio, si potrà
spendere il 40% del rapporto tra pensionamenti e assunzioni, poi si sale al 60%, poi
all'80% fino al 100% nel 2018. Ovvero si potrà ricominciare a riassumere in maniera
organica. La base del calcolo è costituita dal personale di ruolo. Questi limiti non si
applicano alle categorie protette. In sostanza, la riforma elimina il vincolo delle
assunzioni in relazione alle percentuali di unità lavorative cessate nell'anno precedente e
mantiene il criterio basato sui risparmi di spesa sulle cessazioni pregresse. Analoga
riformulazione dei vincoli del turn over si applica agli enti di ricerca. All'interno
dell'articolo un emendamento consente di prorogare, oltre il 31 dicembre 2014, i contratti
a tempo determinato per i lavoratori delle Province, che come sappiamo sono sottoposte
a una profonda riorganizzazione (che non deve andare a discapito di chi vi opera).
L'articolo 4 introduce una nuova disciplina della mobilità, prevedendo che un lavoratore
possa essere “spostato” in un altro ufficio entro i 50 chilometri dalla sede di prima
assegnazione. Nel decreto la formulazione aveva un carattere di tassatività che è ora
stato mitigato. La commissione Lavoro è intervenuta infatti presentando un
emendamento basilare di chiarificazione: per decidere sulla mobilità di un lavoratore
vanno sentiti i sindacati, ovvero ci deve essere un confronto con le parti sociali, con
cui pervenire a un accordo. Cosa che il Decreto non contemplava. In secondo luogo, un
altro emendamento ha mitigato l'obbligatorietà della mobilità nei confronti di genitori con
figli di età inferiore ai 3 anni o con disabilità. Questi lavoratori potranno essere spostati
solo con il loro consenso. Il principio della mobilità non è sbagliato (è prevista anche nel
settore privato), ma va sottoposta a una necessaria collegialità e deve tener conto delle
situazioni reali delle persone.
L'articolo 5 disciplina la gestione di personale pubblico in eccedenza introducendo la
possibilità, ai fini della ricollocazione, di poter demansionare il lavoratore con una
qualifica o una posizione economica inferiore. Su iniziativa parlamentare sono state
introdotte due modifiche. Il demansionamento dell'impiego non può essere superiore a
un grado rispetto alla qualifica di partenza. Si può demansionare di un livello di
inquadramento, senza “scendere” ulteriormente. Infine, viene specificato che l'eventuale
demansionamento è prioritariamente regolato dalla contrattazione nazionale – laddove
sia previsto – che quindi è e resta il riferimento principale rispetto alla presente legge.
Sempre per agevolare il ricambio generazionale, l'articolo 6 prevede che le pubbliche
amministrazioni non possano più attribuire incarichi di consulenza né dirigenziali a
lavoratori in pensione, a meno che non siano a titolo gratuito (e fatti salvi quelli
attualmente stipulati). L'articolo 7 modifica la disciplina dei distacchi, delle aspettative e
dei permessi sindacali, riducendoli del 50%. L'articolo 11 disciplina interventi sul
personale della Pa. Tra le altre cose interviene sul conferimento di incarichi
dirigenziali a tempo determinato negli enti locali, nelle Regioni, negli enti e nelle
aziende del Servizio sanitario nazionale, aumentando dal 10 al 30% il numero di posti in
pianta organica che possono essere occupati da dirigenti a termine (ma sempre con
l'obbligo di selezione pubblica) negli enti locali. Si fissa invece il limite massimo del 10%
per le Regioni o per le aziende del Ssn. Soprattutto la nuova legge stabilisce che, per i
Comuni in regola con i vincoli del Patto di stabilità, saltano i tetti di spesa per i contratti a
termine e le collaborazioni che dovevano rientrare nel 50% delle uscite per le stesse voci
relative all'anno 2009.
Inizialmente l'articolo 18 sopprimeva tutte le sedi distaccate dei Tar (Tribunali
amministrativi regionali), lasciando solo quelle nei capoluoghi di regione. Con un
emendamento sono state ripristinati i Tar decentrati che si trovano presso le sedi delle
Corti d'Appello, che in ogni caso non sarebbero state soppresse dai territori. L'articolo 21
unifica invece tutte le scuole di alta formazione delle pubbliche amministrazione sul
territorio nazionale, che erano più di dieci, razionalizzando un istituto importante e
dandogli una più coerente configurazione. L’articolo 22 disciplina ed esclude invece la
possibilità che i componenti di un’autorità indipendente, alla scadenza del mandato,
possano essere nominati presso altra autorità nei due anni successivi.
Nell'articolo 23, che interviene sull'organizzazione delle nuove province così come
riformate dalla legge Delrio, ha trovato soluzione con una modifica emendativa un
problema che si era venuto a creare con un altro dispositivo (il decreto 66 2014,
cosiddetto “decreto Irpef), che in un comma obbligava i Comuni non capoluogo a
poter acquisire beni, servizi e lavori solo attraverso aggregazioni di Comuni
(Unioni, aggregazioni consortili) e centrali uniche di committenza a partire dal 1° luglio
scorso. Una stortura notevole che stava già paralizzando l'attività degli enti locali, non
ancora pronti per una misura di questa portata. Su proposta dell'Anci, l'emendamento
prevede una proroga al 10 gennaio 2015 in relazione all'acquisizione di beni e
servizi e al 10 luglio 2015 per i lavori pubblici. Su questi temi, io e altri colleghi del Pd
avevamo interrogato, infatti, l'Esecutivo. Con il decreto Pa viene inserito anche il
chiarimento – che avevamo richiesto – che i Comuni con una popolazione superiore ai
10mila abitanti possono procedere autonomamente per acquisti di beni, servizi e lavori
quando inferiori ai 40mila euro.
Il 25 – che inerisce al Titolo II, relativo alla semplificazione del rapporto cittadinoistituzione, come i successivi che illustro – interviene in materia di invalidità civile e
disabilità per agevolare le procedure di emissione di documenti e ridurre i tempi di
risposta delle amministrazioni. Tra le altre cose, si semplificano le modalità per il rinnovo
e la revisione della patente per chi ha problemi fisici e si snellisce la burocrazia che
consente di accertare la permanenza di minorazione civile o disabilità. L'articolo 26,
mentre semplifica le procedure prescrittive dei medicinali per patologie croniche e
malattie rare, incide anche sulla riduzione del Consiglio superiore di sanità che passa da
40 a 30 membri non di diritto.
L'articolo 28 era tra i più controversi di tutto il Dl perché disponeva, dall'anno prossimo, il
dimezzamento dei diritti camerali che ogni anno le imprese dei territori versano alle
Camere di Commercio, in cambio dei servizi. Significa tagliare circa il 70% delle entrate
dell'istituto camerale, con conseguenze non solo sui suddetti servizi, ma anche sul
personale. L'articolo è stato modificato con un emendamento che ha deciso di introdurre
una gradualità nella riduzione dei diritti: il taglio sarà così del 35% nel 2015, del
40% nel 2016 e del 50% nel 2017.
Un impegno che il Governo si era assunto a metà luglio, durante la discussione della
sesta salvaguardia per gli esodati, era di trovare una soluzione per i 4mila lavoratori
della scuola (insegnati e personale Ata), la famosa “Quota 96”, che da tre anni non
potevano andare in pensione perché la legge Fornero del 2011 aveva ignorato che
l'anno scolastico parte in settembre e non in gennaio. Un errore assurdo che però non
ha permesso a migliaia di persone di accedere a una finestra pensionistica. Rispettando
la parola, e su pressione del gruppo Pd, un emendamento al Dl 90 consente a questi
lavoratori di andare finalmente in pensione. Proprio in queste ore la commissione
Bilancio sta valutando le coperture necessarie per attuare la modifica emendativa.
Per saperne di più: http://www.camera.it/leg17/126?idDocumento=2486
Lo stato dei Trasporti:
il primo rapporto dell'Autorità di regolazione
Il presidente Andrea Camanzi riferisce alla Camera mettendo in luce criticità su posizioni
di monopolio nel settore ferroviario e inadeguatezze nella determinazione delle tariffe
aeroportuali
In queste settimane, assieme alla discussione del Dl 90 e di altri provvedimenti di cui
rendo conto in breve, il fatto per me più rilevante (essendo membro della commissione
Trasporti) è stata la presentazione in Parlamento del primo rapporto dell'Autorità di
Regolazione dei Trasporti. Un dossier corposo che mette in fila tutti i dati sul sistema
italiano – in coda al testo il link al rapporto – illuminando criticità importanti ma anche
performance positive e potenzialità da sfruttare. L'immagine che ne emerge è quella di
un Paese che deve superare gli ostacoli che si frappongono a una corretta gestione
delle infrastrutture e soprattutto a una trasparente concorrenza nelle concessioni (in
particolare nel settore ferroviario e aeroportuale). Le strutture ci sono. Ma, come per il
resto dell'economia, facciamo fatica a produrre valore con ciò che abbiamo.
L'Autorità di Regolazione dei Trasporti (Art) è un ente amministrativo indipendente, con
sede a Torino, nato nel settembre 2013 per definire i livelli di qualità dei servizi, verificare
la concorrenza, vigilare sui diritti degli utenti nei confronti dei gestori. Suo compito è
analizzare le discipline relative alle liberalizzazioni, definire gli strumenti mancanti e
interfacciarsi con le istituzioni europee competenti in materia. Ogni anno riferisce alle
Camere. Il dossier contiene i primi risultati dell'indagine conoscitiva sull'accesso alle
infrastrutture, volta alle azioni da intraprendere. Nell'ambito di questa iniziativa si
inserisce l'annunciato avvio di un procedimento regolatorio per un accesso equo degli
operatori soprattutto a infrastrutture ferroviarie e aeroportuali. Il presidente di Art è il
ravennate Andrea Camanzi (per la precisione è nato ad Alfonsine) che ha alle spalle
una vastissima esperienza internazionale nell'ambito delle telecomunicazioni e presso le
autorità di vigilanza. Nella sua relazione introduttiva ha detto una cosa apparentemente
semplice ma fondamentale: occorre porre al centro il passeggero o il bene trasportato e
non l'infrastruttura o il gestore che li trasporta. Il mercato italiano è infatti ancora chiuso
rispetto alla concorrenza auspicabile e offre pertanto servizi poco competitivi con tariffe
pressoché prive di differenziazione (specie per i treni). Dove ci sono imprese dominanti,
come nel trasporto ferroviario, occorre essere più coraggiosi nel separare gestione di
rete e servizi. Tanto che l'Autorità si è detta pronta ad analizzare i contributi pubblici per
verificarne la correttezza e soprattutto l'adeguatezza: i contributi devono servire ai servizi
per gli utenti, non alle aziende. Significa ad esempio indagare sugli aiuti che ogni anno
Trenitalia (partecipata al 100% da Ferrovie dello Stato) riceve, per capire se ci sono
componenti non pertinenti. E significa che le imprese dominanti non devono intralciare
l'ingresso di nuovi operatori. L'Autorità pare determinata a rivedere i sistemi di
regolazione dell'accesso prevedendo multe (Art è dotata di poteri sanzionatori) e
rendendo esecutive le decisioni dell'ente di vigilanza, la cui missione è proprio creare
maggior efficienza nel sistema.
Sul piano aeroportuale, l'Autorità ritiene necessario avviare una consultazione per la
realizzazione di tre modelli di determinazione dei diritti aeroportuali (ovvero la
determinazione tariffaria fissata da appositi Contratti di programma): per gli scali con
volumi di traffico superiore ai 5 milioni di passeggeri l'anno (tra questi c'è anche Bologna
con oltre 6 milioni), per quelli con volumi tra i 3 e i 5 e per quelli inferiori ai 3. L'intento è
quello di ridurre l'impatto dei contributi in funzione del traffico crescente. I gestori di
aeroporti che erogano sussidi o qualsiasi forma di emolumento ai vettori per
l'avviamento e lo sviluppo di rotte, devono poi mettere in campo procedure non solo
trasparenti ma tali da garantire la più ampia partecipazione dei vettori potenzialmente
interessati. Perciò le modalità di erogazione devono essere definite con linee guida
adottate dal ministero delle Infrastrutture sentita l'Autorità. Le linee guida devono
poggiare su un'accurata analisi del mercato, delle forme di incentivazione ammesse a
seconda delle tipologie degli aeroporti, nonché conformi alla discipline degli aiuti di Stato
agli aeroporti e alle compagnie aeree. L'Autorità deve inoltre adottare il Piano nazionale
degli aeroporti, che differenzia 11 scali nazionali strategici (tra cui Bologna) e 26 di
interesse nazionale (significa che hanno soprattutto un impatto sui distretti territoriali).
Tra questi ultimi c'è anche Rimini, che vede l'aeroporto Fellini sotto gestione
commissariale dopo il fallimento, nel 2013, della società che lo gestiva. La società erogò
incentivi per attrarre alcune compagnie aeree che hanno lasciato lo scalo o sono fallite:
per questo è importante la disciplina sugli aiuti ai vettori.
Oltre alle misure annunciate, vorrei fornire alcuni dati su alcuni comparti del trasporto
nazionale rimandando – per chi ne avrà voglia – alla consultazione integrale del dossier.
1) Trasporto ferroviario: il trasporto di passeggeri via ferrovia costituisce solo il 6,3%
del trasporto europeo mentre l’automobile è a quota 73%. Per quanto riguarda il settore
delle merci, nell'Ue il trasporto su gomma predomina su tutte le altre modalità con una
quota pari a circa il 45%, seguito dal trasporto via mare, con circa il 36%, e dal trasporto
ferroviario all'11%. Per i passeggeri l’Italia è sopra la media per uso di autoveicoli
(81,2%) e inferiore per l’uso di treni (5,3%). Anche per il comparto delle merci, l’Italia si
caratterizza per un uso del trasporto su gomma superiore alla media europea (82,7%), a
scapito di quello ferroviario (11,7%). La domanda del trasporto merci su treno è in
ripresa rispetto agli anni più neri (2009-2010) tanto da crescere del 6,3% nel 2011 e del
2,3% nel 2012. Quella per passeggeri invece resta ferma da anni. La rete ferroviaria più
estesa d'Europa è quella tedesca con circa 33570 km, seguita da quella francese con
circa 31000 km. L'Italia con i suoi 20600 km è la terza rete europea. Il principale
gestore della rete ferroviaria italiana, Rfi Spa (proprietà di Fs), gestisce circa 16700 km
di rete statale (la concessione scade nel 2060); 300 km di rete, di proprietà regionale,
sono gestiti da Ferrovie Nord Spa (che è la più importante compagnia del paese dopo il
gruppo Ferrovie dello Stato). Gli altri 3600 km di rete proprietà delle regioni sono gestiti
da imprese ferroviarie minori. Rfi, con uno specifico contratto di programma, ha assunto
compiti di gestione e manutenzione, progettazione, costruzione e messa in esercizio di
nuovi impianti, definizione dell'orario della rete. L'operatore principale dei servizi è
Trenitalia (sempre di Fs) che ha un unico forte concorrente – Ntv, la società del treno
Italo – nel settore dell'Alta velocità. La posizione sostanzialmente monopolistica
intralcia la liberalizzazione reale dei servizi, anche sul fronte tariffario. Cosa che ci
penalizza anche sul trasporto merci, dove il rapporto rileva che la contrazione (-6,25%
dal 2007 al 2011) dipende molto dal fatto che vengono movimentate merci per un bacino
essenzialmente locale, come dimostra il sostanziale azzeramento delle merci in transito
verso altri paesi (diversamente da quanto accade in Germania, dove il traffico in transito
è circa il 4% del totale). Questo rende il settore italiano del trasporto merci su rotaia
strettamente legato all’andamento dell’economia nazionale e privo di appeal per gli
operatori esteri. Come evidenziato da un’indagine della Banca d’Italia, il sistema
ferroviario italiano è considerato inadeguato in termini di tempi e costi. Le difficoltà del
comparto ferroviario sono anche legate al giudizio negativo degli operatori del settore
logistico internazionale.
2) Trasporto aeroportuale: il settore ha conosciuto, nell’ultimo decennio, una crescita
costante e continua motivata soprattutto dall'ingresso dei paesi un tempo “emergenti” –
ormai tra i più ricchi del mondo – nel turismo di massa. La Boeing stima un raddoppio
entro il 2030 del traffico passeggeri globale ma con uno sviluppo differenziato per aree e
con una predominanza del mercato cinese e delle altre regioni in espansione (India e
parte dell’America Latina). Che complessivamente occuperanno il 68% del traffico
globale (mi permetto di far notare che questo dato, da solo, basta a farci capire cosa sta
succedendo a livello geopolitico). Sul traffico passeggeri, il 60% del volume europeo è
concentrato su cinque paesi (Regno Unito, Spagna, Germania, Francia e Italia).
L'aeroporto di Roma Fiumicino, con 36milioni di passeggeri l'anno è l'ottavo
aeroporto europeo e il primo italiano. Nel gennaio 2014, il ministero dei Trasporti ha
avviato la definizione del nuovo Piano Nazionale degli Aeroporti, che l'Autorità deve
rendere operativo, volto a razionalizzare il sistema. Punto di partenza del Piano, come
detto, è stata l’individuazione degli aeroporti strategici e di quelli di interesse
nazionale. Bologna è tra i primi, Rimini tra i secondi. La scelta di quali aeroporti
classificare come strategici è dipesa dalla rilevanza sul fronte europeo e dalle
potenzialità di crescita. Bologna rappresenta il 4% del traffico passeggeri nazionale.
Considerando i 37 aeroporti (strategici e di interesse nazionale) è il 7° scalo passeggeri
e il 5° per trasporto merci. L'aeroporto di Bologna è gestito da Sab, società di
maggioranza pubblica e l'utile d'esercizio per il 2012 è stato di 3,5milioni (il primo scalo
italiano, Fiumicino gestito da Adr, ha realizzato un utile di 310 milioni di euro). La realtà è
che gli aeroporti funzionano bene in due modi: se realizzano un rilevante aggregato di
traffico passeggeri; se sono inseriti in rotte intermodali per le merci. Bologna corrisponde
a entrambe le caratteristiche e questo farà sì che resti – come poi per il trasporto su
rotaia – un nodo cruciale per il Paese e per le tratte internazionali. Importante verificare il
livello di concorrenza dei vettori all'interno dei singoli aeroporti e, quindi, il grado di
dipendenza dei vari aeroporti nei confronti di singole compagnie aeree. Da una
classifica dei primi 10 aeroporti italiani per concentrazione alla fine del 2012, emerge che
Rimini, dopo Brindisi, era seconda per posizioni monopolistiche: volavano solo 9
compagnie aeree. La dipendenza dello scalo dai vettori low cost (l'irlandese Ryanair
prima, l'italiana Wind Jet poi) ha fatto sì che, con l'abbandono di queste compagnie, sia
lo stesso aeroporto ad aver conosciuto il fallimento (tanto che, appunto, proprio dopo la
crisi di Wind Jet nel 2012, dal 2013 il Federico Fellini è stato commissariato). Non a
caso, per usare un altro parametro, se Bologna o Roma Fiumicino usano l'83% della
capacità delle piste, Rimini ne usa ora il 10%. La situazione di questo scalo – per la cui
gestione sono arrivate a metà luglio 4 offerte in risposta al bando di gara – è
evidentemente molto delicata. Tenendo conto che prima della crisi, nel 2011, Rimini
aveva un traffico passeggeri di circa 1 milione di persone (ovvero che una fetta di
mercato legata al turismo si rivolgeva al Fellini) è interesse del Paese che questo scalo
torni in sesto. Per far questo, però, come chiaramente l'Autorità suggerisce, vanno usati
meglio gli incentivi che le società di gestione attribuiscono alle compagnie e vanno
evitate le situazioni di dipendenza dell'aeroporto da un numero troppo basso di
vettori.
3) Trasporto portuale: sono cinesi otto dei dieci maggiori porti al mondo (gli altri sono
Singapore e Rotterdam). Il settore si è caratterizzato nell'ultimo decennio per rilevanti
economie di scala, il cui sfruttamento ha portato alla diffusione dell’uso di container e
all’aumento della dimensione media delle navi. Cosa che richiede infrastrutture
specifiche, in termini ad esempio di profondità di fondali e lunghezza banchine, come
sappiamo bene a Ravenna (ma la situazione ravennate non è diversa da quella della
maggior parte dei porti italiani). In un’ottica internazionale l’Italia gioca comunque ancora
un ruolo rilevante, occupando la terza posizione in Europa per volumi di traffico (pari
all’11,7% del totale dopo Gran Bretagna al 12,2% e Paesi Bassi all'11,8%). Se tuttavia si
osserva la situazione a livello di singoli porti, il posizionamento italiano peggiora. Il
principale per quantità di merci movimentate, Genova, risulta solo decimo in Europa. La
flessione dei porti italiani con una progressiva perdita di quote di mercato è avvenuta poi
proprio nel momento di maggior espansione del flusso di esportazioni dall’Oriente verso
l’Europa e il Nord America, traffici che avrebbero potuto essere intercettati dal nostro
paese a causa della sua posizione geografica (siamo al centro delle grandi rotte di
navigazione che collegano l’Asia con l’Atlantico attraverso Suez). Il motivo per cui l’Italia
non è stata in grado di farlo è da attribuirsi al fatto che il bacino di utenza è, anche su
questo comparto, interno e la conformazione degli scali pensata per il mercato
domestico. Gli scali italiani sono caratterizzati quasi sempre da bassi fondali e banchine
che impediscono l’accesso alle navi di maggior stazza. E soffrono anche del problema di
spazi limitati dalla presenza di centri abitati e vincoli dovuti alla conformazione del
territorio: tutte caratteristiche che evidenziano il “campanilismo” dei porti nostrani,
fortemente penalizzante dal punto di vista della competitività sistemica. L'attesa riforma
dei porti promessa dal Governo, e che ritarda moltissimo, dovrebbe cercar di fare
ordine nella materia, definendo quali scali siano prioritari: sappiamo già che Ravenna lo
è per il Nord-est, ma ancora non sappiamo in che modo e cosa comporterà. Un dato
certo, che arriva dall'Autorità Portuale ravennate, è che i primi sei mesi del 2014 hanno
visto una movimentazione di oltre 12 milioni di tonnellate di merce, pari al +10,6%
rispetto al 2013 (tanto che Ravenna ha, per la prima volta, superato il porto di Venezia
per movimentazione complessiva). Nonostante questo dato ottimo e confortante,
concludo questo lungo excursus con una delle conclusioni del Rapporto di Art: “L’elevato
numero di porti italiani, in assenza di una politica di investimenti pianificata a livello
centrale, ha avuto due conseguenze: in primo luogo, una forte dispersione degli
investimenti riducendone l’efficacia, e in secondo luogo il fatto che molti di essi non
riescano a raggiungere una scala sufficiente per rendere tali investimenti
economicamente giustificabili”. Senza una riforma continueremo ad andare ognuno per
la propria strada privi di visione di sistema. Per questo è quanto mai necessario che il
Governo acceleri. Cosa difficile viste le priorità messe in agenda, ma cosa a mio avviso
errata perché il rilancio economico passa anche dal riordino di un segmento per troppo
tempo debolmente coordinato.
Per leggere l'intero rapporto:
http://www.autorita-trasporti.it/relazioni-annuali/
Sulle tariffe aeroportuali:
http://www.mit.gov.it/mit/site.php?p=cm&o=vd&id=987
Approvato l'emendamento che fa ripartire le operazioni di dragaggio nel Canale
Candiano
La commissione Ambiente del Senato ha approvato in sede referente un emendamento
all'articolo 14 del decreto 91 su “Settore agricolo, tutela ambientale ed efficienza
energetica” (che dopo il passaggio a Palazzo Madama arriverà alla Camera) che
permette di utilizzare in maniera intelligente le casse di colmata (contenenti materiali di
escavo del Canale Candiano) presenti nel porto di Ravenna e quindi di riprendere le
operazioni di dragaggio. Un mio emendamento è confluito in un atto dei senatori volto a
svuotare le casse dalla sabbia dragata negli anni precedenti senza doverla
necessariamente destinare alla discarica, risolvendo così il problema generato da una
norma mal scritta del governo Monti. La norma (da cui nasceva lo stallo della situazione)
prevede che qualsiasi materiale – anche quello non inquinato e quindi riutilizzabile, ma
residuo di un'operazione di dragaggio e depositato in cassa di colmata – debba esser
considerato automaticamente un rifiuto e quindi destinato allo smaltimento in discarica.
Oltre a essere assurda, poiché se l'Arpa stabilisce che il materiale non è contaminato (e
in questo caso si tratta di terra e sabbia dei fondali) ha senso riusarlo per riempimenti o
ripascimenti di costa, la misura è anche molto onerosa poiché per smaltire questo
materiale in discarica (sprecando volumi preziosi per lo smaltimento dei rifiuti veri)
avremmo dovuto spendere milioni di euro. Milioni che il Comune di Ravenna e l'Autorità
portuale possono risparmiare e destinare all'approfondimento del Candiano e alla
manutenzione delle banchine. L'emendamento risolve quindi diversi problemi: libera
spazi del porto, quindi permette di riavviare i lavori di dragaggio; consente di riutilizzare i
materiali (per il livellamento di terreni laddove necessario, ad esempio); fa risparmiare
soldi per usarli su progetti importanti.
Proposta di legge per garantire più controlli sulle imprese che operano nel settore
della Difesa
Nei giorni scorsi ho aderito come firmatario alla proposta di legge presentata
dall'Onorevole Carlo Galli, filosofo politico, presidente della Fondazione Gramsci e
membro della commissione Difesa. Si tratta di una modifica al decreto legislativo
66/2010 (“Codice dell'ordinamento militare”) con cui chiediamo che gli ufficiali delle
Forze Armate con grado di generale – o grado equiparato – non possano avere
incarichi presso imprese operanti nel settore della Difesa nei tre anni successivi al
congedo. Alcune settimane fa avevo scritto di un'importante indagine conoscitiva sul
sistema degli armamenti esaminata della Commissione competente: questa proposta
nasce da alcune delle osservazioni a quell'indagine. Da una parte si rilevava infatti
come, anche per investimenti nel settore, fosse necessaria un'integrazione europea.
Dall'altra si esprimevano preoccupazioni per una convergenza non sempre trasparente
tra ex alti gradi delle Forze Armate e livelli apicali nelle industrie degli armamenti.
Fenomeno negativo che forma un circuito chiuso e autoreferenziale, sfuggendo
parzialmente ai doverosi meccanismi di controllo. La proposta di legge si colloca in
questo ambito e intende promuovere un sistema che non metta in dubbio la corretta
pianificazione dei programmi di Difesa. Pertanto ci sembra giusto che chi ha ricoperto
alti gradi nelle Forze Armate non possa, per un congruo periodo di tempo, ricoprine altri
presso società, enti e imprese che operano nel settore degli armamenti.
Nuove regole, più efficienza e più valorizzazione: la riforma della Cooperazione
internazionale
Il 17 luglio la Camera ha approvato il disegno di legge sulla cooperazione internazionale,
che diventa parte “integrante e qualificante” della politica estera italiana. Il dispositivo
che regolava il settore era la legge 49/1987: una disciplina scritta prima della caduta del
muro di Berlino e dell'esistenza dell'Ue e che non poteva più essere adeguata. Le
principali innovazioni, concettualmente, sono due: vedere il beneficiario dell'azione
come un partner tenuto a rafforzare sul campo le pratiche di intervento; i progetti di
cooperazione devono armonizzarsi con la visione internazionale del nostro Paese su
tutti i campi (anche quindi con le politiche commerciali o infrastrutturali e pertanto i
progetti di solidarietà diventano materia di un Comitato interministeriale). A livello
“tecnico”, per ottenere questi obiettivi, sono stati concepiti strumenti prima inesistenti.
Innanzitutto si indica nel Viceministro della Farnesina il responsabile politico per la
cooperazione. Poi – abrogando strutture dirigenziali “sparse” – viene istituita l'Agenzia
italiana, struttura ad hoc titolata anche di erogare i fondi. In terzo luogo si innovano gli
strumenti finanziari con l'istituzione, all'intero della Cassa Depositi e Prestiti, di una sorta
di Banca per la cooperazione che potrà sviluppare accordi con organizzazioni
finanziarie. Infine, la legge non riconosce più solo il no profit come soggetto attivo, ma
inserisce anche i privati che hanno creato progetti nel corso degli anni senza
riconoscimento. E che ora potranno collaborare alle iniziative pubbliche. La riforma
indica nel Documento triennale di programmazione e indirizzo – proposto dal ministero
degli Esteri – lo strumento di pianificazione operativa e finanziaria dei progetti. Per
approfondimenti:
http://www.deputatipd.it/files/documenti/50_Cooperazione%20allo%20sviluppo.pdf
http://www.cooperazioneallosviluppo.esteri.it/pdgcs/
http://www.cooperazioneallosviluppo.esteri.it/pdgcs/italiano/Partner/UnioneEuropea/intro
.html
La Camera approva i risarcimenti per i detenuti che hanno subito trattamenti
degradanti in carcere
A fine giugno il Governo ha varato il decreto “Disposizioni in materia di rimedi risarcitori
in favore dei detenuti che hanno subito un trattamento in violazione dell'articolo 3 della
Convenzione europea per i diritti dell'uomo”. Questo articolo stabilisce che nessuno può
essere sottoposto a tortura e neppure a pene degradanti. E la violazione di questo
principio ha portato, in parecchi casi, la Corte europea a condannare il nostro Paese per
le pessime condizioni di detenzione carceraria. Per il Consiglio d'Europa, la superficie
minima auspicabile cui ciascun detenuto deve disporre è di almeno 7 mq. Alcuni ricorsi
hanno mostrato che in alcune prigioni italiane è arrivato a 3 mq. La Corte ha pertanto
rilevato in Italia frequenti violazioni e ordinato alle autorità di varare le misure necessarie,
anche compensative rispetto al pregresso. La Camera ha quindi approvato, il 24 luglio, il
Decreto 92 che ha risposto alle richieste di riparazione e, senza far alcun riferimento
ad indulto o amnistia (tengo a precisarlo) stabilisce risarcimenti. Su istanza del detenuto,
il magistrato di sorveglianza abbonerà di un giorno la pena residua per ogni 10 durante i
quali vi è stata la violazione. Il magistrato liquida invece una somma di 8 euro per ogni
giorno trascorso in condizioni degradanti se il ricorrente è già in libertà. Nuove regole
anche per la custodia cautelare ai domiciliari con ricorso al braccialetto elettronico.
Infine, le disposizioni vigenti nei confronti dei minorenni vengono estese fino ai 25 anni.
Per approfondimenti:
http://documenti.camera.it/Leg17/Dossier/Pdf/D14092.Pdf
Fondo morosità incolpevole: emanato il decreto ministeriale per l'erogazione agli
inquilini
Pubblicato a metà luglio in Gazzetta Ufficiale il decreto ministeriale che rende attuativo il
fondo per la cosiddetta “morosità incolpevole”, ovvero una situazione di sopravvenuta
impossibilità a provvedere al pagamento dell'affitto in ragione di “riduzioni delle capacità
reddituali”. Il Decreto attuativo specifica 6 casi: perdita del posto di lavoro per
licenziamento; riduzione obbligata dell'orario di lavoro; cassa integrazione ordinaria o
straordinaria; mancato rinnovo di contratti a termine; cessazione dell'attività liberoprofessionale per cause di forza maggiore; malattia grave o decesso di un componente
del nucleo famigliare che ha prodotto una riduzione del reddito. Il fondo da 40 milioni (nel
biennio 2014-2015) è destinato ai Comuni con alta tensione abitativa. A Piemonte,
Lombardia, Liguria, Emilia Romagna, Toscana, Marche e Campania è stato assegnato il
30% dell'intero ammontare, sulla base del numero di sfratti per morosità emessi. Lo
Stato eroga quindi alle Regioni che poi destinano le risorse ai Comuni a seconda delle
richieste. I requisiti per l'accesso sono legati anche al rispetto dei parametri Ise e Isee
(35mila euro per il primo, 26mila per il secondo). Ovviamente i Comuni devono verificare
che il richiedente o un suo famigliare non sia in alcun modo proprietario di altro immobile
nella provincia di residenza. Il contributo concesso non può superare gli 8mila euro
annui per nucleo abitativo.
Inserimento lavorativo e riabilitazione: una legge per agevolare l'agricoltura
sociale
Il 15 luglio la Camera ha approvato la proposta di legge del Pd per rafforzare l'agricoltura
sociale, esperienza di welfare e inclusione che si occupa di inserimento lavorativo o
riabilitazione di persone svantaggiate. Gli utenti (disabili, persone con problemi psichici,
giovani con difficoltà di apprendimento, tossicodipendenti, ma anche disoccupati di lungo
periodo e anziani) vengono sostenuti con forme di impiego, attività didattiche o
particolari terapie presso aziende agricole. In Italia sono oltre 750 le attività di questo
tipo e tra queste circa 450 sono cooperative sociali di tipo B. La proposta di legge
agevola le iniziative in mancanza di un quadro normativo organico sia per gli operatori
agricoli socio-sanitari che per le istituzioni coinvolte. Lacune che fanno sì che i progetti
spesso stentino a trovare interlocutori certi negli enti che gestiscono i servizi nonché
disponibilità logistiche. Pertanto si disciplinano finalità e obiettivi dell'agricoltura
sociale assieme ai requisiti per l'accreditamento degli operatori. Si introduce la
facoltà di costituire organizzazioni di produttori in presenza di un volume minimo di
produzione e servizi erogati (90mila euro). Si indicano disposizioni sull'uso dei locali
nelle imprese, facilitazioni nell'assegnazione di terreni demaniali o di beni confiscati per
l'insediamento di enti accreditati e si incentiva promozione dei prodotti da agricoltura
sociale per mense e ospedali da parte degli enti locali. Per saperne di più:
http://deputatipd.it/files/documenti/49_Agricoltura%20sociale.pdf
Cognome ai figli: una proposta per attribuire anche quello della madre
In discussione alla Camera un testo unificato di varie iniziative (dell'Esecutivo e
parlamentari) con il quale si intende superare l'obbligo del solo cognome paterno ai figli.
Sulla spinta, anche in questo caso, di una sentenza della Corte europea dei diritti
dell'uomo che ci redarguiva in materia, si è reso necessario aggiornarci sull'univocità del
cognome ai nuovi nati. Secondo la proposta di legge i genitori – sposati o meno, non c'è
distinzione – possono decidere se attribuire ai propri bambini il cognome del
padre, quello della madre o entrambi e nell'ordine che desiderano (non
necessariamente prima il cognome dell'uomo poi della donna). Inoltre un figlio
maggiorenne, cui ovviamente è stato attribuito il cognome paterno sulla base della
normativa vigente, potrà decidere poi se aggiungere il cognome della madre. I figli degli
stessi genitori registrati all'anagrafe dopo il primo portano lo stesso cognome di
quest'ultimo. Per evitare poi una crescita esponenziale di nominazioni – per i figli dei figli
– la proposta indica il dovere di trasmettere, nel caso di doppi cognomi di entrambi i
genitori, soltanto uno dei due cognomi dei nonni. La ratifica del progetto dovrebbe
arrivare nei prossimi mesi.