23 agosto 2014 - Comune di Montese

COMUNE DI MONTESE
Provincia di Modena
Rocca di Montese
Seduta di studio
Accademia del Frignano
LO SCOLTENNA
Una spada per l’Impero
nel 350° anniversario della battaglia di Mogersdorf
sabato 23 agosto 2014
INDICE
Saluto del Sindaco del Comune di Montese .................................................
Lettera dell’Imperatore a Raimondo Montecuccoli ......................................
GALEAZZO GUALDO PRIORATO (1606-1678)
“I Turchi passano l’acqua, e danno adosso a gl’Imperiali con furia” ..............
ALESSANDRO FONTANA DI VALSALINA
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L’Impero Ottomano: potenza politica e militare ....................................
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La nascita degli Ottomani ...............................................................................
L’ascesa degli Ottomani ..................................................................................
Solimano il Magnifico .....................................................................................
Il sistema di governo ottomano .......................................................................
L’Impero dopo Solimano ................................................................................
La crisi .............................................................................................................
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ALESSANDRO MASSIGNANI
L’arte della guerra al tempo di Raimondo Montecuccoli .......................
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Uno sguardo alla situazione del Seicento in Europa .......................................
Guerre e sviluppi militari ................................................................................
Maurizio d’Orange e le riforme olandesi ........................................................
Il Leone del Nord: Gustavo Adolfo di Svezia .................................................
Raimondo Montecuccoli .................................................................................
La transizione al Settecento .............................................................................
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PAOLO BERNARDONI
Sors bona nihil aliud: Miklós Zrínyi (1620-1664) .................................
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FRANCO DI SANTO
Dall’Impero all’Europa: la politica di sicurezza dell’Austria nel XXI secolo ..
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con la penna e con la spada
Il 1° agosto dell’anno 1664, nei pressi della cittadina di Mogersdorf, sulle
sponde del fiume Raab, che divide l’Austria dall’Ungheria, una coalizione
militare europea guidata da uno dei più famosi figli del nostro Frignano, inflisse al turco una sconfitta che decretò l’arresto delle mire espansionistiche
dell’Impero Ottomano verso occidente per quasi un ventennio: quell’uomo
era Raimondo Montecuccoli, l’illustre uomo d’armi e di lettere che oggi ricordiamo all’insegna del motto con la penna e con la spada.
Trascorreranno così quasi vent’anni prima che il turco si spinga fino alle
porte di Vienna e nel 1683 ponga il famoso assedio alla città, episodio che
segnerà l’inizio della riscossa imperiale con la successiva liberazione di Buda nel 1686 e la decisiva vittoria di Zenta del 1697.
Oggi, dunque, il fatto che vogliamo ricordare è rappresentato dagli avvenimenti occorsi sul fiume Raab in quella memorabile giornata d’agosto. I
relatori ci illustreranno dapprima, nella persona di Alessandro Fontana di
Valsalina, docente di Storia dell’Asia all’Università degli Studi di Trieste, la
potenza politica e militare dell’Impero Ottomano, il grande antagonista di
ciò che rimaneva del Sacro Romano Impero e che poi divenne Impero Asburgico. A seguire, Alessandro Massignani, studioso di storia militare, ci
parlerà dell’arte della guerra al tempo di Raimondo Montecuccoli, con particolare riguardo al periodo in cui quell’arte fece un notevole salto di qualità, cioè durante la guerra dei trent’anni, in cui gli svedesi rivoluzionarono il
sistema di combattere. Il nostro Paolo Bernardoni, poi, ci guiderà nella conoscenza più approfondita di un personaggio che, dal grande pubblico, è
troppo riduttivamente conosciuto soltanto come antagonista di Raimondo,
cioè dell’ungherese Miklós Zrínyi. In ultimo, questa cartella ospita un contributo (Dall’Impero all’Europa: la politica di sicurezza dell’Austria nel
XXI secolo) che Franco Di Santo, pur non potendo essere qui con noi oggi,
ha voluto inviarci per rinsaldare l’amicizia con la nostra comunità.
A tutti i convenuti, che ringrazio per la presenza, porgo il benvenuto ed
auguro un piacevole pomeriggio.
Montese, 23 agosto 2014
Comune di Montese
Il sindaco
(Luciano Mazza)
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Lettera dell’imperatore Leopoldo I a Raimondo Montecuccoli1
E’ questa una delle lettere di cui Raimondo Montecuccoli dice: “Io per
me due clementissime lettere ne ricevei, scritte di proprio pugno [dall’Imperatore], nell’Italico idioma: tesoro a me preziosissimo, e la più degna
memoria, ch’io possa tramandar a’ miei posteri”2.
“Caro Conte. Il Tullio Miglio mi rese la vostra delli 3 corrente, e mi fece
la intiera diffusa relazione della vittoria, che Iddio diede alle mie armi sotto
la vostra condotta, e perché è una vittoria assai più grande di quella [che]
credevamo, se bene già lunedì feci subito cantare il Te Deum, ora pur di
nuovo farò fare una salva alli bastioni; e perché così in questa, come in tutte
le altre vostre azioni mostrate il vostro valore giunto alla prudenza, et esperienza, et in riguardo del vostro lungo servire, e di tanti servigi resi, mi risolsi di dichiararvi mio Tenente Generale, come dell’altra spedizione vedrete.
Io con grandissimo gusto, e consolazione vi fo questa grazia, e confido intieramente, ch’ancor all’avvenire avrete a cuore l’Armata, e vedrete di far
ogni danno possibile, massime stante, che l’inimico ha patito molto, e sta in
grandissima confusione. Del resto circa le diligenze usate con l’Armata, mi
rimetto a quello che vi scrissi l’altro ieri3, e riposo intieramente su la vostra
prudenza, assicurandovi della mia grazia, et io resto vostro benignissimo Signore.
Vienna li 6 agosto 1664”.
1
G. GUALDO PRIORATO, Historia di Leopoldo Cesare, II, Vienna 1670, carte non numerate
poste in fine al volume in ordine cronologico.
2
Memorie del General Principe di Montecuccoli, Colonia 1704, p. 301.
3
GUALDO PRIORATO, cit. Lettera da Vienna del 4 agosto 1664.
5
Galeazzo Gualdo Priorato
HISTORIA DI LEOPOLDO CESARE
(trascrizione delle pp. 456-469, vol. II, Vienna 1670)
L’esercito Ottomano era tre volte più numeroso del Christiano composto
de Giannizzari, Albanesi, Spahi, Confinanti, Venturieri, Tartari, et altri,
provveduto d’abbondanti provvisioni da bocca, e da guerra, quantità d’artiglieria, e grandissimo numero de padiglioni piantati sopra le colline un mezzo miglio in circa distante dal fiume. Lo comandava con suprema autorità il
Gran Visir Achmet, col quale erano Ismael Pascià di Bosina cognato del
Gran Sultano Maumet Pascià d’Aleppo, Caplan Pascià di Tiromania, Kurh
Pascià, Ibraim Pascià, il Generale de Giannizzari Mahumet Aga, e quello dei
Spahi Simulach Aga Mahumet Maggiordomo del Gran Visir, con altri Aga,
et Officiali di minor grado.
Il fiume era in più luoghi guadabile, et in diversi siti non più largo di 10
in 12 braccia. Le ripe più alte alla parte del Turco, che a quella de Christiani.
Il dì 30 di Luglio li due eserciti stettero appresso San Gottardo l’uno dirimpetto all’altro, e’l fiume tramezzo, giocandosi continuamente col cannone. Il giorno seguente ultimo del mese il Gran Visir si tirò ad una mezza lega sopra San Gottardo, e nella marchia tentò di passar per un guado, che dava adito ad un squadrone intiero di fronte, e vi passò effettivamente, cominciando a coprirsi con alzar terra; ma li Dragoni Cesarei del corno destro, che
con qualche cavalleria comandata erano di vanguardia lo ributtarono con
grave danno.
La notte precedente il primo d’Agosto piantarono i Turchi 13 pezzi d’artiglieria in tre camerate sul bordo della Riviera all’incontro d’un picciolo
villaggio. Nello spuntar del giorno scopertesi alcune truppe nemiche uscite
fuori dal loro campo, comandò il Montecuccoli allo Sporch, che con mille
cavalli tra Alemanni, Crovati, e Dragoni rinforzasse le guardie Cesaree del
corno destro, come egli prestamente fece; ma avvedutosi poi, che erano genti uscite a provvedersi de foraggi furono da lui inseguite, e felicemente battute, con acquisto de cammelli, muli, et altri bottini. Il Gran Visir conoscendo, che dalla battaglia doveva dipendere il tutto, tenne secreta la sua risolutione.
E’ costume de Turchi prima di venir ad un fatto d’armi generale di far
gran feste, disporre delle cose loro, e lavarsi alcune parti del corpo ne’ bagni, che stimano con ciò di lavar i loro peccati. In questa occasione il Gran
Visir tralasciò tali cerimonie, per dubbio, che avvertiti gli avversari del suo
disegno gli lo impedissero. Circa le otto ore della mattina del primo d’Ago7
sto, in tempo appunto, che gran parte della cavalleria Christiana era andata a
foraggio più tacitamente, che puote, fece chiamar a sé li due Bellerbey
d’Asia, e d’Europa, con li Generali della cavalleria, e fanteria. Rammemorò
il valore de loro Antenati. Rappresentò la debolezza de Christiani. Disse non
esservi altro ostacolo, che di guadare il fiume stretto, e basso d’acqua per
scorrere poi tutti li paesi dell’Imperatore, dove tutti s’arricchirebbero colli
bottini pretiosi, che si sarebbe fatti; oltre che nelle pertinenze di Vienna si
trovava quantità di belle donne, robuste, grasse, e bianche. Dindi rivoltatosi
ad Ismael Pascià lo gonfiò con encomi del suo valore, e per honorarlo gli
diede la vanguardia d’Albanesi, e Bosnesi. A Ialy Aga Generale de Tartari
comandò dovesse esser il primo a passare, guidando egli l’ala sinistra. Partiti i Capi dal Padiglione del Gran Visir, i Tartari non avvezzi a star dove gioca il moschetto, s’incamminarono ben sì al luogo destinato, ma non vollero
accostarsi agl’Imperiali sin che non vedessero le operationi de Turchi. Ismael Pascià sapendo essergli data la vanguardia per farlo perdere, attesoche era
il Visir di lui poco amico, tuttavia coraggioso con 3000 cavalli, et altri tanti
fanti in groppa s’accostò al fiume. Il cannone Ottomano fece una furiosa
scarica per dar calore a suoi. Si scagliarono i Turchi nell’acqua, e felicemente passarono. Caplan Pascià, e l’Agha de Giannizzari fecero lo stesso, e con
furioso empito sforzarono uno de’ posti guardati dalla gente dell’Imperio.
Questa mancò di trincierarsi la notte, come gli era stato commesso; e poi in
vece di combattere, e sostener l’inimico vilmente prese la fuga. Accorse in
suo soccorso il Reggimento di Smidt, et un battaglione de fanti di Nassau, e
Kielmeneseck, ch’erano i più vicini; ma non potendo resistere alle vigorose
forze de Turchi, essendo tutti soldati nuovi, li cederono il campo, come pure
fece il Reggimento dello Smit, benché il Colonnello facesse il suo debito,
restandovi ferito. Il battaglione di fanteria della gente del Conte di Nassau,
dopo esser stato ucciso il Colonnello, e’l suo Tenente, fu in maggior parte
mandato a filo di spada a fila per fila, come appunto si trovava squadronato;
poiché quei vili soldati deposte l’armi, e chiamando quartieri, credevano con
ciò, come si pratica fra Christiani, di salvar la vita. A questo rumore avanzarono altre truppe dell’Imperio, ma su le prime scariche voltarono le spalle
all’inimico, eleggendosi più tosto il morire fuggendo, che il salvarsi combattendo. Qui nel tirarsi de moschetti, restò morto d’un colpo nella coppa il
Conte Fugger Cavalier garbato, e valoroso, compianto universalmente da
ogn’uno. La confusione perciò nell’esercito Christiano crebbe di tal maniera, che molti pensavano più tosto alla ritirata, che ad avanzarsi alla pugna.
Vi fu chi correndo presso al General Montecuccoli esclamava, che conveniva ritirarsi, poiché tutto era perso, e la totale ruina irremediabile. Il Generale
ridendo rispose, col solito della sua intrepidezza: E come perduti, se non ho
ancor sfoderata la spada? Non vi smarrite, seguitatemi, e vederete.
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Il Principe di Lorena, che al primo rumore s’era allestito col suo Reggimento per operare, secondo che gli fusse ordinato, impatiente d’entrare nel
cimento, et essere spettatore della strage, che facevano i Turchi di quelle
povere genti, con maraviglioso coraggio salito a cavallo, benché la maggior
parte de suoi soldati fusse fuori a foraggio, e risoluto di morire glorioso,
s’avanzò là dove era più fervida la mischia. Se gli fecero incontro di primo
assalto le lancie della guardia del Gran Visir con minacciosa comparsa. Il
Capitano di queste correndo con la lancia bassa per scavalcar il Principe, egli di propria mano l’uccise. La scaramuccia s’ingrossò. I Turchi ruppero il
suo squadrone. Egli prestamente lo rimise, e tanto fece, trattenendo gli nemici a fronte di loro ferocemente combattendo, che in tal mentre il General
Montecuccoli, qual’a tutto attentamente accudiva, scagliatosi con alcuni
squadroni di cavalleria sostenuti da 400 fanti del Reggimento del Tasso, seguitato dallo Spaar, e da Lakronambi Colonnelli, et assistiti dal Principe Palatino di Sultzbach, diede con sì precipitoso urto nel fianco di quelli, che per
fronte combattevano col suddetto Principe di Lorena, che obbligò i Turchi
squarciati, e rotti e ritirarsi, et al Reggimento dello Schmid, et ad altre truppe diede modo di rimettersi, e ripigliare arditamente il combattimento. Il
Gran Visir fece passar maggior numero di soldatesca allettata da premi, e
dall’honore. Questa respinse alquanto gl’Imperiali. Montecuccoli vedendo,
che quivi facevano lo sforzo maggiore, scorrendo come un fulmine di qua, e
di là ove era il bisogno maggiore, con la spada alla mano, si spinse colli
Reggimenti di Spich, e di Pio, fanteria, e quello di Rapac de Cavalli là dove
la zuffa era più fiera, dura, e dubbiosa per l’intrepido combattere de Giannizzari, e degli Albanesi. Qui pure s’hebbe a scorrere gran rischio, perché
essendosi lasciato da quei della lega un vacuo là dove era maggior il pericolo se i Turchi se ne fussero accorti potevano entrar nel medesimo, e dar gran
danno a’ Christiani. Il Montecuccoli di ciò avvisato, con prontezza vi rimediò spingendovi il Reggimento di Lorena, che già s’era degnamente diportato nel primo incontro, come s’è già di sopra detto.
Nello stesso tempo tentò di passar un stuolo de Spahi a mezz’hora di sopra del corno destro, e mezz’hora al di sotto del fianco sinistro un altro corpo de Turchi, con disegno di pigliar l’esercito Christiano nel mezzo, e batterlo per fronte, e per i fianchi, nel qual caso sarebbe senza dubbio stato rotto, e vinto; ma la vigilanza del Montecuccoli provvide agli inconvenienti,
inviando lo Sporck con un buon corpo de fanti, e cavalli contro quelli, che
volevano passar a destra, come pure haveva già inviato il Principe di Lorena
col suo Reggimento di cavalleria, con li Crovatti, e Dragoni per impedire il
passo a gli altri che tentavano di passar alla sinistra, così, che non solo furono respinti, ma tagliati a pezzi molti Turchi. Qui all’hora si conobbe di
quanto utile fusse l’essersi disposta la gente meno esperta nel mezzo, e la
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più veterana su l’estremità della battaglia, perché il Turco passò et attaccò
non solamente nel mezzo, ma etiandio su i fianchi, dove se la risistenza de
pochi contro molti, che perciò far, dovevano essere de’ più valorosi, non
l’havesse sostenuto, e ributtato, l’esercito Christiano cinto tutto all’intorno
ne’ fianchi, e nelle spalle era evidentemente posto in rotta; oltre che li soccorsi dall’una, e dall’altra estremità al mezzo potevano per la correnza esser
dati subito, che all’incontro da una estremità all’altra, per la soverchia distanza non sarebbe riuscito.
In questo stato di cose scorgendo Montecuccoli, che gli Giannizzari cominciavano ad alzar trinciere di qua dal fiume, chiamò a consulta gli altri
Generali. Fu proposto di cacciar l’inimico. Dalla maggior parte non venne
assentito. Adducevano, che stante il timore, la fuga, e confusione delli primi
attaccati, e per il numero tanto superiore de gli nemici, non dovevasi più arrischiar quell’esercito, nella cui conservatione consisteva l’universale salute
della Christianità; ma ritirarsi in siti vantaggiosi, aspettando nuovi, e più gagliardi rinforzi. Esser temerità lo impegnarsi al capriccio della fortuna, esporsi a così gran pericolo come quello, che evidentemente soprastava. Aggiongevano, che se in vantaggio sì grande di sito, come è quello d’un fiume
non si era potuto impedire al nemico il passaggio del medesimo, per conseguenza poca speranza restava di respingerlo dopo, che era passato. A questa
opinione adherivano alcuni, e già si disponevano alla ritirata. Vedevasi venire correndo persone disperate, strillando essere ogni cosa perduta. Altri partirsi dicendo, che se n’andavano su’l monte alle loro truppe. Altri a far caricar il bagaglio, e mandarlo via, con altri simili disordini.
Ma quivi il Generale Montecuccoli, che con giuditio di provetto Capitano, haveva su i fianchi dell’ordinanza poste le truppe migliori, et agguerrite,
scorgendo esser l’impressione de Turchi seguita appunto nella parte più debole, s’avvide, che non poteva andargli meglio fatto il gioco, mentre occupati i Turchi dietro a fuggitivi poco esperti, egli gli haverebbe assaliti
dall’una parte colle valorose truppe Francesi, e dall’altra colli veterani Tedeschi, co’ quali gli havrebbe rotti, e conquassati. Si dichiarò ad alta voce
non assentir in modo alcuno al ritirarsi, anzi di voler vigorosamente combattere. Disse, che quelli, i quali non assentissero a questa sua ardita opinione
potevano andarsene, perché egli voleva, o vincere, o morire in quella campagna; e rivoltatosi al Baron Tullio Miglio, ch’era seco gli disse.
Hoggi appunto sono sei anni, che Cesare ha ricevuto la Corona dell’Imperio, et hoggi con una gloriosa vittoria gli la confermaremo in capo.
I Francesi dichiarandosi d’esser venuti in Ungheria per combattere senza
alcuna riserva, risposero, che sarebbero della partita. Lodarono il coraggio,
et intrepidezza del Generale. Lo assicurarono dal canto loro di non recedere
un passo indietro, quando ben tutti dovessero sacrificarsi alle sable nemiche.
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Nacque però qualche difficoltà nell’avanzarsi così subito, mentre Coligny
prudentemente considerando, se i Turchi fussero passati in quella parte
guardata da suoi, restarebbero questi esposti ad evidente perdita, gli pareva
non esser conveniente di lasciar quel posto sprovveduto. Ma havendogli poi
il Signor della Fuillada Cavaliere ripieno di coraggio, e di valore fatto comprendere, che oltre la vergogna d’esser spettatori di sì bella battaglia senza
sfodrar la spada, soprastava un’evitabile pericolo, se rotti gl’Imperiali si fussero i Turchi rivolti contro i Francesi, ottenne d’avanzarsi egli nella mischia.
Vi comparve con 1200 fanti, e 600 cavalli, oltre i volontari, mezz’hora dopo
il meridio. S’avventò con sì buon ordine contro li nemici, che ne riportò con
molta sua gloria i vantaggi, che s’andaranno narrando.
Il Gran Visir con la sabla in mano, tenendosi alle ripe opposte, animava i
suoi, e spingendo squadroni dietro a squadroni dicevale. Eccovi per miracolo del nostro gran Profeta Mahometto la vittoria, su perseguitate questi cani, che fuggono. A tali voci quasi tutti li principali dell’esercito, e della sua
corte passarono il fiume. Si figurarono la vittoria sicura. Assalirono col loro
solito furore le truppe Christiane. Queste schierate da ogni parte in forma di
mezza luna, e con ben’aggiustata ordinanza, spingendosi contro il stuolo
confuso de nemici, dopo furiose scariche delle bocche di fuoco, si venne alle
mani coll’armi bianche. Quivi per qualche tempo con flusso, e riflusso, a
guisa dell’onde del Mare, che hor spingono, et hor si ritirano, fu ambiguo, e
dubbioso l’evento della battaglia, mentre incerta pendeva la vittoria.
Il Generale Montecuccoli comandò al Colonnello Holst, che con quattro
pezzi di cannone piantati sopra la collina dovesse bersagliare le squadre nemiche, così egli fece, e con effetto così buono, che furono da frequenti colpi
molti de gli squadroni Ottomani squarciati. E se bene i Turchi sono bravissimi colla sabla in mano, e che questi in particolare de più scielti, e valorosi
s’avanzassero con minaccioso furore, e con strepitosi urli, e strilli contro le
squadre de suoi; gli Alemanni, e Francesi servendosi ottimamente bene delle
picche, e della moschettaria con buon ordine tramischiata tra li squadroni de
cavalli, col vantaggio di queste egregiamente sostennero, e finalmente ributtarono, e con strage de nemici conquassarono li battaglioni loro, così, che si
conobbe in effetto, che per le dette picche intrepidamente maneggiate dalli
veterani Tedeschi, e da coraggiosi Francesi s’ottenne la vittoria. I Turchi
non potendo più resistere al valore de Christiani si voltarono in precipitosa
fuga. I fanti, e cavalli si lanciavano nel fiume per salvarsi. Difficilmente potevano salire la ripa opposta, assai alta, e sdrucciolosa, onde restavano miseramente affogati in quell’acque. Qui all’hora si fece da gli Alemanni, e
Francesi così spaventoso trucidamento de nemici, che per il gran numero de
cavalli, e corpi humani riempita la riviera pareva quasi, che si potesse passar
sopra di quelli all’altra parte. Il Gran Visir vedendo questa strage cominciò a
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disperatamente lagrimare. Egli fu abbandonato da tutti li suoi, eccetto che da
quattro soli, che mai da lui si discostarono; e ciò, che più l’affliggeva era,
che l’Emiro Capitano de descendenti di Mahumetto, che soli per privilegio
posson portar il turbante tutto verde, lasciò in abbandono il medesimo stendardo, solito non spiegarsi, che in gran fattioni. Nel mezzo del fiume fu
ammazzato Ismael Pascià dal Capitan Dunckbald del Reggimento Schnaidau di cavalleria Alemanna, qual abbracciatosi seco lo ammazzò con la spada. Il turbante, cascatogli di testa, restò per quelle acque, e per essere guernito d’un pretioso gioiello di diamanti non si seppe a chi toccasse la fortuna
di pescarlo. Si ritrovò bene l’anello suo, col quale soleva sigillar gl’ordini,
che ispediva, e questo fu portato a Sua Maestà Cesarea.
Il Gran Visir fu spettatore della rotta, e della mortalità de suoi più bravi
Capitani, e soldati. Stette sempre sopra l’orlo opposto del fiume, e cruccioso, fremendo di sdegno, fece ogni sforzo per ravvivar la pugna, e col numeroso stuolo de suoi soldati di riserva assaltare di nuovo i Christiani, già dal
lungo travaglio assai stanchi, et indeboliti. Ma come difficilmente potevasi
scendere da quelle alte ripe, e trovar il guado opportuno da passar senza evidente rischio di provar l’esito sventurato de compagni, così né le minaccie,
né le speranze de’ premi furono bastanti a disporre i soldati a mettersi a
nuovo cimento, e massime, che se i primi migliori, e scielti non havevano
potuto resistere, minor apparenza v’era, che potessero farlo gl’inferiori, e
più deboli. Perciò dunque con le reliquie del ruinato, e si può dire distrutto
esercito prese la ritirata verso la collina. Gli fu ferito sotto una cavalla learda
Araba, e tale fu il disordine, e confusione, che lasciò in abbandono l’artiglieria, la quale fu subito da Cesarei inchiodata, stimando di non poterla ritirare. Il giorno seguente poscia passò di là dal fiume il Colonnello Holst, e
fece condurre sette pezzi nel campo Christiano. I Francesi ne presero altri
quattro, ma solamente due ne potero condurre nel loro quartiere, essendo restati gli altri dentro il fiume.
Si trovarono presenti a questo fatto d’armi il Residente Cesareo, e’l suo
compagno Gio. Battista Casanova Milanese, che fu poi suo successore. Restarono essi tanto afflitti nel principio quando videro a retrocedere le truppe
dell’Imperio, e pendere la vittoria per i Turchi, quanto consolati poi nel mirare la totale sconfitta de que’ infedeli.
Restarono morti su’l campo, e nel fiume circa 16 mila tra Giannizzari,
Albanesi, Bosinesi, e Spahi, tutti scielti, con quantità de Officiali, e venturieri. Oltre Ismael Pascià perirono Konakgi Ismael Pascià, Mehemet Agha
de Giannizzari, e quello de Timasphi Sinhulah Agha, Spahilar, il Chiaia, et
altre persone di qualità. Caplan Pascià uno de più provetti Capitani dell’Impero Ottomano, che conduceva gli Albanesi riportò tante ferite, ch’egli pure
fu annoverato tra morti, ma fortunatamente si rihebbe, e fu poscia dichiarato
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dal Gran Sultano, per i suoi meriti, Capitan Generale dell’armata Navale
contro i Venetiani.
Per la crescente dell’acqua vennero i corpi sommersi a galla, onde i Christiani fecero bottini riguardevoli di gioie, di vestimenti, e di danari, mentre
quasi tutti li Turchi soliti in occasione di battaglia mettersi i più ricchi vestiti, e portar seco il lor danaro, havevano addosso quantità di Reali, e mezzi
Reali di Spagna d’argento, e gli Officiali buona summa de Sultanini, che
qualche semplice moschettiere ne buscò sino 800. E perché in Germania non
si spendon Reali, i soldati a chi loro dava un Ristallero Imperiale davano otto Reali, e tutte le conquistate robe a vilissimo prezzo. Si trovarono circa
5000 sable per le ripe, e per l’acqua del fiume. Furono prese 126 insegne, e
stendardi. Una parte di queste si mandarono in Francia, e parte a Vienna.
Morirono su’l campo, oltre il sopradetto Conte di Nassau, con due suoi
Capitani, et altri Officiali il Conte di Trautmansdorf Capitano della Guardia
di cavalleria del Generale Montecuccoli, il Tenente Colonnello Mattias de
Grudler di Kielmansek, col Capitano Gio. Francesco Schirl, un Capitano del
Reggimento di Pio, e due dello Spaar, il Capitano Enghel di Schenaidau, il
Conte di Usemberg Capitano di cavalleria di Rapach; e tutti questi erano
dell’esercito Imperiale. Del corpo dell’Imperio mancarono il Colonnello
Pleitner, col suo Tenente Colonnello, e Sergente Maggiore; il Tenente Colonnello di Vestfalia, il Conte di Vied dello stesso Reggimento, e circa 700
soldati quasi tutti di questo corpo, poiché pochi furono quelli, che morirono
delle truppe veterane di Cesare.
Il Conte Fugger morto, come s’è detto, fu la perdita maggiore; diversi furono feriti, e tra questi il Generale di battaglia Puech, il Colonnello Smidt
col suo Tenente Colonnello, il Colonnello Nicolao di Baviera, il Tenente
Colonnello Herard, il Colonnello Zobel comandante a due squadroni di cavalleria del Circolo di Franconia ricevette una lanciata da un Turco, che se
bene haveva indosso la corazza se non fusse stato di natura forte l’haverebbe
squarciato. Due suoi Capitani furono pur feriti. I Francesi si diportarono con
impareggiabile bravura. Fu memorabile il valore, et intrepidezza particolarmente del Signor della Fuillada. Egli con non più che circa 1800 de suoi tra
fanti, e cavalli si cimentò con duplicato numero de bravissimi Turchi, e con
una picca in pugno alla testa della fanteria, è fama, che di propria mano uccidesse più di 20 de nemici, e pigliasse diverse insegne. Parecchi Francesi
furono morti, ma molti più feriti, tra quali il Marchese di Roquefort, il Conte
di Sciattres, il Marchese di Villeroy, il di Sery, di Reauverzè [Beauvezé], et
alcuni altri, che tutti si fecero portar a Vienna per curarsi, e si segnalarono
con grand’honore de’ nomi loro. Tutti li Generali, Colonnelli, e Capitani
dell’esercito Imperiale furono alla testa delle loro truppe, e coraggiosamente
si mescolarono nelle più feroci schiere de gl’Ottomani.
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Il Principe di Lorena, benché giovine, ma d’un cuore tutto ardente di gloria s’adoprò col suo Reggimento di cavalleria così intrepido, coraggioso, e
con tanto buon’ordine, che ne fu da tutto l’esercito ammirato, et encomiato.
Da gli altri pure non fu mancato, né di valore, né di sapere, né di prontezza,
né d’altra buona dispositione; mercé però l’ottimo ordine, e la singolar prudenza del Generale Montecuccoli, che havendo alla sua esperienza congionta una soavità, e tratti manierosi per captivarsi gli affetti, seppe tener i Capi
in buona corrispondenza, et unione di volontà fra di loro, così, che generalmente fu acclamato per il vero Maestro della guerra, e Padre de soldati.
Stancò sotto di sé sei cavalli, e coll’haver per un mese continuo con incredibili celerità prevenuti, et interrotti i disegni a’ nemici s’acquistò gran nome,
e la fama d’uno de maggiori Capitani del secolo. Dal Gran Visir fu inteso
più volte a dirsi, che egli credeva d’haver a guerreggiare con un huomo, ma
che gli pareva non esser Montecuccoli huomo, ma un Demonio, havendolo
trovato sempre all’incontro in qual si sia tentativo, che haveva, benché
d’improvviso, et occultamente intrapreso.
Al favor di così segnalata vittoria haverebbe il Generale Montecuccoli
passato il fiume, ma il Visir non ostante la perdita fatta si tenne fermo nel
suo campo su’l vantaggio delle colline sino al quarto giorno d’Agosto, occupando la campagna con più di 30000 cavalli. A questo s’aggionse, ch’a
pena fu finito il combattimento, che cascò tanta pioggia, per la quale crebbe
così straordinariamente l’acque del fiume, che non solo era impossibile il
passarlo; ma inondò anche gran parte del piano, e le trincere de Christiani.
Eran alcuni giorni, che mancava il pane nell’esercito, e la monitione ancora,
così che dopo la battaglia s’era ridotta a soli otto barili di polvere. La soldatesca era tutta stanca, e gran parte fuggita, così ch’a pena si trovavano le
guardie necessarie. Alli 9 d’Agosto quando s’era presso Kerment, e che
all’hora era possibile il passar oltre il fiume, havendosi ricevuti qualche viveri, monitioni, e rinforzo di soldatesca, propose il Montecuccoli in pieno
Consiglio a tutti i Capi da guerra di passare; ma tanto i Francesi, quanto quei
della Lega del Rheno, e dell’Imperio ricusarono. Allegavano la stanchezza
della soldatesca per i disagi patiti, con altre ragioni, di modo che bisognò,
che il Montecuccoli, per osservar gli andamenti dell’inimico vi spedisse dietro il Conte Nadasti con gli Ungheri, e li Colonnelli Iaquez, e Kuscheniz
colli Dragoni, e Crovati.
Terminatosi questo glorioso fatto d’armi tutti li Generali et Officiali maggiori andarono a congratularsi col medesimo Generale Montecuccoli, e con
mille encomi, et applausi non cessavano di celebrar le sue degne attioni, e
l’eccellente sua condotta così ben diretta, e senza minima confusione. A
questo egli corrispondendo con parole affettuose, et ornate di reciproche lodi, e rendimenti di gratie a tutti loro, si cominciarono l’allegrezze, e dimo14
strationi più giolive di questo venturato successo. La notte medesima ispedì
poi il Colonnello Maschurè a darne parte a Sua Maestà Cesarea, che subito
nella Chiesa di San Domenico fece con solenne musica ringratiarne il Signor Iddio.
Questo giorno primo d’Agosto giolivo per Leopoldo Primo, che in tal dì
l’anno 1658 fu incoronato Imperatore, e che in questo 1664 ottenne due nobili, e celeberrime vittorie, fu annoverato per uno di quei preludi, che appunto con segni simili annuntiò la Fortuna all’Invittissimo Carlo Quinto Imperatore Austriaco, e fece sperare, che non dovessero esser dissimili a Sua
Maestà gli effetti di quelle predittioni, che si sono fatte alla prosperosa fortuna di questo Cesare.
Furono d’indi portati dal Baron Tullio Miglio l’Insegne, e le spoglie nemiche a Vienna, dove il giorno di 8 d’Agosto si replicarono le salve del
cannone, e della moschettaria in segno del giubilo di sentenza tanto giusta
data dal Cielo a favor della causa del pio, e meritevole Imperatore. Cesare
dichiarò poi subito suo Luogotenente Generale, prima carica della Guerra, il
Conte Montecuccoli. Il Conte Sporch, Generale della Cavalleria. Il Colonnello Schnaidau Sargente Generale di Battaglia. Il Marchese Pio pur Sargente Generale. Allo Spaar fu conferito il Reggimento del defonto Conte di
Nassau. Mandò Cesare al campo danaro per dar una paga in dono a tutto
l’esercito. Molte collane d’oro, et altri regali mandò per rimunerar quelli,
che in tal’occasione s’erano portati meglio, et a molti furono fatte altre mercedi.
D’indi furono spediti al campo diversi pezzi d’artiglieria, quantità di carri
di monitioni da bocca, e da guerra, et un rinforzo di quattro mila fanti, e mille cavalli condotti dal Duca di Virtemberg. Ma come fu assai lodato il Generale di Cesare, così non poco fu biasimato il Gran Visir, imputandosegli a
grand’errore di non haver occupato il Castello di San Gottardo, ove stando
un ponte, sarebbe poi col calore di quel posto passato il fiume; et ad errore
s’attribuì la di lui prosontione in voler intendersi di tutto, né riflettere nel
consiglio d’alcuno, benché di maggior esperienza nella guerra, nel maneggio della quale devesi camminare circospetto, accudire in ogni luogo, ascoltar tutti, badar a tutto, e star pronto a pigliar le congionture opportune; onde
fu evidentemente conosciuto, e comprobato, che sì come il Signor Iddio dà
la prudenza a chi vol sostenere, et aiutare, così leva l’intendimento, offusca,
e confunde il consiglio di chi vuole punire.
15
Alessandro Fontana di Valsalina
L’IMPERO OTTOMANO: POTENZA POLITICA E MILITARE
La nascita degli Ottomani
1. Le tribù turche e l’avvento dei Selgiuchidi
La storia degli Ottomani è legata a quella dei Turchi, uno dei più complessi e affascinanti popoli dell’Asia. Il modo con cui i “Turchi” vengono
identificati oggi è tuttavia differente rispetto a quello in cui lo dovrebbero
essere effettivamente. Dopo quasi un secolo di esistenza di Repubblica Turca sembra che il termine “turco” vada usato solo per gli abitanti dell’Anatolia. Tuttalpiù si sa che esiste un “Turkestan” che è quasi scomparso anche
dalle carte geografiche per dar spazio a stati e territori dai nomi difficili da
ricordare come Kirghizistan, Uzbekistan, Turkmenistan o Xin Jiang. Questo
tuttavia ha un risvolto affascinante perché di solito vengono immediatamente evocate immagini di paesi quasi leggendari legati alle fiabe, alla Via della
Seta e perciò hanno un che di esotico e di misterioso. In realtà il problema
del definire il termine in questione è legato ad una visione molto più ampia
del mondo in cui si sono formati questi popoli e da cui essi provengono.
Ciò che rende di difficile interpretazione il mondo turco è il fatto che oggi in occidente si parte dall’erroneo preconcetto di “etnia”. Le etnie sono
sorte principalmente con i movimenti nazionalisti ed il concetto di nazione:
una patria, una lingua, una cultura. Il termine più giusto da usare sarebbe
quello invece di “popoli” laddove non esiste in molti paesi, prima dell’avvento del nazionalismo, il concetto di distinguersi in etnie, tagliando molto
spesso realtà culturali con le forbici per creare più divisioni ed incomprensioni di quante ce ne fossero prima all’interno di un’area geografica. Questo
è il caso proprio dei popoli turchi.
Prima dell’avvento del nazionalismo in Asia sono sempre esistite delle
realtà culturali e sociali dove il sentirsi distinti rispetto agli altri era più
un’eccezione che la regola. Le popolazioni turche sono delle realtà composite e molto complesse e si dovrebbe per prima cosa considerarle un tutt’uno
per poi iniziare a distinguerle e dividerle secondo gli schemi attuali, sebbene
farlo sia una forzatura.
Un esempio ci aiuterà a capire meglio. Nei decenni attuali il cosiddetto
Turkestan o “Terra dei Turchi” è diviso in due: quello Orientale o Xin Jiang
che si trova nella Repubblica Popolare Cinese ed è abitato prevalentemente
da Uiguri, popolo di origine turca, e quello Occidentale. Il territorio di
quest’ultimo era fino al 1990 nell’ex Unione Sovietica ed è ancora adesso
17
diviso in 5 repubbliche principali: Kazakistan, Uzbekistan, Turkmenistan,
Kirghizistan e Tajikistan. Il fatto che queste terre abbiano tali nomi non significa per niente che ad esempio in Uzbekistan si troveranno solo uzbeki.
Basta vedere la carta “etnica” per capire l’assoluta follia insita nella pretesa
di considerare i popoli di queste 5 repubbliche come ben divisi dai loro confini. Confini politici, si badi, letteralmente “tagliati con le forbici” negli anni
’20-’30 del secolo scorso dalle autorità comuniste di Mosca.
Anche queste 5 repubbliche hanno popolazioni di origine turca, che parlano lingue molto simili tra loro, che all’inizio non avevano una loro letteratura specifica, creata ad hoc negli anni ‘20 sempre dalle autorità sovietiche
per meglio realizzare una politica delle nazionalità e del divide et impera, il
cui unico scopo è sempre stato quello di impedire che i popoli del Turkestan
si riunissero per cacciare gli invasori russi ed attuare un utopistico sogno di
unificazione.
Posta questa doverosa premessa è necessario chiedersi “chi” sono i Turchi e quali sono le loro origini e caratteristiche. Per facilità di esposizione
bisogna partire da molto lontano nel tempo e risalire all’epoca dell’espansione islamica se non addirittura prima.
L’Asia centro-orientale ha sempre presentato una caratteristica suddivisione tra un sud sedentario, rappresentato da grandi imperi come quello Cinese o Persiano, ed un nord nomadico dove le popolazioni che vi hanno abitato si distinguono per una forte similitudine negli stili di vita ma anche di
origini, culture e credenze religiose. Queste popolazioni, più legate appunto
a schemi nomadici, hanno fatto della loro “diversità” distintiva di ogni tribù
e confederazione tribale “un’unità” che le ha distinte nei secoli sia rispetto ai
grandi imperi del sud sia per il fatto di potersi riunire anch’esse, a seconda
dei momenti storici e delle fortune politiche e militari, in confederazioni ancora più grandi degli imperi stessi tra cui quella creata da Gengis Khan è solo uno dei numerosissimi esempi che si potrebbero citare.
Non avendo una loro collocazione geografica ben definita, causa sempre
la difficoltà a distinguere le popolazioni nomadiche tra loro, tali tribù e confederazioni si sono sempre presentate come una sorta di immenso serbatoio
umano e culturale dove i dialetti locali prevalgono sulla singola lingua, la
tradizione orale prevale sulla scritta e le credenze religiose sono più superficiali e meno approfondite rispetto a quelle di città, ma con un’apertura mentale ad accogliere “ciò che è diverso” decisamente maggiore rispetto agli
schemi di vita riscontrabili nel mondo sedentario dei grandi imperi del sud.
E’ difficile perciò dare una precisa connotazione ai popoli che vanno dalla zona a est degli Urali, dove inizia per convenzione l’Asia, arrivando fino
alla costa del Pacifico. Si ha una certa distinzione nel rilevare popoli di origine turca rispetto a quella mongola, ma anche qui molto spesso le commi18
stioni, in particolare in campo linguistico e culturale, sono praticamente infinite.
L’avvento dell’Islam porta in tutta l’Asia ad una serie di cambiamenti
che hanno un immediato effetto nella caduta dell’Impero Sassanide, sconfitto a Nihavend nel 641, e la conseguente scissione tra Turkestan occidentale
e orientale a seguito della vittoria musulmana sulle rive del fiume Talas nel
751 sulle truppe cinesi T’ang che cercavano in quel periodo di penetrare in
Persia orientale1. Da questo momento in poi la catena del Tien Shan rappresenterà la linea di spartiacque tra il mondo cinese dell’est e quello musulmano dell’ovest.
Le popolazioni nomadiche di origine turca sono già presenti sul territorio
e finiranno divise anch’esse. Gli Uiguri ad esempio, che prima avevano subito un’ampia penetrazione del buddhismo, passeranno ora all’Islam che penetrerà quindi nel Turkestan orientale stesso per rimanervi fino ai giorni nostri come la religione principale.
Le popolazioni ad ovest hanno una vita molto più sofferta. Se da un lato
nella stragrande maggioranza abbracciano la nuova religione, dall’altro vedono un grande alternarsi di unioni in grandi confederazioni tribali, come
quella dei Qarakhanidi2, sostituite poi da frantumazioni in gruppi più piccoli, quasi sempre in movimento e in lotta tra loro, il tutto sempre legato ai caratteristici stili di vita che distinguono i nomadi delle steppe del nord, estremamente legati alla cultura del cavallo e all’allevamento in genere. Lentamente, ma inesorabilmente, molte di queste tribù e confederazioni si spingeranno verso il sud e l’ovest dell’Asia e finiranno con lo stabilirsi in varie aree nuove, tra cui anche l’Anatolia.
La potenza degli Ottomani trae origine da questi movimenti di tribù e
clan che iniziarono all’incirca quando l’Islam cominciò a diffondersi. Verso
il VII secolo nelle zone dell’alto Turkestan e siberiana, una parte delle popolazioni nomadi si riunì in una confederazione di 9 tribù il cui nome turco è
Tokuz Oghush o Tokuz Oghuz. Il destino di queste tribù è di raggiungere una
grande fama. Ad esempio la più potente di esse si riunì in un gruppo di 10
clan il cui nome diverrà “I Dieci Uiguri” in turco On Uigyr, cioè “I Dieci
1
Arborio Mella F.A., L’Impero Persiano, Mursia, Milano, 1979, pp. 422-423; Blunden C.,
Elvin M., Atlante della Cina, De Agostini, Novara, 1990, pp. 92-94 e Ranitzsch K.H., The
Army of Tang China, Montvert Publ., Stockport, 1995, pp. 75-76.
2
I Qarakhanidi (da qara “nero” e khan “sovrano” erano un gruppo di 22 o 24 tribù stanziatesi nel territorio tra il Mare d’Aral e il lago Balkash. Intorno al 960 uno dei loro sovrani,
Satuq Bughra, si fece musulmano e di colpo 200.000 tende abbracciarono la nuova fede,
dando così l’avvio al processo di islamizzazione di tutto il Turkestan. Roux J-P., Storia dei
Turchi, Garzanti, Milano 1988, pp. 111-112.
19
Parenti” o “I Dieci Alleati”, e che diverranno la già citata confederazione,
divenuta la più potente per eccellenza nel Turkestan orientale.
Nel corso dei secoli successivi è piuttosto complesso seguire i movimenti
dei Tokuz Oghuz. Un elemento di grande importanza nella nostra storia è la
tribù dei Kinik, facente parte sempre di questa confederazione. Verso il 985
i Kinik lasciarono le regioni più settentrionali e si stabilirono sulla riva destra del Syr Darya, uno dei due grandi fiumi del Turkestan occidentale che
sfocia nel Mare d’Aral3. Il capo di questa tribù si chiamava Selgiuk o Salgiuk, cioè “Piccola Zattera” o “Piccolo Torrente”. Da lui iniziò una fortunata famiglia che nei decenni successivi si ingrandì, ponendosi al servizio di
vari signori più potenti e che si spinse poi gradatamente verso l’Asia Minore
crescendo sempre più in forza militare e politica.
E’ appassionante seguire le gesta dei Selgiuchidi. Innanzitutto è difficile
definire il legame con la religione di questi cavalieri nomadi in continuo
movimento attraverso l’Asia centrale. I figli di Selgiuk ad esempio si chiamavano Isra’il, Mikhail e Musa (Mosè), nomi di chiaro richiamo ebraico,
ma che si deve notare vengono dati anche dai musulmani. Quanto era il legame di Selgiuk e dei suoi eredi con la vecchia religione dei popoli turchi
che credevano in origine in Tangri, il Dio Cielo, unico e onnipossente cui si
rifacevano a sua volta molti riti sciamanici?, e quanto invece della nuova religione musulmana era penetrato all’interno della tribù Kinik? Anche questo
non lo sapremo mai. Principalmente le fonti rimaste sono libri antichi, come
il Malik-Name, “Il Libro dei Re”, un testo dell’XI secolo oggi andato perduto, ma che viene citato dagli storici posteriori. Si deve tuttavia tener conto
che all’epoca non esisteva ancora una grande concezione letteraria scritta.
Presso le popolazioni nomadi, così come in molte presenti anche nel sud sedentario dell’Asia, ci si rifaceva a tradizioni orali oggi andate perdute e i testi scritti rimasti scarseggiano e trovano difficoltà a farci dipanare la grande
serie di capi tribù che si succedettero lottando tra di loro e contro i grandi
imperi. La molteplicità culturale tuttavia di tali popoli ci viene attestata dal
semplice mantenimento di usi e costumi che ci dimostrano quanto composita fosse la loro vita. Sebbene i figli di Selgiuk presentino nomi di uso ebraico e musulmano, si vede sempre l’uso anche del nome Arslan, il più tipico
nome di origine turca che significa leone.
Il più importante dei tre figli, Mikhail, sceglierà per i suoi eredi nomi tipici turchi come Čaghri, “Sparviero” e Toghrul, “Falco”. Anche qui si nota
un tipico riferimento totemico che richiama le origini dei miti e credenze
delle popolazioni turche e nomadi dell’Asia centro-settentrionale, che ave3
Hambly G. (a cura di), Asia centrale, in Storia Universale Feltrinelli vol. XVI, Feltrinelli,
Milano, 1970, pp. 76-78.
20
vano sempre avuto un fortissimo contatto con la natura sia nelle sue manifestazioni meteorologiche che con la vita animale. Va ricordato anche che
spesso gli uccelli nel credo di questi popoli erano proprio i messaggeri di
Tangri e le espressioni della divinità.
Secondo i più Selgiulk fu il primo della sua famiglia che si convertì
all’Islam, di certo in tarda età, ma secondo la tradizione, come tutti i patriarchi, visse fino all’età record per l’epoca di ben cento anni.
E’ inutile per la nostra esposizione addentrarsi troppo nella storia di questa famiglia, ma si può ricordare che dei tre figli Arslan Isra’il fu quello che
visse più a lungo e suo nipote fu Sulaiman ibn (figlio di) Qutulmis (10771086), il fondatore della potenza dei Selgiuchidi di Rum, sovrano della ormai potente famiglia che si stabilì in Anatolia centro-orientale. Grande fama
ebbero poi Toghrul Beg (1038-1063) e il nipote Alp Arslan (1063-1073)4.
Costoro si distinsero combattendo ovunque in Medio Oriente, dal Turkestan
e fino in Egitto e contribuirono decisamente a creare la potenza dei cosiddetti Grandi Selgiuchidi, un regno che arrivò ad avere in pratica le dimensioni
dell’Impero dei Parti. Si potrebbe aggiungere che persino il fratello di Alp
Arslan, Qavurd, si distinse a sua volta, creando un terzo ramo noto come i
Selgiuchidi di Kirman, l’antica Carmania, zona della Persia che si affaccia
sullo stretto di Ormuz5.
Come si vede i Selgiuchidi da semplice tribù di nomadi mercenari riuscirono ad espandersi in tutto il Medio Oriente, soppiantando ovunque antichi
rivali sia in Persia, che tra gli arabi, che tra i turchi stessi. Divennero potentissimi anche nell’odierno Iraq e si spinsero fino in Siria e Palestina, giungendo fino all’Egitto6. Furono proprio i Selgiuchidi di Siria ad occupare Gerusalemme e a causare le Crociate e furono sempre loro a scontrarsi con i
vari contingenti giunti dall’Europa per liberare il Santo Sepolcro da coloro
che avevano interrotto il flusso dei pellegrinaggi verso la Terra Santa. E’ un
fatto che gli stessi arabi egiziani e siriani locali, cercarono di allearsi ai Crociati in quegli anni proprio in funzione anti-turca, nella speranza erronea di
aver trovato degli alleati che potessero aiutarli a ricacciare i Selgiuchidi verso est da dove erano venuti7.
4
Questi era il figlio di Čaghri Beg. Roux J.-P. op. cit., pp. 115-116.
Talbot Rice T., I Selgiuchidi, Saggiatore, Milano, 1969, pp. 19-25 e 36-40.
6
Roux J-P., op. cit., pp. 115-119.
7
Runciman S., Storia delle Crociate, Einaudi, Torino, 1966, pp. 229-240.
5
21
2. I Grandi Selgiuchidi
L’ascesa dei Grandi Selgiuchidi si dovette principalmente a Toghrul Beg.
Già nel 1025 suo zio Arslan Isra’il aveva iniziato a spingersi con i suoi uomini dal Turkestan verso l’Azerbaijan, ma fu Toghrul che dette l’avvio ad
una decisa spinta espansionistica in Persia. Tra il 1040 e il 1044 occupò le
zone di Rayy, sulla riva meridionale del Mar Caspio, e di Hamadan, l’antica
Ecbatana, una delle città principali dell’antico Impero Persiano posta lungo
la Via della Seta. Nel 1059 si mise ad assediare Isfahan, l’antica Aspadana,
ma i turchi non erano ancora pratici di macchine d’assedio. Erano dei veri
signori della guerra a cavallo e delle razzie, ma i grossi centri muniti delle
mura gigantesche in uso in oriente erano dei veri scogli insormontabili per
loro. Determinato a far cadere la ricca città, Toghrul decise di prenderla per
fame e alla fine ci riuscì, facendola diventare la sua capitale.
E’ proprio questo in realtà il momento di svolta nella creazione della potenza selgiuchide e perciò del primo regno turco sedentario. Esattamente
come Kubilay Khan in Cina duecento anni dopo, Toghrul ebbe il merito di
capire che i turchi non potevano alla lunga durare nel mondo sedentario del
sud pretendendo di governarlo “restando in sella”8. Egli decise che da quel
momento in poi lui ed i suoi avrebbero dovuto rispettare tutte le terre e le
genti che andavano conquistando, soprattutto nel Dar ul-Islam, nelle “Terre
dei Credenti”. Le razzie vennero impedite ed i Selgiuchidi si avviarono a diventare i nuovi campioni della fede islamica, cercando di ottenere in particolare i favori del Califfo di Baghdad, in teoria il diretto discendente per elezione di Maometto e capo di tutti i musulmani sunniti.
Toghrul alla lunga ebbe ragione e venne ricompensato. Nel 1055 il Califfo, che non comandava nemmeno bene la stessa Baghdad, lo chiamò in suo
soccorso nominandolo Sultano (dall’arabo Sultan, “Signore”) e implicitamente Difensore dei Credenti. Era un grande successo politico e religioso
per coloro che fino a qualche decennio prima erano stati considerati dei
semplici razziatori e da quel momento la potenza selgiuchide venne assicurata9.
Le razzie continuarono, anche se non in territorio musulmano. A ovest
c’era una potenza di “infedeli” che minacciava costantemente i territori dell’Islam: l’Impero Bizantino controllava ancora buona parte dell’Europa balcanica e tutta l’Anatolia. Fu così che nei decenni successivi i Selgiuchidi si
spinsero sempre più verso ovest, con alterne vicende, fino a giungere a una
nuova tappa fondamentale nella storia dell’Islam.
8
9
Rossabi M., Qubilay Khan, Garzanti, Milano, 1990, pp. 135-138.
Roux J-P., op. cit., pp. 118-119.
22
Nel 1063 Alp Arslan ereditò da Toghrul il sultanato. Di lì a poco, superate le difficoltà legate ai classici rivali da eliminare appena ottenuta la nomina, iniziò a spingersi verso l’Egitto che allora era in mano ai Fatimidi sciiti,
che non erano quindi sunniti come la maggioranza del mondo musulmano,
continuando così con il suo incarico di “Re d’Oriente e d’Occidente” e di
riportare l’Islam all’obbedienza sotto il Califfo.
Alp Arslan si dimostrò sin da subito come il grande leader che i Selgiuchidi attendevano da sempre. Nel primo anno di regno occupò Herat, la più
importante città dell’odierno Afghanistan occidentale, allora ricchissimo
centro della Persia orientale. Dopo altri dodici mesi occupò Jend, sul Syr
Darya, dove era stato sepolto suo bisnonno Selgiuk. Pacificò i distretti persiani di Fars e Kirman, si spinse in Arabia strappando ai Fatimidi la Mecca e
Medina, occupò Aleppo nel nord della Siria, garantendo così il transito verso l’Anatolia a ovest e verso la Palestina a sud. Fece sposare suo figlio Malek, divenuto poi famoso come Malikshah, con una principessa dei potenti
Ghaznavidi, signori di Ghazni, odierno centro dell’Afghanistan, e garantendosi così la tranquillità lungo i confini orientali10. A questo punto decise di
volgersi verso l’Egitto, ma la sua avanzata purtroppo ebbe una notevole battuta d’arresto in seguito alla nomina a Imperatore di Bisanzio di Romano
Diogene (1067-1071).
In realtà in tutti quegli anni dalla sua nomina nel 1063 e sino al 1067 Alp
Arslan aveva condotto parecchie incursioni nei territori bizantini con il duplice scopo di indebolirne il potere in Anatolia, riportando ogni volta un notevole bottino, e soprattutto per impedire che si realizzasse un’alleanza tra
Bizantini e Fatimidi, il che avrebbe rischiato di rallentare per anni qualsiasi
avanzata verso occidente e verso sud. Non bisogna dimenticare che sin dai
primi tempi dell’espansione dell’Islam nel VII secolo i più grandi obiettivi
erano stati il bacino del Mediterraneo orientale con le città di Costantinopoli, Gerusalemme e Il Cairo11. Se queste ultime due erano finite in mano musulmana, il fatto che ora si trovassero in mano dei Fatimidi sciiti generava
non pochi motivi di scontento in tutto il mondo sunnita, sia dal punto di vista religioso che politico.
Gli sciiti sia a quei tempi che ancora oggi sono sempre stati considerati
degli “eretici” a causa delle lunghe diatribe sorte in seno alla leadership dell’Islam dopo la morte di Maometto, avvenuta nel 632, poiché questi non aveva voluto scegliere un suo successore tra Abu Bakr, Omar ed Alì, rispetti-
10
11
Talbot Rice T., op. cit., pp. 25-27.
Nicolle D., Yarmuk 636 d.C., Del Prado, Madrid, 1999, pp. 7-16.
23
vamente due dei suoi più cari amici i primi, e cugino e genero il terzo12.
Mentre la maggioranza si era espressa per nominare un Khalifa o Califfo, un
“Vicario del Profeta”, un capo spirituale e politico cioè che avrebbe dovuto
essere eletto e aver avuto quindi il riconoscimento della Umma, la collettività dei credenti, una minoranza aveva preferito rimanere fedele all’idea che il
successore di Maometto dovesse provenire solo dalla sua famiglia. Costoro,
appoggiandosi ad Alì, cugino e genero del Profeta, erano stati però sconfitti
nel celebre scontro di Karbala, finendo col ridursi in pratica solo in Persia e
creando la Shiia, termine che definisce i seguaci dell’ash-Shi’ah, il “Partito”
(di Alì)13, quella minoranza musulmana che rimane ancora oggi in particolare in Iran e poche altre zone, mentre la stragrande maggioranza ha preferito
seguire la Sunna, “la Tradizione”, e l’idea quindi che il successore del Profeta debba essere nominato per motivi di merito e non di sangue14.
I Fatimidi appartenevano ad una branca degli sciiti e intorno al 1000 avevano avuto l’abilità di occupare l’Egitto, creando un pericoloso nuovo territorio che in teoria avrebbe potuto unificare tutte le terre comprese tra Egitto
e Persia, corrispondenti alla Siria e all’Iraq attuali. Proprio in quest’ultimo
tra l’altro si trovano ancora oggi le località legate al martirio di Alì, care agli
sciiti, come Karbala e Najaf.
Il problema di Alp Arslan dunque era duplice: da un punto di vista religioso recuperare almeno Gerusalemme, città cara all’Islam perché legata
anch’essa a Maometto come la Mecca e Medina, era una priorità immediata
visto che era finita in mano fatimide. Dal punto di vista politico bisognava
indebolire a tutti i costi i due grandi nemici occidentali, separandoli del tutto
e penetrando nei loro stessi territori, recuperandoli alla Vera Fede e unendoli
ai possedimenti dei Grandi Selgiuchidi15.
Tutto il periodo che va dunque dall’assunzione del potere nel 1063 da
parte di Alp Arslan in poi, ma per i decenni precedenti vale lo stesso, sono
anni di guerre e scorrerie continue dove la linea di frizione tra i territori di
frontiera turchi e quelli bizantini si pone all’incirca sull’odierno confine tra
12
Arborio Mella F.A., Gli Arabi e l’Islam, Mursia, Milano, 1989, pp. 76-80 e Georghiu V.,
La vita di Maometto, Garzanti, Milano, 1991, pp. 300-305.
13
Arborio Mella F. A., op. cit., pp. 168-170.
14
Una delle caratteristiche fondamentali degli sciiti è che considerano in maniera diversa la
figura dell’imam, il fedele che dirige la preghiera nella moschea, o capo della comunità musulmana. Tra i sunniti qualsiasi grande alim (pl. ulamà) può ottenere tale incarico. Tra gli
sciiti solo i 12 successori di Maometto discesi a partire da Alì sono da considerarsi tali. Arborio Mella F.A.,op. cit., pp. 168-169.
15
Si noti che i Grandi Selgiuchidi controllavano la Persia che rimase sotto dominio sunnita
fino al 1500, per poi passare definitivamente sotto il controllo dei Safavidi sciiti. Schweizer
G., I Persiani, Garzanti, Milano, 1986, pp. 192-204.
24
Turchia, Iran e Siria. All’epoca tutta quest’area venne occupata ad est dalle
tribù turche e in particolare turkmene16, provenienti come visto dal Turkestan e dall’Asia centro-settentrionale. Spessissimo i membri dei vari clan
venivano assunti dai sultani selgiuchidi per combattere contro i bizantini e il
“saldo” con cui venivano ripagati era determinato proprio dai proventi delle
loro scorrerie nell’Impero Bizantino stesso che gradatamente ma inesorabilmente finì con l’indebolirsi sia dal punto di vista politico che religioso,
ma soprattutto demografico. Se l’alternativa al venir uccisi era quella di finire deportati in schiavitù, è chiaro che gli abitanti dell’Anatolia orientale preferirono rifugiarsi in territori più sicuri verso ovest, fatto di cui prontamente
approfittarono i turchi stessi per insediarsi nelle zone abbandonate, trasformando poi la loro presenza in un dato di fatto proprio dal punto di vista demografico. I costi esorbitanti da sostenere poi per una guerra di confine di
questo genere divennero alla lunga uno stillicidio che ben pochi imperatori a
Costantinopoli erano disposti a sopportare. Talvolta tuttavia alcuni di essi
vollero cercare di porre un freno a questo stato di cose degenerante sulle
frontiere orientali, come fu proprio il caso di Romano IV Diogene.
Quando questo imperatore prese il potere la situazione era già grave. I
suoi predecessori per vari motivi avevano notevolmente abbassato le spese
militari, il che aveva portato ad una graduale riduzione della professionalità
dell’esercito bizantino, aumentando tra l’altro le assunzioni di truppe mercenarie. Intorno al 1000 l’esercito di Bisanzio era oramai diventato tutto
meno che composto di truppe “autentiche”: vi si potevano trovare variaghi
che provenivano dalla Russia, normanni provenienti dall’Italia meridionale,
georgiani ed armeni cristiani e persino vasti contingenti di turchi selgiuchidi
e non e perciò mercenari musulmani disposti a combattere contro quelli delle loro stesse genti per il salario e a causa di ataviche rivalità tra tribù che
non si erano mai spente e su cui i bizantini avevano saputo speculare, un po’
come avevano fatto secoli prima i condottieri romani con le numerose tribù
di Galli e Germani17.
Romano Diogene era per fortuna un militare ed aveva cercato di rimediare a questa situazione di scadimento professionale. Il fatto è che all’interno
del suo comando vi erano delle rivalità cui lui non poteva rimediare perché
era andato al potere lottando contro diversi nobili che avrebbero preferito
altri candidati. Tutto questo ci dà un quadro di quella che era divenuta oramai la situazione critica in cui si trovavano i bizantini, a fronte di una coali-
16
Per turkmene o turcomanne si intendono quelle tribù che si stanziarono nell’area a est del
Mar Caspio e in parte si spinsero in Anatolia.
17
Heath I., Byzantine Armies AD 1118-1461, Osprey, Oxford, 2002, pp. 20-39.
25
zione di clan turchi, in teoria più deboli militarmente ed economicamente,
ma molto più motivati ed uniti dell’Impero stesso.
Dal punto di vista strategico l’Impero in quel periodo si era trovato minacciato in continuazione. Le ricchezze dei bizantini erano divenute proverbiali e lungo tutto il Medioevo erano stati molti coloro che, attirati dal miraggio dell’opulenza di Costantinopoli, ne avevano insidiato i confini da ogni direzione. Nei Balcani si erano affacciati molti popoli slavi e la lotta con
essi era diventata una vera ossessione. Da ovest si erano materializzati i
normanni che stabilitisi fortemente nel sud d’Italia si erano gradatamente
spinti verso le terre bizantine, cercando di espandersi sia nella nostra penisola che in quella balcanica18. Come si vede la minaccia turca era forse la meno grave. Le tribù di nomadi che calavano lentamente verso l’Anatolia erano
molto disunite tra loro e più volte svariati capi si erano prestati a combattere
per Costantinopoli stessa accontentandosi di un pezzo di terra su cui stanziarsi.
Fin dall’antichità due erano le grandi vie che permettevano l’accesso
all’Asia Minore. La prima era la più facile perché seguiva grosso modo il
fiume Eufrate, puntando verso la costa, passando attraverso la Siria settentrionale e il territorio di Antiochia e sfruttando i due grandi varchi naturali
noti come le “Porte Siriane” vicino a questa città, e a ovest le “Porte Cilice”,
passando anche qui vicino a Tarso per poi penetrare in Anatolia dirigendosi
verso Iconio. Più a nord chi avesse risalito il Tigri o fosse passato dalla Persia settentrionale dirigendosi a ovest avrebbe potuto farlo transitando per le
montagne e le vallate nella zona del lago Van. Qui, sin dai tempi dei Romani, era rimasto come sentinella il regno degli Armeni che a seconda dei momenti si erano schierati da una parte o dall’altra nelle eterne lotte tra Roma e
la Persia dei Parti e dei Sassanidi. Gli armeni avevano continuato a difendere il loro territorio anche dopo l’avvento dell’Islam, in particolare per il fatto
che erano convinti cristiani e non avevano mai voluto abbracciare la fede
musulmana.
Il disastro era giunto proprio nel 1048 quando Toghrul Beg aveva inviato
contro i cristiani suo cugino materno Ibrahim e la fortezza di Erzerum, chiave di tutta l’area, era caduta. Per gli armeni venne considerato un vero
dramma e la riprova è data dal fatto che gradatamente essi furono respinti
verso nord e in parte verso la Cilicia, dove si sforzarono di creare nell’area
di Tarso e Adana il cosiddetto Regno della Piccola Armenia.
Il varco apertosi quindi lungo tutto il confine orientale dell’Impero permise ai turchi di penetrarvi gradatamente, respingendo sempre più a ovest i
bizantini che finirono col controllare solo la costa, un po’ come avevano fat18
Matthew D., I Normanni in Italia, Laterza, Bari, 2008, pp. 9-37.
26
to i loro antenati delle città-stato greche in lotta con l’Impero Persiano 1500
anni prima.
Romano Diogene dunque, al momento di salire sul trono, si trovò davanti
alla non invidiabile posizione di dover decidere di avviare una lotta di riconquista di tutto l’interno dell’Anatolia per cercare di rimediare alla sconfitta armena dei decenni precedenti, nella speranza di riportare i confini
dell’Impero alle loro posizioni iniziali.
Dopo varie azioni militari si giunse allo scontro decisivo il 19 agosto
1071, a nord-ovest del lago Van, vicino alla città di Manzikert (oggi Malazgirt). Si è sempre molto discusso sulle effettive forze a disposizione delle
due parti. Oggi sembra abbastanza attendibile l’ipotesi che l’armata di Romano Diogene si aggirasse intorno alle 40-45.000 unità, mentre quella di
Alp Arslan era decisamente inferiore, tra i 10 e i 15.000 uomini. Almeno in
teoria i bizantini avrebbero dovuto vincere, ma come già detto, la loro armata era eterogenea e c’erano troppi giochi d’interesse politici a monte, per cui
anche una vittoria turca per molti sarebbe stata preferibile ad una di Romano. Il risultato fu un nuovo disastro che anche se non subito si sarebbe avvertito in tutti gli anni a venire. I bizantini combatterono praticamente da soli, in quanto i contingenti di Franchi venuti da occidente si rifiutarono di
battersi nel momento decisivo e, peggio che mai, i reparti turchi passarono
in massa dalla parte del nemico. Con la sconfitta arrivò anche l’umiliazione
peggiore. L’Imperatore venne catturato e avrebbe corso il rischio di morire,
come si auguravano i suoi rivali a Costantinopoli, se non fosse stato per la
lungimirante politica di Alp Arslan che preferì rilasciare un personaggio così importante, imponendogli dei termini di tregua e consegna di ogni turco
prigioniero che tutto sommato furono molto ragionevoli. Purtroppo il rientro
per Romano fu ben peggiore perché venne in pratica rimpiazzato da un nuovo imperatore e poi ucciso. Chi guadagnò più di tutti furono i turchi che nei
25 anni successivi poterono espandersi ovunque in Asia Minore, giungendo
ad occupare persino la piazzaforte di Nicea, praticamente di fronte a Costantinopoli19.
Molti storici sono d’accordo nell’affermare che l’Impero Bizantino sarebbe caduto ben prima del 1453 se non fosse intervenuto a questo punto un
fatto che gli permise di trarre una lunga e salutare “boccata d’ossigeno”. Nel
1096 iniziò la Prima Crociata. Rapidamente i cristiani d’occidente, soprattutto normanni, recuperarono Nicea all’Impero e ripresero molte altre piazzeforti marciando fino a Gerusalemme e creandovi quel regno che era destinato a durare fino alla battaglia di Hattin nel 1187.
19
Nicolle D., Manzikert 1071, Osprey, Oxford, 2013, pp. 55-91.
27
Ciò che non risultò forse agli occhi di tutti in quei momenti fu che i crociati avevano respinto la minaccia turca effettivamente per parecchio tempo.
Quello che però non venne evitato fu il proseguimento della penetrazione
delle tribù turche in Anatolia. I crociati crearono 4 regni e principati, dislocati lungo la via per Gerusalemme; il varco settentrionale nella zona di Erzerum e del lago Van rimase tuttavia in mano musulmana e di qui continuarono a passare nuove tribù che contribuirono ad aumentare la forza dei Selgiuchidi e dei vari piccoli e grandi emirati che si succedettero in quel periodo20.
3. Dall’apogeo selgiuchide all’avvento degli Ottomani
Con il successo di Manzikert si aprì un nuovo periodo per i Selgiuchidi.
Alp Arslan e i suoi successori non riuscirono mai a conquistare l’Egitto,
complice anche l’arrivo dei crociati che si inserirono tra le due potenze dividendole di fatto. Il figlio di Alp Arslan, Malikshah (1078-1092) incarna già
nel nome un’idea nuova di stabilità. Malik è il termine arabo per “Re” o
“Signore”, così come Shah in persiano significa “Re” o “Imperatore”. Questo binomio rappresenta il desiderio chiaro di voler unire i due mondi in uno
solo. Egli fu sia amministratore che combattente e sotto di lui la potenza
selgiuchide raggiunse il massimo dello splendore. I turchi si stavano sedentarizzando rapidamente, attirati anche dalla forza della cultura millenaria
persiana che tutto abbagliava e conquistava fin dai tempi dei greci antichi e
di Alessandro. Si sbaglierebbe tuttavia a credere che i turchi si limitassero a
imitare i persiani. Non sarà mai approfondito abbastanza il discorso del
complesso rapporto di interscambio che ci fu tra cultura turca e persiana, né
il debito che il mondo ottomano ebbe verso quello selgiuchide e di quanto
debba la stessa cultura turca odierna alle complesse forme di sincretismo
che si formarono nel periodo che stiamo descrivendo. Ancora oggi i monumenti di epoca selgiuchide fanno bella mostra di sé, sparsi su un’area geografica vastissima in Medio Oriente, muta ma viva testimonianza di
20
Una conferma del ruolo determinante che ebbe la via d’ingresso settentrionale all’Anatolia per l’espansione turca ci viene data dalla cosiddetta “Crociata del 1101”, nota anche come “Crociata dei Lombardi”, che molti considerano un’appendice della Prima Crociata.
Questa spedizione venne promossa in Germania, Francia e Italia all’indomani della conquista di Gerusalemme nel 1099, con lo scopo di rinforzare gli scarsi contingenti di crociati
che erano rimasti in Terra Santa alla fine del pellegrinaggio armato. Con alterne vicende i
crociati del 1101 penetrarono in Asia Minore, seguendo in parte il percorso dei loro predecessori e in parte dirigendosi verso nord-est su Ancyra (oggi Ankara) e Neocesarea (Niksar), con lo scopo di liberare Boemondo di Taranto, uno dei capi della Prima Crociata che
nel frattempo era caduto prigioniero. Tutte e tre le colonne crociate vennero ripetutamente
battute e annientate dai turchi, ma si può facilmente intuire cosa sarebbe accaduto se avessero avuto successo. Lehmann J., I Crociati, Garzanti, Milano, 1983, pp. 145-148.
28
un’unione tra culture che il mondo organico dei nomadi delle steppe sapeva
produrre.
Se Alessandro Magno aveva cercato di unire l’Occidente all’Oriente, è
merito dei Selgiuchidi l’aver unito il mondo dei nomadi e dei sedentari, dove nessuno dei due pretende di comandare in esclusiva, ma anzi accoglie
l’altro dandogli importanza e la giusta collocazione21.
E’ altrettanto importante sottolineare il fatto che una politica accorta di
unione delle due realtà non sarebbe stata possibile se i sultani dell’epoca non
avessero saputo ben governare. In un mondo come quello arabo e turco, dove non si aveva l’idea di una successione di padre in figlio mantenendo unito il regno, ma al contrario ripartendolo in parti uguali tra gli eredi maschi, è
chiaro che l’unità politica è più l’eccezione che la regola e tutto era legato
all’abilità del singolo che avesse saputo imporsi sugli altri rivali come sovrano unico: gli esempi di Nur ed-Din e Saladino, vissuti proprio in questa
epoca nel XII secolo, è lampante. Fu solo grazie alla loro grande abilità se
tutta l’area tra la Siria e l’Egitto furono unificate e i crociati vennero sconfitti. Scomparsi loro tuttavia gli eredi non seppero continuare a tenere uniti i
regni che tornarono a frantumarsi in tante piccole realtà locali, esattamente
come era stato all’epoca dei pellegrini arrivati durante la Prima Crociata.
I Regni di Alp Arslan e Malikshah hanno tuttavia un minimo comune denominatore il cui nome è Nizam al-Mulk (1018-1092). Costui era un iranico, dotato di grandissime capacità amministrative, che mantenne il posto di
Visir (dall’arabo Wazir, il capo dell’amministrazione del sultano) sotto entrambi i sovrani. Usando un gioco di parole potremmo dire che così come
dietro ogni grande uomo c’è una grande donna, dietro ogni grande sultano
c’è un grande visir. E’ un dato di fatto che si presenta molte volte nella storia e che vedremo tra breve parlando di Solimano il Magnifico. Una volta
ancora si può constatare come l’unità nella diversità creata dal mondo organico si riflette ad ogni livello della società, sia nella famiglia che nella politica, e un buon sistema di collaborazione può portare a degli splendidi risultati.
Se Alp Arslan si dedicò più all’occidente, Malikshah preferì consolidare
il suo potere in oriente, annettendo quella parte del Turkestan nota come
Transoxiana (da Oxus, l’antico nome greco della Amu Darya, l’altro grande
fiume del Turkestan), dove stabilì persino un protettorato sui Qarakhanidi.
A sud si spinse fino al Bahrein ed ottenne dal Califfo la custodia sulla Mecca e Medina, divenendo di fatto anche lui Difensore della Fede. Verso occidente comunque annetté anche la grande fortezza di Diyarbakir, sull’alto
Tigri a sud-ovest del lago Van, collegandosi così con i territori dove le tribù
21
Talbot Rice T., op. cit., pp. 77-96.
29
turche si stavano espandendo. Al suo apice il regno di Malikshah giunse
persino a controllare direttamente o indirettamente Damasco (1076), Gerusalemme (1077) e Antiochia (1086).
Forse l’unione tra i due mondi turco e persiano e quest’epoca di splendore politico e culturale ci vengono proprio espressi dai due personaggi più
famosi che li rappresentano: Nizam al-Mulk e Omar Khayyam (1048-1131).
Quest’ultimo fu il poeta persiano più celebre della sua epoca ed è ancora
oggi notissimo anche in occidente. L’importanza di questi due personaggi ci
viene testimoniata anche da una storia quasi sicuramente inventata, ma che
vale la pena di ricordare proprio perché rappresentativa della grandezza del
periodo. Questa storia è stata ripresa anche da Edward Fitzgerald nella prefazione alla sua traduzione delle Rubaiyat, la raccolta di poesie più famosa
di Omar Khayyam.
Alcuni autori persiani raccontano di un giuramento d’amicizia fatto in
giovinezza da tre persiani. I ragazzi studiarono insieme presso lo stesso maestro e si promisero eterna amicizia, facendo un patto che prevedeva che il
primo di loro che avesse fatto fortuna o raggiunto il successo, avrebbe aiutato gli altri due. I ragazzi erano Nizam al-Mulk, Omar Khayyam e Hasan iSabbah (?-1124)22. Quest’ultimo è passato alla storia come il fondatore della
potenza degli Assassini e noto in occidente col titolo di “Vecchio della
Montagna”. Questa setta era una derivazione degli Ismailiti, una branca degli sciiti. Dopo varie avventure Hasan fissò la sua sede ad Alamut, una roccaforte posta su una montagna in riva al Mar Caspio a nord di Teheran. Da
qui egli espanse la potenza della setta che al suo apice ebbe notevole potenza anche in Siria e influì anche sulla politica locale durante le crociate. Uno
degli aspetti interessanti di questa storia è che Nizam al-Mulk venne effettivamente ucciso da un membro della setta degli Assassini nel 1092, segno
che il giuramento di amicizia tra i tre giovani non era stato rispettato, sebbene tutti e tre fossero diventati uomini illustri23.
Vera o no che sia la leggenda, la morte di Nizam al-Mulk segnò l’inizio
del declino della potenza dei Grandi Selgiuchidi e nelle zone occidentali del
sultanato si dovrà aspettare l’avvento di Nur ed-Din e di Saladino per assistere a una notevole ripresa dell’espansione musulmana e turca ed all’inizio
del crollo dei regni crociati in Medio Oriente24.
22
Che questa storia sia altamente improbabile è confermato dal semplice confronto delle
date di nascita e morte dei tre.
23
Lewis B., Gli Assassini, Mondadori, Milano, 1992, pp. 53-64.
24
Roux J-P., op. cit., pp. 125-126.
30
4. I Selgiuchidi di Rum
La crisi dei Grandi Selgiuchidi non toccò minimamente l’ascesa delle tribù di turkmeni e turche in generale. Il continuo insediamento in tutto il Medio Oriente portò a un rafforzamento della loro potenza. Talvolta oramai i
turchi si spingevano fino al mare e non si dovette aspettare molto per iniziare a vedere le prime navi di pirati battenti bandiere che portavano i simboli
islamici25.
Se in Anatolia la potenza dei Grandi Selgiuchidi sfumava lo si deve in
buona parte alle enormi distanze che separavano i loro centri di interessi politici posti in prevalenza in Persia. Un altro fattore era costituito dal fatto che
quelle tribù di turchi che si stavano sedentarizzando mal vedevano quelle
che invece continuavano a mantenere i vecchi stili di vita e questo spiega
anche il perché dello spingere in continuazione verso ovest nuove ondate di
tribù turkmene alla perenne ricerca di nuove terre da saccheggiare, ma soprattutto per insediarvisi. Un altro elemento della difficoltà di controllo su
così vasti territori era dato dalla continua lotta per l’affermazione non solo
tra i vari clan e tribù, ma all’interno delle famiglie stesse. In questo contesto
si inserisce ad esempio la formazione di tutta una serie di nuovi regni, tra
cui possiamo citarne per semplicità uno: quello dei Selgiuchidi dell’Asia
Minore o di Rum26.
Il sultano Alp Arslan aveva un secondo cugino di nome Sulayman ibn
Qutulmis, il cui nonno era stato Arslan Isra’il, il figlio del capostipite fondatore Selgiuk. Costui non aveva un grande rapporto con i Grandi Selgiuchidi,
ma operava abbastanza indipendentemente in Anatolia. La sua grande fortuna derivò sempre dal disastro di Manzikert. Quando nel 1081 andò al trono
il nuovo imperatore di Bisanzio Alessio I Comneno (1081-1118), questi per
ovviare alla carenza di forze militari, decise di compiere un passo politico
ardito ma necessario: consegnò a Sulayman la città di Nicea, con il pegno
che questi insieme alle sue genti divenisse federato di Costantinopoli, difendendone i confini. Negli anni successivi costui si dimostrò abbastanza attivo, giungendo ad esempio ad occupare Iconio, che ribattezzò Konya nel
1084 e che alla lunga diverrà la città forse più importante per i suoi discendenti. Progredendo verso est prenderà anche Antiochia nel 1085 e verrà ucciso durante il suo tentativo di conquistare Aleppo poco dopo proprio da
25
Sembra che sia da ascrivere sempre a questo periodo l’adozione sulle bandiere, turche in
particolare, del noto simbolo della luna crescente con vicino la stella. Diverse sono le teorie
sulla sua origine, ma in tutti i casi si ritiene che sia un simbolo di buon auspicio apparso diverse volte in cielo prima di grandi eventi di esito positivo.
26
Rum è il termine per definire i romani e perciò le terre di Bisanzio.
31
un’armata di Malikshah. Anche suo figlio Kilig Arslan, “Leone-Sciabola”,
venne fatto prigioniero e sarà rilasciato appena nel 1092 dopo la morte di
Malikshah. Ritornato nei suoi territori si reinsediò a Nicea e stava di nuovo
lottando per consolidare il suo potere quando i crociati giunsero nel 1096 a
sottrargli la grande città che poi ritornò ad Alessio Comneno.
Kilig Arslan fissò la sua capitale a Konya e si scontrò più volte ora con i
crociati, ora contro gli altri potentati locali, stabilendo alla fine un vasto regno che comprese praticamente tutta l’Asia Minore interna.
La potenza dei Selgiuchidi di Rum si ingrandì fino all’arrivo dei mongoli
Gengiskhanidi, ma nel 1243 subirono da questi una devastante sconfitta nella zona di Erzinkan, a ovest di Erzerum. Sopravvivessero ancora, sia pure
come vassalli, per più di mezzo secolo, testimonianza ulteriore di quanti rapidi potessero essere l’ascesa e il declino dei regni turchi in quelle zone27.
L’ascesa degli Ottomani
1. L’espansione fino al 1400
L’invasione mongola può essere definita per molti aspetti come l’ultima
delle grandi invasioni barbariche. Sebbene si sia fuori del tempo in cui esse
avvennero, lo schema è molto simile e una volta ancora chi fece le spese dei
grandi movimenti di popolazioni che si spinsero verso occidente dall’Asia
centro-orientale fu l’Europa. Il problema in fondo è lo stesso: se una popolazione armata e munita di un esercito potentissimo spinge in una direzione
fino a raggiungere i confini di un altro stato con una sua linea di frontiera
ben definita, le popolazioni che vivono nel mezzo si troveranno di fronte a
due alternative possibili che sono il rimanere sul loro territorio e subire tutta
una serie di devastazioni fisiche e morali oppure premere a loro volta sui
confini dello stato dalla frontiera definita nella speranza di essere accolti o
di conquistare a loro volta con le armi un nuovo territorio proprio in quello
stato. Se ai tempi di Roma i vari movimenti di spinta succedutisi dai Cinbri
e Teutoni sino al crollo dell’Impero Romano d’Occidente portarono ad una
serie di prove durissime per l’Europa centrale e occidentale e al formarsi di
nuove realtà politiche, le invasioni mongole crearono una serie di contraccolpi che modificarono poi per secoli tutto l’assetto politico in Europa orientale, in particolare nell’area balcanica.
Quando Gengis Khan e i suoi successori si spinsero verso ovest, crearono
non solo l’impero più grande della storia del mondo, ma portarono moltissime popolazioni incontrate lungo il loro cammino all’ineluttabile scelta di
finire sotto la “pax-mongolica” o fuggire dinanzi ad essa per mantenere vivi
27
Roux J-P., op. cit., pp. 126-130.
32
i loro costumi e identità. Così fu per molte nuove tribù di ceppo turco che si
spinsero lungo le stesse vie percorse dai loro predecessori per entrare
nell’Impero dei Grandi Selgiuchidi dove trovarono non solo nuove sedi ma
anche nemici contro cui combattere duramente per mantenersi vivi, ingrandendo se possibile i loro territori, in una continua lotta tra regni piccoli e
grandi che si succedettero in continuazione lungo tutto l’arco del 1200 e del
1300.
Un dato interessante è che sebbene tali popolazioni continuarono a vivere
e battersi secondo gli schemi usuali a loro già noti, in parte presero ancora il
meglio degli schemi nuovi incontrati, adattandosi ad essi ed adattandoli alle
loro esigenze. Nella zona di Efeso ad esempio, dunque vicino alla costa, c’è
la città di Aydin, crocevia importante sin dai tempi dei greci e dei romani
che la chiamavano rispettivamente Tralles e Cesarea. Qui venne costituito
uno stato governato da turchi che in breve tempo crebbe in potenza, al punto
che venne costituita una flotta che si spinse predando per tutto l’Egeo e fino
alle coste dei Balcani: si stava piano piano creando il primo embrione di
quella potente flotta turca che si sarebbe sparsa per tutto il Mediterraneo.
Tra tutte le tribù che si affacciarono in questo lungo arco di tempo, una in
particolare si rese presto nota. Era una tribù Oghuz che discendeva da quella
dei Qayi e che prese anch’essa come d’uso il nome da uno dei suoi fondatori: Osman I (1299-1324)28. Il nome divenne in turco Osmanli o Osmanoghullari, “I Figli di Osman”, passati alla storia come gli Ottomani.
La loro origine è complessa e si svolge su un periodo lungo dato che la
loro migrazione iniziò verso l’Armenia già ai tempi dei Selgiuchidi e proseguì anche durante le invasioni mongole. Purtroppo è ovvio che tanto più il
soggetto è importante tanto più gli storici epigoni successivi hanno teso ad
infiorettarne le origini. Così per gli Ottomani ancora oggi è molto difficile
discernere il vero dato storico dall’epopea leggendaria, ma si deve sempre
tenere anche presente che ci troviamo di fronte a tipi di culture dove la tradizione orale la fa da padrona sui testi scritti e che per giungere alla storiografia moderna occidentale, dove tutti gli avvenimenti vengono soppesati e
datati, si dovrà aspettare ancora diversi secoli. Alcuni dati sono tuttavia certi. Ad esempio si sa che intorno al 1225, due anni prima della morte di Gengis Khan e la conseguente scissione del suo impero in quattro parti tra gli
eredi, gli Osmanli si erano insediati nella zona di Ahlat, sulla riva occidentale del lago Van e poco a sud di Manzikert. Dopo alterne vicende essi si spostano più a ovest e ricevono dai Selgiuchidi di Rum un beilicato, cioè un
28
La data di morte oscilla tra il 1324 e il 1326, non sembra comunque che dopo il 1324 abbia esercitato il potere effettivo. Mantran R. (a cura di), Storia dell’Impero Ottomano, Argo, Lecce, 1999, p. 31.
33
feudo governato da un Bey o “Signore” niente meno che nella zona dell’antica Bitinia, l’area asiatica proprio davanti a Costantinopoli. Si trattava come
chiaro di una terra di confine posta sul limite dei territori musulmani, quindi
estremamente instabile e pericolosa per un signore che avesse voluto aumentare le proprie ricchezze in tranquillità. Osman e i suoi successori dimostrarono invece di essere in grado di sfruttare al meglio l’occasione che veniva loro offerta di far fortuna ed accrebbero rapidamente in potenza e soprattutto in forza militare, stimolati dalla situazione di tensione e rischio cui
erano sottoposti costantemente. Tutti gli avventurieri e sinceri ghazi, soldati
impegnati nel jihad, “La Guerra Santa”, dell’Anatolia finirono con l’abbracciare la causa Osmanli perché sapevano che lì si poteva sperare di far
fortuna e servire la Vera Fede in modo adeguato. Uno dei pregi tra l’altro
che permise alla nuova dinastia di accrescersi fu che essi si ben guardarono
dal cadere nella tentazione a cui avevano ceduto tanti potenti prima di loro:
evitarono di farsi invischiare nelle lotte per le successioni dei Selgiuchidi e
si posero come unico obiettivo di combattere contro i Bizantini, cosa che fecero distinguendosi sempre magnificamente.
In pochi decenni, partendo dalla loro base a Yenisehir a sud-ovest di Nicea, gli Osmanli si espansero lungo tutta la costa che va dal Mediterraneo a
Pergamo fino a quella del Mar Nero, occupando Nicea stessa e la vicina
piazzaforte di Bursa, l’antica città che era stata ridisegnata da Annibale
quando, in fuga dai romani, vi aveva soggiornato per un certo periodo29.
Questa città proprio nel 1326 divenne la loro nuova capitale e qui venne
seppellito Osman in uno splendido mausoleo.
Sebbene la data ufficiale d’inizio della potenza ottomana sia stata posta
nel 1299, si vuole che il vero fondatore sia il figlio di Osman, Orkhan
(1326-1359), che ebbe la gran fortuna di avere un fratello che non si mise in
lotta contro di lui, ma anzi ne divenne il Visir. Questi fu Ala ad-Din che lo
coadiuvò, anche se per pochi anni, fino al 1333, causa la sua morte prematura. Orkhan si dimostrò un accorto organizzatore, amministratore e comandante. Diede particolare impulso a migliorare l’urbanistica di Bursa, coniò
nuova moneta e soprattutto avviò una grande riorganizzazione militare, intorno al 1330, che permise di passare dal semplice sistema usato sino ad allora, tipico del mondo nomadico da cui gli Ottomani provenivano, ad uno
molto più sofisticato. In pratica si univano i due sistemi di arruolamento di
truppe in genere, dove ad una forte presenza di irregolari e armati alla leggera tipici delle steppe, si univano truppe professioniste notevolmente preparate ad ogni livello. L’esempio eclatante furono gli yeni ceri, i famosissimi
giannizzeri, all’inizio un corpo di appena 1000 uomini che col tempo arriva29
Granzotto G., Annibale, Mondadori, Milano, 1980, pp. 306-307.
34
rono fino al considerevole numero di 30.000 dopo Solimano. Vedremo in
dettaglio nei prossimi paragrafi le caratteristiche di questo splendido corpo
d’élite assieme a tutti gli altri. Qui basta sottolineare il fatto che con truppe
del genere e con un sistema, che migliorava di colpo tutto lo standard delle
forze a loro disposizione, i generali ottomani divennero in poco tempo la realtà militare più potente in tutto il territorio. La dimostrazione ce la dà la
stessa politica adottata da Orkhan: tanto prudente era stato suo padre, tanto
aggressivo divenne lui e i risultati parlano da sé.
Nel 1331 strappò ai Bizantini Nicea (Iznik), nel 1337 Nicomedia (Izmit).
Iniziò ad aggredire i potentati turchi vicini e in vent’anni tra il 1335 e il
1354 conquistò tutto il beilicato di Karesi. In pratica alla sua morte il regno
era più che raddoppiato, grazie anche al validissimo aiuto del suo figlio Sulayman Pasha che purtroppo premorì al padre nel 1357.
Ma il vero merito di Orkhan fu quello di realizzare acutamente una spinta
decisiva verso occidente. Se conquistare Costantinopoli in modo diretto era
prematuro, mosse tutti i passi necessari per “aggirare” letteralmente l’ostacolo, sia dal punto di vista diplomatico che politico e militare. Si sposò con
Teodora, la figlia dello stesso imperatore Giovanni VI Cantacuzeno (13471355), ma di nascosto appoggiò il suo rivale Giovanni V Paleologo (13411376 e 1379-1391). Infine compì il passo più decisivo entrando in Europa là
dove l’Impero era più debole. Visto che lo stretto del Bosforo era impassabile varcò quello dei Dardanelli, esattamente per la stessa via percorsa 1800
anni prima dai Persiani di Serse; era il 1346. Nel 1357 Gallipoli era oramai
saldamente in mano ottomana e fu così che il successore Murad I Hudavendigar, “il Guerriero di Dio” (1359-1389), proseguì seguendo la stessa linea
espansionistica conquistando Adrianopoli (Edirne) tra il 1361 e il 1362 e facendone la sua seconda capitale stavolta in territorio europeo. Nel frattempo
i suoi generali si spingevano decisamente verso ovest in Tracia greca e verso
nord in Bulgaria, dove venne occupata Filippopoli (Plovdiv). Davanti a questa marea montante anche in Europa si cominciò a temere il peggio e lo stesso papa Urbano V indisse una crociata. Purtroppo lo spirito che aveva pervaso i cristiani in occidente tre secoli prima si era molto affievolito. I soli a
rendersi conto del pericolo che stava correndo l’Europa furono i cristiani orientali: ungheresi, serbi, bosniaci, valacchi, bulgari e macedoni parteciparono in massa, ma vennero ripetutamente battuti dapprima nel 1363 ed infine nella terribile battaglia di Kossovo del 15 giugno 1389. L’unica soddisfazione che ebbero fu di veder morire in quello scontro Murad stesso che venne pugnalato dal serbo Milosz Kobilovic, ma tutto fu invano. Il vero dramma dell’Europa balcanica era la profonda disunione che regnava tra i vari
popoli e fin troppo spesso regni proprio come quello serbo fecero il doppio
gioco nel tentativo di ingrandirsi a spese degli altri. Molte volte tra le file
35
degli ottomani si videro militari ausiliari serbi, mentre popoli come quello
macedone, finirono col pagare sempre più il prezzo di essere sulla linea di
confine con le terre dell’Islam e nel contempo di abitare una terra crocevia
di ingresso e uscita per l’Europa che sarebbe finita ai margini della sua storia.
Sempre in quegli anni continuò ancora l’espansione ottomana verso est.
Morto Murad I, il figlio Bayezid I Yildirim, “il Fulmine”, (1389-1402), riuscì ad annettere i territori di Germiyan, a sud di Bursa, grazie anche al fruttuoso matrimonio con la figlia del bey di questo regno. Si spinse sempre più
a oriente occupando una dopo l’altra tutte le città principali dell’Asia Minore e giungendo fino alle rive dell’alto Eufrate. Oramai quasi tutta l’Anatolia
era in mano ottomana, mentre a ovest i loro contingenti facevano incursioni
sempre più frequenti spingendosi in Valacchia, Bosnia e addirittura in Ungheria. Per Costantinopoli suonò la campana a morte già una prima volta
perché venne assediata per sette anni. A nulla valsero gli appelli anche se vi
fu una notevole risposta stavolta dall’occidente. Su iniziativa di re Sigismondo d’Ungheria si venne a radunare un’armata crociata degna dei tempi
passati. Furono davvero molti i contingenti che vi presero parte provenienti
da quasi tutti gli stati ed anche gli ordini cavallereschi più importanti: francesi, borgognoni, alcuni italiani e polacchi, Cavalieri Teutonici e Ospitalieri
di Rodi. Tutto questo fu inutile. Il 25 settembre 1396 l’armata crociata venne letteralmente annientata a Nicopoli e Bayezid, che venne giustamente soprannominato Yildirim “il Fulmine”, poté proseguire la sua serie di conquiste scendendo in Tessaglia e prendendo Atene e il Peloponneso. Lui stesso
disse che si sarebbe permesso il lusso di far mangiare l’avena al suo cavallo
sull’altare della cattedrale di Roma. Sembra un’affermazione razzista, ma la
realtà è che avrebbe forse potuto anche riuscire nel suo intento perché nulla
sembrava ormai frapporsi ai suoi piani di conquista30.
Per fortuna qualcuno di più potente di Bayezid c’era e la minaccia si materializzò proprio in quegli anni per l’ennesima volta e sempre dalla stessa
via da cui erano giunte le precedenti. Verso il finire del 1300 tutto il Turkestan e l’Asia centrale erano stati unificati dall’ultimo dei grandi condottieri
di stirpe mongola anche se oramai turchizzata. Timur i-Lenk, “lo Zoppo”,
noto in occidente come Tamerlano (1370-1405) sperava di ricreare la grandezza dell’Impero di Gengis Khan e anche lui quasi vi riuscì se una disgraziata congestione polmonare non avesse posto fine ai suoi progetti mentre si
accingeva ad invadere e conquistare anche la Cina dei Ming il 19 gennaio
30
Oman Sir C., The Art of War in the Middle Ages vol. two:1278-1485 AD, Greenhill Books, Londra, 1991, pp. 336-354 e Roux J-P., op. cit., pp. 187-190.
36
140531. Per fortuna una simile disgrazia venne evitata in oriente, ma prima
Tamerlano riuscì a compiere quello che tutte le armate crociate non erano
riuscite a fare: fermò Bayezid.
2. Il disastro di Ankara
Anche se ci porta lontano dalla nostra esposizione è utile soffermarsi brevemente su ciò che avvenne nello scontro tra questi due titani, non tanto per
ciò che successe, ma per ciò che sarebbe potuto accadere.
L’inizio del 1402 segna un punto di svolta nella storia dell’Asia Minore e
degli imperi Bizantino e Ottomano. Tralasciando le lunghe e complesse azioni che precedettero gli avvenimenti, basta notare che all’inizio di quell’anno l’Impero Bizantino sembrava destinato a cadere. Oramai, a parte la
Morea, l’unico territorio che in pratica gli rimaneva era quello della capitale.
Il punto di forza che lo salvava era il predominio sul mare. L’Imperatore
Manuele II (1391-1425) riuscì a chiedere ed ottenere aiuti dovunque, ma
nonostante tutto Bayezid I pose l’assedio alla Roma d’Oriente. Sembrava
che oramai tutto fosse sul punto di crollare quando all’improvviso un giorno
si presentarono nel campo ottomano gli ambasciatori di Tamerlano. Il loro
sovrano mandava ad avvertire Bayezid di togliere l’assedio alla città. Se ci
si pensa un attimo è chiara tutta la manovra politica e diplomatica che c’è
dietro; ciò che affascina è che sembra di assistere ad un’azione simile a
quella accaduta 140 anni prima quando in Europa giunse la celebre lettera
(falsa) del Prete Gianni che invocava un’alleanza tra Oriente ed Occidente
contro l’Islam. Qui il risvolto religioso potrà anche mancare, ma si nota una
delle prime azioni “ad ampio respiro” per così dire che coinvolgono i due
continenti: la politica internazionale si allarga sempre più e coinvolge direttamente le grandi potenze lungo la Via della Seta.
Il Sultano ebbe una reazione terribile e probabilmente era proprio questo
lo scopo di Tamerlano: come poteva un sovrano sia pur potente ma così lontano venire a imporre a lui, grande signore ottomano, una cosa del genere?
L’assedio venne tolto subito e l’armata al completo si trasferì al di là del
Bosforo. Bayezid era al corrente della potenza dell’avversario, così come
sapeva che molti signori delle zone orientali ottomane erano degli alleati instabili; tuttavia l’esercito nuovo forgiato in quei decenni e che basava il suo
fulcro sul crescente corpo dei giannizzeri e dei sipahi, la potente cavalleria
professionista, oltre che degli altrettanto potenti alleati come il re serbo Stefano Lazarevic, davano la notevole sicurezza che anche le numerose orde
del Turkestan avrebbero dovuto preoccuparsi del risultato di uno scontro di31
Roux J-P., Tamerlano, Garzanti, Milano, 1995, pp. 122-124.
37
retto. In tutti quegli anni, a parte pochi casi, gli Ottomani erano sempre stati
trionfanti, perciò si doveva accettare di combattere anche questa battaglia,
ne andava del prestigio di tutta la dinastia.
Fu così che Bayezid avanzò nel centro dell’Anatolia fino ad Ankara. Qui
si innescò una serie di abili mosse e contromosse condotte da Tamerlano e
dai suoi generali. In pratica il Sultano venne indotto ad abbandonare la zona
della città per timore che venisse devastata, vista l’impellente stagione dei
raccolti. Si spinse in zona arida verso est, tuttavia aveva un alto numero di
fanti che patirono enormemente la sete. Tamerlano si mosse abilmente prima a sud-ovest e poi a nord, oltrepassando l’armata nemica e accampandosi
in breve esattamente dove essa si era trovata pochi giorni prima. Prese così
tutte le fonti d’acqua e, deviati persino i ruscelli, non restò che attendere il
ritorno degli assetati uomini di Bayezid. Perché questi fu così sciocco viene
dibattuto ancora oggi, ma è chiaro che l’orgoglio in lui ebbe un peso notevole perché sbagliò non una ma ben due volte! Avrebbe potuto ritirarsi in zona
montuosa, ricca d’acqua, aspettando che Tamerlano esaurisse i rifornimenti:
dopo tutto era lui che si trovava lontano dai suoi territori e in terra nemica.
Gli storici dell’epoca, sia pur ingigantendo le cifre come d’uso, hanno parlato di 1 milione di uomini coinvolti; anche se si esagera, il totale doveva aggirarsi sulle 3-400.000 unità e gestire armate di questo genere anche
all’epoca, richiedeva sforzi immensi. Purtroppo il Sultano fece la scelta sul
momento meno sicura, decidendo di attaccare. La battaglia di Ankara venne
combattuta il 28 luglio, durò tutto il giorno e con diversi ribaltamenti di
fronte ma, alla fine, la lungimiranza di Tamerlano nella predisposizione strategica ebbe il sopravvento, soprattutto quando svariati contingenti di turchi
“orientali” tradirono gli Ottomani “occidentali”, rei tra l’altro di essersi
troppo sedentarizzati ai loro occhi. Nonostante i giannizzeri e i serbi compissero atti di supremo valore, per Bayezid fu la catastrofe: l’armata andò in
pezzi e lui stesso venne catturato. Morirà alcuni mesi dopo di crepacuore,
lasciando il suo regno davanti ad un disastro senza precedenti ma per fortuna con ben 4 eredi maschi pronti a disputarselo.
Cosa sarebbe successo se Bayezid avesse trionfato? Si può ben immaginare che per il Turkestan non sarebbe cambiato molto: alla morte di Tamerlano i suoi discendenti timuridi, non seppero mantenere quell’unità che lui
aveva saputo garantire sacrificando tutta la sua vita in guerre continue. Tuttalpiù il territorio ottomano avrebbe potuto espandersi verso oriente ancora
maggiormente. Ma è in occidente che si deve guardare per fare le considerazioni più ovvie ed importanti. Il disastro di Ankara e la morte di Bayezid lasciarono un vuoto terribile nell’apparato militare e politico ottomano. Per
fortuna, nei dieci anni che seguirono si ebbe la dimostrazione palese di
quanto buono fosse il sistema che era stato creato e collaudato in quei de38
cenni. Lo stato ottomano non crollò e alla lunga le fila poterono essere rinsaldate appena si ebbero dei nuovi sultani come Maometto I (1403-1421),
Murad II (1421-1451) e soprattutto Maometto II (1451-1481). Nonostante lo
sfacelo e la conseguente invasione di Tamerlano, i territori e gli apparati ottomani resistettero. Si tratta come si vede di una situazione simile in parte a
quella di Roma repubblicana all’indomani delle sconfitte delle “Tre T” e di
Canne: se anche Annibale aveva annientato almeno dieci legioni, lo stato
reggeva ed i vantaggi di questo si sarebbero visti molto presto32.
3. La caduta di Costantinopoli
In appena nove anni gli Ottomani si ripresero. Questo periodo, durante il
quale Maometto I Celebi, “il Signore”, riuscì a liberarsi di tutti gli altri pretendenti al trono, fu significativo. Le due parti del regno si comportarono in
modo diverso. Quella asiatica ebbe varie vicissitudini, con lotte e scontri,
anche perché era quella attraverso cui era passata l’orda timuride. La parte
europea godette di tranquillità, rimanendo perciò fedele alla casata degli
Osmanli. In particolare furono proprio gli europei e in primis i Bizantini che
si mantennero calmi, permettendo nel lungo periodo la ripresa ed una rappacificazione anche di quelle aree asiatiche dove il potere ottomano era venuto
meno.
Il successore Murad II ebbe un esordio terribile per il suo regno. Tentò
un infruttuoso assedio prima di Costantinopoli e poi di Belgrado. Anche
contro di lui venne indetta un’ennesima crociata il cui capo ideale fu il voivoda (governatore) di Transilvania Giovanni Hunyadi. A lui si unirono contingenti di tedeschi, polacchi, ungheresi e di varie parti dei Balcani compresi
gli albanesi del grande eroe Skanderberg. Murad II venne sconfitto e costretto a firmare la pace a Szeged nel 1444. Nonostante questi rovesci però ebbe
modo di riprendersi, dopo che i cristiani avevano rotto la tregua e a batterli
in due scontri decisivi a Varna e nella seconda battaglia di Kossovo nel
1448. Quando morì, il regno ottomano era ritornato al suo apogeo raggiunto
cinquant’anni prima.
Il nuovo sultano divenne il giovane Maometto II Fatih, “il Conquistatore”. Fu proprio con lui che si realizzò il grande progetto sognato dall’Islam
in otto secoli di esistenza. Narra una storia che il Profeta Maometto un giorno del 627 avesse detto di Costantinopoli: “Fortunato l’esercito, fortunato il
capo che la prenderà”. Sin dai primi tempi dell’espansione musulmana la
32
Oman Sir C., op. cit., pp. 354-355 e Vickers R., Great Medieval Battles 1001-1500 A.D.,
SPI, New York 1979, pp. 10-11.
39
città di fronte al Corno d’Oro era stata un sogno anche troppe volte irraggiungibile: ora questo sogno divenne finalmente realtà.
Nulla venne lasciato al caso questa volta. La città oramai era praticamente isolata; l’unica via che era rimasta sempre aperta era quella marittima,
dove il predominio navale cristiano era assoluto, sia bizantino che delle repubbliche marinare, prima fra tutte Venezia che tanto aveva appoggiato Costantinopoli, guadagnando in cambio basi commerciali e politiche che l’avevano trasformata in una potenza navale di prim’ordine33. Ora però anche
gli Ottomani avevano una flotta. Maometto II schierò ben 350 navi tra fuste
e galee nelle acque vicino alla città. Prima però fece un passo decisivo: costruì una nuova fortezza, la Rumeli Hisar “Fortezza di Rumelia”, sulla
sponda europea e di fronte alla Anadolu Hisar “Fortezza d’Anatolia” che
aveva già eretto Bayezid ed era posta sulla sponda asiatica del Bosforo, in
modo da chiudere il traffico marittimo da e per il Mar Nero. Poi radunò
l’armata che iniziò ad avanzare sotto alle mura più imprendibili d’Europa.
La notte del 23 aprile 1453 fece portare via terra parte della sua flotta dal
Bosforo al Corno d’Oro, un’impresa che stupì gli stessi Bizantini che il
giorno dopo videro dovunque le navi turche. Infine, poiché Maometto stesso
era un grande appassionato di poliorcetica, fece fondere ed avvicinare a portata delle mura una quantità innumerevole di cannoni di vario calibro, tra cui
ne spiccava uno in particolare: era un vero mostro creato dal famoso maestro fonditore Urban di origine ungherese e che diede il suo stesso nome a
questo grande cannone d’assedio. Il paradosso più triste è che qualche tempo prima Urban aveva offerto i suoi servigi allo stesso Imperatore Costantino XI (1449-1453) che però li aveva rifiutati; a quel punto l’ungherese li offrì a Maometto e così la città cadde anche a causa di un cristiano che aveva
preferito il denaro ai suoi principi religiosi. Si deve sottolineare che in
quest’occasione i princìpi degli stessi prìncipi cristiani (si scusi il gioco di
parole) furono altrettanto freddi. Dall’Europa poche furono le forze che
giunsero in aiuto di una causa che molti ritenevano già persa in partenza.
Fu così che, dopo appena un mese d’assedio, il 29 maggio Costantinopoli
cadde. Maometto II Fatih entrò nella Basilica di Santa Sofia che venne subito trasformata nella moschea più importante di tutto l’Islam occidentale; la
capitale venne trasferita e il nome della città da allora divenne Istanbul.
L’Impero Ottomano era divenuto una potenza vera e propria anche se lo era
già di fatto e, come sostengono molti storici, finì il Medioevo ed iniziò l’Epoca Moderna.
Da questo punto di vista tuttavia andrebbe fatta subito una precisazione.
Se anche quel 29 maggio 1453 suonò come una campana a morto per gli ul33
Nicolle D., The Venetian Empire 1200-1670, Osprey, Londra, 1989, pp. 3-19.
40
timi resti dell’Impero Romano e di tutto un modo di concepire la politica, i
commerci e il Mondo, per l’Europa fu finalmente l’occasione per abbandonare in modo definitivo il vecchio abito degli stili di vita e per assumerne di
nuovi. Il primo e più immediato contraccolpo fu quello di iniziare a pensare
non più in termini “mediterranei”, ma “atlantici” e perciò oceanici. La via
della seta terrestre oramai era preclusa ai ricchi mercanti europei e, sia pur
controvoglia, si dovette mettere mano alla borsa, per cercare delle vie della
seta marittime con i risultati che ben si conoscono. In questo si può dire che
l’ultima parola quel giorno a Costantinopoli non la ebbero gli Ottomani ma
proprio gli sconfitti. Forse la più bella definizione che mai è stata data di
questo momento storico è quella espressa da Sir Mark Sykes che ha lapidariamente detto: “... la corruzione di Bisanzio … la burocrazia, gli eunuchi, le
guardie di palazzo, le spie, i corruttori e gli amanti del compromesso – gli
Ottomani acquisirono tutto questo, e tutto questo sopravvisse in una vita di
lussi. I Turchi, nel prendere Costantinopoli, persero un tesoro e guadagnarono una pestilenza ...”. Secondo il vecchio adagio che i germi della sconfitta
albergano nella vittoria (e viceversa), Maometto II conquistò, è vero, una
grande metropoli, ma questa rappresentava un mondo vecchio e in sfacelo
da secoli. Al contrario fu proprio questo “crollo” che portò nei secoli successivi a quella spinta di idee in Europa che culmineranno nell’apertura verso nuovi mondi e rotte da percorrere in tutti gli angoli più nascosti della Terra. La riprova ci viene data immediatamente: con la fine del Medioevo iniziò il 1500, uno dei secoli più belli della storia dell’umanità34.
4. L’Impero in espansione
Stabilita la nuova capitale, Maometto II decise di dare all’Impero quella
fama che sarebbe durata attraverso i secoli. Uno dei primi atti fu la promulgazione del codice legislativo passato alla storia come Qanunname. Si avviò
allo stesso tempo una politica di integrazione che mirava ad evitare la turchizzazione a tutti i costi, ma anzi, dava una giusta collocazione a tutti i
gruppi sia a livello religioso che sociale. In particolare ai cristiani vennero
concessi grandi privilegi e questo ad ogni branca: ortodossi, cattolici, armeni e siriaci, così come vennero tutelati anche gli ebrei. Nel contempo a fianco dei tribunali classici dove operava il qadi, il giudice incaricato di inter34
Roux J-P., Storia dei Turchi, op. cit., pp. 209-210; Mantran R., op. cit., pp. 69-102; Herm
G., I Bizantini, Garzanti, Milano, 1989, pp. 278-302; Runciman S., Gli ultimi giorni di Costantinopoli, Piemme, Casale Monferrato, 1997, pp. 99-108; Nicolle D., Costantinople
1453, Osprey, Oxford, 2000, pp. 7-18 e Vickers R., The Siege of Costantinople, in Strategy
& Tactics, n. 66, SPI, New York, 1978, pp. 4-17.
41
pretare la Sharia, la legge dell’Islam, vennero anche istituiti quelli ecclesiastici.
Ci si rendeva conto che la cosa migliore era curare il benessere dei sudditi, altrimenti non una, ma cento rivolte avrebbero rischiato di scoppiare per i
più svariati motivi. Come ha ben sintetizzato Jean-Paul Roux, l’Impero Ottomano si avviò così a diventare quella monarchia assoluta e dispotica sì,
dove tutto partiva da e ritornava al sultano, cui tutti i sudditi dovevano cieca
obbedienza, ma che da parte sua avrebbe dovuto garantire il buon governo a
tutti con un mix ben calibrato di lassismo, qualche elemento centrifugo e alcuni altri democratici e liberali35.
Accanto a tutto ciò va aggiunto che anche nel mondo musulmano si sentiva il crescente desiderio di “allargare i confini” della propria conoscenza e
del proprio mondo. E’ il periodo che preannuncia le grandi esplorazioni del
1500 e i cambi di pensiero nel modo di concepire se stessi e le terre dove si
abita. L’uomo desidera conoscere e spingersi oltre l’orizzonte: così Ibn Battuta, sia pur vissuto cent’anni prima e secondo altri schemi, così Cristoforo
Colombo e Vasco da Gama. L’Impero Ottomano non fu esente da questa
sorta di “febbre” che si stava espandendo un po’ ovunque e questo mentre
gli stessi confini politici venivano spinti in tutte le direzioni. Sono innumerevoli coloro che si potrebbero citare e che attestano l’amore per la geografia e le esplorazioni che si stava sviluppando. Il primo e più famoso è Piri
Reis (1465 o 70-1554) che scrisse il Kitabi-Bahriye, “il Libro del Mare”,
una pregevole opera sul Mediterraneo; ma ci sono anche altri come Seyid
Ali Reis (1498-1563), autore del Muhit, “l’Oceano”, un trattato di astronomia nautica che descrive principalmente i mari delle Indie, dove lui combatté i portoghesi, ed anche il Mirat ul Memalik, “lo Specchio dei Paesi”, che in
pratica è la relazione del suo viaggio di ritorno dalle Indie fino ad Istanbul36.
Il successore Bayezid II Veli “Il Custode” (1458-1495) fu un uomo più
pacifico di suo padre, ma anche se preferì il dialogo alle guerre, i suoi generali continuarono a cogliere vittorie. Ebbe anche un difetto: introdusse
l’usanza di fare una sorta di “dono dell’avvento” al corpo dei giannizzeri,
un’abitudine simile a quella degli imperatori romani verso i pretoriani che
poteva solo spingersi in avanti, aumentando nel tempo di sovrano in sovrano
e che alla lunga creerà solo orgoglio non meritato in questo corpo d’élite che
avrebbe dovuto proteggere le istituzioni e non gestirle a proprio uso e consumo.
35
Roux J-P., op. cit., p. 211.
Dunn R.E., Gli straordinari viaggi di Ibn Battuta, Garzanti, Milano, 1993, pp. 17-29 e
Mantran R., La vita quotidiana a Costantinopoli ai tempi di Solimano il Magnifico, Rizzoli,
Milano, 1985, pp. 284-285.
36
42
Il terzo figlio di Bayezid, Selim I “Il Terribile” (1512-1520) decise che
era meglio detronizzare il padre e seguire il consiglio di suo nonno di eliminare tutti i famigliari che avrebbero potuto intralciarlo in qualche modo. Fu
sotto di lui che l’Impero si spinse in direzione sud verso i luoghi santi
dell’Islam. Vennero occupati la Siria e l’Egitto, dove i Mamelucchi vennero
sconfitti il 22 febbraio 1517 nella battaglia del Monte Mukattam37. Aleppo,
Hama, Homs, Damasco, Gerusalemme, Il Cairo, Alessandria, tutte le più
grandi città e metropoli musulmane finivano sotto gli Osmanli e alla fine ci
si spinse fino a Medina e alla Mecca. Da quel momento gli Ottomani e così
il loro sultano divennero i difensori dei credenti, titolo che sarebbe rimasto
fino al crollo dell’Impero nel 1922. Un ruolo di grande importanza, ma con
pesanti responsabilità perché chiunque avesse aspirato all’autonomia, avrebbe fatto di tutto per contrastare la Sublime Porta di Istanbul. La minaccia più grave in questo senso si materializzò proprio in quei decenni con
l’avvento dei Safavidi di Persia, dopo i Fatimidi il primo vero grande regno
dove lo sciismo si sarebbe eretto come eterno rivale degli ottomani sunniti,
scatenando una serie pressoché ininterrotta di guerre che portarono, anno
dopo anno, ad un continuo stillicidio di forze che altrimenti si sarebbero potute impiegare proficuamente altrove. L’odierno Iraq divenne una sorta di
campo di battaglia dove, a danno dei due imperi e a tutto vantaggio dell’Europa, si scontrarono i due rami dell’Islam senza che nessuno dei due riuscisse mai a prevalere realmente sull’altro.
Solimano il Magnifico
Qanuni Sultan Sulayman (1520-1566), noto come “Solimano il Magnifico”, si può giustamente definire come il Padishah, il “Sultano dei Sultani”,
sotto il cui regno l’Impero Ottomano raggiunse l’apogeo. I motivi sono molti e tutti di grande rilevanza storica. Se si parte dal presupposto che il suo fu
il regno più lungo tra tutti gli Osmanli, si dovrebbe già capire il perché, ma
37
Quello dei Mamelucchi è uno dei regni e degli eserciti più affascinanti della storia
dell’Islam. Nati come corpo di soldati d’élite ex-schiavi, simili in questo ai giannizzeri, avevano preso il sopravvento in Egitto intorno al 1250, dove fondarono un loro sultanato indipendente. Espertissimi in combattimento, in particolare a cavallo, divennero un terribile
nemico e vicino per molti regni. Tra le loro imprese più notevoli si ricordano la sconfitta
dei mongoli dell’Ilkhanato di Persia ad Ain Jalud nel 1260 in Siria e la conquista di San
Giovanni d’Acri nel 1291, ultima capitale in Terra Santa del Regno di Gerusalemme. Sebbene sottomessi dagli Ottomani, essi continueranno nei secoli seguenti a distinguersi come
guerrieri d’élite, al punto che verranno in piccola parte inseriti anche nella cavalleria della
guardia imperiale di Napoleone, dopo che questi li ebbe sconfitti nell’altrettanto famosa
battaglia delle Piramidi nel 1798. Nicolle D., The Mamluks 1250-1517, Osprey, Oxford,
1998, pp. 3-10.
43
questo in fondo non spiega nulla. In realtà, come per tutti i grandi sovrani,
lui fu il prodotto di un sistema già ben avviato e raffinato; visse godendo da
un lato i frutti di un albero splendido che i suoi predecessori avevano piantato e fatto crescere nel migliore dei modi e che ora era al massimo del suo rigoglio, dall’altro la particolare congiunzione temporale creatasi nel XVI secolo, secolo come detto fra i più splendidi per l’Europa e il Vicino Oriente.
A ben guardare non si riesce a cogliere proprio dal punto di vista geografico
il luogo in cui fermarsi perché se si procede verso est in Asia il 1500 fu un
secolo splendido e di grande importanza anche per l’India, dove sorse l’Impero Mughal, la Cina, dove la dinastia Ming raggiunse anch’essa l’apogeo e
persino il Giappone, dove nonostante il terribile Sengoku Jidai “Il Periodo
del Paese in Guerra”, crebbero e si affermarono i tre grandi riunificatori Oda
Nobunaga, Toyotomi Hideyoshi e Tokugawa Ieyasu.
Fin dal XV secolo i sultani ottomani avevano già costruito uno stato ben
organizzato e forte, sia militarmente ma anche e soprattutto dai punti di vista
culturale e amministrativo. Ora, dopo la spinta verso est e sud da parte dei
suoi predecessori, Solimano poté continuare l’espansione nelle due direzioni
rimanenti: l’ovest con tutta la fascia del Nord Africa e soprattutto il nord,
puntando verso l’Europa centrale.
In realtà già sotto Selim I, c’era stata una grossa espansione nel Mediterraneo occidentale, visto che fin dal 1519 era stata accorpata l’Algeria. Con
Solimano si riunifica tutta la fascia costiera nel mezzo tra questa e l’Egitto.
Nel 1521 la Cirenaica e Bengasi, nel 1534 la Tunisia con Tunisi e la terribile
isola pirata di Djerba, la Tortuga dei pirati barbareschi, e infine nel 1551 la
Tripolitania con Tripoli. Tutte queste zone finiscono col cadere in mano ottomana, sebbene non come province dirette dell’Impero ma quasi sempre e
ovunque come stati satelliti di esso, ma sempre con esso collegati. E’ una
fase importantissima perché ci dà l’idea di quanto non solo l’espansione terrestre sia divenuta immensa ma in particolare di come oramai il Mar Mediterraneo sia divenuto un Mare Ottomano. La potenza marittima turca raggiunge il suo apice al punto da competere e surclassare ogni singola marina
cristiana che si affacci su questo mare. Le stesse isole, piccole e grandi, rimaste in genere in mano alle repubbliche marinare, prima fra tutte Venezia
che controlla ad esempio Creta e Cipro, si trovano di anno in anno davanti
alla continua necessità di confrontarsi in pace e in guerra con la competitività assidua degli Ottomani. Tutto il commercio orientale è in mano di questi,
oltre al fatto, tristemente noto in Italia, che la pirateria barbaresca infesta
continuamente non solo le rotte commerciali, ma le stesse coste dell’Europa
meridionale perché il mercato degli schiavi è ancora uno dei più fiorenti e
attivi e la merce che essi rappresentano viene distribuita in tutti i mercati
delle città rivierasche e non del Nord Africa e del Vicino Oriente.
44
Uno dei ruoli più importanti nell’espansione ottomana in campo navale
lo svolgono lungo tutto l’arco del 1500 proprio i capi pirata e corsari turchi.
Come nella Cina imperiale, così anche qui i sultani preferiscono “perdonare” molto spesso personaggi, la cui fedina penale farebbe inorridire i peggiori criminali anche oggi, e li assumono direttamente come ammiragli. Spesso
e sovente non si tratta neanche di turchi, ma di membri delle comunità cristiane o ex prigionieri. Tra di essi i fratelli Barbarossa, Aruj Re’is e in particolare Khair ad-Din (ca. 1467-1546) di origine greca, o il calabrese Kilig (o
Uluch) Alì Pasha, sono solo i più famosi di una folta schiera di combattenti
nati ed espertissimi navigatori. Non deve meravigliare se il Gran Sultano li
assunse come ammiragli: Napoleone per risolvere il problema della criminalità a Parigi e nelle altre città non assunse forse François Vidocq, il più gran
ladro di Francia, e tutta la sua banda per fondare la Suretè? Il fuoco va combattuto col fuoco e così l’Impero Ottomano crebbe e prosperò e i suoi sudditi vissero in pace. Una pace relativa se si considera che con la stessa moneta,
potenze come la Spagna, Genova o gli Ospitalieri di Rodi prima e di Malta
poi, ripagavano gli Ottomani e i barbareschi facendo continue incursioni
lungo le loro rotte e nelle loro basi, in uno stillicidio di abbordaggi e sbarchi. Uno dei più grandi ammiragli cristiani del 1500 fu Andrea Doria che
svolse lo stesso mestiere degli ammiragli turchi di allora38.
La spinta espansiva di Solimano sul mare e verso ovest è forse la meno
appariscente anche se molto vasta, mentre è sempre sulla terra che si raggiungono i risultati più concreti. Ancora verso sud ed est nel 1534 vengono
presi lo Yemen e l’Iraq fino al Kuwait, giungendo quindi rispettivamente al
Mare Arabico e al Golfo Persico. Fin dall’inizio la spinta maggiore però si
manifesta verso nord. Solimano già nel 1521 attacca e prende Belgrado che
diventa in pratica la base maggiore per ogni campagna successiva. In seguito si inizia a dilagare nell’Ungheria, il cui regno presenta una situazione di
debolezza non tanto per motivi militari ma perché ai vertici c’è una continua
lotta di interessi per chi deve governare. Dopo la breve pausa del 1522, in
cui viene conquistata Rodi agli Ospitalieri, primo vero e proprio successo su
larga scale negli sbarchi anfibi della storia ottomana, viene montata un’invasione che, sfruttando i fiumi Sava e Drava, mira a risalire lungo il Danubio per giungere a prendere Buda, la capitale del regno. Sulle prime gli invasori ottomani non incontrano resistenza sul campo e varie fortezze cadono
una dopo l’altra. Nel 1526 si giunge allo scontro decisivo a Mohacs, proprio
sul Danubio a metà strada fra Belgrado e Buda. Anche questa battaglia, come molte altre precedenti quali Nicopoli, presenta lo stesso schema nello
schieramento e nella risoluzione.
38
Poumarede G., Il Mediterraneo oltre le crociate, Utet, Torino, 2011, pp. 175-213.
45
Gli Ottomani tipicamente ponevano davanti le truppe irregolari di cavalleria, gli akinci, che al primo accenno d’attacco da parte del nemico si voltavano e fuggivano. Questa tattica è vecchia come il mondo ed è incredibile
notare quante volte comandanti incauti hanno ceduto alla tentazione di cadervi, fin dai tempi delle lotte tra i Persiani e gli Sciti. Normalmente i nomadi delle steppe la utilizzavano per attirare lontano la cavalleria nemica,
soprattutto se pesante, in un inseguimento che la portasse lontana dal resto
delle sue truppe, per poi girarsi ed attaccarla una volta che fosse stanca,
sparsa e priva di qualsiasi appoggio. Gli Ottomani avevano sofisticato questa tattica inserendola in un sistema di armi integrate che teneva conto anche
delle altre specialità, in particolare le più recenti per formazione39. Dato che
col tempo si erano adottati schemi sempre più vicini ai bizantini e agli europei, oramai la loro armata disponeva di una forte componente di fanteria.
Con l’avvento poi delle armi da fuoco si assistette ad un aumento esponenziale di archibugi e cannoni di tutti i calibri. La prima linea si sarebbe ritirata, attirando i nemici sul corpo principale, dove li attendeva a piè fermo la
fanteria con armi da fuoco e in particolare i giannizzeri, affiancati dalla cavalleria media e pesante dei sipahi. In breve qualsiasi carica di cavalleria
nemica che fosse caduta in questo tranello, senza attaccare cioè coordinandosi al meglio con gli altri reparti, sarebbe stata bloccata e ricacciata a pezzi
verso il resto del suo esercito, mentre l’armata ottomana si sarebbe gettata in
avanti approfittando del caos e del momento di sconforto generatisi tra i
nemici. Si approfittava anche di una cattiva abitudine dei cavalieri nobili europei che avevano la pessima tendenza di lanciarsi all’attacco senza attendere gli ordini dei comandanti. A Nicopoli era praticamente successo questo e
a Mohacs si ripeté di nuovo. L’esercito del Re Luigi II d’Ungheria fu annientato, in poco meno di tre anni la parte meridionale del regno venne occupata, così come Buda, e i turchi giunsero fin sotto le mura di Vienna40.
Era il 1529 e per fortuna l’estate fu molto piovosa. Le artiglierie pesanti
ottomane erano rimaste molto indietro e la capitale asburgica era difesa da
20.000 uomini che condussero continui contrattacchi contro i 120.000 assedianti. Essi erano arrivati alla città appena il 29 settembre e fin dall’inizio si
accorsero che i cannoni leggeri non riuscivano ad aprire delle brecce nelle
mura. Poco male, perché una delle specialità più note che gli Ottomani avevano acquisito erano i lavori di mina e contromina. I genieri scavarono e le
Nicolle D., The Armies of Islam 7th-11tth centuries, Osprey, Oxford, 2000, pp. 23-24 e
Nicolle D., Saracen Faris 1050-1250 AD, Osprey, Londra, 1994, pp. 5-14.
40
Furney R., Crusade in Europe: Ottomans vs the Habsburgs, in Strategy & Tactics n. 222,
Bakersfield (CA), 2004, pp. 7-10 e Nicolle D., Hungary and the fall of Eastern Europe
1000-1568, Osprey, Oxford, 2002, pp. 11-15.
39
46
brecce vennero aperte, tuttavia ogni assalto fu respinto. Si arrivò ad un attacco finale il 14 ottobre, ma persino i giannizzeri non riuscirono ad avere la
meglio sul morale dei difensori41. Era la prima grossa sconfitta di Solimano
e come vedremo forse la peggiore non solo per il suo regno ma di tutta la
storia ottomana. Se i turchi avessero vinto quel giorno molte cose sarebbero
cambiate nella storia europea. Sembra una frase retorica, ma l’effetto della
caduta di una delle due capitali di Carlo V sarebbe stata devastante sia per
l’Europa centrale sia dal punto di vista religioso. Quelli erano gli anni in cui
si stava scatenando la lotta tra Riforma e Controriforma e il semplice apparire della minaccia musulmana nel cuore dell’Impero Asburgico avrebbe avuto ripercussioni che sono molto difficili da immaginare anche per il più acuto degli analisti. Forse ancor più che nella seconda occasione, con l’assedio
cioè del 1683, bisognerebbe riflettere su questo momento particolare della
storia europea ed asiatica. Forse fu proprio quello il giorno in cui l’Europa
venne salvata perché il regno di Solimano era ancora agli inizi e tanta sarebbe stata la strada che egli avrebbe potuto percorrere ancora. Per uno dei tanti
capricci della storia egli decise invece di ritirarsi. L’eccessivo scoramento
dei suoi uomini, unito alla stagione invernale incalzante, non erano le condizioni ideali per continuare a mantenere un assedio di quelle dimensioni: di
occasioni ce ne potevano essere ancora e così riportò l’armata nei suoi quartieri invernali.
Gli Asburgo avevano vinto? E’ piuttosto complicato dare una risposta
perché Ferdinando, il fratello di Carlo V che governava i territori austriaci di
quell’Impero dove il Sole in teoria non tramontava mai, per tenere buoni gli
Ottomani pagò tributi in oro negli anni a venire. Esattamente lo stesso fecero gli ungheresi e per loro Zapolay, il nobile più potente che era rimasto dopo il disastro del 1526 a sostituire il re. Nello stesso tempo imperiali e ungheresi, stretti da necessità in un’alleanza sempre più assidua che presto si
trasformò in dipendenza di questi ultimi, continuavano le loro operazioni
militari. E’ ridicolo se ci si pensa che da un lato si combatta il proprio nemico e dall’altro lo si paghi per tenerlo tranquillo, contribuendo alla fine a
mantenere il suo esercito, ma questa era la stessa sfibrante politica che avevano perseguito i bizantini per quattro secoli. Il fatto è che, al di là di un’infinità di considerazioni politico-militari, l’Impero degli Asburgo, per quanto
il più potente della Terra, era disperso su di un’area vastissima. Fu effettivamente il primo impero coloniale sullo stile di quelli che sarebbero seguiti
nei quattro secoli successivi, ma all’epoca si era appena agli inizi nell’apprendere e rendere compiuta una gestione di quelle dimensioni e basta pren41
Nunez A., Turnished Magnificence, in Against the Odds vol. VIII n. 2, LPS, Philadelphia
(PA), 2010, pp. 4-12.
47
dere un qualsiasi atlante storico per capire quali erano le difficoltà di Carlo
V e di Ferdinando nel 1529.
Ciononostante negli anni dopo il primo assedio di Vienna, le truppe imperiali e ungheresi giunsero ad assediare Buda, nella speranza di riportare
quella città sotto controllo cristiano. Solimano ripartì il 25 aprile 1532 per
una campagna che lo condusse fino a Graz. Il risultato comunque fu irrisorio
per entrambe le parti. Salvo alcune fortezze ungheresi che caddero in mano
turca, e che non giustificavano un dispendio di denaro simile, si preferì risolvere la situazione diplomaticamente e si riconobbe in pratica lo statusquo. Si stavano concretizzando per entrambi gli imperi aspre lotte rispettivamente in Europa e in Persia e così entrambe le parti preferirono rinviare il
loro confronto diretto.
L’effetto più immediato fu per gli Ottomani la già citata occupazione
dell’Iraq che venne strappato ai Safavidi nel 1534. Purtroppo per certi aspetti questa campagna, anche se espanse e consolidò ancora di più il potere degli Ottomani in quelle aree, ebbe delle notevoli conseguenze negative nel
lungo periodo e per capirlo dobbiamo fare un passo indietro.
Il prestigio dell’Impero di Solimano, almeno nel primo periodo fino al
1536, ha un nome: Ibrahim Pasha. Poco dopo la conquista di Rodi nel 1523,
Solimano prese la decisione di sostituire il suo Gran Visir. A Piri Mehmed
Pasha, uomo che aveva ben servito l’Impero per molto tempo, subentrò Ibrahim, un epirota che fino ad allora era stato uno sconosciuto funzionario
di secondo rango ma che era favorito del sultano. Era un fatto straordinario
perché egli scavalcò numerosi rivali. Nel 1524 egli sposò anche la sorella di
Solimano, ma non fu certo per questi motivi che fece fortuna. Egli era realmente abile, intelligente e molto attivo. In tutto il decennio successivo Ibrahim incarnò lo spirito del vero Gran Visir rispetto al suo Sultano. Quando si
trattò di compiere la conquista dell’Iraq, egli partì alla testa delle truppe e,
sia pure a costo di grandi fatiche, riuscì nell’impresa. Due mesi dopo il ritorno a Istanbul tuttavia venne giustiziato improvvisamente nella notte tra il
14 e 15 marzo 1536. Il perché di questa azione è fonte ancora oggi di dibattito: eccesso di perdite durante le campagne in Iraq?, gli intrighi della nuova
favorita di Solimano, la celeberrima Hurrem Sultan, nota a tutti come Rossellana? Tutto è possibile, tant’è da qui in poi iniziò una seconda fase dell’Impero che fu grande comunque, ma certo molto meno stimolante e brillante della precedente. Come si vede anche qui siamo nel campo dei se e dei
ma che ci portano ovunque e da nessuna parte: cosa sarebbe successo se Ibrahim fosse rimasto in vita e al suo posto? Certe risposte sono sempre difficili da dare, anche perché l’intrecciarsi delle azioni degli uomini è molto
meno prevedibile di quanto si pensi. Non si tratta di fare “filosofia storica
spicciola”; una volta ancora riflettiamo su quella che è forse la parte più
48
stimolante del XVI secolo, un’epoca in cui l’attività di molte menti eccellenti si sovrappose o semplicemente svolse un ruolo di grande importanza per i
secoli successivi.
L’Impero degli Ottomani, come il resto d’Europa e del mondo, ebbe un
notevole numero di menti come quella di Ibrahim Pasha e anche grazie ad
esse si può dire che il 1500 fu un secolo d’oro. Molte imprese tentate ai limiti dell’Impero, come la spedizione verso Aden e lo Yemen del 1538 o la
conquista di Tunisi, poi protrattasi in realtà fino al 1574, hanno i loro prodromi nel periodo di questo Gran Visir. Il problema tuttavia non è di concentrarsi solo sulla sua figura. E’ il binomio Solimano-Ibrahim quello che
conta. Così come Hindenburg-Ludendorff e Oyama-Kodama, anche questi
due grandi uomini produssero qualcosa di eccezionale: fu il venir meno del
binomio che portò alla stagnazione. L’ultimo atto di Ibrahim è forse il più
eclatante. Pochi giorni prima di morire avviò le relazioni permanenti con il
Regno di Francia; un’alleanza che se nell’immediato aveva una funzione
prettamente anti-asburgica42, ebbe il merito di diventare una realtà permanente attraverso i secoli a venire43.
I decenni successivi furono per Solimano di intense e continue campagne
militari, ora volte verso il nord ed ora verso l’est. Gli Asburgo e i Safavidi
furono sempre e in modo alternato i suoi grandi nemici; il risultato fu la
continua affermazione sia sugli uni che sugli altri, ma più che di espansione
ulteriore forse si deve parlare più esattamente di consolidamento.
Contro la Persia si susseguirono altre due campagne. Ogni volta lo Shah
Tahmasp attaccava le piazzeforti lungo il confine, in particolare nella storica
zona del lago Van, ed ogni volta Solimano replicava inviando o conducendo
direttamente le sue armate che, data la loro superiorità soprattutto in armi da
fuoco, riconfermavano sempre lo strapotere degli Ottomani su quelle terre.
L’unico problema fu che i risultati non furono mai per entrambe le parti significativi al punto da giustificare le ingentissime spese che venivano affrontate, data anche la mole delle truppe e gli sforzi logistici che dovevano
essere affrontati in una zona impervia e priva di strutture adeguate ad armate
simili. Bisognerà aspettare appena il 1600 per vedere una decisa affermazione turca in tutta l’area.
Mentre l’Impero affrontava questa serie di campagne nell’est, nel Mediterraneo si giocarono tutta una serie di mosse e contromosse dove i turchi la
facevano oramai da padroni, anche se le varie marine cristiane facevano
42
Ricordiamo che la Francia in quegli anni era praticamente circondata da possedimenti
asburgici; il cosiddetto “corridoio spagnolo” andava dall’Italia, per la Svizzera, lungo la
valle del Reno e terminava nell’odierno Benelux.
43
Mantran R., op. cit., pp. 164-171.
49
sempre di tutto per contrastarli. Il Mediterraneo orientale in pratica divenne
una sorta di “lago ottomano” dove le uniche roccaforti rimaste ai cristiani
erano Candia (Creta) e Cipro tenute saldamente dai veneziani. Una ad una le
altre grandi isole dovettero capitolare come Samos nel 1550, Naxos e Chios
nel 1566, quest’ultima estremo baluardo di Genova in quell’area. I cavalieri
di Rodi dopo la perdita della loro base si erano trovati una nuova sede a
Malta e fu da allora che assunsero il nome che portano ancora oggi.
Quest’isola e la loro base di Tripoli facevano da perni per contrastare qualsiasi intrusione nel Mediterraneo occidentale, ma nel 1551 quest’ultima
venne occupata dal nuovo e più terribile ammiraglio che gli Ottomani seppero assoldare: Turgut Re’is, noto anche come Dargut. Quest’uomo con
l’appoggio di Istanbul intraprese in seguito l’impresa più grande mai tentata,
la conquista di Malta stessa. Per tre mesi, dal 20 maggio all’11 settembre
1565, Malta venne invasa e quasi completamente occupata. Con fortuna ed
abilità i Cavalieri seppero resistere fino a stagione inoltrata. Turgut morì nei
combattimenti e l’armata d’invasione, decimata dai difensori, dalle malattie
e dai disagi dovette reimbarcarsi44.
In tutto questo lasso di tempo Solimano continuò a battersi principalmente in Ungheria. Una dopo l’altra le fortezze più importanti magiare caddero
anche se tutta questa serie di operazioni ebbe l’effetto di un ulteriore salasso
per le finanze dell’Impero. Tuttavia, l’intera area danubiana venne consolidata e le armate ottomane riuscirono persino ad occupare tutti i territori più
a oriente della Bessarabia e fino al Bug, creando un collegamento diretto
con il Khanato di Crimea che era già stato sottomesso in precedenza.
La situazione per gli Asburgo non fu mai delle peggiori se si tiene conto
che a più riprese Ferdinando dovette accettare di venire a patti con la Sublime Porta, pagando tributi come se fosse un vassallo e non un principe indipendente.
In totale Solimano scese in campo in più di una dozzina di grandi campagne, ogni volta ottenendo dei successi per poi ritirarsi nei quartieri invernali
e cercando di assimilare le nuove aree che via via venivano sottomesse in
tutta l’Europa centro-orientale.
Purtroppo si deve sottolineare che neanche per lui la situazione interna,
parlando in particolare della sua famiglia e del problema della successione,
fu mai tranquilla. Il vecchio consiglio di Maometto II di liberarsi di tutti i
propri parenti scomodi sembra aver perseguitato Solimano come una maledizione per tutta la vita, se si stila l’elenco di tutti i famigliari ed anche uo44
Pickels T., Malta 1565, Osprey, Londra, 1998, pp. 7-14 e 80-88; Burtt J., The Crescent
and the Cross, in The Wargamer, n. 50, Cambria (CA), 1996, pp. 6-9 e Nicolle D., Knight
Hospitaller (2) 1306-1565, Osprey, Oxford, 2001, pp. 50-54.
50
mini di fiducia che egli dovette sopprimere. Purtroppo c’è da dire che un
impero così vasto e ricco non poteva non scatenare le ambizioni più sordide
di tutti coloro che ruotavano intorno al sultano ed alla fine l’unico erede rimasto che dava una certa affidabilità fu quello meno dotato dello spirito
d’iniziativa necessario a governare45.
Nel 1566 “il Gran Turco” intraprese l’ennesima campagna, questa volta
per soggiogare la fortezza di Szigetvar in Ungheria. Per quattro mesi l’armata ottomana dovette marciare e combattere mentre Solimano, nonostante i
suoi 70 anni, cercava di sostenere lo sforzo come aveva sempre fatto. Ai
primi di settembre, poco prima che la fortezza cadesse, egli morì di apoplessia e per giorni, onde evitare rivolte di palazzo, il suo Gran Visir Sokollu
Mehmed Pasha cercò di nascondere la notizia permettendo a Selim II di insediarsi tranquillamente a Istanbul. Solimano riuscì così anche in quest’ultima impresa, nonostante egli fosse già morto, e l’Impero riconobbe una volta di più la sua grandezza46.
Il sistema di governo ottomano
1. L’apparato politico
Il funzionamento dell’Impero Ottomano è caratteristico del mondo da cui
trae fondamento. Essendo originato da un mondo nomadico si nota subito
una notevolissima apertura, inglobando e assorbendo tutte le realtà socioculturali con cui si giungeva a contatto. C’è una forte similitudine ad esempio con il governo degli Yuan, la dinastia cino-mongola che in Kubilay
Khan ha il suo massimo rappresentante. Anche questo sovrano ad esempio
si avvaleva di ogni tipo di esponenti di varie culture e religioni, tra cui il celebre lama tibetano ‘Phags-pa, il ministro musulmano ribelle Ahmad o lo
stesso cristiano Marco Polo sono solo degli esempi eclatanti47.
I sultani osmanli si avvalsero di tutti i sudditi più abili, accogliendo stranieri anche di paesi lontani o nemici in egual misura e seppero così unire il
loro mondo a quelli che incontravano, prendendo se possibile il meglio e ricompensando con alte cariche i più meritevoli.
Uno degli elementi più significativi da considerare è il fortissimo binomio organizzazione militare-stato. I soldati e gli amministratori di ogni livello erano inquadrati nell’esercito e nella marina e venivano retribuiti a loro volta con il più classico dei binomi: denaro o terre. Se il primo proveniva
agli inizi dai proventi dei saccheggi generati man mano che si conquistava45
Downey F., Solimano il Magnifico, dall’Oglio, Milano, 1958, pp. 281-301.
Downey F., op. cit., pp. 333-348 e Mantran R., op. cit., pp. 171-174.
47
Rossabi M., op. cit., pp. 56-57 e 201-207.
46
51
no le zone di frontiera e ci si spingeva sempre più avanti verso l’Africa e
l’Europa, le seconde erano l’elemento più ovvio su cui un popolo prima
nomade e poi stanziale basava il possesso e i suoi diritti, particolarmente nei
regni che venivano sottomessi. Anche qui si potrebbe intravedere un certo
parallelismo con il sistema della Roma Repubblicana, ma in questo caso si
andò forse anche oltre. Effettivamente si può dire che quello ottomano era
uno stato militarizzato, dove la classe dei guerrieri è talmente diffusa e importante che possiamo ben capire quanto sia un elemento sociale determinante e presente ancora oggi nella Turchia laica di Ataturk.
Che l’apertura mentale del mondo nomadico sia stata utile, lo si vede anche ben rappresentato dallo speciale rapporto che venne intrapreso verso le
religioni differenti, in particolare quella greco-ortodossa. Man mano che
l’Impero si espandeva in Europa orientale venivano assorbite vaste comunità cristiane ed una politica intransigente avrebbe solo danneggiato le risorse
che zone così ricche potevano fornire, anche in vista di ulteriori espansioni.
Come ha ben delineato Francis Robinson anche qui troviamo una notevole
similitudine con i Mughal, musulmani nomadi inizialmente anche loro, che
ebbero ad affrontare lo stesso problema “assorbendo” e confrontandosi con
la vastissima maggioranza dei loro sudditi indiani che avevano una religione
differente48. I sultani osmanli seppero attuare una proficua politica conciliante verso le numerose minoranze religiose, primi fra tutti i cristiani, e
l’Impero crebbe e poté prosperare. Fu solo in seguito, a partire dal tardo
1600, che venne intrapresa una politica più intransigente favorendo i soli
membri della comunità musulmana, il che per molti versi portò all’inaridimento dell’Impero stesso.
La formazione dell’apparato amministrativo raggiunse la supremazia con
Solimano. In cima stava il Sultano che, usando un termine di paragone confuciano, doveva essere “padre e madre” per i suoi sudditi, i quali gli dovevano obbedienza totale. La popolazione era praticamente divisa in due. Da
un lato i sudditi di ogni credo e comunità che vivevano e producevano ogni
bene per l’altra classe che li governava che era quella militare. Sembra in
certi punti di intravedere il rapporto tra i sudditi e i samurai del Periodo Tokugawa. Se si osservano i 5 principi su cui il cronista Mustafa Naima, vissuto nel XVII secolo, dice che si deve basare l’impero, balza all’occhio immediata la similitudine:
1. Non c’è stato e non c’è governo senza i militari;
2. La ricchezza è indispensabile al mantenimento dei militari;
48
Robinson F., Atlante del mondo islamico, de Agostini, Novara, 1989, p. 72; Behr H.G., I
Moghul, Garzanti, Milano, 1987, pp. 119-125 e Nicolle D., Mughul India 1504-1761, Osprey, Londra, 1993, pp. 6-10.
52
3. La ricchezza viene prodotta dai sudditi e prelevata a loro;
4. Solo con la giustizia i sudditi possono prosperare;
5. La giustizia ci può essere solo se ci sono lo stato e il governo.
E’ un principio ciclico di buon governo noto come “il ciclo di equità” che
ben spiega come l’Impero si sia retto fino al 1922 ed anche oltre.
Chi voleva far carriera doveva conformarsi a questi principi, oltre a dimostrare di avere una fedeltà assoluta al Sultano. Accanto a ciò, e prima di
tutto, doveva essere un fervente musulmano. Questo risolveva ogni dubbio
su “chi” avesse il diritto di portare le armi, mentre tutti gli altri sarebbero
stati dei semplici sudditi. In pratica si vedono ricalcati gli stessi principi presenti negli altri paesi musulmani. Da un lato vi era la Umma, la collettività
dei credenti, dall’altro le Dhimmi, le comunità appartenenti agli altri credi
religiosi che potevano anche rimanere tali purché pagassero anche la jizya,
la tassa loro richiesta. Le Dhimmi così potevano continuare ad esistere, organizzandosi in comunità separate o Millet.
Ai tempi di Solimano i militari venivano reclutati in due comparti. Da un
lato c’erano le famiglie delle tribù turche che si erano succedute nei secoli e
che avevano contribuito a creare la grandezza dello stato fino ad allora. Da
esse ad esempio proveniva la cavalleria feudale dei sipahi che detenevano i
possedimenti di terra detti timar ottenuti direttamente dal sultano e in cambio dei quali si impegnavano a svolgere il servizio militare loro richiesto.
Dall’altro vi erano gli schiavi che si distinguevano nel particolare sistema di
coscrizione ed addestramento noto come Devshirme. All’interno di questo si
notavano varie categorie di merito, dove ad esempio il 10% dei migliori avrebbero frequentato i palazzi del governo per apprendere l’arte del buon
servizio amministrativo verso il Sultano e per il popolo e per andare a ricoprire le più alte cariche dell’amministrazione imperiale. Gli altri venivano
avviati più tipicamente verso le campagne, divenendo una sorta di contadini-soldati che richiamano l’immagine dei legionari romani. La Devshirme
divenne una consuetudine a partire dal 1400 ed in particolare colpiva i cristiani che stavano aumentando in percentuale sempre più alta all’interno
dell’Impero. Questo spiega in parte perché l’apparato funzionò per secoli
dato che senza emarginazione, ma al contrario con una buona possibilità di
far carriera, quasi tutti i sudditi si sarebbero sentiti qualificati e stimolati a
far parte di uno stato che pareva effettivamente “senza confini”.
In certi periodi inviati governativi si recavano nelle zone, soprattutto cristiane, e cercavano i giovani più adatti ad essere reclutati. I più dotati e meritevoli venivano avviati alle scuole dove un lungo e duro apprendistato li
attendeva. Qui avrebbero imparato a leggere e scrivere in arabo, persiano e
turco, sarebbero stati trasformati in ferventi credenti ed avrebbero percorso
tutto l’iter di addestramento militare, entrando nelle varie specialità. Infine,
53
e qui stava la particolarità del sistema, sarebbero stati introdotti anche agli
studi amministrativi. In questo modo è chiaro che venivano legati strettamente i due elementi militare e civile, creando una solida ed efficiente gestione dell’Impero che poteva rispondere ad ogni chiamata sia offensiva che
difensiva. Il restante 90% veniva sparso nelle zone agricole, in prevalenza in
Anatolia, convertito all’Islam e, imparando lo stile di vita ottomano, venivano anch’essi trasformati in soldati efficientissimi il cui unico vero riferimento sarebbe stato il Sultano.
Si è parlato appropriatamente di “schiavi della casa reale ottomana” perché il sistema sembra simile a quello adottato dai Safavidi in Persia e col
tempo questa sorte di corpo di pretoriani turchi divenne sempre più importante scalzando la stessa aristocrazia tradizionale delle tribù.
E’ nella quadripartizione dell’apparato statale che si vede forse più di ogni altro luogo l’efficienza del sistema che venne creato. In cima a tutti c’era
il Sultano, con poteri assoluti di vita e di morte su tutti e che era affiancato
dai dignitari di corte. Accanto ad essi c’era il Palazzo, noto come Saray, “il
Serraglio”, con la sua corte e anche l’harem che in molte epoche eserciterà
un’influenza micidiale sulle scelte di governo. La famosa Rossellana non è
che uno degli infiniti esempi di donne che lottarono per far sì che il loro figlio maschio si assicurasse la posizione di successore del Sultano. A parte
tutti coloro che verranno uccisi, nella migliore delle tradizioni adottate dagli
imperatori bizantini, le cosiddette “Isole dei Principi” che si trovano nel Mar
di Marmara divennero il luogo di esilio più famoso dove far confluire degli
ospiti di riguardo che si voleva che restassero in vita per supplire in casi eccezionali.
Al secondo posto veniva la burocrazia tra cui spiccava il Consiglio Imperiale presieduto dal Gran Visir, incaricato di sostituire il Sultano come un
alter ego. La prassi voleva che egli presiedesse le riunioni del Diwan, il
Consiglio dei Ministri (termine questo preso anch’esso in prestito dai persiani), mentre il Sultano poteva, a suo piacere, assistervi rimanendo fuori
dall’aula, nascosto dietro una grata che lo separava da tutti, avendo così il
pregio di vedere e sentire senza essere disturbato. Di estrema importanza era
anche l’Erario Imperiale che prendeva le decisioni principali in campo finanziario. Purtroppo si deve notare che col tempo molti sultani finirono col
non presenziare alla riunioni, delegando così sempre più il governo ai visir e
ai burocrati che ottennero una crescente libertà d’azione.
Al terzo posto c’era l’esercito permanente. La struttura verrà discussa a
breve; qui va notata l’importanza suprema dei notissimi giannizzeri, il corpo
scelto che arrivò col tempo a comprendere anche 30.000 uomini. Altamente
addestrati essi finiranno, sempre più consapevoli della loro importanza, con
l’avere il sopravvento persino nella scelta dei sultani, divenendo l’ago della
54
bilancia tra le varie fazioni politiche, soprattutto in tempi di crisi. Inoltre finiranno con il diventare anche più potenti degli stessi sipahi, legati al sistema del timar.
L’ultimo livello era riservato ai dotti dell’Islam tra cui gli ulama, l’equivalente dei nostri insegnanti delle scuole superiori e università, ma esperti
nel contempo delle varie dottrine coraniche. Erano i responsabili del rispetto
della sharia, la legge che trae la sua forza dal Corano e dagli hadith, le cronache dei fatti e dei detti del Profeta Maometto o comunque la raccolta di
tutte le tradizioni dell’Islam. Sempre in quest’ultimo ambito fondamentale
era la figura dei qadi, i giudici preposti a interpretare la sharia stessa, e garantire il mantenimento dell’ordine in tutto l’Impero. A tal proposito si deve
specificare che molti osservatori occidentali rimasero colpiti nei secoli
dell’efficienza della legge ottomana che ricorreva a metodi rapidi e anche
crudeli, ma ne lodarono quasi sempre l’imparzialità e l’efficienza, segno che
il “ciclo di equità” non valeva solo per chi stava in alto.
Uno degli elementi più innovativi da considerare è che quello delle istituzioni dottrinali fu il campo che si mantenne più in armonia con lo stato. Qui
i membri delle famiglie antiche continuarono a prevalere a differenza degli
altri livelli dell’apparato statale. Mentre in Persia e in India spesso gli ulama
contrastarono l’operato dei sovrani e dei loro governi, i sultani godettero
sempre di una certa tranquillità e collaborazione da parte dei dotti. Uno dei
motivi di questa collaborazione è che i sultani si dimostrarono sempre fautori della Guerra Santa e perciò ferventi missionari. Il fatto poi che l’apparato
statale desse importanza fondamentale alla sharia rendeva in parte i dotti dei
rappresentanti governativi in sé. Se si vuole è lo stesso sistema che venne
adottato in Giappone dopo l’avvento dei Tokugawa i quali, per risolvere
l’annoso problema del buddhismo militante, posero sotto controllo i monasteri semplicemente aumentando il prestigio dei monaci nello stato, trasformandoli in controllori della spiritualità dei sudditi, ma di fatto burocratizzando gli esponenti della religione. Tutto l’Impero basava il suo vivere sulla
sharia ed essendo i sultani i difensori della fede, dei luoghi santi ed eredi del
califfato, l’ortodossia sunnita e per essa i suoi dotti divennero uno degli elementi chiave dello stato quasi in modo naturale.
Fu durante il regno di Solimano che vennero stabiliti i principi che ponevano la sharia all’interno dello stato. In sostanza si dava ad essa ruolo di
fondamento dello stato stesso ma di fatto rimanevano due macro aree in cui
essa non aveva efficacia. La prima riguardava proprio l’organizzazione e
l’amministrazione. Qui la sharia poteva fornire dei principi generali di condotta, ma in effetti l’ultima parola spettava al Sultano ed ai suoi rappresentanti. I dotti quindi si limitavano a verificare che le norme emesse dalle autorità, primo fra tutti il Sultano, non fossero incoerenti con la sharia stessa,
55
ma tutto finiva lì. La seconda area atteneva ai settori locali come villaggi,
quartieri e comunità. Qui le liti venivano appianate con regole interne, sebbene la sharia facesse da punto di riferimento per fornire i valori per giudicare un’azione.
La sharia dunque divenne l’elemento portante dello stato, ma sempre con
un primato del sultano e dei suoi ministri, data l’importanza che essi avevano ed i dotti vennero inseriti in sostanza nel meccanismo statale stesso.
Sempre al tempo di Solimano era stata creata una vasta gerarchia dottrinale. Gli studi potevano iniziare, nella migliore delle tradizioni, nella maktab, la scuola coranica elementare legata alla moschea. Si poteva poi procedere attraverso 4 tipi differenti di madrasa, la scuola coranica superiore,
dove si approfondivano le scienze islamiche e tutti gli altri tipi di studi. Il
titolo più prestigioso si poteva conseguire presso le mederse semaniye che
vennero create intorno alla metà del 1500 proprio vicino alla moschea di Solimano ad Istanbul. In pratica chi non riusciva a completare tutta la carriera
di studi poteva aspirare ad entrare nella burocrazia o divenire qadi minore;
chi ci riusciva poteva diventare a sua volta un insegnante, facendo poi carriera in base alla sua bravura. Agli insegnanti più bravi era consentito anche
chiedere un posto di qadi superiore e solo chi insegnava nelle mederse superiori o nelle semaniye poteva aspirare ad un posto di prestigio in grandi città
come Il Cairo o Gerusalemme. I più grandi maestri delle semaniye potevano
addirittura divenire Shaik al-Islam, capi delle istituzioni religiose.
Come si vede i dotti ricevevano un inquadramento statale che permetteva
loro di essere contemporaneamente importanti ma controllati. E’ certo sintomatico che i problemi dell’Impero non vennero, nel lungo periodo, dalla
comunità musulmana. Al contrario i membri delle altre comunità religiose
che all’inizio erano ben tollerati, col passare del tempo e dal 1600 in poi, divennero sempre più sgraditi, mentre l’autorità statale preferì dare sempre
maggiore importanza all’elemento musulmano.
Tutto questo ebbe anche un effetto sulla cultura. Vivendo in un mondo
fortemente imperniato sull’ordine e la gerarchia, la letteratura e l’erudizione
finirono con l’avere una base molto solida. Questo diede un notevole impulso alla poesia e anche alla prosa e alle scienze. Sorse così, nell’arco del 1500
e soprattutto nel 1600, una cultura tipicamente ottomana che si distinse sempre più da quella proveniente da altri paesi, prima fra tutti la Persia, e che
produsse opere di straordinario valore. Matematica, medicina, astronomia,
geografia e storiografia sono tutte scienze che ebbero un impulso senza precedenti, anche se quella che divenne forse la più rappresentativa fu l’architettura. Sinan (1491-1588) fu l’architetto reale che per 50 anni riuscì più di
ogni altro a trasformare la sua professione in una vera e propria carica statale di primaria importanza. In tutta la sua carriera egli progettò ben più di tre56
cento tra edifici e strutture di ogni genere: fontane, caravanserragli, bagni
pubblici, ponti e soprattutto mederse e moschee, tra cui la splendida Selimiye (di Selim) a Edirne (Adrianopoli) e la Suleymaniyye (di Solimano) a Istanbul rimangono ancora oggi gli emblemi più rappresentativi49.
2. L’apparato militare
2.1 L’esercito
L’Impero Ottomano presenta una fortissima componente militare che si è
trasmessa nei secoli, partendo da quando le prime tribù calarono dall’Asia
centrale e giungendo in parte fino ad oggi. Una volta ancora si nota la notevole capacità ad acquisire sistemi non solo d’arma ma di combattimento in
generale, di volta in volta che si giungeva a contatto con nuove realtà culturali, in cui l’elemento bellico fosse di un certo rilievo. La prima e più lampante dimostrazione ci viene dalla adozione di tutta una serie di schemi in
uso presso i bizantini e che le tribù turche fecero propri. Il fatto stesso ad esempio che venisse data ampia importanza alla fanteria, mentre in precedenza si preferiva l’usuale cavallo, ne è la prova. Con l’introduzione delle armi
da fuoco si assiste ad una ulteriore rivoluzione. Ciò che risalta però più di
tutto è la grande apertura mentale ad integrare sistemi vecchi con i nuovi,
cercando sempre delle soluzioni che siano all’avanguardia, dando la superiorità necessaria non solo a vincere, ma a sentirsi letteralmente più avanti
rispetto ai nemici.
Gli Ottomani aumentano notevolmente la fanteria, diventano grandi navigatori e grazie al sistema del Devshirme, inseriscono nei loro quadri un
vastissimo numero di ex-cristiani. L’intero apparato militare risulta così enormemente composito, ma funziona alla perfezione associando le tattiche e
gli schemi già in uso con tutta una serie di modifiche che rendono gli Ottomani i più terribili avversari sia in Asia che in Europa. Si tratta in sostanza
di un mondo “a cavallo” tra due che prende il meglio da entrambi.
La struttura militare veniva definita seyifiyi ed era costituita dalla marina
da guerra che tratteremo dopo, e l’esercito. Questo si divide in Eyalet Askerleri, “le Forze Provinciali”, e Kapikulu Askerleri, “l’Armata del Sultano”.
Le prime erano anche chiamate Yerlikulu Piyadesi, “fanteria locale”. Tali
unità avevano la funzione di mȕsellem o “ricognizione” che inizialmente erano state composte da cavalleria che col tempo era stata degradata a semplice fanteria locale, simile a quella che si trovava anche nei vari eserciti
d’Europa. Ci si avvaleva anche di icareli, “mercenari”, fanti azap equivalen49
Robinson F., op. cit., pp. 72-75 e 77-79 e Mantran R., La vita quotidiana a Costantinopoli ai tempi di Solimano il Magnifico, op. cit., pp. 294-295.
57
ti alla milizia leggera50, e levent, una sorta di fanteria di marina che in questo caso non veniva tuttavia impiegata sulle navi51.
Infine tra le truppe provinciali erano inclusi anche i lagimci, “i genieri”,
corpo altamente sofisticato secondo una lunga tradizione acquisita nell’arte
degli assedi. Si deve notare che dal XVI secolo tutti i sudditi musulmani
delle province di frontiera furono soggetti a coscrizione come azap kale (di
fortezza) o azap deniz (navali), in base alla quale veniva chiamato un uomo
ogni 20 o 30 famiglie.
L’Armata del Sultano, nota anche come Kapikulu Piyadesi, era logicamente potente e meglio equipaggiata. Grosso modo si basava sulla classica
partizione fanteria-cavalleria, cui si aggiunse l’artiglieria, oltre a tutta una
serie di unità specialiste preposte ad ogni genere di attività bellica e logistica. Va sottolineato che nell’armata ottomana venne sempre dato il massimo
dello sviluppo alla sussistenza. La componente a cavallo mantenne sempre
un ruolo di grandissimo rilievo, date le origini del popolo che la utilizzava, e
continuò ad esercitare notevole impressione anche tra gli avversari, dato che
rappresentava sempre la percentuale più alta nell’Armata.
Due in particolare erano le forme di cavalleria che venivano utilizzate. La
prima e più importante erano i sipahi in cui si individuavano i nobili ma anche persone di basso rango. Col passare del tempo alla cavalleria anatolica
si affiancarono anche reparti di provenienza europea e perciò anche cristiani. Alla battaglia di Kossovo del 1389 ad esempio si distinse Costantino Dejanovic, signore di Kjustendil nella Macedonia orientale (oggi in Bulgaria),
tra i reparti di sipahi cristiani.
Si deve sempre considerare che la componente di cavalleria rimase molto
forte nell’esercito ottomano e nelle battaglie campali ciò viene quasi sempre
confermato. La cavalleria kapikulu era più importante degli stessi giannizzeri e godeva di maggior prestigio. I suoi membri spesso vengono confusi con
la cavalleria provinciale perché in entrambi i casi si parla genericamente di
sipahi; questa tuttavia era una sorta di cavalleria della guardia e all’interno
degli stessi giannizzeri avveniva una selezione per verificare chi fosse più
idoneo. L’intero contingente prendeva il nome di süvarileri o bölük halki o
“uomini reggimento” ed era composto da sei unità. Ulufeciyan o “uomini
salariati”, rispettivamente della Sinistra e della Destra, che furono istituiti da
Murad I nel 1300. Gureba o “stranieri poveri”, anche qui della Sinistra e
50
Il compito degli azap era di trattenere il nemico fino all’arrivo dei reparti di fanteria regolare. Solitamente erano fanti leggeri muniti di arco. Nicolle D., Armies of the Ottoman
Turks 1300-1774, Osprey, Oxford, 2001, p. 17.
51
I levent sono una forma di fanteria irregolare, attinente più ai reparti navali che terrestri.
Il termine aveva anche un significato di “banda di briganti senza terra”, Nicolle D., op. cit.,
p. 17.
58
della Destra, che avevano già alle spalle una carriera come ghazi volontari, i
tipici guerrieri turchi. I silahtar, “portatori d’arma”, le prime guardie del
corpo che furono poi sostituite in questo incarico dai sipahi oglan, “ragazzi
sipahi”, ultima delle sei unità che venne istituita da Maometto I nel 1400.
L’intero contingente nel tardo XVI secolo assommava a circa 6.000 uomini.
Una delle difficoltà maggiori che incontrarono i sipahi fu quella di non
sapersi adeguare nel corso del tempo ai nuovi schemi che stavano evolvendosi su tutti i campi di battaglia. Appena nella metà del 1600 ad esempio essi accettarono di avvalersi delle pistole, considerate dai più un’arma poco
nobile da usare in combattimento.
La seconda specialità di cavalleria erano gli akinci, “i razziatori”. Eredi
delle tattiche impiegate dai loro antenati, divennero e rimasero nel tempo il
terrore di tutte le terre di confine con i turchi. Una delle scorrerie che si possono ricordate compiute con forze considerevoli fu ad esempio quella del
Friuli nel 1499 che arrivò a lambire il Veneto, causando danni considerevoli
un po’ ovunque e un bottino enorme52.
L’artiglieria e il genio divennero col tempo sempre più importanti. Armi
di ogni calibro tra leggere, medie e pesanti venivano prodotte negli arsenali
dell’Impero e impiegate in numero considerevole a seconda delle esigenze
sia in battaglia che durante gli assedi, perciò la maggior parte dell’artiglieria
veniva concentrata nei corpi kapikulu. Accanto ad esse tutta la serie di tecniche classiche di mina e contromina, apprese dai bizantini e negli altri paesi
musulmani e non, divennero usuali e spesso metodo sostitutivo all’artiglieria stessa, come visto durante il primo assedio di Vienna53.
L’arma principale tuttavia divenne nel tempo proprio la fanteria e per essa il corpo più rappresentativo furono gli yeni ceri, o “nuove truppe”, i giannizzeri. In tutto si distinguevano quattro divisioni: Cemaat, Bölük, Seymen
(o Sekban) e Acemi Oglan, ognuna composta da un numero di reparti orta
(in totale 229), a loro volta divisi in oda (camerate). Ad Istanbul ad esempio
erano presenti al tempo di Solimano 77 orta di giannizzeri, in pratica un terzo del corpo. Quando iniziavano le operazioni belliche tutti i reparti raggiungevano le zone delle operazioni ad eccezione degli Acemi Oglan, le unità d’addestramento. Questi erano composti da 34 unità ripartite in due grandi meydan, i centri di addestramento veri e propri.
Ad Istanbul le forze di guarnigione oscillarono nel tempo tra 4.000 uomini ai tempi di Solimano, arrivando a toccare punte anche di 25-30.000
52
Gargiulo R., Mamma li Turchi, Edizioni Biblioteca dell’Immagine, Pordenone, 1998, pp.
145-171.
53
Nicolle D., Armies of th Caliphates 862-1098, Osprey, Oxford, 1998, pp. 36-37 e Nicolle
D., Armies of the Ottoman Turks 1300-1774, op. cit., pp. 18-20.
59
uomini, anche se si tratta più di eccezioni raggiunte in tempo di guerra,
mentre la cifra di 10-15.000 unità è senz’altro più veritiera. A Istanbul vi erano 4 caserme di giannizzeri, anche se non tutti erano presenti allo stesso
tempo perché distaccati nei vari corpi di guardia della capitale stessa o inviati presso i servizi di amministrazione o anche le ambasciate straniere.
Un discorso a parte va fatto per l’uso di armi da fuoco. Gli Ottomani dimostrarono sin da subito un grande interesse per gli archibugi e poi per i
moschetti; furono sempre molto numerosi nelle loro armate reparti di fucilieri, in prevalenza nella fanteria, ma vi furono molti reparti di cavalleria
leggera che operava munita di armi da fuoco, agendo sia a cavallo che a
piedi54.
2.2. La marina
E’ nella marina che si può notare quanto la versatilità ottomana si fece
sentire. E’ difficile immaginare un popolo delle steppe, abituato a vivere a
cavallo, che un giorno diventi padrone del mare. Anche un precedente come
le due tentate invasioni mongole del Giappone ce ne danno un esempio, dato
che Kubilay Khan si avvalse dell’abilità dei cinesi e dei coreani per trasportare le sue truppe sulle spiagge di Hakata a Kyushu. Anche in questo campo
gli Ottomani seppero adattarsi magnificamente, diventando tra il 1400 e il
1600 padroni di tutto il bacino orientale del Mediterraneo.
La storia delle guerre sul mare viene divisa solitamente in tre periodi:
quello delle navi a remi, di quelle a vela e poi di quelle a motore, dal vapore
fino all’energia atomica. E’ complesso porre la parola fine al primo periodo,
dato che le galere a remi vennero usate fino al 1700 in Mediterraneo, quando le navi a vela erano già diffusissime ovunque. Basta l’esempio dell’avventura dell’Invincible Armada che tentò nel 1588 di invadere l’Inghilterra
elisabettiana a capire quanto i due sistemi di navigazione fossero ancora diffusi, anzi fu proprio qui che si vide palesamene quanto le prime venissero
oramai ampiamente surclassate dalle seconde. Il 1400 e il 1500 tuttavia furono ancora due secoli in cui l’uso del remo nel Mediterraneo fu decisamente diffuso e le battaglie combattute tra navi cristiane e musulmane ne danno
esempio eclatante.
La galea o galera era la diretta discendente dalle navi usate sin dai tempi
dei greci e dei romani. Era spinta a remi e poteva all’occorrenza alzare una
vela quadra o triangolare. Pescava poco ed era quindi adatta a muoversi an-
54
Nicolle D., op. cit., pp. 8-18 e Nicolle D., The Janissaries, Osprey, Oxford, 2002, pp. 519.
60
che in fondali poco profondi ed aveva il doppio vantaggio di potersi spostare sia con il vento che in assenza di esso.
La peculiarità tattica che distingueva la galera dalle navi a vela, che vennero armate di cannoni sulle fiancate dopo l’avvento delle armi da fuoco,
era di essere munita di un lungo, acuminato rostro con cui si intendeva speronare la nave avversaria, praticandovi così un foro che l’avrebbe bloccata e
poi fatta anche affondare una volta ritiratisi. Un’altra tattica usuale era quella di avvicinarsi percorrendo a tutta velocità il fianco dell’avversario e “tagliandogli” i remi se questi malauguratamente non fossero stati ritratti a
bordo in tempo. Questo permetteva di immobilizzare la nave avversaria
mettendola poi alla mercé dell’attaccante. La concezione di esporre la fiancata per cannoneggiare l’avversario divenne al contrario usuale con l’avvento della navigazione a vela e delle armi da fuoco, il che ribaltava completamente gli schemi in uso fino ad allora.
Ciò che rimase usuale con entrambi i sistemi di navigazione fu il ricorso
all’abbordaggio. Che si andasse a remi o a vela, fin dall’antichità l’abitudine
di affiancare a bordo i marinai e i rematori con nutriti reparti di combattenti,
si protrasse fino al 1800. L’uso degli archibugi fu un proseguimento di questi metodi e nel 1500 si assiste all’impiego massiccio di gruppi di fucilieri
che si associavano alle artiglierie per causare scariche ben nutrite che permettessero di falciare a distanza i nemici prima di passare direttamente al
corpo a corpo con pistole e armi bianche.
La marina ottomana si distinse in due tipi. Da un lato vi era la marina da
guerra vera e propria, con una flotta, solitamente gravitante nel Mar di
Marmara e in Egeo, che all’occorrenza poteva impegnarsi in grossi scontri
con le similari cristiane e non, od essere impiegata in appoggio alle operazioni di terra e negli assedi, come fu nella caduta di Costantinopoli e Rodi.
Dall’altro c’erano i pirati e i corsari al soldo della Sublime Porta che molte
volte in modo autonomo, ma anche con una “patente di corsa” ufficiale,
svolgevano in mare, lungo le coste e nell’immediato entroterra, la stessa
funzione della già citata cavalleria akinci.
Si è già accennato al ruolo fondamentale che ebbero i grandi capi pirati
nell’evoluzione della flotta ottomana. Come il governo imperiale cinese anche i sultani seppero avvalersi di costoro trasformandoli in corsari e grandi
ammiragli, quali di fatto erano, per compiere ogni genere di azione militare,
di razzia e di conquista.
Uno degli elementi più tristi da ricordare, ma che ebbe un ruolo altrettanto importante, in quanto voce economica di primo livello in tutto l’Impero,
fu l’uso della schiavitù.
Mai del tutto debellata, fino alla metà del 1800 e anche oltre, sia pur con
casi per fortuna sempre più sporadici, questa forma di arricchimento fu uno
61
dei fenomeni che scavarono nei secoli un rancore che ancora oggi è duro a
morire tra mondo europeo e musulmano. In particolare quando i porti del
Nord Africa finirono in mano ottomana o dei loro vassalli, si ebbe un continuo stillicidio di incursioni sia in mare che a terra, di cui le popolazioni rivierasche divennero i bersagli preferiti. Le marine dei grandi stati come
Spagna, Francia, Papato, Genova e Venezia risposero nello stesso modo, ma
l’interesse per i vari potentati musulmani “legali e non” di procurarsi merce
umana da rivendere nei vari mercati degli schiavi fu una voce sempre attiva
nella loro economia, Impero Ottomano compreso. Lo stesso furto di beni ne
è testimonianza e molto spesso si assiste al caso di merci ad esempio spagnole rubate da pirati barbareschi e ricomprate da mercanti sempre ad esempio francesi sui mercati delle città nordafricane. Gli stessi prigionieri
catturati negli abbordaggi o durante le incursioni potevano venir riscattati e
anche qui si hanno casi di Cavalieri di Malta che salvano da schiavitù certa
personaggi eccellenti pagando riscatti che serviranno a proseguire la guerra
di corsa in un gioco senza fine di aggressioni e compravendite. L’alternativa
sarebbe stata il subire un continuo stillicidio di incursioni che alla lunga avrebbe prodotto un fenomeno di impoverimento, soprattutto umano, simile a
quello già visto parlando dei possedimenti ungheresi e bizantini55.
Per contro la schiavitù era allo stesso tempo una fonte di guadagno tra le
migliori e nel contempo di manovalanza sia a terra che in mare. A bordo
delle galere c’erano tre tipi di rematori: uomini liberi, galeotti e schiavi.
Queste ultime due categorie venivano logicamente sottoposte ad un trattamento che doveva dare il massimo della sicurezza al resto dell’equipaggio a
bordo. A fronte di un centinaio di uomini in genere, ripartiti tra ufficiali,
marinai, soldati per gli abbordaggi e cannonieri, in media si potevano avere
tra i 120 e 240 rematori disposti di solito su più file di 25-30 remi a babordo
e tribordo. La vita di costoro era terribile, soprattutto in caso di battaglia,
dove si richiedeva loro il massimo dello sforzo fisico per far arrivare la nave
ad una velocità ottimale per l’epoca di 4-5 nodi in fase di speronamento. A
ciò si univa il fatto che galeotti e schiavi erano incatenati ai loro banchi,
causando una scarsità di igiene facilmente immaginabile. Uno scrittore
dell’epoca sottolineava il fatto che anche di notte una galera nemica fosse
facilmente individuabile a 2 miglia di distanza per l’odore che emanava.
Con l’avvento delle armi da fuoco la potenza delle galere migliorò grazie
alla disposizione a bordo di alcuni pezzi di artiglieria. Su quelle spagnole
del 1500 era possibile trovare fino a 5 pezzi montati a prua che avrebbero
aumentato l’effetto dello speronamento e dell’abbordaggio eventuale in maniera piuttosto consistente. Miguel Cervantes chiamava questi cannoni “los
55
Bono S., Corsari nel Mediterraneo, Mondadori, Milano, 1993, pp. 183-201.
62
5 ministros de la muerte”, il che ci dà poeticamente l’idea di quanto fosse
mutata la potenza in combattimento delle galere in quegli anni.
Uno dei successi maggiori ottenuti dalla marina ottomana fu la battaglia
di Prevesa del 1538 lungo la costa occidentale della Grecia. Di lì in poi il
pericolo che essa rappresentò nei decenni successivi si estese a tutto il Mediterraneo centrale. Quelli furono gli anni d’oro della marineria turca, sempre
rappresentati dai grandi ammiragli già citati che formarono, come ad esempio Khair ad-Din Barbarossa (1475?-1546), un vero “stato nello stato”, grazie all’autonomia ed al prestigio che seppero raggiungere.
L’esempio più interessante da citare è proprio lo stesso Barbarossa. Era
uno di quattro fratelli nati a Mitilene, la storica capitale dell’isola di Lesbo,
caduta in mano ottomana nel 1462. Suo padre fu probabilmente un sipahi o
addirittura un giannizzero, mentre la madre era la vedova di un pope. Almeno tre dei quattro i giovani si diedero alla pirateria che in quegli anni lottava
soprattutto contro i Cavalieri di Rodi. Il fratello più abile si chiamava Aruj e
decise di spostarsi nel Mediterraneo occidentale, dove prima stabilì il suo
centro d’operazioni a Djerba e poi ad Algeri. Morì nel 1518 e Khair ad-Din
gli subentrò sia nel comando che nel portare il nomignolo di Barbarossa. Il
suo più grande successo in quegli anni fu quello di conquistare Tunisi nel
1531 strappandola al signore locale. La città gli verrà in seguito tolta dagli
spagnoli uniti ai genovesi, ma fu poco male perché intanto Khair ad-Din era
diventato talmente potente e famoso che due anni dopo si recò ad Istanbul e
ricevette da Solimano la carica di Kapudan Pasha, “Grande Ammiraglio”, il
ruolo più potente dell’Impero dopo il Sultano stesso e il Gran Visir. Con
questo incarico Barbarossa inaugurò una nuova serie di gesta che lo portarono a divenire il corsaro più celebre della sua epoca. Quella più famosa,
che qui citiamo, rimase la grande incursione che egli compì nel 1534 lungo
le coste del Tirreno col doppio scopo di spezzare il controllo spagnolo e cristiano in quel mare e saccheggiare un po’ tutta la costa italiana intorno alla
Campania. Tra i suoi obiettivi vi fu anche l’azione più “romantica” per la
quale viene ricordato ancora oggi: il tentativo di rapire Giulia Gonzaga
(1513-1566).
Questa nobile, nata a Gazzuolo vicino al Po, era stata la moglie di Vespasiano Colonna, che lei aveva sposato a 13 anni ed era morto già due anni
dopo. Rimasta vedova, aveva ereditato tra l’altro il titolo di contessa di Fondi, dove viveva. Con gli anni era cresciuta divenendo nota come “la donna
più bella d’Italia”, dato veritiero se si osserva anche uno solo dei numerosissimi dipinti che la ritraggono. Il fatto è che era non solo bella ma estremamente colta e negli anni dimostrò sempre di avere un carattere fermo e aperto: potremmo dire che era una tipica rappresentante del 1500. Tenne sempre
una corte brillante intorno a sé composta di pittori, poeti e persone colte di
63
varia estrazione. La misura della sua cultura e del suo carattere ci viene fornita dal suo interesse per il dibattito teologico, cui si aprì favorendo anche
un piccolo circolo di protestanti. Non erano certo gli anni quelli in cui si potesse scherzare però con un fuoco di quel genere e rischiò parecchio di finire
nel mirino dell’Inquisizione. La sua vita si concluse comunque in modo
sempre originale visto che nel 1566, l’anno della morte di Solimano, entrò
in convento e poco dopo morì.
Altrettanto originale fu la sua avventura con Barbarossa. Egli aveva ben
pensato di coronare il suo piano di incursione nel 1534 compiendo un gesto
decisamente audace: rapendo Giulia Gonzaga avrebbe dimostrato a tutta la
cristianità quanto potente era divenuta la flotta ottomana e nel contempo avrebbe espresso la sua gratitudine a Solimano, facendogli un dono così particolare per il suo harem da gareggiare persino con “Le Mille e una Notte”.
Purtroppo il colpo non riuscì, complice sicuramente l’eccessivo dispiegamento di forze. Se anziché presentarsi vicino a Fondi con più di 80 galere,
sbarcando in costa un esercito di 6.000 uomini, si fosse usato un numero ridotto di incursori, probabilmente si sarebbe riusciti nell’intento. La contessa, anche se come narra la storia in camicia da notte, ebbe invece il tempo di
fuggire e quella che sarebbe passata come la più celebre azione di pirateria
della storia andò in fumo. Negli anni successivi Barbarossa ebbe comunque
modo di distinguersi in imprese ben più importanti tra cui proprio la celebre
battaglia di Prevesa56.
Con azioni continue sia militari che di semplice saccheggio i corsari ottomani seppero imporre se stessi e il nome dell’Impero lungo tutte le coste
dell’Europa meridionale e nelle isole nei decenni seguenti. Fu proprio per
prendere una di queste, Cipro, che si innescò quel meccanismo che avrebbe
portato a un notevole impasse per la marineria ottomana, ad un rallentamento del suo espansionismo ed alla successiva stagnazione.
Nel 1570, quattro anni dunque dopo la morte di Solimano, venne deciso
di togliere ai veneziani l’ultima loro grande base nel Levante. Lo sbarco di
un’armata fu rapido grazie anche alla vicinanza delle coste asiatiche tutte
oramai in mano turca. Rapidamente tutti i grossi centri dell’isola caddero tra
cui la fortezza-stella di Nicosia e Kyrenia, dove il governatore si arrese. Alla
fine rimase solo la fortezza di Famagosta che venne assediata fino all’agosto
del 1571. La guarnigione veneziana, comandata dall’indomabile Marc’Antonio Bragadin, riuscì a resistere ad ogni attacco portato da forze immensamente superiori, comandate da Mustafa Pasha. Alla fine dovette capitolare
56
Panetta R., Pirati e Corsari, Mursia, Milano, 1981, pp. 61-106 e Formentini F., Intervista
al Corsaro Barbarossa, Minerva, Argelato (BO), 2013, pp. 75-97 e 151-166.
64
subendo una serie vergognosa di rappresaglie di cui il Bragadin fu solo la
vittima più illustre57.
Nel frattempo in occidente venne radunata, come era già avvenuto in
passato, una Lega Santa costituita da una flotta che avrebbe in teoria dovuto
portare soccorso all’isola, ma che alla fine fallì del tutto il suo scopo. La
flotta impiegò parecchi mesi per radunarsi, essendo composta da rappresentanze di tutte le marine cristiane più importanti del Mediterraneo, tra cui
spiccavano Venezia, il Papato e gli Asburgo che tra l’altro avevano ottenuto
il comando nominale dato al Principe Don Giovanni d’Austria. Il 7 ottobre
di quell’anno avvenne lo scontro nelle acque di Lepanto e la flotta della Lega Santa riuscì ad ottenere una vittoria schiacciante su quella ottomana comandata da Mehmed Alì Pasha e da alcuni ammiragli corsari tra cui Uluch
Alì il cui nome completo era Alì el’Ulug “Alì il Rinnegato”, noto in Italia
come “Uccialli”, un ex-cristiano calabrese catturato dai pirati ed ora Pasha
di Algeri.
Al di là di ogni considerazione e polemica storica questa sconfitta per
l’Impero Ottomano non fu risolutiva e il Sultano Selim II lo espresse con la
lapidaria frase: “I cristiani mi hanno tagliato la barba, ma essa ricrescerà”.
Essa tuttavia ebbe due effetti, uno teorico ed uno pratico di non poco conto.
Da un lato in quel momento Lepanto rappresentò per l’Europa il coronamento di un sogno che durava da moltissimo tempo: poter ottenere una
grande vittoria dimostrava che gli Ottomani dopo tutto non erano invincibili
se si voleva. Dall’altro per molti versi lo strapotere navale turco venne bloccato. Le incursioni continuarono per mare, ma l’Impero preferì in genere
concentrarsi in operazioni via terra. Dal punto di vista navale si assistette al
sorgere di nuove tattiche, con l’introduzione ad esempio delle galeazze che
ebbero il loro primo impiego in questa battaglia, vere e proprie piattaforme
galleggianti irte di cannoni che si possono in qualche modo considerare le
innovazioni che introducono i sistemi di combattimento delle navi a vela,
sebbene molti schemi dovranno prima evolversi nel tempo. Persino Venezia,
che non recuperò mai più l’isola di Cipro, poté tirare un sospiro di sollievo e
la gioia del trionfo ci è attestata ancora oggi dallo splendido dipinto di Andrea Michieli Vicentino che si trova in una delle sale del Palazzo Ducale.
Anche la festa della Madonna del Rosario è ancora oggi, all’insaputa di
57
Bragadin M.A., I trecento giorni di Famagosta in Storia Illustrata, Settembre 1970,
Mondadori, Milano, pp. 74-85.
65
molti, una celebrazione di una vittoria purtroppo militare e non della carità
cristiana, ma che ci ricorda sempre di anno in anno quel giorno58.
L’Impero dopo Solimano
Dopo Solimano l’Impero continua, sia pur a rilento, ad espandere i suoi
confini. Vengono annesse zone orientali come la Georgia e le regioni settentrionali persiane di Tabriz e Shiraz. Anche in Europa orientale si riaccendono a tratti le guerre, talvolta favorevoli ai cristiani, come quella in cui il
principe di Moldavia Michele annette sia Moldavia che Transilvania. Anche
gli Asburgo riescono tra il 1595 e il 1599 a battere gli Ottomani in Ungheria. Di fatto non si avranno arretramenti dei confini, ma per lo meno si ottiene la soppressione del tributo che gli Asburgo dovevano versare ad Istanbul.
Si proseguirà poi in forma altalenante. Il principe di Transilvania Bočkay si
ribellerà e passerà ai turchi. Alla sua morte si avranno di nuovo riprese degli
scontri, ma l’elezione a Voivoda di Gabriel Bethlen nell’ottobre del 1613,
riporterà la situazione alla normalità.
La politica ottomana per diversi decenni sembra più rivolta a sistemare la
situazione interna che non ad una decisa spinta espansionistica, sia contro i
Safavidi che contro gli Asburgo. Anche la stessa Guerra dei Trent’anni ne è
una testimonianza, se si pensa alla serie di alti e bassi cui andò incontro
Vienna e dei quali un sultano ben deciso avrebbe senz’altro potuto approfittare; invece non accadde praticamente nulla.
I problemi in realtà sono molto più complessi di quanto possa sembrare.
Uno di questi, e all’apparenza il più importante, è il crescente potere da un
lato degli harem e dall’altro dei giannizzeri e delle classi di militari e funzionari più elevate. Basta verificare l’elenco di sultani che governarono dopo i 46 anni di regno di Solimano per rendersi conto subito di quanti di loro
si succedettero sul trono, segno questo di un indebolimento sostanziale dei
vertici di comando, a tutto vantaggio di alcune categorie privilegiate che si
sforzavano o di emergere o di mantenere tutta una serie di vantaggi economici e di prestigio già acquisiti.
Purtroppo il sistema di governo creato ha il difetto che per funzionare
bene ha bisogno di sultani energici, ma non tutti si possono chiamare sempre Solimano! Di questa situazione ne approfitterà anche lo Shah di Persia
Abbas I che nel 1623-24 attacca l’Iraq e rioccupa Baghdad, facendo strage
di sunniti. Molte volte scoppieranno delle rivolte nelle zone arabe, nei Bal58
Lloyd C., Le grandi battaglie navali a vela, Rizzoli, Milano, 1970, pp. 7-23 e Cowling
R.J., Triumph of the West, Lepanto, 7th October 1571, in Strategy & Tactics, n. 272, Bakersfield (CA), 2012, pp. 6-17.
66
cani, nella lontana Crimea o persino nella stessa Istanbul. A volte sono i
contadini per le troppe tasse, altre (e sono quelle più preoccupanti) sono i
soldati che per aumentare il loro soldo ed i privilegi, come avevano fatto
1600 anni prima i pretoriani a Roma, preferiscono far eleggere dei sultani
incapaci o ancora ragazzi, in modo da poter esercitare un potere ancora più
vasto59.
E’ appena con Murad IV (1623-1640) che si osserva un ristabilirsi
dell’autorità ottomana. Durante il suo regno un po’ tutti i territori perduti
vengono recuperati, Iraq compreso. Tutto questo si deve anche ad un periodo favorevole in cui diversi gran visir si succedono, lottando ogni volta per
riaffermare il potere centrale, e in particolare quella meritocrazia che aveva
permesso di rendere così potente e florido l’Impero nei secoli precedenti.
Inizia così l’epoca cosiddetta dei Köprülü. Essi sono Mehmed (16561661), suo figlio Köprülüzade Fazil Ahmed Pasha (1661-1676) e infine il
genero di questi Kara Mustafa Pasha (1676-1683), uno dei pochi uomini politici e generali ricordati anche in occidente perché fu lui a riportare le armate ottomane sotto le mura di Vienna, assediandola una seconda volta.
A onor del vero si dovrebbe anche notare malignamente una cosa: i tre
Köprülü che tanto si sforzarono di ripristinare la bontà del sistema governativo ottomano originale, basato sul merito e non sul legame di parentela, in
realtà erano parenti tra loro. Una contraddizione in termini che però risulta
fortemente attenuata da tutta la serie di sforzi fatti per riportare l’Impero alla
sua grandezza piuttosto che curare solamente i proprio interessi personali.
Mehmed si dedica praticamente solo alla politica interna. Era stato reclutato con il sistema del Devshirme, infatti è albanese anche se non si sa se
cristiano. Poco conosciuto e privo quindi di legami con le grandi famiglie a
Istanbul, riesce ad avviare una buona epurazione sia nel settore militare che
in quello civile. Anche in campo finanziario il sessantenne Gran Visir è
molto rigoroso: limita le spese eccessive, perseguita frodatori e corrotti, anche se, a detta di alcuni critici, è troppo incline all’uso della pena capitale.
Tant’è, in pochi anni risolve una situazione che stava portando l’Impero sul
baratro.
Fazil Ahmed Pasha subentra al padre e si potrebbe quasi definirlo come
complementare a lui. Si dedica principalmente alla politica estera e con successo. Inaugura il suo governo con una sconfitta: la celebre battaglia di
Sankt Gotthard dell’1 agosto 1664, nella quale Raimondo Montecuccoli dimostra tutta la sua maestria mentre Fazil Ahmed va incontro al fallimento. I
59
Roux J-P., op. cit., pp. 234-238; Mantran R., Storia dell’Impero Ottomano, op. cit., pp.
253-260 e Mantran R., La vita quotidiana a Costantinopoli ai tempi di Solimano il Magnifico, op. cit., p. 105.
67
dispositivi impiegati sono antiquati e, contro un’armata moderna composta
da veterani della Guerra dei Trent’anni, non riescono ad avere la meglio.
Poco male perché i due maggiori successi dell’Impero arrivano negli anni
seguenti anche se in altre zone. Creta viene strappata ai Veneziani, rendendo
un fatto compiuto il controllo ottomano di tutto il Mediterraneo orientale.
Essa cadrà nonostante la Serenissima compia ogni sforzo per salvare l’isola
e per lei il “Generale da Mar” Francesco Morosini60.
Contro la Polonia diversi attacchi portano al felice risultato di conquistare la Podolia e l’Ucraina. E’ infatti nella prima metà del 1600 che si profila
la nuova grande sfida per l’Impero. Nel nord il Regno di Polonia diviene
quel nemico che, nonostante vari insuccessi, riuscirà a bloccare le ultime
avanzate ottomane in Europa.
Kara Mustafa è di origine turca ed è stato cresciuto nella famiglia Köprülü. E’ molto più interessato alla politica estera ed inaugura una serie di campagne che però fortunatamente saranno infruttuose. Il culmine di esse si ha
con il secondo grande assedio di Vienna, portato quasi al termine dello scadere della tregua ventennale inaugurata grazie alla vittoria di Montecuccoli a
Sankt Gotthard. L’assedio iniziò il 14 luglio 1683 e durò fino al 12 settembre. Quel giorno furono proprio gli husaria, gli ussari alati di re Jan Sobieski, a salvare Vienna calando alla carica dal Khalenberg e distruggendo per
la prima volta in modo eclatante un esercito turco sul campo di battaglia; il
debito che quel 12 settembre 1683 l’Europa e l’Impero Asburgico contraggono con la Polonia rimarrà per sempre61. Lo scontro suggella non solo la
crisi dell’apparato militare turco, ma avvia lentamente e inesorabilmente il
lungo periodo di campagne vittoriose che porteranno al recupero di tutta
l’Europa balcanica alla cristianità e che si concluderà dopo la fine della Prima Guerra Mondiale e da ultimo col crollo dell’Impero62.
La conseguenza immediata della sconfitta di Vienna è la morte di Kara
Mustafa stesso. Il suo fallimento portò i suoi rivali ad ottenere che egli cadesse in disgrazia; così il Sultano Maometto IV (1648-1687) lo fece giustiziare per strangolamento il 25 dicembre 1683. Kara Mustafa venne immediatamente sostituito dal suo vice Kara Ibrahim Pasha (1683-1685), che aveva amministrato gli affari di stato rimanendo a Istanbul mentre il suo superiore era impegnato nella campagna militare. Nonostante avesse una lunga
60
Panetta R., Il tramonto della Mezzaluna, Mursia, Milano, 1984, pp. 88-108.
Millar S., Vienna 1683, Osprey, Oxford, 2008, pp. 63-80; Brzezinski R., Polish Armies
1569-1696 (1), Osprey, Londra, 1983, pp. 8-10; Brzezinski R., Polish Armies 1569-1696
(2), Osprey, Londra, 1994, pp. 19-21 e Brzezinski R., Polish Winged Hussar, Osprey, Oxford, 2006, pp. 4-7.
62
Mantran R., Storia dell’Impero Ottomano, op. cit., pp. 253-276.
61
68
esperienza sia di governo che militare egli tuttavia non riuscì ad evitare
l’ineluttabile tempesta che si stava profilando all’orizzonte.
Dal 1684 in poi si può dire che inizia il grande declino dell’Impero: le
potenze europee capiscono che oramai hanno raggiunto quel primato bellico
che permetterà loro di spingersi lentamente verso Istanbul, riconquistando
anno dopo anno tutti i Balcani63.
La crisi
Quando comincia la crisi dell’Impero Ottomano e quali sono le cause?
Pretendere di dare una risposta sola è un po’ come rispondere all’eterno
quesito: cosa portò alla caduta dell’Impero Romano? E’ impossibile trovare
una sola causa. E’ più giusto al contrario dire che ci fu una serie di concause, sia interne che esterne, che si succedettero su un arco di tempo anche
piuttosto lungo senza che una avesse più importanza delle altre.
Già durante il regno di Solimano si incominciano ad intravedere i primi
sintomi di una malattia che si diffonderà sempre più e che si può sinteticamente definire coi termini di lassismo e corruzione.
L’Impero Ottomano impiega alcuni secoli a formarsi e raggiunge il suo
apogeo tra il 1450 e il 1550, grosso modo tra i regni di Maometto II e Solimano. In quest’arco di tempo, un po’ prima e un po’ dopo, l’Impero si ingrandisce a dismisura occupando zone anche molto distanti tra loro, se si
considera come centro Istanbul, e in cui si assorbono le comunità più disparate. Questo richiede tempo per l’assimilazione e la creazione di un’adeguata serie di strutture amministrative. Da questo punto di vista tuttavia la politica di riorganizzazione è decisamente avanzata. Forse l’elemento migliore è
la forte apertura mentale, che trae forza dal mondo nomadico e che permette
di rendere chiunque allo stesso tempo partecipe dell’immenso lavoro di risistemazione che è necessario. Se ben si osserva molti grandi nomi, in particolare durante il regno di Solimano, appartengono a personaggi che turchi
non sono: Ibrahim Pasha è un epirota, Khair ad-Din Barbarossa viene da
Mitilene nell’isola di Lesbo. Le comunità cristiane e così anche quelle ebree
non vengono escluse, anzi hanno un ruolo che è quasi determinante. Nello
stesso tempo si assiste, da parte del gruppo turco, dirigenziale e non, ad un
adattamento sorprendente primo fra tutti il passaggio dal nomadismo e l’allevamento alla sedentarietà e all’agricoltura che diventa inoltre l’elemento
cardine dell’economia dell’Impero.
Nella piramide sociale, politica ed amministrativa al vertice sta il Sultano
che ha un potere assoluto simile a quello dell’Imperatore cinese. Nello stes63
Mantran R., op. cit., pp. 274-276.
69
so tempo tuttavia viene creato un apparato statale, che a ben guardare, continua a funzionare anche quando si succede una serie di sultani deboli. Questo fa dell’Impero Ottomano una delle forme di governo pre-moderne più
forti. La capacità di accogliere il “diverso” all’interno dello stato rende dinamica e molto attiva questa società che è composta da moltissime realtà
culturali senza che ci sia un netto prevalere di una comunità su un’altra. Fintanto che una simile regola resta valida, l’Impero può progredire e la ricchezza che viene non solo accumulata con le guerre ma anche creata diventa
incommensurabile. I problemi iniziano nel momento in cui le situazioni tendono ad assestarsi ed alla meritocrazia comincia a sostituirsi il favoritismo e
il clientelismo. Coloro che entravano a far parte dell’apparato statale fossero, militari o civili, laici o religiosi, tesero a voler mantenere le loro posizioni di privilegio acquisite. Uno degli assurdi più grandi del sistema militare
ottomano è l’abbandono del sistema del Devshirme a tutto vantaggio della
trasmissione di ruolo. A un dato momento i giannizzeri ad esempio iniziano
a far ereditare la loro carica ai propri figli, generando un ovvio scadimento
delle qualità militari in un mondo dove l’abilità ad acquisire e addestrarsi
alle nuove tecniche richiederebbe sempre più e dove non può logicamente
esserci spazio per il “passaggio di consegne ereditario”. Come afferma giustamente Robinson paradossalmente fu il trionfo degli schiavi cristiani e dei
giannizzeri sui loro padroni turchi e aristocratici che portò all’allentamento
della disciplina e all’emergere di uomini di valore inferiore rispetto ad una
classe guerriera (e civile) che sino ad allora era stata un modello di abilità64.
A ben guardare anche l’assurgere al potere da parte dei Köprülü è un sintomo di malessere del sistema. Anche se si tratta di ottimi gran visir, essi sono
sempre dei primi ministri, mentre i sultani demandano a loro ogni volta
l’esercizio del potere.
Col tempo l’eccessivo statalismo dell’Impero porta solo al desiderio di
veder mantenuti i privilegi e quindi alla corruzione. Accanto a ciò vanno
considerati diversi fattori demografici ed economici. In genere gli ex nomadi-allevatori, ora contadini, non sono quasi mai proprietari della terra che
coltivano. Nel 1528 l’87% della terra è del Sultano, il che rende a lungo andare sterile anche l’iniziativa in campo agricolo. D’altro canto già nel 1500
si assiste al raddoppiamento della popolazione. Al contrario la valuta si ridusse di valore nel corso del tempo, anche per cause esterne, e in due secoli,
tra il 1570 e il 1770, i prezzi quadruplicarono. Questo rese più conveniente
considerare la terra una fonte di investimento piuttosto che di sostentamento, anche per permettere agli assegnatari dei timar di continuare a svolgere i
64
Robinson F., op. cit., p. 76.
70
loro compiti, sia militari che amministrativi, rendendo la voce “agricoltura”
la più importante nell’economia dello stato, anche se non la più competitiva.
Tuttavia l’Impero resiste a molti scossoni come le rivolte dei contadini in
Anatolia o l’aumento di bande di briganti. Si tratta di una struttura statale
che è autosufficiente e che anzi partecipa all’economia internazionale esportando molti prodotti. Purtroppo però anche qui nel corso del tempo si manifesta la debolezza ottomana. E’ un’“economia-mondo”, come è stata definita da Braudel. Un’economia cioè che si basa molto sugli scambi e l’autosufficienza senza ancora il problema della concorrenza assidua che sorgerà
con il capitalismo occidentale. Tuttavia è un’economia sottoposta a un sistema di dirigismo, dove la libera iniziativa è troppo controllata da un rigoroso sistema della produzione e che perciò viene bloccata dall’interno prima
ancora di mettersi in competizione sui mercati esteri65.
La crisi dell’economia ottomana porta ineluttabilmente alla svalutazione
della moneta, con tutte le conseguenze interne che ben si possono immaginare. Ad esempio, rivolte contadine a parte, se i giannizzeri mantengono la
loro disciplina in qualche modo fino alla fine del XVI secolo e fino alla
morte di Murad IV, molte saranno le rivolte che si innescheranno sia tra loro
che tra i sipahi. Le date parlano da sé. A parte una prima sommossa che porta alla deposizione e all’assassinio di Osman II (1618-1622) e una successiva rivolta di giannizzeri e sipahi nel 1632, le principali si registrano nel
1648, 1651, maggio 1655 e marzo 1656. Subentra il periodo di calma sotto
il ferreo controllo dei Köprülü e ne avviene una grossissima nel 1687. Forse
questa è la più esemplificativa dello stato di degrado, corruzione e crisi in
cui versava l’Impero. I giannizzeri misero a sacco il Serraglio del Sultano e
provocarono tali disordini e devastazioni in città che la popolazione stessa
scese in strada e si schierò apertamente contro di loro: sarebbe come se la
popolazione di Parigi fosse intervenuta per combattere nelle sue piazze i
Granatieri della Guardia di Napoleone66!
Dal punto di vista dei rapporti economici con l’estero si possono almeno
considerare due grandi cause che porteranno al tracollo dell’Impero, una
pratica ed una teorica.
Il fatto che, dopo la scoperta delle Americhe, si cominci ad assistere ad
un primato delle rotte commerciali marittime su quelle terrestri per l’Asia,
porta ad un primato delle potenze come Portogallo, Spagna, Olanda, Inghilterra e Francia a tutto danno degli Ottomani. Queste ultime tre stringono con
essi nel tempo tutta una serie di accordi che permette loro di surclassare nel
65
Mantran R., op. cit., pp. 234-236.
Mantran R., La vita quotidiana a Costantinopoli ai tempi di Solimano il Magnifico, op.
cit., pp. 132-137.
66
71
Mediterraneo i Veneziani e i Genovesi. Sono gli accordi noti come le “Capitolazioni” che permettono l’acquisto di merci ottomane a prezzi più vantaggiosi e che portano di conseguenza anche ad un aumento di esportazioni
nell’Impero che continua alla lunga ad accrescere le forze economiche di
queste potenze europee mentre quella ottomana si riduce sempre più.
Si deve considerare anche un altro fatto. Salvo alcune rare eccezioni,
l’Impero non riesce a tentare grandi imprese marittime e a diventare una
grande potenza. E’ proprio a partire dal 1500 che si assiste al sorgere
dell’idea che chi controlla i mari del Mondo controlla le terre emerse e
l’Impero in questo rimarrà tristemente indietro a tutti. Sarà con diversi decenni di ritardo che si assisterà al sorgere di una robusta marineria a vela ottomana, ma essa rimarrà pur sempre limitata nei soli Mar Nero e Mediterraneo.
L’idea di competere con le potenze marittime europee emergenti non decolla, così come stenta a partire l’idea stessa di competitività commerciale e,
perché no?, anche di capitale.
E’ così che si arriva alla causa teorica che forse è la più determinante.
Abbiamo detto in precedenza che il 1500 è uno dei secoli più ricchi di idee della storia umana. Si pensi a Copernico, all’idea insita nel Protestantesimo “dell’andare oltre”. Il “Go to West” che animerà la conquista del Nord
America trae la sua forza ed ha le sue basi nell’affissione delle 95 tesi di Lutero sulla porta della cattedrale di Wittemberg. Si pensi ancora ai conquistadores che, sia pur con tutti i loro difetti, hanno il coraggio di tentare il tutto
per tutto bruciando le loro navi per andare a conquistare i più grandi imperi
indigeni d’America. Che cosa vive l’Impero Ottomano nello stesso tempo?
Dov’è la sua smania di competitività sia commerciale che culturale o più in
generale di semplici idee?
Ma è in campo militare, a pare nostro, che si deve guardare per trovare il
più importante motivo che porta all’inizio della crisi, più che in ogni altro. I
membri delle varie tribù turcomanne che giunsero in Anatolia intorno al
1000 erano principalmente guerrieri. Gli Ottomani emergono tra tutti come
una società guerriera. Lo stato che viene creato sin dal suo primo momento è
guerriero. La stessa struttura amministrativa è improntata sulla guerra. Per
diventare membro dell’alta amministrazione si deve passare attraverso un
duro apprendistato militare; solo poi si potrà entrare a far parte degli organi
amministrativi. L’Impero Ottomano si basa su un forte potere governativo
dove i “militari” sono il cardine principale su cui si regge tutta la struttura.
Finché l’apparato militare, e chi lo gestisce soprattutto, rimane attento
all’evoluzione delle tecniche belliche che vengono elaborate, si assiste al
trionfo continuo delle armi ottomane sia in terra che in mare. Il momento in
cui si arriva ad un apice teorico, dove l’esercito e la marina sono invincibili,
72
è il momento in cui storicamente bisogna stare più attenti ed il famoso detto
“è nella vittoria che si annidano i germi della sconfitta” si manifesta in tutta
la sua forza e pericolosità.
Attraverso i secoli gli Ottomani hanno saputo creare una realtà culturale,
politica ma soprattutto militare dove i due mondi, quello asiatico e quello
europeo si toccano e si fondono, creando una serie pressoché infinita di sincretismi uno più affascinante dell’altro. Il loro modello ideale di armata si
contrappone per tanto tempo a quelli singoli dei loro avversari che peccano
di parzialità, non per idee ma per apertura mentale ad accogliere le idee sia
nuove, sia mediate dai vecchi schemi. E’ nel momento in cui viene a mancare questo stimolo nelle idee, ad adagiarsi nell’autocompiacimento in ciò che
si è inventato e fatto, che inizia la crisi, esattamente come quando l’uomo
smette di sentire lo stimolo della sua mente e si ferma, convinto di aver raggiunto il massimo.
L’Impero sente lo stimolo ad acquisire nuove tecniche. Il tayfa-i efrenciye, “il Corpo degli Europei”, è una realtà che è sempre presente. Si cercano
consiglieri militari europei che insegnino le nuove tecnologie, le tattiche e le
strategie, ma ogni volta si sprecano le occasioni di stimolo e ci si limiterà
solo a copiare ciò che hanno inventato gli altri. Quel che manca è il desiderio di inventare qualcosa di nuovo e originale, mentre l’Europa va avanti e
nel 1600 si ha una rivoluzione che in Gustavo Adolfo di Svezia ha il suo
massimo esponente.
L’esempio che ci viene dato dalla battaglia di Sankt Gotthard è solo uno
dei moltissimi che si possono citare, ma tutti emblematici. Il giorno della
battaglia i turchi si presentano sul campo con 100.000 uomini mentre il
Montecuccoli ne ha appena un quarto. Se il Gran Visir Fazil Ahmed Pasha
avesse scelto di tenere sotto di sé un quinto delle sue forze, rimandando gli
altri a casa, probabilmente avrebbe perso lo scontro comunque, ma certo avrebbe potuto ottenere migliori risultati in proporzione, stimolando i suoi
uomini a combattere con lo stesso spirito con cui avevano vinto i loro antenati, battendosi tante volte in inferiorità di numero ma ottenendo quasi sempre la vittoria. L’1 agosto 1664 rappresenta così uno dei tanti esempi di
spreco di forze senza ottenere dei risultati tangibili, mentre dall’altra parte si
ha una vittoria all’apparenza piccola ma in realtà estremamente significativa
di un mondo che sta cambiando perché è in continua evoluzione.
Volendo fare un ultimo termine di paragone si potrebbe rapportare Raimondo Montecuccoli a Fazil Ahmed come si può con Davide a Golia. Noi
europei abbiamo un debito enorme verso Davide che usò quel giorno al meglio di sé la sua tecnica e le sue armi. Ma dobbiamo guardare anche l’altro
lato della medaglia e considerare Golia per capire la vera portata dell’avvenimento storico. Golia spreca la sua energia, spreca le sue armi e spreca la
73
sua tecnica. In sostanza dà anche lui il suo contributo a creare la storia proprio attraverso la crisi di se stesso. Anche l’Impero Ottomano quell’1 agosto
1664 è in crisi e continuerà ad esserlo nei secoli successivi. Questa crisi in
parte continua ancora oggi.
74
Alessandro Massignani
L’ARTE DELLA GUERRA
AI TEMPI DI RAIMONDO MONTECUCCOLI
Uno sguardo alla situazione del Seicento in Europa
Vorrei premettere che questo intervento è largamente eurocentrico e riguarda lo sviluppo militare in un momento cruciale dell’evoluzione delle
armi da fuoco. Alcune premesse di inquadramento sono necessarie, benché
non sia mia intenzione inserirmi nel dibattito storiografico della crisi del
Seicento in Europa. Basta osservare che nel XVII secolo si verificò il passaggio degli scambi commerciali e della ricchezza dal Mediterraneo (Venezia, il centro dei commerci, ma anche l’impero ottomano) agli stati atlantici.
Mentre l’Inghilterra era ancora impegnata nella sua guerra civile e nella decapitazione del re, quantomeno fino al 1652, l’Olanda conosce la sua età
dell’Oro. Per rendersene conto basta guardare i quadri di Rembrandt van
Rijn e in generale del barocco fiammingo, per notare le ricchezze dei mercanti (ricchezze per allora, naturalmente) esposte ed ostentate. In un quadro
meno famoso di Vincent van Gogh invece, nella seconda metà dell’Ottocento, I mangiatori di patate (De Aardappeleters), si possono vedere due
secoli dopo, nella stessa Olanda, la fame e la disperazione.
Allo stesso tempo gli imperi mediterranei e le città stato come Venezia
soffrono di questa crisi: lasciando ad Alessandro Fontana di Valsalina l’analisi dell’impero Ottomano, osserveremo che la Spagna, pure impero atlantico, si indebolì per una serie di cause tra le quali i cattivi raccolti e la peste
nella seconda metà del Cinquecento, ma il suo sistema economico andò in
crisi anche a causa della concorrenza inglese e olandese sulle rotte coloniali
e con la penetrazione delle loro navi nel Mediterraneo. Al diffondersi delle
carestie dovute alle monoculture e alla “piccola glaciazione”, si accompagnò
il riesplodere delle epidemie, che falcidiarono nella prima metà del secolo
soprattutto la Spagna, l’Italia e la Germania; nella seconda metà, la Francia,
l’Inghilterra e l’Olanda.
Tuttavia la vera concorrenza era in Atlantico, tra inglesi, olandesi, portoghesi e spagnoli, il potenziamento della politica coloniale inglese (guerra
contro la Spagna 1655-1660) che avvenne con la guerra di corsa, la rapina
dei galeoni spagnoli trasportanti argento in Europa e la nascita di nuove
compagnie commerciali private di tipo monopolistico che in una determinata area conferivano una parte dell’utile allo Stato.
75
La Spagna fece bancarotta nel 1596 e poi nel 1607, quando non riuscì a
pagare con l’argento che arrivava dalle colonie i debiti verso le banche europee, né le enormi spese dell’apparato burocratico statale. Questo ebbe ripercussioni sulle operazioni militari: “fu una delle cause dell’eclissi delle
grandi battaglie prima della guerra dei Trent’anni”, causando scioperi militari per cinquecento giorni da parte di unità di élite spagnole e il terribile
sacco di Anversa1.
Gli imperi coloniali divennero intanto parte integrante del sistema economico europeo nell’economia-mondo2, grazie a imprese private come la
Compagnia olandese delle Indie Orientali e poi quelle Occidentali; la Wisselbank fu fondata nel 1609 con la protezione della città di Amsterdam e
l’Olanda rimase per un altro secolo il più importante centro finanziario europeo, succedendo agli italiani. La repubblica olandese riuscì a contenere i
tassi di interesse sul crescente debito delle Province Unite facendolo scendere costantemente nel corso del secolo3.
Per contro a metà del ‘600 quasi tutte le Americhe erano dominate dalla
schiavitù qui reintrodotta dagli europei, come sistema di produzione per
quei prodotti che poi venivano commerciati in Europa, per cui il Seicento è
anche il secolo dell’espansione della tratta degli schiavi, così come nell’altra
periferia europea, quella orientale (Russia, Polonia, Prussia), venne reintrodotto il servaggio (legame alla terra) dei contadini.
In linea generale però in Europa il Seicento è un secolo di crisi in quanto
si ferma lo sviluppo economico e demografico, a causa di carestie, guerre ed
epidemie, crollo della produzione agricola, in cui ebbe un ruolo importante
la guerra dei Trent’anni (1618-1648) che finì con la pace di Vestfalia (1644)
per esaurimento dei contendenti. Essendo stata combattuta soprattutto in
centro Europa, la Germania ne soffrì più di altri, con una diminuzione della
popolazione del 40%, che toccò punte del 70% in alcune regioni. Seicento
secolo di guerre quindi, statisticamente su cento anni 94 furono di guerra4.
Non soltanto questo provocò un ritardo di sviluppo in centro Europa, ma teniamo conto che le guerre non cessarono affatto con la pace del 1648.
Guerre provocate per l’egemonia in Europa, un forte aumento della competizione tra gli stati, impegnati in guerre sempre più numerose e sempre più
1
Piero Del Negro, Guerre ed eserciti da Macchiavelli a Napoleone, Bari, Laterza, 2001, p.
52.
2
Ovviamente il termine è mutuato da Ferdinand Braudel e dal suo ispiratore Fritz Rörig.
3
Niall Ferguson, Soldi e potere nel mondo moderno 1700-2000, Milano, Ponte alle Grazie,
2001, p. 203.
4
Charles Tilly, L’oro e la spada. Capitale, guerra e potere nella formazione degli stati europei 990-1990, Firenze, Ponte alle Grazie, 1991, p. 86, per altri autori gli anni furono addirittura 98.
76
costose, come abbiamo già visto a costo di distruggerla o consegnarla allo
straniero, scatenate in primo luogo dalla Riforma e dalla susseguente lotta
tra cattolici e riformatori, ma anche all’interno delle stesse organizzazioni
statuali cattoliche, dato che infine di guerre per i soldi si trattava. Si arrivò
all’aberrazione tale per cui Francesco I di Valois “non esitò ad allearsi con i
Turchi contro Carlo V” d’Asburgo5. Questa è una delle ragioni per cui i
Turchi musulmani in competizione con l’Europa cristiana avanzarono per
secoli verso Vienna e il centro Europa; la pace di Vestfalia sancì la divisione
in Europa con il riconoscimento del sistema statuale, ma a vantaggio dei
Turchi, tuttavia questa non è la ragione per cui negli anni recenti il sistema
vestfaliano è stato contestato.
Il trattato di Vestfalia riconobbe tra l’altro anche l’apogeo della potenza
olandese, divenuta repubblica indipendente e favorita nelle relazioni commerciali, ma compressa tra due grandi forze militari: quella marittima inglese, e quella terrestre della Francia del Re Sole. La seconda a lungo impegnata nelle guerre europee, la prima indisturbata dedita ad espandere i commerci, mettendo in cantiere navi adatte a dominare gli oceani, anche a scapito
dell’Olanda cui riuscì a strappare il primato marittimo e dei commerci con
tre guerre commerciali, oltre ad importanti colonie come quella del Capo,
cioè l’attuale Sudafrica, e quella americana di Nuova Amsterdam, che diverrà New York.
La guerra dei Trent’anni è senz’altro la più lunga, ma non la sola del secolo, un elenco delle guerre in Europa, senza contare quelle al di fuori che
pure furono assai importanti come quelle per il controllo delle risorse coloniali è impressionante, ma per evitare una dispersione statistica nomineremo
quantomeno la ripresa della guerra tra gli Asburgo e l’impero ottomano tra il
1662 e il 1683, le guerre del nord con l’attivismo svedese contro polacchi,
russi, danesi, tedeschi, norvegesi, quelle causate dalla Francia ovvero Guerra di devoluzione (fine nel 1668), Guerra d’Olanda (fine nel 1678) e Guerra
della Lega d’Augusta (che finì nel 1697). Infine non si può non menzionare
la New Model Army inglese costituito nel 1645 da Oliver Cromwell e Thomas Fairfax, la cui vera novità stava nella sua composizione sociale borghese giacché il primo esercito permanente era stato quello spagnolo delle
Fiandre e quello permanente nazionale quello svedese. Nelle battaglie di
Marston Moor e Naseby le tattiche utilizzate furono quelle alla svedese già
utilizzate con successo nella guerra dei Trent’anni in Europa.
Alla fine del secolo la guerra per le risorse e i mercati del mondo si fece
più intensa, favorendo chi aveva sviluppato le proprie navi per solcare i mari
5
Brendan Simms, Europe. Struggle for Supremacy from 1453 to the present, New York,
Basic Books, 2013, p. 21.
77
e dominarli, trasportando le merci dalle colonie all’Europa6. All’inizio del
Cinquecento gli inglesi non avevano le risorse per costituire una marina, ma
Enrico VIII riuscì nell’impresa chiudendo e secolarizzando i monasteri, ovvero saccheggiando la Chiesa romana, a dimostrazione del fatto che le guerre di religione avevano fondamenti economici.
Il passo successivo nella creazione della marina britannica, in mancanza
di accordo da parte del parlamento per la spesa, fu il risultato del lucro sulle
le navi spagnole che attraversavano l’Atlantico dalle Americhe e del loro carico, impresa affidata a privati. Nel corso del secolo successivo si affermò
un’industria navale che puntò alla supremazia dei mari, mentre i marinai venivano mantenuti in tempo di pace nella marina mercantile, evitando così un
notevole aggravio di costi. Lo strumento di queste navi era il cannone che
soppiantava la vecchia tattica dello speronamento e dell’arrembaggio: i galeoni erano in grado di navigare controvento di bolina ed erano destinati a
combattere in “linea di fila”, cioè in formazioni ordinate in lunghe file con i
cannoni sulle fiancate anziché a prora e poppa come nelle galee, sicché da 35 bocche da fuoco si passò a 40, e successivamente anche di più. Non è casuale che nel 1694 fosse fondata la banca d’Inghilterra, cui sarebbe passato
il testimone dalla sconfitta finanza olandese.
Il cannone del resto aveva salvato i coreani dai giapponesi, quando con le
loro navi-tartaruga, cioè protette contro gli speronamenti ma armate di cannoni, distrussero la principale flotta nipponica nel 1592.
Il Seicento fu anche secolo delle molte rivolte: dopo quelle dei moriscos
(cioè degli spagnoli, soprattutto andalusi della regione di Granada, d’origine
arabo-berbera) alla fine del Cinquecento, la Spagna ne deportò in Africa settentrionale 300.000 tra il 1609 e il 16147, mentre la Francia represse la
Fronda a metà secolo, dovuta, come le altre rivolte, ad un diffuso malcontento causato dall’aumento della pressione fiscale, a sua volta frutto
dell’espansione degli eserciti. Ma in queste rivolte vi erano anche equilibri
sociali insoddisfacenti soprattutto per l’aristocrazia limitata dalla politica assolutistica.
Da un punto di vista finanziario, che non possiamo non tener presente in
omaggio al detto che “l’argent fait la guerre”, si assiste ad alcuni fatti rilevanti: le zecche europee riducono la quantità di argento nelle monete, gli
stati indebitati cominciarono a offrire rendite ai propri creditori, favorendo
così il nascere di grandi ditte finanziarie.
6
Il testo più brillante sulla rivoluzione navale è Carlo M. Cipolla, Vele e cannoni, Bologna,
Il Mulino, 2011.
7
Brendan Simms, Europe. Struggle for Supremacy from 1453 to the present, cit., p. 27.
78
Per finanziare una guerra occorrono soldi che lo stato poteva reperire
tramite la tassazione ma quando la guerra durava molto (pensiamo a quella
dei Trent’anni ma non solo) era giocoforza ricorrere al credito, che poteva
essere reperito sia nel paese sia altrove, in dipendenza della situazione economica. Per esempio nell’Olanda arricchita con il traffico delle Compagnie
delle Indie era facile reperire finanziamenti, mentre la Spagna si trovava costretta a far fronte alle enormi spese di un sistema in overstretching come si
direbbe ora con l’argento trasportato dai galeoni dalle Americhe. Argento su
cui si arricchivano mercanti olandesi che lo trasportavano con le proprie navi - a pagamento - fino ad Anversa8.
La soluzione più naturale davanti alla scarsità di denaro era quella esplicitata nel detto che “la guerra alimenta la guerra”. Gli eserciti invasori vagavano nei territori esigendo tasse e contributi in denaro e in natura. Ciò significa che il paese in cui si combatteva o era anche soltanto occupato, doveva
pagare per le spese di guerra, costringendo i generali a valutare attentamente
le possibili aree di scontro. Più a lungo si protraevano le guerre e peggiori
erano le dimensioni del saccheggio accompagnato a rapine e omicidi. Le
truppe regolarmente al soldo di stati o condottieri, come per esempio Albrecht von Wallenstein o Gustavo Adolfo di Svezia, erano relativamente disciplinate nei primi anni di guerra, abbandonandosi poi a saccheggio e rapina non appena la situazione di questi mercenari provenienti da quasi tutti i
paesi d'Europa erano insoddisfatti del soldo: il sistema di Wallenstein è stato
anche definito “tassa della violenza” e consentiva ad un sovrano sull’orlo
della bancarotta di fare guerra a spese dei nemici9. Wallenstein rappresenta
una classe di personaggi che nell’Europa devastata dalle guerre del Seicento
fece del mestiere delle armi un via di ascesa sociale, assieme ad altri “imprenditori della guerra” come Piccolomini, Galasso, John Gordon, Johann
Aldrigen, compensati con titoli e terre laddove mancavano i denari. Denari
che Wallenstein riuscì a prestare agli Asburgo per finanziare la guerra.
Eppure questo non era sufficiente: occorreva pur sempre andare a prestito
di denaro, con conseguenze negative anche per i banchieri a volte: la famosa
famiglia di mercanti e banchieri Fugger di Augsburg fu rovinata dalla guerra
dei Trent’anni, a seguito del terzo default spagnolo10, mentre fortune sovra8
Charles Tilly, L’oro e la spada. Capitale, guerra e potere nella formazione degli stati europei 990-1990, cit., p. 105.
9
Peter Hamish Wilson, The Thirty Years War: Europe’s Tragedy, London, Penguin, 2009,
p. 399.
10
Lasr Magnusson, Il settore economico: capitalismo mercantile, consumo di lusso, sviluppo della cultura di mercato, in: Storia d’Europa, vol. IV, L’età moderna. Secoli XVI-XVII, a
cura di Maurice Aymard, Torino, Einaudi, 1995, pp. 565-595, p. 577.
79
ne come quelle del re di Svezia finirono in mani private, dato che il re aveva
impegnato al 1650 le terre della corona per il 60%, terre su cui riscuotevano
le tasse dei privati. La Svezia riuscì a fare la sua politica espansionistica, ma
l’implicazione della cessione delle terre è evidente.
Si è detto delle insolvenze spagnole, dell’enorme diminuzione di importazione di dobloni dalle Americhe, ma anche la Francia arrivò alla bancarotta nel 1647, costringendola alla pace di Vestfalia, anche se la circostanza fu
resa nota soltanto un anno dopo. Né il sovraintendente alle Finanze Claude
Bouthillier, signore di Foulletourte, né il cardinal Mazzarino che lo sostituì
nel 1643, ebbero un sistema organizzato di tassazione e continuarono la politica dell’indebitamento del re.
Guerre e sviluppi militari
Non è il caso di entrare nel merito del dibattito storiografico sulla “rivoluzione militare” che ha visto opporre teorizzazioni diverse agli studi di Michael Roberts11 prima e di Geoffrey Parker12 poi, dibattito che pare confinato nella storiografia anglosassone, ma prendiamo atto che molti rilevanti
cambiamenti ebbero luogo nelle società europee ancor prima che sui campi
di battaglia proprio nella seconda metà del Cinquecento per proseguire poi
proseguire nel Seicento e nel Settecento e indotte dal progressivo perfezionamento dell’uso delle armi da fuoco e dalla contemporanea espansione europea nel mondo. Processi lenti date le epoche, le lunghezze delle comunicazioni e lo stato di queste in Europa e nel mondo: le armi da fuoco che indussero molti cambiamenti nell’arte della guerra impiegarono un paio di secoli per diventare veramente efficienti, il che induce a pensare che la storia
vista con la prospettiva della lunga durata ci possa evitare di selezionare
momenti critici per definirli “svolte” e di limitare la nostra disamina alle
strette periodizzazioni secolari.
In questo dibattito l’ipotesi di “rivoluzione” è stato attaccato sotto diversi
profili, ma la più corrosiva proviene da McNeill: “Il fatto è che quasi tutti
gli aspetti del management francese e austriaco delle loro forze armate nella
11
Il contributo più recente sull’argomento di Michael Roberts è The Military Revolution, in
M. Roberts (a cura di), Essays in Swedish history, Minneapolis, 1967.
12
Geoffrey Parker, La rivoluzione militare. Le innovazioni militari e il sorgere
dell’Occidente, Bologna, Il Mulino, 1990; anche dello stesso Guerra e rivoluzione militare
(1450-1789), in: Storia d’Europa, vol. IV, L’età moderna. Secoli XVI-XVII, a cura di Maurice Aymard, Torino, Einaudi, 1995, pp. 435-483.
80
seconda metà del XVII secolo erano state anticipate da Venezia e Milano”
due secoli prima13.
La maggior novità dell’epoca di Montecuccoli è la nascita degli eserciti
permanenti: è indubbio che l’esercito spagnolo delle Fiandre fosse il primo
esercito permanente dotato di un ospedale militare, della cura dei reduci, dei
feriti e dei prigionieri, un esercito assistito da un apparato logistico complesso e che cominciava a disporre di baracche come alloggio dei militari14.
Ovviamente gli eserciti dell’epoca erano, come in quei secoli in Europa,
fondati sul mercenariato cui daranno un colpo decisivo, quantomeno per un
paio di secoli, i rivoluzionari prima e poi Napoleone con la leva in massa dei
cittadini-soldati.
Nel corso di questi anni lo stato comincia ad assumere un’organizzazione
burocratica che sarà destinata a formare gli stati nazione europei che si arrogheranno il diritto esclusivo dell’uso della violenza, togliendo ai sudditi le
armi e costituendo eserciti permanenti, strumenti ultimi della tassazione;
questa diventa monopolio dello stato che può riscuotere anche grazie al suo
esercito, creando un circolo virtuoso nel processo epocale di questa trasformazione.
L’organizzazione degli stati perviene alla formazione di quei centri decisionali che furono i ministeri della guerra e della marina nel tardo Seicento,
come attività ausiliaria della grande pianificazione strategica e operativa. I
due Dépots ministeriali francesi risalgono rispettivamente al 1688 e al 1715,
aggiungendosi a quello, preesistente, degli Esteri15.
All’inizio del XVII secolo le formazioni di fanteria non erano dissimili
da quelle della falange greca duemila anni prima, una selva di picche lunghe
dai quattro ai sei metri che rendevano l’urto con il nemico una sanguinosa
battaglia; la cavalleria non poteva affrontare questa formazione a meno di
non colpire i fianchi e scompaginare la formazione facendole perdere coesione, cosa che avverrà in alcune battaglie seicentesche.
Mentre la cavalleria dei nobili non accettava l’avvento della polvere della
sparo e i suoi effetti devastanti, l’artiglieria era pesantissima e immobile:
aveva la sua comparsa in Europa nel 1346 a Crécy e all’assedio di Calais,
mentre l’artiglieria navale nel 1372 a La Rochelle affonderà il naviglio in-
13
William H. McNeill, The Pursuit of Power. Technology, Armed Forces and Society A.D.
1000, London, Blackwell, 1982, p. 125.
14
Piero Del Negro, Guerre ed eserciti da Macchiavelli a Napoleone, cit., pp. 55-6.
15
Virgilio Ilari, Imitatio, Restitutio, Utopia: la storia militare antica nel pensiero strategico
moderno, in: Ermattung. Combat pour l’Historire Militaire dans un pais réfractaire, Milano, Università Cattolica del Sacro Cuore, 2001, pp. 53-116.
81
glese. Tuttavia l’artiglieria diverrà influente soltanto con la calata in Italia di
Carlo VIII alla fine del Quattrocento.
Lo sviluppo della trace italienne nel XV secolo in Italia è una risposta
all’arrivo di cannoni efficaci da parte francese, con la costruzione di fortificazioni basse ma spesse a forma stellare con molti bastioni triangolari sulle
punte della stella. I difensori potevano così avere ampi campi di tiro per
prendere d’infilata gli attaccanti ed impedire loro di approcciarsi alle mura
per collocarvi mine.
Nel corso del secolo le armi da fuoco subirono progressivi miglioramenti
tali per cui alla fine del Seicento la picca stava per essere superata a favore
delle armi da fuoco. L’archibugio, che alla battaglia di Pavia nel febbraio
1545 aveva messo fine ai fasti della cavalleria pesante francese, consentiva
di colpire un uomo a una trentina di passi e spesso di perforare una buona
corazza, benché con lo svantaggio del tempo di caricamento, circa un minuto, ed un peso abbastanza rilevante, ma l’operatività era limitata dalla necessità di mantenere la miccia accesa e destreggiarsi tra i vari attrezzi (bacchetta, fiaschetta della polvere, palle, ecc.).
Gli Spagnoli lo trasformarono in un pesante moschetto di circa 10 chili
che doveva essere appoggiato ad una forcella per poterlo usare, ma le trasformazioni nel corso del secolo portarono ad un’arma che pesava la metà e
che consentiva un tiro più rapido.
Gli olandesi misero in pratica la tecnica della salva di fuoco, cioè ogni fila di moschettieri sparava all’unisono, per poi ritirarsi e ricaricare l’arma,
mentre una nuova fila si disponeva a far fuoco. L’esecuzione di questo fuoco in faccia al nemico comportava un addestramento particolarmente accurato, affinché il soldato non perdesse mai la calma e fosse in grado di eseguire tutte le operazioni.
In questo modo l’incessante raffica dei proiettili avrebbe scompaginato
l’intero inquadramento nemico, causando forti perdite. Per ottenere questo
effetto era essenziale che gli uomini eseguissero come automi le operazioni,
riuscendovi grazie al costante addestramento, riducendone lo spirito creativo
ed avventuristico che aveva dominato i guerrieri medioevali e trasformandoli in macchine da guerra efficienti. Gli sviluppi tecnici futuri sarebbero stati
necessari: le modalità di ricarica di un moschetto a miccia sono molto diverse da quelli di una ricarica a ruota o pietra focaia. Lo stato organizzatore degli eserciti doveva produrre moschetti il più possibile uniformi.
82
Maurizio d’Orange e le riforme olandesi
Alla fine del Cinquecento gli olandesi adottarono un moschetto con canna da 20 mm del peso di sei kg. che fu uno degli strumenti che consentì loro
di espellere dall’Olanda gli Spagnoli: negli schemi militari di Maurizio conte di Nassau e principe d’Orange (1567 –1625), Stathouder di due province
e capitano generale delle Province Unite, appare che con la procedura del
fuoco a salve cadenzate sia stato sconfitto il Tercio spagnolo, l’incontrastata
fanteria in Europa quantomeno fino alla battaglia di Rocroi (19 maggio
1643) dove i francesi adottarono lo schieramento lineare sull’esempio olandese e svedese, benché fosse poi la cavalleria francese a battere gli Spagnoli
e l’artiglieria ad averne ragione. Ma anche il Tercio (che doveva il nome a
“un terzo dell’esercito”), costituito da una selva di picche disponeva sui
fianchi di moschettieri la cui proporzione aumentò notevolmente rispetto alle picche con l’andar del tempo: nel 1600 aveva circa 1.000-1.500 uomini di
cui un terzo moschettieri. Questi erano schierati sui lati dei picchieri ed avevano un profondità di cinque righe, mentre gli Olandesi schieravano almeno
all’inizio i loro su dieci righe che si davano il cambio a sparare salve e ricaricare. Sarebbe stato quindi Maurizio d’Orange a introdurre il cosiddetto
fuoco a salve nella battaglia di Nieuwpoort del 1600, ma non si trattò né della tattica vincente né di una novità assoluta, essendo stata anche qui la cavalleria a svolgere il ruolo preponderante, su un avversario che avanzava in terreno rotto dove il Tercio era largamente svantaggiato16.
Non possiamo infatti non menzionare il fatto che proprio gli Spagnoli alla battaglia della Bicocca (29 aprile 1522) avevano archibugieri a piedi, al
comando di Ferdinando Francesco D’Avalos, marchese di Pescara, che furono schierati dietro un fossato, su quattro linee e, alternandosi, fecero fuoco
contro gli svizzeri che avanzavano. D’Avalos diede personalmente gli ordini
che impartivano le scariche; gli archibugieri erano opportunamente addestrati in modo da inginocchiarsi appena sparato mentre faceva fuoco la seconda riga; e così faceva questa dopo sparato per lasciare azione alla terza;
allora la prima si alzava per rinnovare il fuoco avendo intanto ricaricato: in
questa maniera ai picchieri svizzeri che avevano marciato attraverso i campi
furono inflitte forti perdite, al punto che la Bicocca segnò l’inizio della fine
della loro supremazia sui campi di battaglia italiani17.
16
Giovanni Cerino Badone, La cultura della guerra. Sapere teorico e sapere empirico nel
mondo militare del XVII secolo, “Società e storia”, n. 136, 2012, pp. 261-282.
17
John F. C. Fuller, Le battaglie decisive del mondo occidentale, 3 voll., Roma, Ussme,
1988, vol. II, p. 50 (ed. origi. 1954-6).
83
Giovanni Cerino-Badone poi, in un suo saggio del 2012, sostiene che a
Newpoort “furono messe alla prova le nuove tattiche di impiego dei moschettieri che in Europa erano state sviluppate dagli ugonotti durante le
guerre civili francesi”18.
Alla fine del XVI secolo le armi da fuoco portatili come l’archibugio con
accensione a miccia avevano una portata efficace di una trentina di metri,
con tempi di ricarica di circa un minuto in cui l’archibugiere doveva coordinare tutte le operazioni con la polvere d’innesco, le micce accese, la forcella
d’appoggio, la bacchetta per caricare e le palle, senza nel frattempo farsi infilzare dalle picche avanzanti.
Quindi era essenziale trovare una soluzione a questo problema sul campo
di battaglia: all’epoca della battaglia di Nieuwpoort il Tercio aveva già ridotto il numero di uomini nella formazione, con almeno il 60% di moschettieri o archibugieri. La fanteria veterana di Spagna al comando di Alessandro Farnese nella campagna dei Paesi Bassi spagnoli mantenne uno standard
molto elevato di efficienza in combattimento per più di 150 anni
nell’esercito delle Fiandre come in quello d’Italia, ma progressivamente il
problema principale divenne quello economico che investiva la monarchia
spagnola, mentre allo stesso tempo gli olandesi potevano pagare bene i propri soldati per tutto l’anno senza temere gli ammutinamenti che costituivano
uno dei più grossi problemi per gli Spagnoli.
L’aumento degli uomini armati con armi da fuoco poteva finalmente consentire la rotazione delle salve. In cosa consistevano quindi le riforme degli
Orange? Innanzitutto si trattò di un’impronta culturale che derivava dalle
letture dei classici, quindi dal concetto del cittadino-soldato di Roma, ma se
questo esercito non si poteva realizzare, un esercito di mercenari ben pagati
regolarmente era una soluzione che la ricca Olanda poteva permettersi. Addestramento e disciplina furono concetti infusi in questo esercito rendendolo
più efficiente di altri contemporanei e al riparo di fortificazioni che ressero
all’urto di più campagne. Altra dimensione a segnare il successo delle riforme olandesi fu l’arte fortificatoria utilizzata per mettere al riparo le Province Unite dai nemici: è vero che trenta località dei Paesi Bassi furono fortificate tra il 1529 e il 157219, prima dell’avvento di Maurizio, ma disciplina,
lavori fortificatori e addestramento giornaliero (ignoto agli altri eserciti), a
sua volta strumento di instillazione della disciplina furono frutto delle sue
riforme e quindi il prezzo che i mercenari di Maurizio dovettero pagare per
18
19
Giovanni Cerino Badone, La cultura della guerra, cit. p. 265.
Piero Del Negro, Guerre ed eserciti da Macchiavelli a Napoleone, cit., pp. 54.
84
riscuotere regolarmente un soldo come allora difficilmente era corrisposto in
Europa20.
Negli anni ’90 del Cinquecento Maurizio di Nassau, assistito e consigliato dai due cugini Luigi e Giovanni, riorganizzò la cavalleria affidandole un
nuovo modo di combattere che comportava un più aggressivo utilizzo delle
armi da fuoco: pistole, spade e archibugi lanciando cariche concentrate per
infliggere colpi decisivi. In effetti a Nieuwpoort fu il cedimento della cavalleria spagnola presa dal panico che lasciò isolato il Tercio21. E del resto nella meno nota ma di poco precedente battaglia di Turnhout nel gennaio 1597
fu la cavalleria olandese a mettere in fuga quella spagnola, attaccandola armata di pistoleri, cioè corazzieri che al posto della lancia brandivano le pistole, attaccando di sorpresa una colonna spagnola in marcia da ogni lato,
con la tattica del caracollo22.
E’ interessante notare che questa tattica non era nuova, risalendo alla metà del XVI secolo; fu abbandonata successivamente da Gustavo Adolfo che
la ritenne inefficace al confronto delle cariche di cavalleria come le aveva
subìte dai lanceri polacchi. Però fu utilizzata spesso nel Seicento, come del
resto scrive Montecuccoli nei suoi trattati, benché non sempre appropriatamente.
In secondo luogo Maurizio perfezionò la trace italienne delle fortificazioni, che con il favore del terreno compartimentato delle Province Unite
imbrigliò le operazioni degli Spagnoli che avevano una linea logistica enormemente lunga e talora dipendente dagli olandesi, non avendo il controllo del mare. Gli olandesi in più occasioni provocarono allagamenti travolgendo fanti e cavalieri nemici.
L’influenza della fortificazione secondo i canoni della trace italienne non
può essere sottostimata poiché bloccava le manovre degli eserciti costringendoli ad assedi laddove la polvere da sparo aveva messo a disposizione
artiglierie in grado di espugnare le fortezze. Soprattutto le fortezze impedivano che un colpo apparentemente devastante decidesse una guerra: una battaglia non vinceva una guerra, condannando i contendenti a lunghe campagne. Parker cita in proposito il caso della battaglia di Nördlingen che pure
essendo un disastro non significò la fine della campagna svedese in centro
20
Virgilio Ilari, La storia militare antica e il pensiero strategico moderno, Roma, 2001;
Olaf van Nimwegen, The Dutch Army and the Military Revolution 1588-1688, Woolbridge,
The Boydell Press, 2010.
21
Fernando Gonzales de Leon, The Road to Rocroi. Class, Culture and Command, 15671659, Boston, Leiden, 2009, p. 93.
22
Jan Piet Puype, Victory at Nieuwpoort, 2 July 1600, in Marco van der Hoeven (ed.) Exercise of Arms: Warfare in the Netherlands, 1568–1648 (Leiden, 1997), pp. 69–112, qui pp.
71-2.
85
Europa; anzi la Svezia ottenne alla fine tutti i suoi obiettivi alla pace di Vestfalia23. La considerazione è audace: a parte gli obiettivi di guerra svedesi
enunciati all’imbarco per le sponde del Baltico tedesche da Gustavo Adolfo
con le parole “sedem belli sparsam per totam Germaniam”24, ma mai comunque del tutto chiari, Gustavo Adolfo dovette abbandonare la Germania
meridionale; quella di Parker peraltro è diretta più contro le esortazioni di
Clausewitz sulla ricerca dello scontro risolutivo e la distruzione dell’esercito
nemico. Avrebbe potuto allora citare Poltava (8 luglio 1709) come esempio
di battaglia risolutiva25.
A studiare le innovazioni della Oranienreform di Maurizio di Nassau era
stato già Werner Hahlweg che aveva dedicato il suo saggio del 194126 a
questa evoluzione militare, definendola riforma. Maurizio aveva sviluppato,
basandosi su esempi del passato, un nuovo concetto di formazione tattica:
alla formazione spagnola profonda fino a 50 picchieri oppose le sue truppe
profonde soltanto dieci uomini, un ordine sottile che sarebbe con il tempo
ulteriormente diminuito in profondità. Le sue formazioni erano più piccole e
più mobili e la loro forza combattente poggiava sulla potenza di fuoco più
che sull’urto bruto dei picchieri. Quindi mentre dall’altra parte i fucilieri erano soltanto un tipo di accompagnamento dei picchieri, nelle schiere di
Maurizio costituivano due terzi dei combattenti.
L’artiglieria olandese, molto scarsa, fu disposta, a seconda del terreno,
nei punti più deboli dello schieramento o laddove si voleva restare sulla difensiva. Mentre il cugino di Maurizio, Giovanni di Nassau fondava nel 1616
un’accademia militare a Siegen, il codice tattico di Maurizio di Nassau fu
pubblicato rendendo le esperienze degli olandesi disponibili anche nell’insegnamento dell’arte militare in Germania, mentre esperti olandesi furono arruolati come istruttori dai principi tedeschi, ma anche dal re di Svezia. I
23
Geoffrey Parker, Guerra e rivoluzione militare (1450-1789), cit., p. 442.
M. Roberts, The Political Objectives of Gustavus Adolphus in Germany 1630-1632,
“Transactions of the Royal Historical Society”, 1957, V Serie, vol. 7, pp. 19-46, p. 24. Gli
obiettivi di Gustavo Adolfo dopo Breitenfeld come protettore e guida della Germania protestante e liberatore di quella cattolica del sud si fecero più ampi.
25
Angus Konstam, Poltava 1709. Russia comes of Age, London, Osprey, 1994, p. 86: soltanto il re Carlo XII con un piccolo seguito riuscì a fuggire in Turchia dove rimase prigioniero de facto fino alla sua fuga nel 1714.
26
Die Heeresreform der Oranier und die Antike. Studien zur Geschichte des Kriegswesens
der Niederlande, Deutschlands, Frankreichs, Englands, Italiens, Spaniens und der Schweiz
vom Jahre 1589 bis zum Dreissigjährigen Kriege (= Schriften der Kriegsgeschichtlichen
Abteilung im Historischen Seminar der Friedrich-Wilhelms-Universität Berlin, Heft 31,
Hrsg.: Walter Elze). Junker und Dünnhaupt, Berlin 1941 (Nachdruck mit Vorwort, Lebensabriss und Bibliographie: (= Studien zur Militärgeschichte, Militärwissenschaft und Konfliktforschung, Band 35). Biblio-Verlag, Osnabrück 1987.
86
24
concetti olandesi ispirati ai classici antichi influenzarono direttamente gli
svedesi e l’arte della guerra del Seicento.
Il Leone del Nord: Gustavo Adolfo di Svezia
Le intuizioni di Giovanni e Maurizio di Nassau furono poi migliorate da
Gustavo Adolfo di Svezia (1594 – 1632), che attuò una serie importanti riforme nell’esercito, coinvolgendo tutte e tre le armi. La fanteria era un coacervo di contadini male armati, la cavalleria priva di armature, quando Gustavo fece tesoro delle esperienze di Jakob de la Gardie che aveva servito
sotto Maurizio d’Orange quali fossero le esperienze olandesi e da queste ricavò i provvedimenti che resero il suo esercito particolarmente efficiente.
Gustavo arrivò giovane al comando, come Maurizio del resto, istituì la coscrizione permanente di un cittadino ogni dieci, scelto per la sua robustezza,
mentre gli altri nove avrebbero contribuito a pagargli le armi e l’equipaggiamento. Furono creati reggimenti provinciali permanenti che avrebbero
costituito l’ossatura di un esercito moderno anche se non numeroso. I reggimenti avevano 1.200 uomini suddivisi in compagnie di 150, quindi unità
piccole e maneggevoli, dove la proporzione dei picchieri rispetto ai moschettieri era a favore di questi ultimi. La legge costituzionale che organizzava l’esercito svedese (all’epoca comprendente la Finlandia) rimase valida
nella sostanza fino al 1926, dimostrando che la riforma di Gustavo di Svezia
era efficace: tra le armi la cavalleria fu quella che più presentava problemi
dato che la Svezia non era non paese dotato di clima e ambiente adatto al loro allevamento. I cavalieri erano arruolati su base volontaria e gli svedesi
non riuscirono comunque ad avere una cavalleria bene equipaggiata come
era nei programmi, lasciando perdere l’archibugio a favore almeno in teoria
di due pistole e una spada e imitando la carica irresistibile dei lanceri polacchi che avevano subito nelle campagne polacche.
Gustavo Adolfo di Svezia individuò nel moschetto l’arma più efficace e
gli è attribuito il suo alleggerimento, ma a lungo restarono in uso pesanti
moschetti che necessitavano di forcella per essere sostenuti all’atto dello
sparo, probabilmente frutto anche di saccheggi in depositi tedeschi nel corso
delle campagne dei primi decenni del 160027. Inoltre la forchetta veniva
piantata nel terreno come estrema difesa contro i cavalli nemici in mancanza
della difesa dei picchieri. Gradatamente fu introdotto il meccanismo di sparo
a ruota anziché a miccia, introducendo le cartucce di carta portate a bandoliera.
27
Richard Brzezinski, Richard Hook, The Army of Gustavus Adolphus. 1. Infantry, Oxford,
Osprey, 2000, pp. 22-3.
87
La picca naturalmente rimase importante, in un contesto in cui i picchieri
dovevano agire in cooperazione con i moschettieri sul campo per ottenere
una reciproca protezione. Si trattava di pali in frassino (ma Gustavo consentiva anche acero o pioppo) del diametro di 3,5 cm sormontati dalla parte metallica ancorata per un metro all’asta. La picca generalmente era lunga un
po’ più di cinque metri e il picchiere aveva il busto protetto da corazza e il
capo da un elmo, ma Gustavo l’aveva raccorciata.
La coscrizione non bastò peraltro a compensare la limitata popolazione
scandinava e Gustavo dovette fare assegnamento su mercenari stranieri, perlopiù tedeschi, ma anche inglesi e scozzesi, oppure mediante associazioni
con alleati come nel caso della Sassonia. Quando morì a Lützen nel 1632,
Gustavo aveva ben 140.000 uomini ai suoi ordini, ma di questi soltanto il
10% circa erano svedesi, perlopiù dislocati in guarnigioni in Scandinavia28,
ma il re aveva saputo uniformare la preparazione delle sue truppe alla sua
arte della guerra; ciò nonostante aveva sul campo di battaglia soltanto
20.000 uomini, i restati erano nei territori controllati per la necessità di assicurare regolari finanziamenti e approvvigionamenti tramite il sistema della
contribuzione. Gran parte delle truppe, pertanto, sarebbe stata impegnata a
controllare i territori che avevano l’onere di versare denaro e fornire beni e
servizi ai combattenti.
La qualità delle truppe messe in campo da Gustavo Adolfo fu evidente
nel 1631, durante la guerra dei trent’anni, quando gli svedesi inflissero a
Breitenfeld una sonora sconfitta ai veterani spagnoli delle Fiandre. All’epoca in una battaglia in campo aperto anziché intorno ad un assedio, era il
quadrato di picchieri del Tercio a dominare la scena, al punto tale che la sua
sola presenza poteva provocare diserzioni nello schieramento avversario.
Ma l’urto stava per essere sempre più sostituito dal fuoco.
A Breitenfeld, a sud di Lipsia, vi erano 32.000 svedesi contro i 40.000
imperiali, questi ultimi agli ordini dello sperimentato Johann Tserclaes, conte di Tilly, di cui un quarto cavalieri, schierati sui fianchi. I 17 tercios erano
schierati al centro, ognuno dei quali di 1.500 uomini circa, con 50 uomini di
larghezza e 30 uomini in profondità, a dominare il campo. Al “Jesus Maria”
degli imperiali gli svedesi risposero con il loro “Gott mit uns! Gott mit
uns!”29 Essi si scontrarono con gli svedesi in formazioni di picchieri distri28
Michael Howard, La guerra e le armi nella storia d’Europa, Bari, Laterza, 1978, p. 113;
peraltro Del Negro, più di recente indica una cifra di 120.000, cfr. Piero Del Negro, Guerre
ed eserciti da Macchiavelli a Napoleone, cit., p. 69.
29
Le opera di Raimondo Montecuccoli, a cura di Raimondo Luraghi, 3 voll., Roma, Ussme,
1988, vol. II, p. 79. Il tedesco era una lingua franca all’interno dell’impero svedese che
all’epoca comprendeva finlandesi, russi, polacchi, tedesche, baltici, danesi, tedeschi.
88
buiti su non più di cinque righe, oltre a numerosi moschettieri consecutivamente schierati nella proporzione di due terzi a favore dei moschettieri.
Questi, grazie al miglioramento delle armi e una costante esercitazione,
furono in grado di sviluppare un fuoco sostenuto – anche da un’artiglieria di
campo degna di questo nome, in grado di seguire i movimenti delle truppe.
Se l’artiglieria era stata razionalizzata a fatica da Carlo V d’Asburgo che
l’aveva ridotta a sette calibri nel 1544, Gustavo ridusse la propria a tre soltanto, ma non solo: le dimensioni e i pesi furono oggetto di studio e di profonda revisione, riducendo le bocche da fuoco e studiando e standardizzando le polveri in maniera da avere un’artiglieria ben più mobile e precisa,
servita da equipaggi addestrati di soldati e non di civili a contratto assunti
per l’occasione.
I cannoni da tre libbre, ovvero in grado di sparare una palla di ferro del
peso di tre libbre, per ragioni di leggerezza furono dapprima fatti di lamiera
di ferro fasciata di cuoio, trainati da due e anche da un solo cavallo, e, per
brevi tratti, a braccia; erano maneggiati da due soli uomini. Queste artiglierie leggere non solo seguivano le truppe in campagna, ma, con criterio moderno, ne facevano parte organica, incorporate nei battaglioni di fanteria.
Tali cannoni erano seguiti da una carretta per munizioni trainata da un cavallo. Avevano una celerità di tiro superiore a quella del moschetto ed usavano cartocci di sottilissimo legno con palla ad esso connessa, e potevano
sparare anche a mitraglia (a scapito naturalmente del calibro e quindi della
potenza).
La formazione della fanteria di sei moschettieri cooperava non soltanto
con le formazioni di picchieri, ma anche con la cavalleria che fu dispersa
nelle compagnie: evidentemente Gustavo Adolfo non aveva letto ancora Antoine de Jomini e la raccomandazione della concentrazione delle forze, ma
vinse la giornata comunque. Il modello svedese prevedeva un uso aggressivo delle truppe, dei moschettieri sparavano due righe con il micidiale effetto
della doppia o tripla salva, picchieri all’attacco, la cavalleria lanciata in cariche all’arma bianca.
Tuttavia la celebrata vittoria svedese di Breitenfeld si dovette anche ad
errori imperiali, come gli attacchi dei corazzieri neri respinti sette volte dal
fuoco dell’artiglieria e dei moschetti, alla superiorità numerica dell’esercito
svedese-sassone, dalla superiorità dell’artiglieria che nella prima fase della
battaglia logorò le truppe di Tilly. Ancor più il fuoco ebbe ragione delle
truppe avanzanti verso l’ala sinistra svedese dopo la rotta delle truppe sassoni, consentendo alla cavalleria svedese di colpire il centro indebolito degli
imperiali e prenderne i cannoni per volgerli contro le schiere cattoliche.
89
La vittoria di Breitenfeld e l’apparente fine del Tercio non possono essere ridotte a facili schematizzazioni, in primo luogo perché la dimensione
della vittoria fece balenare più ampi obiettivi al re che però non riuscì a
sfruttare adeguatamente, poi perché il ritorno di Wallenstein (morto Tilly
per il tetano dopo la battaglia a Rain) mise sulla difensiva strategica Gustavo. Basterà rammentare che il 6 settembre 1634 a Nördlingen, morto a Lützen due anni prima Gustavo Adolfo, gli svedesi furono pesantemente sconfitti da quella stessa combinazione tattica ancora efficiente che era la selva
di picche spagnole (e italiane). Rileggendo le fasi della battaglia e notando
l’approssimazione delle manovre svedesi è legittimo pensare che Gustavo
Adolfo portasse con sé quel valore aggiunto che era venuto a mancare a
Nördlingen. Occorrerà attendere nove anni dopo, nella piana di Rocroi, per
vedere il tramonto definitivo del mito dell’invincibilità del Tercio e l’inizio
della decadenza per la potenza spagnola.
Questa battaglia, che ci è forse nota per le parole dell’inizio del secondo
capitolo de I promessi sposi che sottolineano la tranquillità di Condé la notte
precedente la battaglia, iniziò peraltro con uno svantaggio spagnolo dovuto
al fatto che i francesi avevano intercettato comunicazioni spagnole e sapevano che l’obiettivo di questi era schierarsi in quella località e prendere la
fortezza prima che vi arrivasse l’armata francese. In più gli spagnoli non avevano abbastanza artiglieria per l’assedio e il solito problema del mancato
arrivo di sufficienti denari all’Armata delle Fiandre fece sì che il Tercio saccheggiasse l’area.
Il 19 maggio 1643 i 24.000 francesi al comando del duca d’Enghien (poi
Grand Condé) sconfissero i 20.000 spagnoli del capitano generale Francisco
de Melo con un attacco generale che ebbe successo alla cavalleria sull’ala
destra francese, cavalleria che colpì lo schieramento spagnolo al centro dalle
terga: il Tercio fu isolato e sconfitto a cannonate più che da una diversa e
innovativa tattica di moschettieri, semmai ebbe rilevanza la capacità del
comandante francese di imporre la propria studiata tattica all’avversario30.
Quell’arte della manovra di cui sarà maestro – talora criticato - Montecuccoli mancò al capitano spagnolo; scrive Gonzales de Leon:
Chiaramente i vecchi principi tattici del Duca e Scuola di Alba, fondati
sull’agguato, sulle scaramucce e l’evitare la battaglia tranne quando si trovava in una posizione di superiorità numerica e di posizione era già stata
abbandonata a favore di una tattica audace e più rischiosa, più i sintonia con
30
Fernando Gonzales de Leon, The Road to Rocroi, cit., pp. 279 e sgg.
90
un nuovo tipo di alto ufficiale in comando ed una più disperata situazione
strategica31.
Di più, mentre i Tercios italiani si ritirarono ordinatamente verso il bosco
con i tedeschi e i valloni sotto la protezione del fuoco dei moschettieri, gli
imponenti quadrati spagnoli si fecero massacrare dal fuoco delle artiglierie,
ed infatti apparve chiaro che queste grosse formazioni fossero difficili da
manovrare sul campo, specialmente contro il coordinamento delle forze fatto da d’Enghien. A Rocroi non vi era Gustavo Adolfo, ma i principi portati
dal sovrano svedese erano stati fatti propri dall’esercito di Richelieu.
Raimondo Montecuccoli
Il contributo del modenese al servizio dell’Impero asburgico all’arte della
guerra del Seicento fu soprattutto culturale. Non soltanto era un eminente
condottiero, avendo vinto i Turchi a Raab32 e Turenne nella campagna del
Reno del 1673, mettendo poi fine alla sua campagna del 1675 in Renania a
Salzbach (subendo peraltro una sconfitta)33, ma può ben dirsi uno dei fondatori dell’esercito permanente degli Asburgo e un intellettuale militare che ci
ha lasciato articolate riflessioni sulla guerra nella sua epoca. Non sono pochi
i bravi condottieri del Seicento, potremmo nominare oltre a Maurizio
d’Orange, al visconte di Turenne, a Gustavo Adolfo di Svezia, anche Albrecht von Wallenstein e il conte di Tilly, ma il luogotenente austriaco lasciò una messe di scritti che hanno lasciato un’impronta nella storia militare34, in quanto il primo scrittore e pensatore a tentare di sistematizzare
l’intera arte della guerra in tutti i suoi aspetti, compresi i rapporti con la politica che Montecuccoli vedeva in quella imperiale degli Asburgo e nella
conservazione del loro vasto impero. Fu considerevole il suo sforzo di riassumere le conoscenze dell’epoca in una sintesi analitica della guerra sotto il
profilo della tattica, della tecnica e dell’amministrazione che si stava imponendo come essenziale per costituire un esercito efficiente.
In un secolo di guerre il condottiero e l’intellettuale ebbero modo di sperimentare sul campo la realtà dei conflitti armati, e di portare quindi la sua
31
Fernando Gonzales de Leon, The Road to Rocroi., cit., p. 292.
Georg Wagner, Das Türkenjahr 1664. Eine europäische Bewährung, Eisenstadt, Rötzer,
1964.
33
Friedrich Wilhelm von Zanthier, Feldzüge des Vicomte Turenne, Marechal-General der
Armeen des Königs von Frankreich, Leipzig, Weidmann Erben, 1779, pp. 327 e sgg.
34
Raimondo Montecuccoli, Le opere di Raimondo Montecuccoli, a cura di Raimondo Luraghi, cit.
91
32
esperienza e le sue riflessioni nelle sue opere. Probabilmente il fatto di essere stato due volte prigioniero, la seconda volta per tre lunghi anni, degli svedesi, gli consentì quel tempo forzatamente libero dal 1639 al 1642, che gli
permise le riflessioni sulle proprie esperienze e gli fece produrre i suoi scritti, grazie anche al fatto che in Svezia e a Stettino ebbe libero accesso alla biblioteca del duca di Pomerania.
Pur cambiando nel tempo le proprie convinzioni, adattandosi ai tempi, il
luogotenente cercò la battaglia decisiva anche quando sembrava sfuggirla,
un retaggio che possiamo ricondurre al “temporeggiatore” ma senza alcuna
connotazione negativa, in attesa del momento propizio per lo scontro risolutivo. Seguendo questo concetto avrebbe un’attenzione relativa per le forme
di “piccola guerra”, nella convinzione che non avrebbero portato alla vittoria35. In realtà se guardiamo alle manovre caute ma con ben chiaro il proposito di sconfiggere Turenne che Montecuccoli mette in atto nella campagna
del 1673 ci accorgiamo come si basi proprio sulle incursioni, sulle azioni di
disturbo, di fatto utilizzando una grande economia di forze per mettere in
crisi logistica l’avversario fino a costringerlo alla ritirata, manovre che
Clausewitz considerò l’apice dell’arte militare:.
ma dove vi era un grande generale, che avesse attirato l’attenzione su di
se, o anche due in modo opposto come Turenne e Montecuccoli, avrete su
tutta questa arte della manovra impresso il sigillo di eccellenza dai nomi di
questi condottieri. Un’ulteriore conseguenza è stata che questo gioco è
l’apice dell’arte, dato che è stato il frutto della loro alta formazione e conseguentemente diventa anche per noi fonte di studio dell’arte della guerra36.
A Raab il concetto della battaglia di Montecuccoli era stato diverso, come probabilmente diverso era l’avversario, e lì vi cercò la distruzione anziché il logoramento. Settant’anni dopo la battaglia di Nieuwpoort, dove il caracollo era stato utilizzato dalla riformata cavalleria olandese in senso molto
aggressivo e di sorpresa, Montecuccoli citò parecchi casi di uso inefficace se
non dannoso della tattica, probabilmente a causa della scarsa disciplina e
preparazione della cavalleria37.
35
Gunther Rothenberg, Maurice of Nassau, Gustavus Adolphus Raimondo Montecuccoli,
and the “Military Revolution” of the Seventeenth Century, in: Makers of Modern Strategy
from Macchiavelli to the Nuclear War, a cura di Peter Paret, Princeton, Princeton UP, 1986,
pp. 32-63, qui p. 56.
36
Carl von Clausewitz, Della guerra, Milano, Mondadori, 1970, p. 726 (ma prima edizione
Roma, Sme, 1942). Il passo è sintetizzato nell’edizione italiana rispetto all’originale tedesco.
37
Raimondo Montecuccoli, II, p. 46.
92
Le istruzioni emanate per la battaglia ci danno lo stato dell’arte della
guerra nella seconda metà del secolo:
Le picche a quattro di fondo con due fila di Moschettieri dinnanzi a loro,
fanno il battaglione di 6 di fondo, e tutto il resto di fronte;
- A canto a ciascheduno squadrone di Cavalli sieno posti plottoni di 24 o
30 Moschettieri l’una, li quali se doppo fatte le salve fossero per aventura
fortemente investiti, ritiransi al favore de’ più vicini battaglioni;
- La moschetteria non faccia tutta insieme una salva, ma compartiscasi in
modo ch’una o due file per volta sparando, li tiri sieno continui, e dove
l’ultima di esse ha dato fuoco, abbia la prima ricaricato;
- L’istesso deesi osservare nello sparare dell’Artiglieria;
Non soltanto, Montecuccoli prescrisse file lunghe, moschettieri nelle
prime sei, nella proporzione di 2/3 rispetto alle picche, quest’ultime lunghe
17 piedi che dalla sesta riga potessero arrivare alla prima38
Nelle sue disposizioni Montecuccoli non fu innovatore come altri capitani, ma fu veramente condottiero e intellettuale: peraltro dalle sue disposizioni appare evidente come avesse provveduto personalmente alla modifica di
moschetti per renderli più efficienti con ogmi tempo. Nel secolo successivo
furono molti a leggere le sue opere e a citarle. Montecuccoli aveva riassunto
i fondamenti delle evoluzioni militari in senso più generale: l’esigenza di un
esercito permanente, di una fiscalità adatta a sostenerlo, la gestione del sistema con il dispotismo che poteva disporre dello strumento militare per garantire l’ordine interno e la protezione dall’esterno. Secondo Gat, era “il più
illustre pensatore militare moderno, le cui opere largamente citate ed altamente influenti furono un classico che offrì i fondamenti della teoria generale della guerra”39
La transizione al Settecento
Soltanto verso la fine del secolo fu introdotto il moschetto a ruota che
consentiva di sparare tre colpi al minuto. Il consumo di micce era notevole,
tanto che ogni archibugiere era costretto a portarsene addosso qualche metro. Per ovviare a molti di questi problemi, già nella prima metà del Cinquecento, apparvero congegni di accensione più complessi ed efficienti come
quelli a ruota a cui si affiancarono quasi subito quelli propriamente detti a
38
Raimondo Montecuccoli, II, p. 278.
Azar Gat, The Origins of Military Thought from Enlightenment to Clausewitz, Oxford,
Clarendon Press, 1989, p. 13.
93
39
pietra. La fanteria svedese, ai tempi dell’imperatore Carlo XII di Svezia (che
regnò tra il 1697 e il 1718), era totalmente equipaggiata con moschetti a pietra focaia, la cui introduzione era cominciata nel 1689, su era possibile inastare le baionette ad anello, un’evoluzione che Cerino Badone ha definito,
forse provocatoriamente, “rivoluzione”40.
Nel 1689 furono introdotti anche i granatieri, nonché compagnie di picchieri, in un rapporto teorico di due moschettieri ogni picchiere; la fanteria
non indossava armatura, essendo tutta la tattica svedese imperniata
sull’attacco aggressivo da parte sia dei picchieri che dei moschettieri, come
era nella tradizione iniziata da Gustavo Adolfo. E’ interessante che in quel
periodo gli altri stati europei stavano dismettendo i picchieri, relegati alla
difesa contro la cavalleria; gli svedesi infatti come nell’Europa orientale
continuarono ad usare le picche fino al 1720 circa, laddove la maggior parte
delle altre potenze europee avevano dismesso le picche al volgere del Seicento: così i Danesi lo avevano già ufficialmente fatto nel 1689, i Francesi
nel 1703, ma per allora le uniche picche rimaste erano quelle dei reggimenti
svizzeri. L’utilizzo aggressivo riguardava anche i moschettieri con un addestramento tattico per cui le truppe manovravano rapidamente in colonna, si
dispiegavano in linea su quattro ranghi, si avvicinavano a 40 - 50 passi dal
nemico, tiravano una salva con il terzo ed il quarto rango, si avvicinavano
ulteriormente a 25 passi, tiravano con i primi due ranghi e partivano poi ferocemente alla carica con la baionetta e la spada che era stata distribuita nel
1701.
Un impiego così aggressivo e spregiudicato delle fanterie richiedeva un
gran sangue freddo ed una certa noncuranza delle proprie perdite; in effetti a
volte i moschettieri tendevano a tirare un po’ prematuramente un’unica salva. Anche gli antecedenti di queste tattiche possono far essere risalite a Gustavo Adolfo, ma è da notare che anche i Francesi del Re Sole usavano così
aggressivamente i moschettieri, oltre ai pochi picchieri rimasti.
A far tramontare la picca fu anche alla migliore qualità dei moschetti e
all’introduzione della baionetta, già introdotta intorno al 1670 da Sebastien
Le Prestre, marchese di Vauban (1633-1707), noto più per le sue opere nella
fortificazione, che inastata sul moschetto migliorato ed alleggerito diventava
uno strumento che consentiva di sparare mantenendola inastata e di fungere
da picca in caso di emergenza.
40
Giovanni Cerino Badone, Dalla pietra alla percussione. La potenza di fuoco e l’efficacia
delle armi sui campi di battaglia (1650-1850), in N. Labanca, P.P. Poggio (a cura di), Storia di armi, atti del 23° Convegno di Studi del Centro Interuniversitario di Studi e Ricerche
Storico-Militari, 8-10 novembre 2007, Milano, 2009, pp. 203-231.
94
L’armamento era quasi lo stesso presso tutti gli eserciti d’Europa, con la
fanteria disposta su quattro righe, le prime due di picchieri e le altre due di
moschettieri, variando però il numero e la forza delle compagnie dei reggimenti. Soprattutto tutti gli eserciti d’Europa, ad eccezione della Turchia, si
organizzarono su fanterie regolari e permanenti41.
Gli stati europei erano pronti per le guerre del Settecento.
41
Girolamo Ulloa, Sunto di tattica delle tre armi: artiglieria, cavalleria, fanteria, Napoli,
Tipografia de’ Gemelli, 1842, p.12.
95
Paolo Bernardoni
SORS BONA NIHIL ALIUD: MIKLÓS ZRÍNYI (1620-1664)
Oh beata Ungheria, se non si lascia
più malmenare!
Paradiso, XIX, 142-143
Miklós Zrínyi1 non era presente sul campo di battaglia di Mogersdorf,
quel 1° agosto del 1664 in cui si decisero le sorti della cosiddetta quarta
guerra austro-turca: infatti, “gli Ungheri... non erano nella fattione, ma lontani a guardar altri posti”2. Ciò nonostante, credo che potrà farvi piacere conoscere questo personaggio, se già non lo conoscete, e per meglio conoscerlo ricorderemo brevemente un paio di episodi della storia ungherese.
Con la battaglia di Mohács (“così si chiama il luogo situato alla parte occidentale d’un’isola del Danubio, e da cui prendono il nome l’isola e quella
pianura vitifera”3), combattuta nell’agosto del 1526 tra l’esercito ungherese
comandato dal proprio re (il ventenne Luigi II, che in quello scontro perse la
vita, insieme a buona parte dell’élite politica ungherese4) e l’esercito ottomano comandato dal sultano Solimano il magnifico, ebbe fine quel Regno
ungherese medioevale che ci richiama alla mente soprattutto il nome di Mattia Corvino (1443-1490) e la sua favolosa biblioteca5.
Le terre del regno d’Ungheria vennero allora divise in tre parti: tutta la
parte meridionale, compresa Buda, passò sotto il diretto controllo dell’Impero ottomano; ad est, la Transilvania diventò uno Stato vassallo dei Turchi;
a nord, infine, quella che venne chiamata Ungheria reale (comprendente il
1
Ho adottata la dizione attuale sia del nome proprio (Nicola) che del cognome; quest’ultimo si può trovare scritto in più modi diversi: Zrin, Esdrin, Serini, etc. In ungherese il cognome è sempre anteposto al nome, anche se qui ho fatto il contrario.
2
Relatione del combattimento successo il primo d’Agosto 1664 tra gli Esserciti Christiano,
e Turco al fiume Rab presso al villagio di Chiesfalo, Venezia 1664, pp. non numerate.
3
J. VON HAMMER, Storia dell’Impero Osmano, IX, Venezia 1830, p. 97.
4
J. B. SZABÓ-F. TÓTH, Mohács (1526), Parigi 2009, p.128.
5
P. E. KOVÁCS, Ritratto di Mattia Hunyadi re d’Ungheria, in Nel segno del Corvo, Modena
2002, p. 20: “Le azioni di Mattia, come... la creazione di una biblioteca con 2000-2500 volumi, seconda in grandezza soltanto a quella Vaticana... l’invito a corte di artisti e scienziati
restano purtroppo episodi mai più ripetuti nella storia culturale dell’Ungheria... Mattia non
sosteneva arti e scienze soltanto per un’esigenza personale di cultura. Egli vide chiaramente
che il mecenatismo può dare i suoi frutti, se non nell’immediato, nel corso degli anni”.
97
banato6 di Croazia) passò, in conseguenza di precedenti accordi dinastici,
sotto il diretto dominio degli Asburgo.
La vittoria di Mohács diede nuovo slancio all’espansionismo ottomano
verso occidente fino a quando “deliberò Suliman Re de’ Turchi l’anno 1566
di passar con l’esercito in Austria: non potendo egli patire d’haverla tante
volte assalita con horribil forze; & finalmente, non senza molto suo danno,
essere stato astretto a partirne”7. Nell’agosto del 1566, dunque, l’esercito
turco pose l’assedio alla fortezza di Sziget difesa, “più lungamente di quello,
che humanamente potevasi credere”8, da Miklós Zrínyi, omonimo bisnonno
del nostro, che vi perse la vita nella sortita finale fatta insieme agli ultimi
superstiti. Nonostante l’indiscussa vittoria, i turchi subirono pesantissime
perdite9 ed una dura battuta d’arresto alla loro avanzata, perdendo (seppur
per cause naturali, nonostante la leggenda lo voglia ucciso in battaglia) anche il loro condottiero, Solimano, già vincitore a Mohács:
Soliman con l’armata giungerà in Ungheria,
e contro il tuo castello, ei moverà da pria.
Come lupo famelico cercherà la tua morte,
ma l’altera sua forza perderà a Szigetvár10.
Questo assedio, nel secolo successivo, divenne il soggetto della “maggior
opera letteraria ungherese dell’epoca barocca”11, opera che assegnò al nostro
Miklós un posto preminente nella letteratura di quel Paese: nel 1651, infatti,
egli pubblicò in lingua ungherese il poema epico L’assedio di Sziget12, poi
tradotto in lingua croata dal fratello Péter. Questo poema è “la prima formulazione del programma politico di Zrínyi, un appello mobilizzante per far
cessare la corruzione del paese, per il concentramento delle forze degli un-
6
Equivalente pressappoco ad un ducato o ad un vicereame, era retto da un bano.
Historia di Zighet ispugnata da Suliman Re de’ Turchi l’anno 1566, Venezia 1570, p. 3.
8
G. GUALDO PRIORATO, Vita, et azzioni del Conte Nicolò di Zrin Bano di Croatia, Vienna
1674, pagine non numerate (c. 3r).
9
“L’assedio costò la vita a circa 20.000 turchi... terminò con la famosa uscita di Zrínyi dalla fortezza che determinò la fine degli eroici difensori” (M. ASZTALOS-S. PETHÖ, Storia
dell’Ungheria, Milano 1937, p. 210); si stima che la guarnigione ungherese fosse di circa
3000 uomini.
10
Obsidionis Szigetianae (L’assedio di Sziget, in ungherese Szigeti Veszedelem), c. II, 84,
in O. MÁRFFY, Palpiti del cuore magiaro nella sua letteratura, Torino 1937, p. 20.
11
T. KLANICZAY, Letteratura e nazionalità. La letteratura ungherese nell’area danubiana,
in “Rivista di Studi Ungheresi”, 1 (1986), p. 16.
12
Scritto nell’inverno 1645-1646, fu pubblicato a Vienna nel 1651, insieme ad alcuni versi
pastorali e mitologici, con il titolo di Adriai Tengernek Syrenáia (La sirena del mare Adriatico); l’edizione in croato, invece, fu fatta a Venezia nel 1660.
7
98
gheresi e per cacciar fuori i turchi”13, ed il suo scopo principale era “quello
di dimostrare che i turchi potevano essere sconfitti”14.
Delle speranze che Zrínyi attribuiva alla ritrovata unità della nazione ungherese (dove “dal dì che Luigi cessò d’esser tra i vivi / si contendon parecchi la sua corona santa”) si ha indicazione precisa nelle parole che egli mette
in bocca al turco:
Invero - non lo nego - se non ci fosser gare
tra lor, di certo averne dovremmo gran timore.
Le poche schiere magiare potrebbero intaccare
e offuscar della nostra corona lo splendore15.
Ma, come dice Zrínyi stesso nel prologo al suo poema, “il mio mestiere
non è la poesia, ma un altro più grande ed utile al servizio del nostro Paese”16: è quindi tempo che ci occupiamo di lui in relazione alla sua biografia
e, soprattutto, agli avvenimenti che lo videro protagonista nel 1663-1664.
Appartenente ad una delle più ragguardevoli famiglie aristocratiche del
regno d’Ungheria, famiglia che derivò il proprio nome dalla località croata
di Zrin ottenuta in feudo nel XIV secolo17 e le cui proprietà si estendevano
dalle coste dell’Adriatico fino alle rive dei fiumi Drava e Mur, Miklós nacque il 1° maggio del 162018.
“Nella sua gioventù fu applicato a gli studi, & esercitij cavallereschi, e
militari, fece diversi viaggi per il mondo, per conoscer le qualità de paesi, e
delle nationi straniere... fece gran profitto nelle lettere, e nello studio politico”19. Rimasto presto orfano di padre e posto sotto la tutela del primate
d’Ungheria, Miklós fu educato in un collegio retto da padri gesuiti e, terminati gli studi, nel 1636 intraprese un viaggio in Italia: il cosiddetto Kavalier13
T. KLANICZAY, Un machiavellista ungherese: Miklós Zrínyi, in Italia ed Ungheria. Dieci
secoli di rapporti letterari, Budapest 1967, p. 189.
14
Ivi, p. 191.
15
F. SIROLA, L’assedio di Sziget poema del conte Nicolò Zrínyi, Fiume 1907, p. 14.
16
M. ZRÍNYI, The Siege of Sziget, Washington D. C. 2011, p. 3: “my profession and vocation is not poetry, but rather is greater and more useful in the service of our nation”.
Cito qui i titoli di alcuni dei suoi scritti politici e militari, non tradotti in italiano: Il prode
ufficiale, Discorsi sulla vita di Re Mattia, La medicina contro l’oppio turco, cfr. P. RUZICSKA, Storia della letteratura ungherese, Milano 1963, pp. 409-410.
17
F. BANFI, L’origine della famiglia Zriny, in “Archivio Storico per la Dalmazia” (1934),
fasc. 96, p. 618. Banfi traccia la storia della famiglia sin dalle più lontane origini e, pur rigettando l’ipotesi che questa discenda dalla gens Sulpicia, non ne esclude una possibile origine latina (Ivi, p. 608).
18
G. PÁIFFY, Das kroatisch-ungarische Geschlecht Zrinski/Zrínyi, in Militia et Litterae.
Die Beiden Nikolaus Zrínyi und Europa, Tubinga 2009, p. 30.
19
PRIORATO, Vita cit., c. 3v.
99
stour, cioè il viaggio d’istruzione dei membri della nobiltà tedesca ed austriaca20, il cui ingente costo era visto come una specie di investimento indispensabile a facilitare l’accesso e la carriera a Corte. Nel corso di questo
viaggio egli visitò anche Venezia, città della quale gli Zrínyi erano amici
“ossequentissimi e fedelissimi”, forse anche perché erano allora fiorenti i loro commerci con la Repubblica21 e perché tra i loro avi potevano contarne
uno ascritto alla nobiltà veneta nel 1314. Ancora nel 1667 l’Avogaria di
Comun confermava la prerogativa del patriziato alla famiglia, pratica avviata poco prima della prematura morte dallo stesso Miklós che, “in conseguenza di molti dispiaceri e delusioni sofferti presso la Corte imperiale”,
pensava di trasferirsi a Venezia22.
Il viaggio, nel quale Miklós era accompagnato da un canonico della cattedrale di Strigonia23, proseguì per Roma: qui fu ricevuto da papa Urbano
VIII e qui poté visitare, oltre alla Roma antica del Colosseo e del Pantheon,
anche la Roma barocca di palazzo Barberini, del palazzo di Propaganda Fide e dei numerosi cantieri avviati da quel pontefice sotto la direzione del
Bernini24.
Egli passò poi qualche tempo a Napoli e probabilmente a Firenze e Pisa e
nel suo viaggio “ebbe modo di osservare la triste situazione politica dell’Italia umiliata dalla dominazione straniera, che gli doveva ricordare le sofferenze della propria patria”25.
Dopo quasi un anno Miklós tornò in patria, “pieno di nuovi concetti e di
nuovi sentimenti. Portò seco dall’Italia tutti i libri italiani che poté acquistare e una simpatia imperitura verso il popolo italiano e la sua cultura”26, di
modo che si può senz’altro affermare che “nessuno prima di Miklós Zrínyi,
nella letteratura ungherese, aveva avuto tante relazioni con la letteratura
classica ed ancora più con quella contemporanea italiana”27.
Si stima che la sua biblioteca fosse una delle più ricche, se non la più ricca fra quelle della aristocrazia ungherese del XVII secolo: “vi si poteva trovare il meglio delle opere italiane di poesia, di filosofia politica, di storio20
G. P. BRIZZI, La pratica del viaggio d’istruzione in Italia nel Sei-Settecento, in “Annali
dell’Istituto storico italo-germanico in Trento”, II (1976), p. 204.
21
V. ZIMÁNYI, L’attività commerciale dei conti Zrínyi nel secolo XVII: i loro rapporti con
Venezia, in Venezia e Ungheria nel contesto del barocco europeo, Firenze 1979, p. 409 sgg.
22
F. NANI MOCENIGO, Intorno a Nicolò e Pietro fratelli Zdriny. Notizie storiche, Venezia
1907, p. 5; BANFI, cit., fasc. 99, p. 135.
23
Cioè di Esztergom, sede dell’arcivescovado ove risiede il primate d’Ungheria.
24
K. SZÉCHY, Gróf Zrínyi Miklós 1620-1664, I, Budapest 1896, p. 67.
25
E. VÁRADY, La letteratura italiana e la sua influenza in Ungheria, I, Roma 1934, p. 196.
26
A. KÖRÖSI, Machiavelli e Zrínyi, in “Corvina”, IV (1922), p. 65.
27
S. I. KOVÁCS, Dante nella letteratura ungherese antica (1521-1664), in Italia ed Ungheria cit., p. 163.
100
grafia, dell’arte militare che furono da lui non soltanto diligentemente lette,
ma costituirono anche una fonte di ispirazione nel suo lavoro letterario”28 ed
era già famosa vivente il suo proprietario29.
Al volgere del termine della sanguinosa Guerra dei Trent’anni (conclusasi nel 1648 con la pace di Vestfalia), Zrínyi si disimpegnò con onore nelle
operazioni militari contro gli Svedesi in Moravia e, per ricompensa del suo
stato di servizio, nel 1646 ottenne la nomina a bano di Croazia, carica già
ricoperta dal padre, morto nel dicembre del 162630.
Un suo contemporaneo ci ha lasciato di lui questo ritratto: “era piuttosto
colto, dava buoni consigli, era pieno di zelo verso la sua nazione, non superstizioso riguardo alla religione, non ipocrita o persecutore. Era uno che dava
valore a tutto, era nobile, generoso, conduceva una vita sana, amava quelli
simili a lui e i sinceri, odiava gli ubriaconi, i bugiardi, i paurosi. Di corporatura era grande, d’animo e di viso bello... non c’è stato un altro [ungherese]
virtuoso e famoso come lui, e... probabilmente non ci sarà nemmeno in futuro, pur essendo il mistero e la provvidenza di Dio infinite”31.
Nel 1661 egli aveva costruito a proprie spese, al confine tra i due imperi,
una nuova fortificazione (che chiamò, dal proprio nome, Új-Zrínyivár, cioè
Nuova Zrínyi), cosa che aveva fatto irritare non solo gli Ottomani, ma anche
la Corte di Vienna, che voleva mantenere la pace ad ogni costo32.
28
KLANICZAY, Un machiavellista cit., p. 185. Purtroppo non ho potuto consultare, dello
stesso, la biografia Zrínyi Miklós (2a edizione, Budapest 1964).
29
Die Bibliothek des Dichters Nicolaus Zrínyi, Vienna 1893, p. III: “Die Bibliothek Zrínyi’s war schon zu Lebzeiten ihres Besitzers berühmt”. Di 249 opere a stampa elencate, 98
sono in italiano (Ivi, pp. 3-34). I volumi superstiti di quella biblioteca sono 529, ai quali aggiungere altri 202 titoli di cui si hanno informazioni attendibili e 120 di cui si hanno solo
notizie lacunose (A Bibliotheca Zriniana története és állománya. History and Stock of the
Bibliotheca Zriniana, Budapest 1991, p. 83).
30
I contemporanei attribuirono la morte improvvisa di György Zrínyi, che aveva allora 27
anni, ad avvelenamento dopo un alterco con Wallenstein, “homo nota ambitione ac crudelitate infamis” (G. RATTKAY, Memoria regum, et banorum, regnorum Dalmatiae, Croatiae
& Sclavoniae, Vienna 1652, p. 199), al cui campo nei pressi di Bratislava egli si trovava.
Ipotesi che autori più moderni ritengono infondata (SZÉCHY, cit., p. 46). NANI MOCENIGO,
cit., p. 5, lo dice morto di peste l’anno successivo.
31
M. BETHLEN, Autobiografia, in Fioretti della prosa ungherese (supplemento a “Rivista di
Studi Ungheresi”), Roma 2012, p. 89. Miklós Bethlen (1642-1716) fu un eminente uomo di
stato transilvano e la sua autobiografia, purtroppo non disponibile in italiano, “è un prezioso
documento storico sugli ultimi decenni dell’Ungheria e della Transilvania del Seicento...
nello stesso tempo una vera e propria opera letteraria” (Ivi, p. 188).
32
H. PETRIĆ, The stronghold of New Serinwar, in Militia et Litterae cit., p. 111: “The building... angered not only Ottoman border armies, but also the opposition of the Habsburg empire who wanted to keep peace at any cost” etc.
101
E’ probabile che questa fortificazione si riducesse in realtà a poca cosa
se, in una lettera datata 10 dicembre di quell’anno, il ministro della Repubblica Veneta residente a Vienna, oltre a dire che i turchi si stavano dirigendo
contro Kanisza con l’intenzione di attaccare Nuova Zrínyi, aggiungeva il seguente commento: “i soldati non la chiamano fortezza ma ovile, e non diventerà mai tale, non prima che una pulce diventi un elefante”33.
Sulla porta principale della fortificazione campeggiava lo stemma di
Zrínyi34 con il suo motto personale Sors bona nihil aliud (buona fortuna,
nient’altro), che forse rispecchiava le sue riflessioni sulle battaglie del passato: “solo una minima parte degli eventi militari può essere calcolata; il resto deve essere lasciato al caso [la sors o fortuna, appunto], non avendo
l’uomo alcun controllo sugli eventi della guerra”35 ed egli stesso dichiarava
“che nessun argomento lo fece tanto pensare in tutta la sua vita quanto la
questione della fortuna”36. Ma in questa sede non mi occuperò del pensiero
militare di Zrínyi e dirò solo che “è stato anche qui... un illustre studioso
ungherese, a far giustizia di queste fole [cioè, della presunta grande differenza di pensiero tra i due], dimostrando in maniera incontrovertibile che
una analisi delle opere di Zrínyi e di quelle di Montecuccoli pone in evidenza la sostanziale analogia e la fondamentale identità del loro pensiero militare”37 e che il disaccordo tra i due “non ebbe nulla a che fare con i loro concetti di guerra”38.
33
A. VELTZÉ, Ausgewaehlte schriften des Raimund fürsten Montecuccoli, IV, Vienna e
Lipsia 1900, p. 86: “Einen Schafstall nennen sie die Soldaten und keine Festung, würde
auch nie diese Bedeutung erreichen, selbst wenn man aus einem Floh einen Elephanten machen wollte”. Anche il Montecuccoli dice: “l’intitolaron per commun nome i soldati l’ovile” (E. DI HUYSSEN, Memorie del General Principe di Montecuccoli, Colonia 1704, p. 266).
34
PETRIĆ, cit., p. 114.
35
G. PERIÉS, Army provisioning, logistics and strategy in the second half of the 17th century, in “Acta Historica Academiae Scientiarum Hungaricae”, XVI (1970): “All this means
that in the wars of the past the unexpected, incalculable elements, luck, which Zrínyi so often pondered, played a much greater role. According to Zrínyi, only a fractional portion of
military events can be calculated; the rest must be left to chance, for man has no control
whatsoever over the event of war. Even the best of commanders can do not more than to
narrows down the boundaries of fortune’s empire”.
36
KÖRÖSI, cit., p. 70.
37
LURAGHI, cit., I, p. 96. In particolare, nello stesso, p. 90 circa la determinazione della forza massima di un esercito; p. 91 circa la necessità di un sistema logistico di sussistenza; cfr.
T. M. BARKER, The Military Intellectual and Battle, Albany N. Y. 1975, pp. 59 e 62. Lo
studioso ungherese è Géza Perjés, di cui Luraghi cita A Metodizmus és a Zrínyi-Montecuccoli vita e Kinek volt igaza? A Zrínyi-Montecuccoli vita (1961/1962).
38
T. M. BARKER, Montecuccoli as an Opponent of the Hungarians, in “Armi Antiche” (numero speciale), Torino 1972, p. 226: “the difference had nothing to do with their concepts
of war”. Su questo punto, si veda soprattutto G. PERJÉS, The Zrínyi-Montecuccoli contro102
Nel successivo anno 1662 i transilvani, che, per aver mosso guerra alla
Polonia quattro anni prima contro il volere dei turchi, si trovavano in grandi
difficoltà con l’Impero ottomano di cui erano vassalli, si ridussero a chiedere aiuto all’Imperatore, il quale ne incaricò Raimondo Montecuccoli, che allora aveva il grado di maresciallo generale di campo (feldmarschallgeneral).
Contrariamente ai piani originari, però, Raimondo si trovò a dover guidare
l’esercito verso la Transilvania, anziché attaccare alcuni obiettivi in territorio ungherese da lui identificati come opportuni ad alleggerire sì la pressione
ottomana sulla Transilvania, ma portando la guerra in Ungheria. Quella
marcia fu funestata soprattutto dalla mancanza di viveri, ma anche da epidemie e dall’aperta ostilità delle popolazioni sui cui territori l’esercito dovette passare e, in conclusione, non ebbe alcun effetto pratico, se non quello
di inasprire i rapporti tra Zrínyi e Montecuccoli, allorché quest’ultimo rimproverò aspramente gli ungheresi di non averlo assistito nella bisogna39.
La fortificazione di Nuova Zrínyi e le ripetute scorrerie che gli ungheresi
effettuavano nei territori turchi a ridosso del confine, per quanto “uditi con
godimento” dal Senato veneto40, divennero in breve tempo uno dei motivi
che, nel 1663, indussero l’Impero Ottomano a dichiarare guerra: il turco, infatti, “ne passò doglianze con Cesare, e ne adimandò la demolizione; quando non vedendone alcun’effetto... l’anno entrante [1664] fu attorniato da tutto l’essercito ottomano, & a fronte dell’Imperiale, in un fierissimo assalto
l’occuporono i Turchi, ed indi amminato lo incenerirono”41.
La fortezza cadde in mano del nemico alla fine del giugno 1664, dopo
che Montecuccoli aveva ordinato ai difensori “che quando non si potessero
più difendere al rivellino dessero fuoco al legname, facessero saltare le mine
e ritirassersi pel ponte. Tasso credeva potersi sostenere fino al dì seguente,
ma appena s’era allontanato Montecuccoli, che i turchi diedero un tale assalto che i difensori vennero in confusione e presero la fuga senza distruggere
le fortificazioni o il ponte. Mille e cento furono trucidati o annegaronsi nella
versy, in From Hunyadi to Rákóczi. War and society in late medieval and early modern
Hungary, Brooklyn 1982, p. 335 sgg.
39
Cfr. F. TOTH, Saint-Gotthard 1664. Une bataille européenne, Panazol 2007, p. 33; BARKER, Montecuccoli cit., p. 222; PERJÉS, The Zrínyi-Montecuccoli controversy cit., pp. 342344; C. CAMPORI, Raimondo Montecuccoli, la sua famiglia e i suoi tempi, Firenze 1876, pp.
360-375; DI HUYSSEN, cit., pp. 187-226.
40
NANI MOCENIGO, cit., p. 21. I Veneziani, infatti, auspicavano l’apertura di un nuovo
fronte per alleggerire la pressione ottomana nel Mediterraneo e furono solerti di occulti aiuti alle aspirazioni ungheresi, ordinando anche al loro ambasciatore di “far riflessi alla Corte
di Vienna per coadiuvare assistenze ai Conti Sdrin... con prudenti uffici” (Ivi, p. 23).
41
E. SCALA, L’Ungheria Compendiata, Modena 1685, p. 72.
103
Mur. Fra i morti si contarono il tenente colonello conte Thurn e molti altri
capitani”42.
Presago del pericolo, nella primavera di quell’anno Zrínyi aveva scritto
all’Imperatore un lungo promemoria, dal quale riporto queste accorate parole: “Questi spaventati popoli sentendo che la Monarchia Turchesca empie
tutte le sue faretre per scaricarle sul loro petto, et osservando non comparire
a loro soccorso alcun corpo d’essercito con le debite provisioni di pane e di
ferro, e considerando quasi pendente sopra il proprio collo il taglio delle sable Maomettane ondeggiano insieme fra le braccia della disperatione incapaci di più dura sofferenza, cupidi di provedere alla propria salvezza, onde
se la Maestà Vostra non porge loro qualche maschio, et opportuno rimedio,
corrono le cose a manifesta rottura”43. La rottura, infatti, come vedremo fra
poco, si consumò ben presto.
La distruzione della fortificazione venne attribuita dal suo fondatore al
mancato intervento difensivo da parte delle truppe imperiali: “quando Miklós Zrínyi, il poeta, il condottiero ungherese più colto, il creatore della letteratura strategica ungherese, il propugnatore fanatico dell’idea d’un esercito nazionale ungherese, durante l’inverno del 1663-1664, in occasione d’una
vittoriosa campagna militare iniziata a sua propria responsabilità, bruciò il
ponte militare costruito in legno dai turchi che si estendeva sulla Drava da
Eszék a Dárda, attirandosi in tal modo nella primavera del 1664 la vendetta
dei turchi, la corte di Vienna, per quanto l’esercito imperiale avrebbe potuto
facilmente prestare aiuto, per invidia di Montecuccoli e per indifferenza, lasciò andar perduta la fortezza di Zrínyi, appena costruita”44.
A proposito di questa fortificazione, scriveva Raimondo Montecuccoli:
“Soglionsi fortini così fatti, cui alcun fiume dalla comunicazione delle proprie forze divide, in somiglianti congiunture per comune regola, senza ostinarvisi alla difesa, spianarsi e abbandonarsi per non perdere mal a proposito
insieme col forte la gente”45, il che ci dà ragione della mancata difesa di
quella postazione, il cui abbandono era già stato deciso dal supremo consiglio aulico di guerra due anni prima. “Nulla dimeno sì per compiacere al
Zrínyi che n’era vago e nell’impegno si ritrovava, e vi è più per guadagnar
tempo di adunare le forze cristiane... si prese la risoluzione di difenderlo sin
42
VON HAMMER, cit., XXI, p. 229.
N. L. SZELESTEI, Zrínyi Miklós tanácsai a császárnak 1664 tavaszán, in “Irodalomtörténeti Közlemények”, LXXXIV, 2 (1980), p. 188. Il promemoria è in italiano.
44
ASZTALOS-PETHÖ, cit., p. 268.
45
R. LURAGHI, Le opere di Raimondo Montecuccoli, II, Roma 2000, p. 431; cfr. DI HUYSSEN, cit., p. 267.
43
104
all’estremo”46. Una scelta, quindi, quella di perdere Nuova Zrínyi, dettata
dagli interessi strategici dell’Impero: sacrificare il forte in attesa che le forze
cristiane potessero riunirsi (si era in attesa del contingente francese e di
quello dei Principi tedeschi47) e sbarrare così la strada per Vienna agli ottomani.
Questo fatto determinò la rottura tra Zrínyi e Montecuccoli. Il primo redarguiva il secondo dicendo “che li Stati, e li confini non si difendevano con
le mani alla cintola... ch’il prolongare la battaglia con l’aspettativa di maggiori rinforzi, era un proceder all’infinito, anzi un aspettare il proprio danno”48 e, lasciato il campo, “dopo la misera demolitione del suo forte, s’era
portato a Vienna per dare a Cesare, come fece, un distinto ragguaglio di
quanto dal punto, che si pose l’assedio a Canissa, era successo”49.
Quanto avrebbe potuto essere ancor più eclatante la vittoria di Mogersdorf, se la cavalleria ungherese avesse portato il proprio contributo, nessuno può dirlo, fatto sta che essa mancò all’appuntamento tanto desiderato e
che per lungo tempo Zrínyi stesso aveva sollecitato50.
Mi sono particolarmente dilungato su questi episodi, antefatti della battaglia del 1° agosto51, perché essi mettono bene in evidenza il diverso sentimento che animava l’azione dei due personaggi di cui si parla oggi, Zrínyi e
Montecuccoli, e perché la pace siglata a Vasvár52 il giorno 10 dello stesso
46
Ibidem; cfr. Memoires de Montecuculi, Generalissime des Troupes de l’Empereur, Parigi
1760, p. 454 e Memoires de Montecuculi avec les commentaires de T. De Crissé, III, Amsterdam e Lipsia 1770, p. 434.
47
Rispettivamente circa 3500 fanti e 1900 cavalieri e circa 6800 fanti e 1500 cavalieri, che
andarono ad aggiungersi ai circa 5000 fanti e 5900 cavalieri imperiali (K. PEBALL, Die
Schlacht bei St. Gotthard-Mogersdorf 1664, Vienna 1978, tav. II). “Si può calcolare che il
Gran Visir potesse disporre di 60.000 effettivi” (LURAGHI, cit., I, Bari 1988, p. 29). Cfr. G.
WAGNER, Das Türkenjahr 1664: eine europäische Bewährung, Eisenstadt 1964, p. 153.
48
M. NITRI, Ragguaglio dell’ultime guerre di Transilvania, et Ungheria, Venezia 1666, p.
140, volume dal quale traspare una certa simpatia per Zrínyi.
49
Ivi, p. 178.
50
Á. R. VÁRKONYI, La coalition internationale contre les Turcs et la politique étrangère
hongroise en 1663-1664, in “Studia Historica Academiae Scientiarum Hungaricae”, 102
(1975), estratto, pp. 5-30; ID., The mediators: Zrínyi and Johann Philipp von Schönborn, in
Militia et litterae cit., pp. 72-81.
51
Anche una Nuova, e vera relatione del sanguinoso Combattimento seguito tra gli Esserciti, Imperiale sotto il Comando dell’Illustriss. & Eccellentiss. Sig. Generale Montecuccoli,
e l’Ottomano, sotto il Comando del Primo Visir, al fiume Rab (Bologna, 1664) dice che
l’esercito ottomano “era venuto per disfare lo Stato del Sig. Conte Nicolò d’Esdrino”.
52
Nota anche come pace di Eisenburg. Il sesto dei dieci articoli di questa pace, recitava che
“il forte eretto vicino a Canissa con occasione delli sudetti movimenti, e torbidi non si pos105
mese segnò il culmine dello scontento degli ungheresi, già profondamente
delusi dalla mancata prosecuzione della guerra. Essi, infatti, avrebbero voluto approfittare della situazione favorevole per darsi all’inseguimento e annientare l’esercito ottomano in precipitosa ritirata, mentre, invece, la coalizione europea che aveva sconfitto il turco sulle sponde del fiume Raab andava rapidamente sciogliendosi.
Il primo contatto di natura politica di Raimondo Montecuccoli con gli
Ungheresi risale probabilmente alla sua presenza, nell’entourage imperiale,
alla Dieta d’Ungheria tenuta a Pressburg53 l’anno 1655, circa la quale egli
scrisse: “Alli 10 di marzo... Le prime difficoltà sono che l’Imperatore inclina a non avere Palatino, ma che l’Arcivescovo fosse luogotenente del Regno: ma gli stati vi sono contrari e vogliono il Palatino, dicendo essere tali le
constitutioni del Regno...”54. Certo egli dovette anche essere a conoscenza
delle divergenze esistenti in seno alla nobiltà locale: l’elezione del conte
Wesselény in Palatino, infatti, pare non incontrasse il favore di altri, fra cui
Zrínyi55, che ambiva a quella carica.
Il giudizio che, alcuni anni più tardi, forse anche sulla scorta dei rapporti
intercorsi con Zrínyi, egli tratteggiò degli Ungheresi è decisamente duro:
“sono gli Ungheri fieri, inquieti, volubili, incontentabili. Ritengon essi la natura degli Sciti e dei Tartari, onde traggono origine. Anelano a una sfrenata
licenza”56, ma non è da ascriversi ad una qualche forma di precostituito sentimento antiungherese giacché Montecuccoli “non sembra fosse particolar-
sa redificare” (G. GUALDO PRIORATO, Historia di Leopoldo Cesare, II, Vienna 1670, pp.
non numerate in fine del volume, “Scritture contenute nel Libro Secondo Parte Seconda”).
53
Così in lingua tedesca, in ungherese Pozsony. E’ l’odierna Bratislava.
54
A. GIMORRI, Raimondo Montecuccoli. I viaggi, Modena 1924, p. 112, e in nota: “Il Nádor degli Ungheresi, era l’intermediario tra il re e la nazione, specie di viceré [e quindi primo tra i magnati]”; cfr. A. TESTA, Le opere di Raimondo Montecuccoli, III, Roma 2000, p.
361. BARKER, Montecuccoli cit., p. 207, dice che in quell’occasione Raimondo Montecuccoli creò le premesse per diventare egli stesso cittadino ungherese (“may also have laid the
basis for becoming an Hungarian citizen himself”) e cita il diploma conferitogli sei anni
dopo: “Diploma pro parte Comitis Raymundi Montecuccoli super eiusdem in indigenam
Regni Hungariae receptionem emanatum in data 8 maggio 1661, Országos Levéltár (Archivi Nazionali), Concept. Exped., Regia Cancelleria Ungherese, vol. 1661, p. 121”.
55
G. SCHREIBER, Raimondo Montecuccoli. Feldherr, Schriftsteller und Kavalier, Graz
2000, p. 119: “Die Grafen Zrínyi und Forgách, die sich für ebenso würdig hielten, fühlten
sich gekränkt... ”.
56
G. GRASSI, Opere di Raimondo Montecuccoli, II, Milano 1831, p. 249. Dice il Grassi (Ivi,
p. 305): “Il tempo in cui questo libro [L’Ungheria l’anno 1673] fu scritto, parmi con certezza assegnare all’anno 1673”, mentre da altri lo si pone all’anno 1677; cfr. TESTA, cit., p.
244.
106
mente portato dalla natura al rancore, all’odio e ai pregiudizi razziali”57 e,
anzi, i suoi studi umanistici e la sua lunga militanza in un esercito multietnico come quello imperiale devono aver fatto di lui una persona incline alla
tolleranza. La sua totale dedizione all’Impero, però, lo poneva inevitabilmente in rotta di collisione con chi, invece, nutriva aspirazioni diverse:
“mentre infatti Zrínyi aveva a cuore la causa ungherese come egli la intendeva (ossia in funzione nazionale ed antiasburgica), Montecuccoli sviluppava la politica imperiale di cui egli era il massimo stratega ed i cui interessi
egli intendeva fare”58.
Alla formulazione di tale giudizio dovettero concorrere anche i fatti che,
sul fronte magiaro, sortirono dalla pace seguita allo scontro di Mogersdorf:
lo scontento degli Ungheresi59, che vedevano così definitivamente abbandonata la propria patria all’occupazione turca, sfociò in quella che noi conosciamo come Congiura dei magnati, ovvero la ribellione antiasburgica della
nobiltà ungherese.
Con la pace di Vasvár i turchi, nonostante la disfatta subita, terminarono
la propria campagna militare in modo tutto sommato soddisfacente: le loro
posizioni in Europa centrale, infatti, compreso il protettorato sulla Transilvania, rimasero inalterate. Essi poterono così concentrare i loro sforzi nella
guerra per il controllo del Mediterraneo che da lunghissimo tempo li vedeva
contrapposti ai Veneziani, ai quali nel 1669 strapparono definitivamente
l’isola di Candia, cioè Creta.
Tutto ciò e, come abbiamo già detto, la mancata riscossa per la liberazione della loro patria, fece in modo che gli Ungheresi si sentissero traditi nelle
proprie aspirazioni: Zrínyi ebbe alcuni contatti con rappresentanti francesi
per una possibile alleanza antiasburgica60, ma le cose si trascinarono per le
lunghe e non si concretizzò alcunché. Di queste trattative dovette poi sapere
qualche cosa anche Montecuccoli, se in una lettera del 1666 a Gualdo Priorato, che stava lavorando alla sua historia su Leopoldo I, scriveva: “Li Francesi aveano disegni particolari, e fini e oggetti di Stato nella corrispondenza
e intelligenza col Zrin”61.
57
BARKER, Montecuccoli cit., p. 205: “does not appear to have been particularly inclined by
nature to rancour, hatred and ethnic prejudice”.
58
LURAGHI, cit., I, p. 96.
59
L’ambasciatore veneziano Giorgio Cornaro scriveva da Vienna l’11 gennaio 1665: “Il
conte Sdrino [Péter] è arrivato in corte. Parla altamente de’ pregiudizii di questa pace; la
nomina inganno de’ Turchi...” e il 25 aprile 1666: “Gli Ungheri sono inferrociti per tanti
discapiti, che gl’inferisce la pace...” (F. RAČZI, Acta coniurationem Bani Petri a Zrinio et
Com. Fr. Frangepani, Zagabria 1873, pp. 7 e 16).
60
Cfr. TOTH, cit., p. 119.
61
TESTA, cit., p. 203.
107
Nella repressione che seguì all’aperta ribellione del 1670, “la quale poco
mancò non gettasse in grande scompiglio ed in una spaventosa anarchia tutta l’Alemagna”62, trovò la morte anche il fratello di lui, quel Péter che abbiamo già incontrato: “Lettasi la sentenza, tenendo egli sempre gli occhi
chiusi, gli fu significato essergli dalla bontà di Cesare fatta la gratia della
mano63, e condotto sul palco nel cortile, gli fu troncata la testa”64.
Miklós, però, era già morto: il 18 novembre del 1664, infatti, “durante
una caccia, venne ferito mortalmente da un cinghiale. E’ molto significativo
il fatto che, per la situazione politica molto tesa, l’opinione pubblica giudicasse la morte improvvisa di Zrínyi come l’opera di mani assassine”65.
Si vociferò, in effetti, di un incidente architettato a bella posta, tanto che
si diffuse la diceria di un fucile custodito a Vienna e recante la scritta: “fu
questo cinghiale a uccidere Nicola Zrínyi”66. Ciò non ha mai trovato riscontri oggettivi e, anzi, le testimonianze lo escludono, anche se qualcuno volle
vederci la mano di Montecuccoli67. Racconta l’ambasciatore veneziano
Giovanni Sagredo, il quale “non amava la corte, aveva delle buone relazioni
con Miklós Zrínyi e gli Ungheresi” ma non li praticava “se non di notte, con
cautela e senza osservazione per essentarmi dall’odio”68: “Le conditioni della pace tra Imperiali, e Turchi sono quelle accennate nell’ultimo dispaccio
del Sig.r Canc.r Grande, eccettuato però il punto della morte del conte di
Sdrino, ch’egli presuppone concertata, e fu casuale, com’è noto alla Ser.tà
V.ra, occasionata dal di lui coraggio, che non paventò né gl’huomini, né le
belve, et che convenne cedere alla fierezza d’un cingiale irritato”69.
62
C. DENINA, Rivoluzioni della Germania, V, Firenze 1804, p. 147.
La sentenza prevedeva anche il taglio della mano destra (N. MOCENIGO, cit., p. 60).
64
G. GUALDO PRIORATO, Continuatione dell’historia di Leopoldo Cesare, Vienna 1676, p.
126; era il 30 aprile 1671. Anche Gualdo Priorato, come Raimondo Montecuccoli, esprime
un parere negativo: “hebbero gli Ungheri sempre in odio la Natione Alemanna, così per
l’antipatia naturale, come per l’ambitione d’essere ancora quelli, che furono, e poter far ciò,
che li loro Antenati fecero... Le azzioni fatte da essi Ungheri, registrate nell’Historia, canonizzano la giustitia della causa de gli Alemanni”, Ivi, p. 3.
65
ASZTALOS-PETHÖ, cit., p. 268.
66
RUZICSKA, cit., p. 395.
67
E. SAYOUS, Histoire générale des Hongrois, Budapest e Parigi 1900, p. 349: “bien des
gens soupçonnèrent Montecuccoli d’avoir satisfait les rancunes de son amour-propre”.
68
B. KÖPECZI, Sagredo et Zrínyi, 1663-1664, in Militia et Litterae cit., p. 105: “il n’aimait
pas la Cour, il avait de bonnes relations avec Nicolas Zrínyi et les Hongrois”.
69
Relazione del 2 maggio 1665 di Giovanni Sagredo “ritornato dall’Amb.a di Germania”,
che prosegue: “Fu un giuoco di fortuna, et un tratto di mala ventura, che un cavalliere di
così rare qualità, come il conte Nicolò, che ha havuti tanti incontri di perire guerreggiando
contro Turchi sia morto combattendo contro un cingiale, et che la sorte l’habbia tolto da
tanti pericoli di guerra per perderlo tra li divertimenti della caccia. Gravissima è stata la
63
108
A questo proposito, è da notare come Gualdo Priorato scrivesse dapprima
che “trovandosi egli conforme al solito alla caccia per quei boschi, avvenne,
che un feroce cingiale ferito da cacciatori di precipitosa corsa urtandogli
nelle gambe l’atterrasse, e poscia colli denti ferendolo in gola, lo lasciò semimorto”70 per poi correggersi con lo scrivere: “morto il conte Nicolò
l’anno 1664 mentre si trovava alla caccia, non già ucciso da un cingiale,
come se ne sparse la fama, ma da un colpo d’archibuggio sotto l’occhio, la
cui palla se gli trovò poi nella testa, senza sapersi se il colpo fosse appostatamente venuto da un cacciatore mandatogli dal conte Nadasti, o pure in fallo da un suo paggio chiamato Angelo”71.
Un importante testimone oculare, invece, racconta che “alla fine dovette
morire a causa delle tre ferite che aveva sul capo. Una sopra l’orecchio a sinistra, dove la zanna del cinghiale aveva sfiorato l’osso del cranio con un
taglio terribile sulla pelle in direzione della fronte, la seconda sotto l’orecchio sinistro, attraversava il viso verso l’occhio. Queste due ferite non erano
niente in confronto della terza, dove la zanna aveva trapassato la vertebra
del collo sotto l’orecchio destro, verso la gola, strappando tutti i tendini del
collo. Morì per aver perso troppo sangue. Aveva anche un graffio sulla mano, ma niente d’importante. Nel bosco ci fu un terribile pianto...”72.
Questa la storia che vi ho voluto raccontare, seppur brevemente: quella di
un “eroe tragico in un periodo tragico della storia ungherese”73 che soprattutto amava la sua patria ed inseguiva il sogno di liberarla dall’oppressore
giattura, perché li conti Sdrini erano i Leoni di Christianità, temuti tanto da Turchi... Morto
lui restano gl’Ongheri senza capo di riputatione, e si può dire senza direttione, e senza consiglio... Disperato per la pace inopportunamente conclusa dall’Imperatore con Turchi poco
avanti la sua fatale disaventura mi fece insinuare, che havrebbe servito la Republica ovunque havesse ricercato il bisogno con sei mille scielti soldati... E’ restato il Conte Pietro suo
fratello gran Soldato ancor lui per la bravura, ma non uguale nel credito, e nella condotta”
(“Fontes Rerum Austriacarum”, XXVII, Vienna 1867, p. 109).
70
GUALDO PRIORATO, Historia cit., II, p. 583.
71
Ivi, III, Vienna 1674, p. 73; ID., Vita cit., c. 4r: “ucciso infelicemente, mentre si trovava
alla caccia de cigniali da una archibugiata sotto un’occhio tiratagli, per quanto se n’è poi
saputo, mentre era alle mani con un cigniale, o da Angelo suo paggio, o da un cacciatore...
volendo colpire il cigniale”.
72
BETHLEN, cit., p. 93. A. WEBER, Der Tod des Dichters Zrínyi, in “Ungarische Rundschau”, III (1914), p. 187, dice che tutte le testimonianze contemporanee avvalorano quanto
narra Bethlen (“Sämtliche gleichzeitige Aufzeichnungen bekräftigen die Aussagen Bethlens, so dass ihre Glaubwürdigkeit wissenschaftlich feststeht”) e riporta una lettera del 27
novembre 1664 con la quale l’ambasciatore veneziano a Vienna comunica alla Repubblica
il fatto, “svantaggiosissimo alla Christianità”.
73
J. REMÉNYI, Three Hungarian Poets, Washington D. C. 1955, p. 27: “the tragic hero of
Hungary’s tragic epoch”.
109
turco per rifarne il grande regno di Mattia Corvino. Un personaggio che,
“amico entusiasta di ogni cosa italiana”74, in altre circostanze sarebbe certamente andato d’accordo con il nostro Raimondo, col quale condivideva ad
alto livello la cultura umanistica dell’epoca, la formazione ed il pensiero militare. Un personaggio a cui, però, mancò spesso quella sors bona da lui
stesso auspicata.
74
BARKER, Montecuccoli cit., p. 208: “an enthusiastic friend of everything Italian”.
110
Franco Di Santo
DALL’IMPERO ALL’EUROPA: LA POLITICA DI SICUREZZA
DELL’AUSTRIA NEL XXI SECOLO
Di quello che fu uno dei grandi Imperi della storia, e della sua strategia politico-militare, oggi restano solo le tracce e le memorie conservate e tramandate alle nuove generazioni dallo splendido Heeresgeschichtliches Museum di Vienna.
Nel museo di Vienna la battaglia della Raab/Mogersdorf, di cui
quest’anno commemoriamo il 350° Anniversario, è ricordata da un affresco nella Ruhmeshalle (Sala della Gloria) che ritrae il grande condottiero Raimondo Montecuccoli che guida vittoriosamente l’esercito
(europeo) contro le soverchianti forze turche che minacciano l’Impero
e il resto d’Europa.
Le Türkenkriege (guerre turche) che insanguinarono l’Europa dalla
caduta di Bisanzio nel 1453 fino alla grande vittoria del Principe Eugenio di Savoia nella battaglia di Zenta del 1697, segnarono il tratto
più saliente della politica di sicurezza dell’Impero asburgico e delle
potenze europee del tempo. Con questa politica, l’Impero asburgico
mirava a mantenere la sua coesione interna e la propria posizione di
dominio nel Sacro Romano Impero della nazione tedesca e di preminenza in Europa. Riuscirà per secoli in questo intento fino a quando la
sua posizione verrà messa in discussione dalla crescente potenza della
Prussia che si sostituirà, con la sconfitta dell’Impero asburgico nella
battaglia di Sedowa/Königgräz del 1866, alla secolare egemonia austriaca nell’area tedesca. Successivamente, la stessa esistenza dello
Impero vedrà la fine con la sconfitta militare nella Grande Guerra e la
conseguente abdicazione dell’Imperatore Carlo I nel novembre 1918.
Oggi l’Austria, pur memore del suo straordinario passato, è una
piccola repubblica alpina incastonata al centro dell’Europa che offre al
mondo la sua grande tradizione di civiltà e pace anche attraverso
l’opera delle sue forze armate, eredi della grande tradizione militare
della Kaiserliche und Königliche Armee (esercito imperial–regio asburgico), interessante esempio di Istituzione militare sovranazionale
sopratutto nell’ottica della discussione sul futuro esercito europeo.
111
Ma andiamo per ordine. Al termine del secondo conflitto mondiale,
l’Unificazione (Anschluss) dell’Austria alla Germania del 1938 fu dichiarata nulla dagli Alleati e il Paese, a similitudine della Germania,
venne occupata dalle potenze vincitrici che definirono quattro specifiche zone di competenza, tre per gli alleati occidentali USA, Gran Bretagna e Francia e una per i sovietici. Anche Vienna (come Berlino)
venne suddivisa in quattro settori di occupazione. L’occupazione ebbe
fine al momento della nascita della seconda Repubblica austriaca il 15
maggio 1955 e con la successiva legge costituzionale del 26 ottobre
1956 (a ricordo l’Austria celebra il 26 ottobre la propria festa nazionale), l’Austria proclamò la propria neutralità permanente (con conseguente divieto di stazionamento di truppe straniere), neutralità in verità imposta dai sovietici e finalizzata a separare, insieme alla contigua
Confederazione elvetica, il fronte Nord da quello Sud della NATO. Il
modello di neutralità a cui dichiaratamente gli austriaci si rifacevano
era proprio quello della Svizzera ma, al contrario della vicina Confederazione, questa fu messa già in discussione quando l’Austria entrò a
far parte delle Nazioni Unite nel dicembre del 1955. Iniziò infatti una
ampia e duratura partecipazione del Bundesheer (l’esercito federale
austriaco) alle missioni di pace dell’ONU nel mondo con l’evidente
assunzione di un ruolo e responsabilità internazionale paradossalmente favorita proprio dalla proclamata neutralità austriaca. Tale neutralità, che sostanzialmente significava non allineamento tra i due blocchi
allora imperanti (USA - URSS), favorì anche l’insediamento di molte
organizzazioni internazionali a Vienna, divenuta così la terza città in
ordine di importanza per l’ONU dopo New York e Ginevra. Non va
poi dimenticato che Vienna è anche sede dell’OSCE (Organizzazione
per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa, sorta nel 1974 dopo gli
accordi di Helsinki) e dell’OPEC (Organization of the Petroleum Exporting Countries - Organizzazione dei Paesi esportatori di petrolio).
E’ infine significativo che un austriaco, Kurt Waldheim, fu scelto come Segretario Generale dell’ONU nel 1971 e mantenne questa carica
fino al 1981.
Nel 1956, con la crisi ungherese che portò migliaia di profughi a
varcare i confini austriaci in cerca di salvezza e libertà, l’Austria si rese conto che doveva necessariamente dotarsi di uno strumento militare
efficace per preservare la propria sovranità e integrità territoriale.
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Nacque quindi la necessità di rendere ancora più operativo il Bundesheer che già nel 1968, in occasione della crisi cecoslovacca, diede ottima prova di sé. In seguito alle crisi del 1956 e del 1968, la Costituzione austriaca venne emendata e fu proclamato il principio della difesa territoriale integrate (umfassende Landesverteidigung) come uno
degli obiettivi principali dello Stato. Sulla base di questo principio le
Forze Armate austriache si fondano sulla coscrizione obbligatoria (recentemente confermata da un referendum popolare) della durata di 6
mesi e sulla Milizia (riservata a chi ha svolto il servizio di leva). L’attuale consistenza delle Forze armate austriache (divise in Forze di Terra - Landstreitkräfte, Forze dell’Aria - Luftstreitkräfte e Milizia - Miliz) è di circa 50.000 uomini e donne. A dimostrazione del vivo dibattito sul tema della politica di sicurezza e difesa in Austria nel tempo,
va citata la cosiddetta “Dottrina Spannocchi” (o Raumverteidigung Difesa d’Area) elaborata alla fine degli anni ’60 dal generale austriaco
Emil Spannocchi e applicata fino alla fine della Guerra Fredda, per cui
la difesa del territorio non doveva avvenire alla frontiera (dove le esigue truppe austriache sarebbero state facilmente travolte da un nemico
numericamente superiore) ma all’interno del territorio austriaco attraverso una serie di battaglie di posizione e di movimento che avrebbero
reso per l’avversario la conquista del territorio (già di per sé poco accessibile data la natura alpina) estremamente difficoltosa e onerosa in
termini di vite umane. La “Dottrina Spannocchi” era pensata in caso di
attacco dei Paesi del Patto di Varsavia, della Jugoslavia e, curiosamente anche da parte della NATO.
Un ulteriore cambiamento nella sua politica di neutralità è avvenuto nel 1995 quando l’Austria (insieme a Svezia e Finlandia) è entrata
nell’Unione Europea. Al momento dell’ingresso, l’Austria (così come
la Svezia e la Finlandia) ha sottoscritto un protocollo aggiuntivo in cui
si impegnava a sostenere la Politica di sicurezza e difesa comune
(CSDP - Common Security and Defence Policy). Nello stesso anno
1995, infine, l’Austria sottoscriveva con la NATO l’accordo Partnership for Peace che ha permesso all’Austria di diventare un interlocutore privilegiato dell’Alleanza Atlantica ma che ha anche comportato
l’intervento di soldati austriaci in Bosnia - Erzegovina, Kosovo e Afghanistan.
113
L’Austria ha recentemente (luglio 2013) pubblicato la sua nuova
strategia di sicurezza che definisce il ruolo che il Paese vuole assumere in relazione alle odierne sfide alla sicurezza propria e internazionale. Un attacco diretto contro la sua sovranità e integrità territoriale è
ormai del tutto escluso. Ciononostante, altri nuovi rischi sono comparsi all’orizzonte e tra questi i più temuti sono senz’altro l’instabilità regionale, l’immigrazione clandestina e la sicurezza delle infrastrutture
sensibili. Per questo motivo l’impiego delle forze armate austriache
(ma anche della Diplomazia) è volto verso l’interno e le attuali aree di
crisi nel mondo (specie Balcani e Africa) senza trascurare il Medio
Oriente, da sempre un’area di intervento del Bundesheer particolarmente sotto bandiera dell’ONU. A riguardo, non si può sottacere il
malumore che nei ranghi del Bundesheer ha provocato la decisione
governativa nel luglio del 2013 di ritirare, in seguito all’aggravarsi
della crisi interna siriana, le truppe austriache impiegate in missione di
pace sulle alture del Golan (UNDOF United Nations Disengagement
Observer Force), al confine tra Israele e Siria: una missione che aveva
avuto inizio nel lontano 1974 e che aveva visto gli austriaci distinguersi per l’atteggiamento di assoluta correttezza e neutralità, guadagnandosi unanime rispetto e consenso dalle parti in conflitto.
Dalla lettura del documento governativo sulla strategia di sicurezza
si evince che, oltre ai compiti di Schutz&Hilfe (Protezione&Aiuto)
all’interno dei propri confini, l’Austria ha focalizzato ogni interesse/aspirazione strategica all’interno della Unione Europea, puntando a
svolgere un ruolo significativo nella Politica Europea di Sicurezza e
Difesa. A riprova di ciò, non è certo un caso che l’attuale Direttore
generale dello Stato Maggiore internazionale dell’Unione Europea
(che opera all’interno del Servizio di azione esterna europea che fa
capo a Lady Ashton) sia il tenente generale austriaco Wolfgang Wosolsobe. In aggiunta a questa linea, si confermano quelle che legano
l’Austria alla politica multilaterale dell’ONU e alle relazioni transatlantiche della NATO. Una visione d’insieme che permette all’Austria
di conservare la sua costituzionale neutralità pur essendo un attore attivo delle relazioni internazionali.
In relazione ai rischi richiamati sopra, le principali missioni del
Bundesherr all’estero sono in Bosnia (missione europea EU Althea),
Kosovo (NATO Kfor), Libano (UNIFIL - quest’ultima attualmente
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sotto comando italiano) con un totale di circa 700 soldati (dato aprile
2014). L’Austria è poi presente sotto bandiera europea in Mali
(EUTM Mali), in Congo (EUSEC), in Repubblica Centrafricana (EUFOR RCA), in Georgia (EUMM) mentre su mandato delle Nazioni
Unite soldati austriaci sono presenti in Sahara Occidentale (MINURSO) Africa Occidentale (UNOWA), Cipro (UNFICYP), Siria (OPCW
- JMIS), Medio Oriente (UNTSO). Ufficiali austriaci sono infine presenti in Afghanistan nell’operazione NATO - ISAF.
La difesa nazionale e la partecipazione alle missioni sotto egida
UE, ONU e NATO (indicate secondo un ordine prioritario) rappresentano i pilastri della strategia nazionale austriaca che, evidentemente,
non sono più quelli di un tempo ma piuttosto sono proiettati in un futuro in cui l’Austria continuerà a svolgere un ruolo importante al fianco degli altri membri della comunità internazionale concretizzando
così quelle relazioni internazionali, basate sul multilateralismo degli
attori, indispensabili a preservare la pace e il progresso dei popoli.
Bibliografia essenziale
 Bundesministerium für Landesverteidigung und Sport, Austrian Security Strategy, Wien 2013
 H. BIEHL, B. GIEGERICH, A. JONAS, Strategic Cultures in Europe. Defense and
Security Policies Across the Continent, Wiesbaden 2013
 S. VAJDA, Storia dell’Austria, Milano 2002
 W. WOSOLSOBE, Austria’s Security and Defence Policy, in Truppendienst International, Vienna 2006
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