Benessere sostenibile - Aspen Institute Italia

BENESSERE SOSTENIBILE:
LA VIA ITALIANA A SALUTE, AMBIENTE,
STILE DI VITA
Interesse nazionale
Luglio 2014
A cura di Università degli Studi di Brescia
per Aspen Institute Italia
© Aspen Institute Italia
INDICE
1. INTRODUZIONE
2. PERCHÉ ABBIAMO BISOGNO DI UN NUOVO E INNOVATIVO PROGETTO DI SVILUPPO: L’ECONOMIA
ITALIANA E LE ATTUALI PROSPETTIVE DI CRESCITA
3. I PROBLEMI E GLI OSTACOLI PER UNA CRESCITA SOSTENIBILE NEI PROSSIMI DECENNI
3.1. DEMOGRAFIA: UNA POPOLAZIONE PIÙ LONGEVA MA PIÙ ANZIANA E GLI EFFETTI SUL MERCATO
DEL LAVORO E SUL WELFARE
3.2. STATO DI SALUTE DELLA POPOLAZIONE
3.2.1. SEMPRE PIÙ MALATI CRONICI E DISABILI
3.2.2. L’EPIDEMIA DI OBESITÀ
3.2.2.1. L’OBESITÀ IN ITALIA: UN PROBLEMA IN CRESCITA
3.2.2.2. L’OBESITÀ INFANTILE IN ITALIA
3.2.2.3. QUANTO COSTA L’OBESITÀ AL SISTEMA SANITARIO NAZIONALE ITALIANO
4. LE POLITICHE E GLI INVESTIMENTI IN PREVENZIONE COME VOLANO DI CRESCITA
5. CONCLUSIONI
BIBLIOGRAFIA
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1. Introduzione
Verso la fine degli anni ‘60, in un periodo storico in cui le economie dei Paesi più avanzati
procedevano alla massima velocità, un gruppo di visionari decise di avviare una seria riflessione
su di un tema che allora appariva molto eterodosso e di scarso interesse: i limiti dello sviluppo
economico. Quel gruppo commissionò al MIT di Boston un lavoro che fu poi pubblicato nel 1972 in
un documento dal titolo “Rapporto sui limiti dello sviluppo”, a oggi considerato una pietra miliare
nel settore, che ci racconta di come il genere umano (e i decision maker in particolare) sia spesso
troppo miope per capire il futuro prossimo che lo attende in conseguenza delle scelte che si
compiono quotidianamente.
A quel rapporto hanno poi fatto seguito altri due rapporti di aggiornamento – “Oltre i limiti”
(1992) e “Limits to Growth: The 30-Year Update” (2004) – che, nella sostanza dei fatti, hanno
confermato i risultati del primo studio. I primi due rapporti – pubblicati negli anni della grande
crisi petrolifera e nel mezzo dell’unica crisi dei mercati cerealicoli della seconda metà del secolo –
suscitarono una vasta attenzione sull’argomento, ma l’essenza del messaggio, vale a dire che
l’umanità si sarebbe scontrata con la rarefazione delle risorse naturali, fu sostanzialmente rigettata
dalla cultura economica internazionale, convinta che lo sviluppo tecnologico avrebbe sopperito a
ogni rarefazione di risorse.
Negli ultimi 15 anni le opinioni in merito sono sufficientemente cambiate e il tema della
sostenibilità economica continua a raccogliere sempre maggiore attenzione, sia negli ambienti
accademici che in quelli politici e decisionali, e oggi, a differenza di ieri, sono in molti a ritenere
che l’attuale modello di sviluppo economico proposto dai Paesi industrializzati e in via di sviluppo
non sia più sostenibile. Infatti, se è vero che nel breve periodo un ulteriore avanzamento
tecnologico per estrarre più risorse naturali e per produrre più cibo, farmaci, energia e crescita
economica è sicuramente possibile, è anche vero che nel lungo termine ciò avrà conseguenze
disastrose sulla salute dell’uomo e dell’ambiente, ed in ultima analisi sul benessere sociale ed
economico dell’intero pianeta.
L’invecchiamento della popolazione, l’epidemia di obesità e di patologie croniche associate agli
scorretti stili di vita, il crescente inquinamento ambientale, il riscaldamento globale e lo
sfruttamento sconsiderato delle risorse energetiche e naturali sono problemi seri che, se affrontati
in modo scientifico e con una nuova visione globale e transdisciplinare, potrebbero non solo far
risparmiare ingenti risorse economiche al Paese, ma generare nuova ricchezza.
Esistono oggi conoscenze scientifiche e tecnologie che ci permetterebbero di vivere in un mondo
prospero, sano e pacifico. Al contrario, a livello mondiale ci siamo avviati nella direzione opposta,
consumando e sfruttando più di quanto ci sia permesso, non più solo a danno delle generazioni
future, ma anche di quelle attuali. Negli ultimi 100 anni l’inquinamento dell’aria, delle riserve
idriche e della terra è aumentato. I mari sono invasi da mercurio, metalli pesanti e detersivi non
biodegradabili che finiscono nella catena alimentare. I terreni agricoli e le falde acquifere
superficiali e profonde sono pesantemente contaminati da pesticidi ed erbicidi, da nitrogeno e
fosforo. L’aria delle grandi e piccole città è avvelenata dagli inquinanti prodotti dai motori degli
autoveicoli, dagli impianti termici delle case, dalle industrie e dai termovalorizzatori. Lo stato di
salute (e i relativi costi sanitari e sociali) del crescente numero di anziani è peggiorato a causa della
scorretta alimentazione e della vita sedentaria che si sta estrinsecando in un’epidemia di
sovrappeso ed obesità senza precedenti. Infine, il riscaldamento globale dovuto allo spreco
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energetico si sta manifestando e si manifesterà in tutta la sua violenza se non cambieremo
drasticamente le nostre abitudini e i nostri comportamenti.
A fronte di tali emergenze l’Italia – nota per uno stile di vita equilibrato e per la sua dieta
mediterranea, forte di un patrimonio culturale, artistico e naturale unico al mondo – può ricoprire
un ruolo guida per tracciare una propria via verso il benessere sostenibile: la sfida consiste nel
mettere a sistema le eccellenze culturali, scientifiche e produttive per proporre un modello virtuoso
che sia di esempio per gli altri Paesi, con potenziali straordinarie ricadute in termini di
competitività e immagine.
In quest’ottica l’Italia deve rilanciarsi come attore principale di un Nuovo Rinascimento che ponga
al centro delle politiche sociali ed economiche la valorizzazione della salute dell’uomo e
dell’ambiente, il capitale culturale, artistico e naturale. E non è un caso che parliamo di Nuovo
Rinascimento. Abbiamo bisogno di cambiamenti radicali, come già è avvenuto in passato. Ad
esempio, a partire dagli ultimi decenni del XIV secolo un gruppo di intellettuali ed artisti italiani
iniziarono un processo di profondo rinnovamento culturale e scientifico che segnò il passaggio dal
Medioevo all’era moderna, prima in Italia e poi nel resto d’Europa. Secondo lo storico Richard
Goldthwaite quel processo di rinnovamento fu tale per cui “il benessere fu riciclato e investito in
capitale umano e trasformato nel patrimonio dell’architettura urbana, dell’arte e di una tradizione
artigianale mai eguagliata in altre città” (Goldthwaite, 2011, p.672). Un’eredità impressionante che
ancora oggi il mondo intero ci riconosce.
Sono queste le uniche vere possibilità che abbiamo oggi per ricominciare a crescere e a svilupparci
in modo sostenibile. Ciò di cui oggi l’Italia ha bisogno sono chiare scelte politiche con una visione
di lungo periodo; salute, benessere, risparmio energetico, conoscenza, cultura devono diventare i
pilastri su cui costruire il futuro e lo sviluppo economico della “nuova” Italia.
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2. Perché abbiamo bisogno di un nuovo e innovativo progetto di sviluppo: l’economia
italiana e le attuali prospettive di crescita
Tra gli Stati membri dell’Unione Europea, l’Italia è stata sicuramente uno dei Paesi più colpiti dalla
recessione, che si è presentata in due diversi momenti tra il 2007 e il 2013 (vedi figura 1). Nel 2008 e
2009, il PIL italiano è diminuito rispettivamente dell’1,2% e del 5,1%. Nei due anni successivi la
ripresa è stata debole, con un incremento del PIL dell’1,7% nel 2010 e solo dello 0,4% nel 2011.
Successivamente la crisi si è riacutizzata, con un crollo del 2,4% del PIL nel 2012, seguito da
un’ulteriore diminuzione dell’1,8% nel 2013. A fine 2013 l’Italia risulta essere l’unico tra i Paesi più
industrializzati a non aver ancora recuperato il livello di PIL del 2001.
Figura 1 – Andamento PIL italiano, dati trimestrali - Var. % e valori assoluti
Fonte: elaborazioni Fondazione Farmafactoring su dati Centro Studi Confindustria e ISTAT
Secondo i dati riportati da ISTAT, la crisi ha ridotto la ricchezza prodotta e ha colpito in maggior
misura i redditi bassi, penalizzando soprattutto i lavoratori con minori competenze e retribuzioni.
Nel 2012 in Italia la percentuale di individui a rischio povertà o esclusione sociale è salita al 29,9%
(dal 28,2% nel 2011), la quota più alta tra i Paesi dell’Eurozona, a eccezione della Grecia (34,6%).
L’Italia in questo momento è molto lontana dagli obiettivi di Europa 2020: nel 2012 le persone a
rischio di povertà o esclusione sociale superavano i 18 milioni, il 30% in più rispetto al target
europeo.
Il 2013 è stato il settimo anno dall’inizio dalla crisi e l’anno peggiore della storia dell’economia
italiana dal secondo dopoguerra. Tuttavia, la grande enfasi posta su questa crisi ci ha fatto
dimenticare che già nel 2007 l’Italia cresceva poco; come ben spiegato in un interessante saggio di
Emanuele Felice e Giovanni Vecchi, quello che stiamo vivendo in Italia è un fenomeno che va ben
oltre gli aspetti congiunturali della crisi iniziata nel 2007 e si inserisce in un trend strutturale di
declino economico che parte già dalla fine degli anni ‘70. Come si può vedere dalla figura 2, su un
periodo di 150 anni, la performance in termini di crescita dell’Italia, rispetto a quella di oltre 100
Paesi sviluppati e in via di sviluppo, è decisamente negativa. Nel grafico, per ogni decade dal 1861,
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sono riportati il Paese con la minore (quadrato) e maggiore (triangolo) crescita, la performance
dell’Italia e quella della media dei Paesi Ocse. Dalla figura si evince chiaramente come dagli anni
‘70 la crescita economica dell’Italia avvenga a tassi sempre più contenuti, per finire nell’ultima
decade a essere il Paese con la crescita più bassa a livello internazionale.
Fig. 2 - La crescita dell’Italia in rapporto al resto del mondo: un quadro desolante di
declino economico
Fonte: Felice e Vecchi, 2013
È in questa prospettiva che va pensato un piano di sviluppo per i prossimi anni. Se è vero che
abbiamo bisogno di interventi per rilanciare la domanda, risollevando nel breve periodo i redditi e
l’occupazione, è anche vero che tali misure potrebbero essere maggiormente efficaci se coerenti con
una visione di lungo periodo, l’unica capace di indicarci l’uscita da questa perdurante fase di
declino.
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3. I problemi e gli ostacoli per una crescita sostenibile nei prossimi decenni
Negli ultimi 20 anni, a livello mondiale, abbiamo assistito a due fenomeni contrapposti. Da un lato
il sorprendente aumento dell’aspettativa di vita della popolazione (circa un anno in più ogni
quattro anni), e dall’altro l’aumento della prevalenza delle malattie croniche che si sono diffuse su
scala globale, raffigurandosi in alcuni Paesi e per alcune patologie (ad es. il diabete) come vere e
proprie epidemie. La diretta conseguenza di tali fenomeni è una popolazione più longeva, ma al
tempo stesso più malata e bisognosa di cure. Cure che negli anni sono diventate sempre più
efficaci e costose e che, se da un lato fanno aumentare la speranza di vita, dall’altro creano
problemi di sostenibilità finanziaria. Contemporaneamente, il ripensamento dei sistemi di welfare
(soprattutto in Europa) e, più recentemente, la crisi globale scoppiata nel 2007 (la più prolungata
fase di recessione economica dopo quella del 1929) hanno determinato un aumento considerevole
degli indici di povertà e di diseguaglianza, peggiorando in molti casi le diseguaglianze nell’accesso
alle cure sanitarie.
3.1. Demografia: una popolazione più longeva ma più anziana e gli effetti sul mercato del lavoro e
sul welfare
La scala e il ritmo dell’invecchiamento della popolazione dipendono dall’andamento della
speranza di vita, della fertilità e delle migrazioni. La speranza di vita alla nascita dovrebbe salire
da 76,7 anni nel 2010 a 84,6 nel 2060 per gli uomini e da 82,5 a 89,1 anni per le donne. Il tasso di
fertilità nell’Unione Europea (UE) dovrebbe crescere di poco, da 1,59 nascite per donna nel 2010 a
1,71 nel 2060. Il saldo netto cumulativo delle migrazioni nell’UE ammonterà, secondo le proiezioni,
a circa 60 milioni fino al 2060.
Nel 2060 la popolazione totale sarà poco più numerosa (517 milioni, contro 502 milioni nel 2010),
ma molto più anziana: secondo le proiezioni, il 30% degli europei avrà almeno 65 anni. Da un lato,
il fatto che più persone vivano più a lungo è una grande conquista, ma dall’altro ciò pone gravi
problemi alle economie e ai sistemi previdenziali dei Paesi europei. L’altra faccia della medaglia è
infatti la riduzione del numero di persone in età lavorativa: la quota della popolazione tra i 15 e i
64 anni di età scenderà dal 67% al 56%. Questo vuol dire che, all’incirca, invece di 4 persone in età
lavorativa per ogni pensionato ce ne sarebbero solo 2.
Ci si aspetta che questi cambiamenti demografici avranno notevoli conseguenze per le finanze
pubbliche nell’UE. Sulla base delle politiche attuali, si prevede che la spesa pubblica "direttamente"
legata all’età (pensioni, sanità e assistenza a lungo termine) crescerà di 4,1 punti percentuali del
PIL tra il 2010 e il 2060, passando dal 25% al 29% circa. La sola spesa per le pensioni dovrebbe
salire dall’11,3% a quasi il 13% del PIL entro il 2060. La situazione si presenta però molto diversa
da un Paese all’altro, in gran parte in funzione dei progressi realizzati in materia di riforma delle
pensioni.
È di fondamentale importanza per la sostenibilità delle pensioni concentrare l’attenzione non solo
sulla previdenza o sull’età legale di pensionamento, ma anche sulle questioni legate al mercato del
lavoro. Il “Calcolatore dell’indice di dipendenza” dimostra l’enorme impatto dei livelli
occupazionali sull’evoluzione dei rapporti di dipendenza economica (vedi figura 3). Migliorare i
livelli e le opportunità di occupazione, in particolare per i giovani, le donne e gli anziani (uomini e
donne) deve essere una priorità chiave, viste le previsioni sul calo della popolazione in età
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lavorativa. Maggiore formazione, tutela della salute, riconciliazione tra lavoro e vita familiare sono
solo alcuni degli elementi fondamentali di tale strategia.
Figura 3 – Il mondo invecchia
Fonte: Eurostat
Nel caso dell’Italia, l’età media della popolazione passerà dagli attuali 43,5 ai 49,7 anni del 2065.
Nella prospettiva di una longevità tendenzialmente crescente e di una riproduttività sotto la soglia
di sostituzione delle generazioni, il cambiamento demografico dei prossimi anni vedrà ancora una
volta protagonista il processo di invecchiamento della popolazione. La figura 4 mostra gli effetti
del prossimo cambiamento demografico. Quella che nel lessico demografico, già oggi, si fatica a
definire “piramide” della popolazione, in futuro continuerebbe ad allontanarsi sempre più da tale
forma: pur affrontando un tema che riguarda il lungo periodo, e pur riconoscendo che i diversi
presupposti ipotizzati possano condurre a condizioni più o meno favorevoli, la struttura per età
della popolazione non potrà che ulteriormente sbilanciarsi a favore delle età più anziane.
Nello scenario centrale, l’età media della popolazione tenderebbe a crescere al ritmo annuale di
circa due decimi di punto, passando dagli attuali 43,5 anni a 47,8 anni nel 2035. Dopo tale anno la
crescita dell’invecchiamento subirebbe un rallentamento e si raggiungerebbe un massimo di 49,8
anni di età media nel 2059. Infine, a indicare un potenziale processo di stabilizzazione
dell’invecchiamento, va segnalato che l’età media della popolazione potrebbe ridiscendere a 49,7
anni entro il 2065. Lo spostamento della distribuzione per età della popolazione verso le classi più
anziane viene confermato anche negli scenari alternativi, contraddistinti da un percorso evolutivo
simile a quello dello scenario centrale, ma con un ventaglio di risultati al 2065 che oscilla dai 49
anni di età media dello scenario alto ai 50,6 anni dello scenario basso.
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Figura 4 – Piramide della popolazione residente al 2011 e al 2065 in Italia (migliaia)
Fonte: ISTAT Il futuro demografico del Paese. Statistiche Report, 28 dicembre 2011
3.2. Stato di salute della popolazione
3.2.1. Sempre più malati cronici e disabili
Secondo l’Institute for Health Metrics and Evaluation (2013), in Europa le malattie non
trasmissibili – quali le patologie cardiovascolari, i tumori, i problemi di salute mentale, il diabete
mellito, le malattie respiratorie croniche e le patologie muscolo-scheletriche – sono responsabili
della stragrande maggioranza delle morti e della spesa sanitaria. Tra queste, le malattie
cardiovascolari costituiscono la principale causa di decessi, e sono responsabili di circa la metà di
tutte le morti in Europa. Le malattie del cuore e gli ictus rappresentano, altresì, la principale causa
di morte nei 52 Stati membri del WHO. Secondo le ultime stime disponibili, dei 57 milioni di morti
nel 2008, 36 milioni (65%) erano dovute a malattie non trasmissibili, di cui circa la metà (17 milioni)
per cause cardiovascolari e 7,6 milioni per cause oncologiche. A causa dell’invecchiamento della
popolazione, si stima che nel 2030 ci saranno ben 25 milioni di persone che moriranno per cause
cardiovascolari e circa 13 milioni per tumori. Relativamente ai Paesi UE ed EFTA, nella figura 5
sono riportati, per l’anno 2010, il numero di morti per classe di età e per causa. Come si può
vedere, malattie cardiovascolari e tumori costituiscono la stragrande maggioranza della cause di
decesso.
Relativamente all’Europa, circa il 60% del peso imposto da queste malattie in termini di DALY
(Disability Adjusted Life Years) può essere attribuito a sette principali fattori di rischio: pressione alta
(12,8%), fumo (12,3%), alcool (10,1%), livelli elevati di colesterolo (8,7%), sovrappeso (7,8%), ridotta
assunzione di frutta e verdura (4,4%) e scarsa attività fisica (3,5%). Un altro aspetto importante è
che i fattori di rischio spesso si sommano tra di loro; ad esempio, nel caso delle malattie
cardiovascolari, il diabete si somma alla lista dei fattori di rischio. Almeno il 35% degli uomini
sopra i 60 anni soffre di due o più patologie croniche e il numero delle co-morbilità aumenta con
l’età, con livelli più alti osservati tra le donne. Questi risultati non cambiano di molto se ci si limita
ad analizzare i soli Paesi appartenenti all’UE. Nella figura 6 sono riportati i dati sul numero di
DALY per classe di età e per causa.
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Figura 5 – Numero di morti per età e causa – 2010 – UE ed EFTA
Fonte: Infometrics, 2014
Figura 6 – Anni di vita con disabilità per età e causa – 2010 – UE ed EFTA
Fonte: Infometrics, 2014
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A livello globale, circa l’80% degli anziani sono affetti da almeno una malattia cronica, e il 50% da
due o più malattie croniche (ad esempio malattie cardiovascolari, ictus, cancro o diabete di tipo 2)
(Fontana, 2009). Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) le patologie croniche, che
sono in gran parte prevenibili, sono la principale causa di morbilità e mortalità, nonché la fonte
principale di costi per l’economia e un peso per lo stato sociale (Fontana, 2009; WHO, 2005). Questi
problemi sono poi aggravati dall’attuale epidemia di obesità, in cui l’eccessiva adiposità è associata
all’aumento del rischio di sviluppare diabete di tipo II, malattie cardiovascolari, tumori e, più in
generale, disabilità (Fontana e Klein (2007); Fontana (2009); WHO (2005)).
Inoltre, vi è una significativa correlazione tra salute mentale e fisica, entrambe condizionate da
elementi negativi quali l’assenza di un alloggio, l’alimentazione insufficiente e/o non equilibrata, la
scarsa istruzione o la diffusione di fattori di rischio quali l’alcolismo. Per esempio, la depressione è
più comune tra le persone affette da patologie fisiche, manifestandosi nel 33% dei malati di
tumore, nel 29% degli ipertesi e nel 27% dei diabetici. Nei Paesi più avanzati queste patologie sono
responsabili di circa il 70-80% della spesa per la salute e i pazienti affetti da tali malattie sono i
principali fruitori dei servizi sanitari. I costi sanitari e i rischi di inutili ricoveri aumentano al
crescere della co-morbilità. Nel Regno Unito è stato stimato che tra le principali 11 cause di
ricovero, 8 sono riconducibili a patologie di lungo termine (WHO Regional Office Europe, 2006).
La morte prematura e la disabilità rappresentano, inoltre, un costo economico per le famiglie e la
società. Infatti, i lavoratori e la società devono farsi carico delle assenze, del calo di produttività e
del turnover occupazionale. Le famiglie e la società devono sopportare i costi della salute (diretti e
indiretti), la riduzione del reddito, l’uscita anticipata dal mercato del lavoro e la crescente
dipendenza dal sistema di sicurezza sociale.
L’interagire di questi fenomeni clinico-epidemiologici e socio-economici sta producendo effetti
potenzialmente molto pericolosi per la salute delle persone. Secondo il WHO, situazioni di questo
genere dovrebbero portare i governi a rafforzare le reti di protezione sociale per mitigare gli effetti
negativi sulla salute. Al contrario, in molti Paesi sono state attuate politiche di austerità che sono
intervenute in modo sostanziale sulla spesa sociale, rendendo più difficile l’accesso ai servizi
sociali (e sanitari in particolare) e dilatando le diseguaglianze. Secondo Ortiz e Cummins (2013), i
settori principalmente colpiti dalle misure restrittive sono l’istruzione, la sanità e la spesa sociale.
Nel caso particolare della sanità, sono ben 37 i Paesi che, a seguito della crisi economica, dal 2008
hanno avviato riforme sanitarie, e molti di questi sono Paesi “sviluppati”(25 su 37). I principali
strumenti utilizzati sono l’aumento della quota di pagamento diretto (out-of-pocket) per i pazienti e
le misure di contenimento dei costi dei centri che forniscono servizi sanitari. Secondo un recente
studio dell’OCSE (Parigi, 2013), sono diversi i meccanismi attraverso cui questi tagli si stanno
realizzando. Si interviene nel limitare l’accesso a specifici gruppi di popolazione (ad esempio i soli
residenti, oppure escludendo determinati gruppi come gli immigrati illegali o, come in Irlanda, gli
anziani over 70 con redditi elevati); molto più spesso vengono aumentati i livelli di
compartecipazione alla spesa, insieme con la revisione delle condizioni di esenzione. Al contrario,
poco o nulla si è fatto nel cambiare il paniere di servizi offerti (la generosità delle coperture).
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Box 1
Il peso delle patologie croniche nell’Unione Europea
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Le malattie croniche sono correlate tra loro, hanno fattori di rischio
comuni e sono in gran parte prevenibili
Tuttavia, in Europa, 9 persone su 10 muoiono di una malattia cronica.
Le malattie croniche determinano notevoli costi economici, sociali e
umani (sofferenza umana, riduzione forza lavoro, esclusione sociale,
disuguaglianze e costi sanitari, ecc.)
Tra il 70% e l’80% delle risorse finanziarie impiegate nel settore della
sanità sono utilizzate per far fronte alle malattie croniche. Ciò
corrisponde a circa 700 miliardi di euro nella sola Unione Europea e
questo numero è destinato ad aumentare nei prossimi anni (*)
Il 97% delle spese sanitarie sono attualmente impiegate per le cure e solo
il 3% è investito in prevenzione (**)
(*) “Never too early: tackling chronic diseases to extend health life years” The Economist
Intelligence Unit Limited, 2012
(**) “Together for Health: A Strategic Approach for the EU 2008-203”, White paper, European
Commission, COM 630 final, 2007
3.2.2. L’epidemia di obesità
Sin dal XVIII secolo la popolazione mondiale ha fatto registrare, come effetto di un trend di
miglioramento delle condizioni di vita, reddito e istruzione, incrementi sia in termini di altezza che
di peso. Questo andamento positivo è però degenerato nel momento in cui il peso ha cominciato a
crescere troppo, rendendo la popolazione sovrappeso o obesa. Come riportato dall’OCSE (2010), la
massima accelerazione del tasso di crescita dell’obesità si registra dal 1980, quando in alcuni Paesi i
tassi di obesità sono triplicati rispetto agli anni precedenti. Prima del 1980, i tassi di obesità nei
Paesi OCSE erano stabili intorno al 10%, mentre oggi, in più della metà dei Paesi OCSE, oltre il
50% della popolazione è sovrappeso o obesa. Attualmente, sovrappeso e obesità rappresentano
uno dei più importanti problemi di sanità pubblica, che coinvolgono tanto lo stato di salute dei
singoli individui, quanto i conti pubblici. L’obesità rappresenta uno dei maggiori fattori di rischio
per una vasta gamma di malattie croniche e provoca un aumento dei tassi di morbilità e mortalità.
In termini clinici, l’essere obeso equivale a un processo d’invecchiamento dell’organismo umano.
Fontaine et al. (2003), mostrano che la riduzione di vita di un maschio giovane gravemente obeso
può raggiungere il 22% della sua aspettativa di vita, equivalente a un’anticipazione del decesso di
circa 13 anni. Secondo Sassi (2010), una persona sovrappeso aumenta il rischio di decesso di circa il
30% per ogni 15 kg di peso corporeo aggiuntivo, a causa dello sviluppo di malattie croniche come
diabete, ipercolesterolemia, ipertensione, infarto, asma e una vasta gamma di tumori.
Inoltre, le problematiche legate all’obesità portano a una qualità della vita decisamente inferiore.
Numerosi studi indicano che il peso corporeo è positivamente correlato con più alti tassi di
disabilità. In alcuni Paesi Europei la probabilità di raggiungere una condizione di disabilità è quasi
due volte maggiore tra le persone obese rispetto a quelle normopeso. L’Organizzazione Mondiale
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della Sanità stima che i fenomeni di sovrappeso e obesità siano responsabili, in Europa e negli Stati
Uniti, di una perdita compresa tra l’8 e il 15% degli anni di vita corretti per disabilità.
I tassi di obesità variano molto nel mondo, con gli Stati Uniti, il Messico, la Cina e la Gran Bretagna
tra gli esempi più clamorosi. Inoltre, l’incidenza dell’obesità sembra essere molto diversa in
termini di sesso, stato socio-economico e provenienza etnica dei malati. Il più importante nesso,
sottolineato in numerosi studi, è quello tra l’obesità e le condizioni socio-economiche, soprattutto
nei Paesi sviluppati. L’OCSE stima che più di un terzo degli Stati membri presenta forti
diseguaglianze sociali nei tassi di sovrappeso e obesità, in particolare nel caso delle donne e dei
bambini. In generale, le persone obese hanno meno probabilità di far parte del mercato del lavoro,
sia per loro scelta, che per i meccanismi discriminatori messi in atto dai datori di lavoro. Inoltre,
vari studi rilevano una penalizzazione in termini di salario, come pure una minore produttività e
un maggiore numero di assenze dal lavoro da parte degli individui obesi.
3.2.2.1. L’OBESITÀ IN ITALIA: UN PROBLEMA IN CRESCITA
Il problema dell’obesità in Italia era pressoché inesistente fino a pochi decenni fa. Infatti, la dieta
mediterranea e le corrette abitudini nutrizionali hanno sempre contraddistinto gli italiani nel
panorama internazionale. A ciò si aggiunga un sistema produttivo che richiedeva maggiore
attività fisica. Le ultime decadi, però, hanno portato importanti cambiamenti nelle abitudini degli
italiani, con gli stili di vita che sono diventati sempre più sedentari e i cibi consumati più calorici e
trattati. Negli ultimi 20 anni sono stati riscontrati considerevoli cambiamenti nella situazione
italiana, con i tassi di obesità che hanno subito un forte aumento. L’obesità italiana è un fenomeno
molto sottovalutato, specialmente in alcune realtà regionali. Il Centro e il Sud del Paese vantano
tassi di obesità relativamente più preoccupanti. Inoltre, come suggeriscono le analisi dell’OCSE, in
Italia l’elevato peso corporeo è molto correlato sia con valori bassi dell’indicatore di stato socioeconomico, sia con minori tassi d’istruzione e livelli di reddito.
Le statistiche sulle prevalenze di obesi e sovrappeso in Italia sono rilevate da vari studi con
metodologie diverse. I dati più frequentemente citati sono quelli dell’indagine Multiscopo
dell’Istat “Aspetti della vita quotidiana”. I dati suggeriscono che in Italia, nel periodo 2001-2009, è
aumentata sia la percentuale di chi è in sovrappeso (dal 33,9% nel 2001 al 36,1% nel 2009) sia quella
degli obesi (dall’8,5% nel 2001 al 10,3% nel 2009). La prevalenza dell’eccesso ponderale (BMI>25)
cresce con l’età, passando dal 19% dei giovani tra i 18 e i 24 anni e arrivando al 60% di coloro tra i
55 e i 74 anni, per poi diminuire nelle età più anziane (55,9% tra le persone con più di 75 anni). Tali
dati sono però soggettivi, in quanto riportati dagli individui, e quindi probabilmente mal misurati.
Infatti, Cawley (1999) evidenzia che gli uomini tendono a riportare un’altezza maggiore di quella
effettiva, mentre le donne riportano un peso inferiore a quello reale. In entrambi i casi, il risultato
provoca la sottostima del BMI.
Una seconda fonte di dati è quella dello studio Passi condotto dall’Istituto Superiore di Sanità
(http://www.epicentro.iss.it/passi/). Secondo i dati raccolti nel 2010 dal sistema di sorveglianza
Passi, il 33% degli adulti risulta in sovrappeso, mentre il 12% è obeso. Queste statistiche portano a
un totale pari al 45% di persone con eccesso ponderale, un numero comparabile con quello delle
statistiche ISTAT. Anche in questo caso, però, i dati sono riferiti direttamente dagli individui, e
quindi soggetti a problemi di misurazione simili a quelli dei dati rilevati dall’ISTAT.
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Inoltre, nell’ambito del Progetto “CUORE” del Centro nazionale di epidemiologia Cnesps-ISS, è
eseguita periodicamente la misurazione, attraverso rigorosi ed accurati esami fisici, dei fattori di
rischio cardiovascolari su alcuni campioni della popolazione italiana. I dati sono raccolti da una
rete di centri ospedalieri pubblici. Fra il 1998 e il 2002, la prima indagine dell’Osservatorio ha
fornito stime del BMI della popolazione italiana tra i 35 e i 74 anni. I dati presentati evidenziano
tassi di sovrappeso e obesità molto maggiori rispetto ai dati riportati dagli individui nelle indagini
PASSI e ISTAT. Secondo i dati del progetto CUORE, tra il 1998 e il 2002 il 17% degli uomini e il
21% delle donne erano obesi, mentre il 50% degli uomini e il 34% delle donne erano in sovrappeso.
Infine, i dati provenienti dal progetto HS-CSD LPD–SiSSI – che, in modo simile ai dati del progetto
CUORE, hanno la caratteristica di riportare le informazioni registrate direttamente dal medico –
suggeriscono che i tassi di obesità tra gli italiani sono più alti di quelli presentati nelle indagini
ISTAT e PASSI. Infatti, i dati HS-CSD LPD–SiSSI suggeriscono che, nel periodo 2005-2010, circa il
43% degli adulti italiani tra i 35 e i 74 anni era in sovrappeso, mentre circa il 26% risultava obeso.
Queste statistiche sono perfettamente in linea con i dati del progetto CUORE. Ciò implica che le
prevalenze di persone con eccesso ponderale in Italia sono più alte rispetto alle statistiche
frequentemente citate (dati ISTAT) e rappresentano un fenomeno potenzialmente ancora più
rilevante per la sanità nel nostro Paese e per la sua sostenibilità finanziaria.
3.2.2.2. L’OBESITÀ INFANTILE IN ITALIA
Un discorso a parte merita il problema dell’obesità infantile. Secondo il Ministero della Salute, dal
2008 a oggi il numero di bambini tra 8 e 9 anni in sovrappeso è diminuito leggermente, ma l’Italia
resta comunque ai primi posti in Europa per l’eccesso ponderale infantile. Sono, però, ancora
troppo frequenti tra i piccoli le abitudini alimentari scorrette, come pure i comportamenti
sedentari, anche se aumentano, sia pur di poco, i bambini che svolgono attività fisica.
Nel 2012 risulta che il 22,1% dei bambini di 8-9 anni è in sovrappeso rispetto al 23,2% del 2008/09 (1,1%) e il 10,2% è in condizioni di obesità, mentre nel 2008/09 lo era il 12% (-1,8%).
Complessivamente, dunque, nel 2012 l’eccesso ponderale riguarda il 32,3% dei bambini della terza
elementare (-2,9% rispetto alla prima rilevazione). Le percentuali più elevate di sovrappeso e
obesità si riscontrano nelle regioni del Centro-Sud: in Abruzzo, Molise, Campania, Puglia e
Basilicata l’eccesso ponderale riguarda più del 40% del campione, mentre Sardegna, Valle d’Aosta
e Trentino-Alto Adige sono sotto il 25%.
Circa il 50% degli adolescenti obesi con indici di massa corporea pari o superiore al 95° percentile
tende a diventare un adulto obeso. Inoltre, i fattori di rischio per le malattie degli adulti associate
con l’obesità nei bambini e negli adolescenti persistono in età adulta o aumentano in termini di
prevalenza, se aumenta il peso. Questo è, ad esempio, il caso dei livelli di co-morbilità (oltre il 20 %
dei bambini obesi rischia di portare uno o più indicatori di rischio di co-morbilità), che hanno
implicazioni significative per lo sviluppo dei servizi pediatrici in Paesi dove l’obesità infantile è già
molto diffusa o rischia di diventarlo (Lobstein e Jackson - Leach, 2006). In tal senso, Wang e Dietz
(2002) hanno mostrato che negli USA l’obesità infantile è legata a un maggiore utilizzo di servizi
sanitari. Utilizzando le diagnosi di dimissione ospedaliera dal 1997 al 1999 rispetto ai due decenni
precedenti, hanno rilevato aumenti nel numero e nella gravità dei disturbi correlati all’obesità in
età infantile, oltre ad un aumento del tempo di permanenza (length of stay) in ospedale (Wang e
Dietz, 2002).
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Infine, non va dimenticato che un bambino obeso può anche soffrire di problemi psicosociali, tra
cui bassa autostima e ridotto social networking (Daniel, 2006). I bambini obesi sono a rischio di
stigmatizzazione ed esclusione sociale, e conseguente maggiore rischio di abbandono scolastico,
minore rendimento scolastico, ridotta stabilità occupazionale e più basso livello di retribuzione
salariale (Gortmaker et al., 1993).
3.2.2.3. QUANTO COSTA L’OBESITÀ AL SISTEMA SANITARIO NAZIONALE ITALIANO.
Data la dimensione e l’importanza del fenomeno per la sanità e la finanza pubblica in generale, il
problema dell’obesità deve essere affrontato tempestivamente e con le modalità più efficaci
possibili. L’esatta e trasparente quantificazione dei costi attribuibili al fenomeno dell’obesità è
quindi indispensabile per elaborare efficaci linee guida e per determinare gli interventi da
applicare in un’ottica di costo-efficacia.
L’obesità rappresenta un problema rilevante non solo per la salute dei singoli individui, ma anche
per la finanza pubblica, nella prospettiva di rendere i sistemi sanitari finanziariamente sostenibili.
Pertanto, lo studio delle conseguenze economiche dell’aumento dell’obesità è un argomento che di
recente è stato analizzato da molti ricercatori.
Figura 7 – Spesa sanitaria “Out-patient”, “In-patient” e “Totale” per livello di BMI e sesso
Fonte: Atella et al., 2014
Le analisi suggeriscono che, a livello individuale, le persone obese generano un differenziale, in
termini di costi medici diretti, che varia da Paese a Paese, ma non è mai inferiore al 25%. Infatti,
Andreyeva et al. (2004) mostrano che tra gli individui nella fascia di età compresa tra 54 e 69 anni,
le persone obese (con BMI tra 30-35) determinano una maggiorazione della spesa sanitaria del 25%
rispetto alle persone normopeso. In modo simile, gli individui appartenenti alla classe di BMI
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compresa tra 35 e 40 generano un spesa superiore del 50% rispetto alle persone normopeso, mentre
gli ultra obesi (BMI maggiore di 40) raddoppiano la spesa (un incremento del 100%!). Inoltre, come
suggerito da Cawley e Mayerhoeferd (2012), la spesa medica diretta risultante dall’obesità
potrebbe essere sottostimata data la possibile endogeneità tra stato di salute e peso corporeo.
Correggendo per l’endogeneità, gli autori suggeriscono che i costi attribuibili all’obesità
potrebbero essere anche due volte più alti delle stime precedenti.
Relativamente all’Italia, un recente studio condotto da Atella et al. (2014) mostra che il costo
dell’obesità in Italia è in linea con le stime di studi condotti in altri Paesi (ad esempio, Tsai et al.
(2011); Cawley et al. (2012); Bahia et al. (2012); Andreyeva et al. (2004)), dimostrando che la spesa
sanitaria totale per i sovrappeso è circa il 4% in più rispetto agli individui di peso normale, mentre
per gli obesi, i gravemente obesi e i molto gravemente obesi la spesa aumenta, rispettivamente, del
18%, 40% e 51% rispetto ai normopeso (vedi figura 8). Inoltre, lo studio ha permesso di misurare
quali sono le patologie legate all’obesità e in che modo queste incidono sul costo totale. I risultati
mostrano che gran parte dell’aumento dei costi può essere attribuita a tre malattie croniche molto
diffuse: ipertensione, diabete di tipo 2 e malattie cardiovascolari.
Figura 8 – Differenze nella spesa sanitaria per tipo di patologia e per categoria di BMI
rispetto a persone normopeso (euro per anno) – Spesa sanitaria totale
Fonte: Atella et al., 2014
Nel complesso, al netto della spesa ospedaliera, in Italia la sola obesità ha un impatto pari a circa
2,5 miliardi di euro l’anno.
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4. Le politiche e gli investimenti in prevenzione come volano di crescita
L’Organizzazione Mondiale della Sanità stima che circa l’80% delle patologie cardiovascolari e del
diabete, e almeno il 40% dei tumori, possono essere prevenuti semplicemente modificando gli
attuali stili di vita (Fontana e Klein (2007); Fontana (2009) e WHO (2005)). Esistono, inoltre,
sufficienti evidenze scientifiche che mostrano chiaramente come la quasi totalità delle insorgenze
del diabete mellito di tipo 2 e delle patologie cardiovascolari, ed una buona parte dei tumori,
possono essere prevenuti con interventi preventivi mirati e personalizzati. Infine, molti studi
hanno dimostrato che piccoli cambiamenti nei fattori di rischio metabolici nei pazienti a moderato
rischio cardiovascolare e tumorale possono avere enormi e rapidi impatti in termini di riduzione
della morbilità, della disabilità e della mortalità, oltre che contenere significativamente la crescita
della spesa sanitaria e aumentare la produttività economica. Tutto ciò potrebbe far risparmiare
notevoli somme di denaro pubblico che, in parte, potrebbero essere reinvestite per lo studio e la
cura di patologie rare ancora incurabili e, in parte, per lo sviluppo economico del Paese.
Purtroppo, la tutela della salute e la prevenzione delle patologie croniche rappresentano una quota
marginale nel budget del sistema sanitario. L’OCSE stima che nei Paesi membri appena il 3% del
totale della spesa sanitaria è devoluto alla prevenzione e a programmi di salute pubblica (in Italia
meno dell’1%), mentre gran parte dell’esborso è dedicato alla cura della malattia.
I servizi sanitari sono spesso orientati a curare piuttosto che a prevenire, con gravi conseguenze
anche in termini di diagnostica e di trattamento. Si stima che il 50% dei diabetici non sia a
conoscenza della propria condizione. Tra questi, il 50% presenta un metabolismo insufficiente e un
controllo non accurato dei lipidi e della pressione arteriosa, anche se circa l’80% dei diabetici
muore a causa di malattie di natura cardiovascolare. Ancora, 30.000 donne muoiono ogni anno in
Europa a causa del tumore alla cervice, con tassi di mortalità da due a quattro volte superiore nei
Paesi dell’Europa centrale e orientale rispetto alla regione occidentale: tali decessi potrebbero in
larga misura essere limitati grazie ad un’appropriata tempistica della diagnostica e ad un adeguato
trattamento medico e farmacologico.
Nel caso delle malattie cardiovascolari è largamente documentato come la prevenzione sia riuscita
a salvare molte più vite di qualsiasi terapia farmacologica o chirurgica, elementi questi che
rimangono comunque fondamentali una volta che la malattia si sia manifestata (1). Più in generale,
esiste un ampio consenso nell’imputare l’aumento della longevità all’adozione di stili di vita più
sani e maggiormente inclini alla prevenzione delle patologie, piuttosto che al miglioramento dei
trattamenti e, quindi, alle nuove tecnologie.
Cutler e Sheiner (2001) e Cutler e Meara (2004) hanno mostrato come, negli USA, tra il 1960 e il
1990 il declino della mortalità dovuta a malattie cardiovascolari sia stata da imputare non solo al
progresso tecnologico applicato ai servizi medici, ma anche alle forti campagne di prevenzione
(primaria e secondaria) attuate spesso anche con diagnosi e trattamenti farmacologici precoci. Ciò
testimonierebbe, una volta di più, l’importanza di un approccio globale alla questione sanitaria,
maggiormente impegnato, rispetto a quanto sia ora, sul versante della comunicazione e della
prevenzione.
Più recentemente, l’OCSE ha lanciato una serie di programmi di ricerca per valutare gli effetti delle
Come già riportato nell’introduzione, Cutler (2005) ha ampiamente documentato l’alta redditività degli investimenti in
ricerche che mirano a capire gli effetti degli input comportamentali (ad esempio lo stile di vita) nello spiegare l’insorgere
delle malattie: per ogni dollaro investito il ritorno è pari a 100 dollari.
1
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politiche in favore della prevenzione. Nel rapporto “Fit not Fat” (OCSE, 2010), il focus è incentrato
sui programmi di prevenzione contro l’accumulo dell’eccesso ponderale. Un pacchetto completo e
multidimensionale di campagne di prevenzione, secondo l’OCSE, agirebbe su diversi fronti,
utilizzando misure (più o meno “paternalistiche”) ritenute efficaci nella prevenzione dei livelli
elevati del BMI. Tra queste, ci sarebbero le politiche legate all’educazione alla salute nelle scuole,
alla regolamentazione delle pubblicità sui media, alle campagne informative, agli interventi
informativi sui posti di lavoro, alle consulenze con i medici di medicina generale e i dietologi, alle
informazioni nutrizionali sulle etichette alimentari e, infine, a varie misure fiscali.
L’OCSE stima che, introdotti singolarmente, tali programmi porterebbero a ridurre le morti dovute
a malattie croniche in Italia fino a 50.000, mentre un mix di tutti i programmi sarebbe in grado di
diminuire tale mortalità di ben 75.000 unità. Inoltre, secondo l’OCSE, l’introduzione di un
programma di consulenze personalizzate da parte dei medici di medicina generale ai pazienti con
eccesso ponderale porterebbe un guadagno di 70.000 anni di vita in buona salute. In termini di
spesa, l’OCSE mostra che la maggior parte di tali campagne di prevenzione costerebbe meno di
100 milioni di euro l’anno, mentre le consulenze personalizzate dei medici di base
comporterebbero un ulteriore costo di 580 milioni di euro. Tutti i programmi considerati sarebbero
costo-efficaci nel lungo periodo, mentre solo alcuni, legati alle misure più intrusive come le tasse,
le etichette alimentari, o le consulenze specifiche, porterebbero a un profitto anche nel breve e
medio termine.
Molti altri sono gli esempi che potrebbero essere descritti per far capire come, su un periodo
abbastanza lungo, l’adozione di stili di vita adeguati possa prevenire una larga parte della
mortalità dovuta a malattie croniche. In particolare, studi condotti negli anni ‘70 e ‘80 nella contea
di Alameda in California, hanno mostrato che sane abitudini di vita in termini di dieta, attività
fisica, fumo, alcool e regolarità nel sonno possono ridurre i tassi di mortalità del 72% negli uomini
e del 57% nelle donne, rispetto a individui che hanno stili di vita meno salutari (Breslow and
Enstrom, 1980).
Più recentemente, uno studio condotto in Inghilterra ha prodotto risultati molto simili, suggerendo
che la corretta combinazione di abitudini più salubri permette di incidere in modo rilevante sulla
riduzione della mortalità. Pazienti che conducono una vita fisicamente attiva, non fumano, bevono
alcool in quantità moderata, e mangiano in abbondanza frutta e verdura vedono ridurre il tasso di
mortalità di oltre il 25% rispetto a chi non si comporta in modo simile (Khaw et al., 2008). In
Irlanda, circa la metà della riduzione delle patologie cardiache tra il 1985 e il 2000 nel gruppo di età
25-84 va attribuito ai trend decrescenti del numero di fumatori e dei livelli medi di colesterolo e
pressione arteriosa (WHO, 2006).
Una vita poco sedentaria può essere un’altra provata causa di miglioramento degli outcome
sanitari, come dimostrato da uno studio di 25 anni condotto tra i maschi adulti della regione della
Nord Karelia in Finlandia: in questa popolazione il tasso di mortalità per cause cardiovascolari è
diminuito del 68%, quello per problemi alle coronarie del 73%, quello per tumori del 44%, quello
per tumori al polmone del 71%, e di ben il 48% il tasso di mortalità generale (Puska et al., 1998).
Come appare chiaro anche da questi esempi, l’adozione oggi di misure atte a incrementare gli
investimenti in prevenzione dovrebbe portare domani a una riduzione del numero di persone da
curare. È perciò necessaria una decisa inversione di tendenza, in special modo in Italia che, con
meno dell’1% della spesa complessiva, si colloca all’ultimo posto nella classifica dei Paesi OCSE
per investimenti in prevenzione, dietro a Turchia, Messico e Corea. Mutuando un termine della
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politica fiscale, occorrerebbe dunque erodere oggi “la base imponibile” (il numero di persone
esposte) al fine di ridurre domani il “gettito” (il numero di persone da trattare). A fronte della
crescita delle patologie associate all’età avanzata, un adeguato sviluppo dell’assistenza domiciliare
per le categorie di pazienti non necessariamente trattabili in ospedale e una più accurata politica di
prevenzione potrebbero consentire un significativo risparmio di risorse altrimenti impiegabili.
Adottare un tale approccio significherebbe, quindi, anche guardare alla spesa sanitaria (o a una
larga parte di essa) più in termini di spesa per investimenti che di spesa corrente. La
razionalizzazione di alcuni servizi di assistenza potrebbe essere operata, infatti, senza particolari
costi aggiuntivi, mentre il costo delle nuove campagne di prevenzione e degli incentivi
all’adozione di nuove tecnologie (sia in campo farmacologico, che diagnostico) potrebbe essere più
che compensato dai minori costi in termini di ospedalizzazione, specialmente per gli individui
appartenenti alle classi di età intermedie (2).
2 Atella, Peracchi, Depalo e Rossetti (2006) hanno condotto uno studio sulla popolazione della ASL di Treviso,
documentando come, a fronte di un aumento dell’utilizzo di farmaci anti-ipertensivi, si sia registrato un calo
nell’ospedalizzazione e nella mortalità per cause cardiovascolari.
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5. Conclusioni
Investire in prevenzione vorrà quindi dire studiare e implementare strategie che non saranno
necessariamente limitate a interventi nel settore sanitario. Al contrario, sarà necessario effettuare
interventi che:
i) promuovano e consentano ai cittadini italiani di vivere una vita sana, attiva e indipendente
sino a tarda età;
ii) contribuiscano alla sostenibilità ed efficienza del sistema sanitario, sociale e del welfare;
iii) contribuiscano all’ideazione di prodotti e servizi “made in Italy” connessi al benessere, alla
longevità e all’invecchiamento attivo in salute (active and healthy ageing).
Il nuovo paradigma dovrà quindi ambire a spostare risorse economiche e umane dalla cura delle
malattie alla prevenzione. Questo imporrà di dover “re-ingegnerizzare” l’intero sistema sanitario
nazionale, essendo essenziale formare una nuova classe di professionisti della salute preventiva e
trasformare, mettendole in rete, le strutture già esistenti sul territorio (es. strutture sanitarie, scuole
alberghiere, scuole primarie e secondarie, palestre pubbliche), per educare attivamente i cittadini
alla tutela della salute. Si dovrebbe insegnare ai cittadini a conoscere gli alimenti, a cucinare e
alimentarsi in modo sano ed equilibrato, a fare attività fisica in maniera corretta e regolare, e ad
evitare l’esposizione a sostanze nocive per la salute. Inoltre, potrebbe essere auspicabile introdurre
sistemi di incentivi (es. annullamento ticket sanitario o una sorta di schema bonus/malus) per i
cittadini che mettono in pratica le strategie preventive (riducendo, ad esempio, la circonferenza
vita e i fattori di rischio cardiovascolari e tumorali), favorendo in tal modo comportamenti virtuosi.
Crediamo che questa strategia possa essere realizzabile e vincente.
Questo vorrà dire che, dal punto di vista del benessere collettivo, la strategia ottimale dovrà essere
quella di disegnare politiche sanitarie che siano “dinamicamente efficienti”, il che implica creare
oggi le migliori condizioni per operare meglio domani. L’adozione (oggi) di misure atte a
incrementare gli investimenti in prevenzione dovrebbe portare (domani) a una riduzione del
numero di persone da curare. Adottare un tale approccio significherebbe, quindi, anche guardare
alla spesa sanitaria (o a una larga parte di essa) più in termini di spesa per investimenti che di
parte corrente.
Sarà, però, necessaria una decisa inversione di tendenza nell’allocazione dei fondi a budget per la
sanità in Italia che, con una quota inferiore all’1% della spesa complessiva, si colloca agli ultimi
posti nella classifica dei Paesi OCSE per l’investimento in prevenzione. Aspettare che i cittadini, in
seguito ad anni di stili di vita poco salutari (es. eccessivo introito calorico e proteico,
malnutrizione, vita sedentaria, alcol, fumo), si ammalino e si rechino in pronto soccorso o in
ospedale è una strategia perdente e costosissima. È imperativo invertire la rotta e promuovere
politiche incisive di prevenzione ed educazione alla salute.
Occorrerà soprattutto pensare a politiche che sappiano superare il problema della “settorialità”
dell’intervento. Ad esempio, se da un lato si suggerisce di investire nella ricerca di nuove fonti
d’energia fossile cercando di spingere sempre più in là la barriera della convenienza ad estrarre
con le nuove tecnologie, dall’altro ci si dimentica che quell’extra energia, ottenuta a costi
comunque elevati, serve per riscaldare/raffreddare case mal coibentate o far muovere autovetture
pesanti e inquinanti, che in ultima analisi innalzano la temperatura del pianeta; oppure, si
suggerisce di investire in ricerca per nuovi farmaci e tecnologie medico-chirurgiche, dimenticando
di investire in strutture in cui i cittadini possano imparare a nutrirsi correttamente e a fare
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esercizio fisico, riducendo così drasticamente l’insorgenza della maggior parte delle costose e
dolorose patologie croniche che affliggono milioni di individui. Si possono fare molti esempi
simili, utili per far capire che occorre un approccio integrato in cui la salute delle persone, la salute
dell’ambiente, la difesa del patrimonio artistico e culturale e l’investimento nel capitale umano
possono essere tutti visti con un approccio sinergico, in grado di generare significative esternalità
positive che rimarrebbero, altrimenti, inespresse se gli interventi fossero frammentati e mal
coordinati.
Con un simile approccio si potrebbe costruire un Paese con limitati livelli di inquinamento, una
popolazione sana e istruita, capace di rispettare e valorizzare il patrimonio artistico e culturale e
un benessere diffuso prodotto mediante un modello di sviluppo in grado di valorizzare (e non
distruggere) i beni ambientali, garantendo così una felice e pacifica convivenza. Ma questa
rappresenta anche una visione strategica del futuro di questo Paese che dovrebbe indicarci su quali
settori investire, secondo un modello sostenibile ed eco-compatibile.
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