La musica intima dei versi di Giorgio Caproni

La musica intima dei versi di Giorgio Caproni
Alessio Casalini e Valerio Nardoni
Quando si pronuncia il nome di Giorgio Caproni, una delle prime cose che saltano alla mente
è la straordinaria musicalità dei suoi versi – era fra l’altro suonatore di violino – raffinata e mai le ziosa, tesa e mai contorta, essenziale ed esatta in quella sua semplice perfezione. E se nella poesia la
musicalità è affidata al ritmo del verso, le parole possono dirsi gli accordi, ed è quindi nei rintocchi di ogni sillaba che possiamo riconoscere le unità basilari delle note.
Rimandando ogni approfondimento alla ricca bibliografia su questo poeta ormai riconosciuto
a livello internazionale, si vuole qui offrire una particolare lettura musicale di una singola poesia, All
Alone: Epilogo, contenuta all’interno di uno dei libri più significativi di Caproni, Il passaggio di Enea
(1956).
Era un piccola porta
(verde) da poco tinta.
Bussando sentivo una spinta
indicibile, e a aprirmi
veniva sempre (impura
e agra) una figura
di donna lunga e magra
nella sua veste discinta.
Siamo davanti alla piccola entrata di un casino dove il poeta, evidentemente, era solito recarsi:
l’aspetto sonoro dello stile di Caproni è ben udibile, ma andiamo avanti, leggiamo velocemente la
seconda strofa, sulla quale torneremo, e passiamo direttamente alla terza: qui, troviamo la parola
“carponi”, dalla quale inizia la nostra vera e propria lettura musicale, che ci suggerisce nel testo
dei percorsi alternativi rispetto all’ordine naturale dei versi.
La notte con me entrava
subito, nella cinta.
Salivo di lavagna
rosicata una scala,
né ho mai saputo se era,
a spengere la candela,
il nero umidore del mare
o il fiato della mia compagna.
Avevo infatti una cagna
(randagia) che mi seguiva.
L’intero giorno dormiva,
IN PIMPIRIMPANA N. 8 DEL MAGGIO 2014
PAG.
1 DI 7
disfatta, fra i limoni,
ma nottetempo (carponi
e madida) mi seguiva
bagnandomi, con la saliva,
la punta delle dita.
Il testo è autobiografico e in prima persona, ma a prescindere da questo, è facile riconoscere
nella parola “carponi” l’anagramma del cognome “Caproni”, le due parole suonano quasi identiche.
L’avverbio “carponi” significa camminare a quattro zampe, come un animale, è immediato il
richiamo alla figura della “cagna” con cui il poeta, dunque, si identifica: la cagna non semplice mente lo segue, è come un’ombra, uno sdoppiamento di sé.
Attivata, con una minima rifinitura, questa coincidenza di movimenti fra il poeta e l’animale, è
interessante notare come il primo termine a cui questo avverbio si lega in realtà era già passato: si
tratta della parola “limoni”, un altro tocco raffinato di Caproni, che con un semplice frutto riesce
a stabilire una significativa polarità fra l’aspra solarità del giorno e l’oppressione della notte, che
costringe a vagare come un randagio.
Il secondo motivo di coincidenza fra il poeta e la cagna – forse meno immediato, ma altrettanto evidente una volta rilevato – è costituito da questi due termini così diversi per significato eppure musicalmente quasi uguali: “saliva” (nella seconda strofa) e “salivo” (nella terza). La prima è la
bava della cagnetta che bagnava le dita del poeta, e la seconda indica il movimento in salita verso
l’ambita meta.
Abbiamo già varcato la porta verde del casino, subito dopo ci sono delle scale: il poeta sembra
non volerlo dire, ma la musica lo tradisce: quei gradini lui li sale con la bava alla bocca.
È infatti la cagnetta, mediante nuove sottigliezze musicali, a guidare i passi del poeta su per le
scale. Il materiale di cui sono composti gradini è del più tipico che possa trovarsi in Liguria: la “lavagna”; ma attraverso la triplice rima con “cagna” e “compagna” sembra proprio di vederla questa cagnetta spegnere la luce e condurre il poeta in cima alle scale. Lungo questa salita buia, Ca proni ci regala un’altra invenzione: come nel caso di “limoni”, con un aggettivo assolutamente comune stabilisce un raffinatissimo richiamo: quegli scalini infatti non sono consumati, ma “rosicati”... come solo un cane (o un poeta) può fare.
Prima la bava di saliva/salivo, adesso gli scalini rosicchiati, i due sono davvero dei perfetti
commensali, come del resto già indicava l’etimologia della parola “compagna” (dal latino
CUM
‘con’ + PANIS ‘pane’). Le scale del casino sono il loro pane quotidiano!
IN PIMPIRIMPANA N. 8 DEL MAGGIO 2014
PAG.
2 DI 7
Si giunge così alla quarta strofa. Il poeta rende ormai esplicita l’identificazione fra l’animale e
sé , o meglio, fra la cagnetta e la propria vita. Dopo le dita bagnate dalla saliva, prosegue così:
Forse era la mia vita
intera, che mi lambiva.
Ma entrato oltre la porta
verde, mai con più remora
m’era accaduto che Genova
(da me lasciata), morta
io già piangessi, e sepolta,
nel tonfo di quella porta.
Una volta richiusa la porta verde, si entra in uno spazio totalmente diverso: la rima
porta/morta si fa portatrice di un tonfo lugubre e perentorio, che sembra ricordare il suono della
bara appoggiata sul fondo della fossa. “Genova di tutta la vita / nasceva in quella salita” si leggerà
più avanti (anche Caproni modula le strofe con anticipazioni e ricordi), quella città e quella vita
che qui in anticipo è già data per scomparsa.
Questa cagna/compagna si fa sempre più simile alla lupa dantesca, è un velo viscido e famelico che avvolge tutto l’animo del poeta, fino a regredirlo alle quattro zampe: notiamo infatti che il
punto di vista della poesia è basso come quello di un cane. La “salita” stessa è una prospettiva dal
basso, e un basso continuo in questo componimento in cui la parola si ripete molte volte. La donna della prima strofa appariva “lunga e magra” come per effetto di una prospettiva dal basso, ma
più straordinario ancora è il legame musicale che determina il duplice sguardo (alto e basso, e
ugualmente famelico (“morse”), è uno sguardo che morde!) che descrive le ragazze sulla Salita
della Tosse. Mentre l’uomo ne vede la “nuca”, la cagna ne vede... il “calcagno”. Una concordanza
che sembra trovare nella solitudine il proprio minimo comune denominatore: su quella “salita” il
soggetto poetico è “solo” come un cane, mentre la “cagna” canta come un poeta (“[…] che anch’io facevo, solo, / già al canto d’un usignolo”; anche “scandivano” contiene i suoni del cane e
può riferirsi all’ambito del solfeggio musicale).
Salita della Tosse
scandivano ragazze rosse.
Ragazze che in ciabatte
e senza calze (morse
al calcagno e alla nuca
dimagrita dal dente
di quell’ora impellente),
andavano, percorse
IN PIMPIRIMPANA N. 8 DEL MAGGIO 2014
PAG.
3 DI 7
da un brivido, sulla salita
che anch’io facevo, solo,
già al canto d’un usignolo.
***
Ad ogni modo, sempre basandosi sui nessi consonantici, una possibile chiave di lettura dell’intero componimento la si può trovare già all’inizio della poesia: infatti, la parte centrale del nome
“Caproni” è rintracciabile sillabicamente già nel primo verso:
Era una piccola porta
(verde) da poco tinta.
Bussando sentivo una spinta
indicibile, e a aprirmi
veniva sempre (impura
e agra) una figura
di donna lunga e magra
nella sua veste discinta:
è possibile infatti stabilire un nesso sillabico tra il cognome del poeta e la “piccola porta”; una
coincidenza, poi, che trova un’importante conferma al v.3: “Bussando sentivo una spinta”: nel
bussare, quindi nel colpire la porta, il poeta sente dentro e su se stesso una spinta, tanto è vero
che, proseguendo, il verbo “aprirmi” (dove ancora compare apr-), attraverso il pronome enclitico
-mi, lascia intendere come un’apertura avvenga nell’animo del poeta stesso. Il vagare “randagio”
del poeta sembra perciò trovare una propria direzione e giustificazione in questa apertura: il moto
che muove il poeta (“spinta”) è la volontà di aprire una porta su di sé; a dargliene la possibilità è
questa figura femminile (“[…] lunga e magra / nella sua veste discinta”), la cui descrizione sembra significativamente avvicinarla all’iconografia della morte.
L’impulso a ricercare un senso del proprio vagare è una spinta interna, ancora basata, cioè, su
una profonda riflessione sulla propria identità. Ne è prova la parola “carbone” nella quale, a
meno della differenza fra b e p (le due occlusive bilabiali sono facilmente scambiabili, anche nel
parlato), si trova un altro anagramma di “carponi” (che era a sua volta “caproni”). Questa nuova
ripresa degli stessi materiali fonici concorre ad associare al carbone un influsso visivo-patetico-umorale sul poeta, essendo il carbone eccipiente del calore:
Genova di tutta la vita
nasceva in quella salita.
Seguivo i polpacci bianchi
e infreddoliti, e inviti
IN PIMPIRIMPANA N. 8 DEL MAGGIO 2014
PAG.
4 DI 7
veementi, su dal porto
che si sgranchiva, netti
salivano dal carbone,
che già azzurro di brina
brillava, sulla banchina.
Queste ragazze sembrano emergere dal carbone, come fossero la luce e l’energia della sua
combustione (“brillava”): il carbone lancia degli “inviti veementi” e allo stesso tempo precisi e
inequivocabili (“netti”). Il carbone sgranchisce i sensi, li riattiva, è nel “carbone” la spinta primaria
ad aprire la piccola porta, come dimostra il verbo spingere che si ripete nella strofa successiva:
Entrai, non so dir come,
spinto da quel carbone.
L’io poetico (“caproni”, “carponi”, “carbone”) è contemporaneamente soggetto ed oggetto di
questo urto decisivo (“spinto”), e sente la necessità irresistibile (nella sesta strofa parla di “ora im pellente”), per quanto ancora indefinibile (“non so dir come”, che rimanda alla “spinta indicibile”
iniziale), di entrare in se stesso attraverso quella “porta verde”.
Questi esempi mostrano chiaramente l’importanza del verbo “apro” nel testo, anch’esso presente all’interno del cognome Caproni: il senso di questi versi sembra quello di trovare un’apertura
attraverso la quale trovare e guardare se stesso.
Come visto, a fornire al poeta questa possibilità (“aprirmi”) è una donna, o meglio una “figura”, quasi un fantasma o immagine funerea la cui rappresentazione, con la sua “agra” e “magra”
sensualità, rimanda ad una atmosfera mortale: Caproni affronta con estrema delicatezza il tradizionale tema dell’amore e morte, inoltrandosi in esso attraverso l’apertura di quella “porta” che
rima con “morta”.
Sebbene in questo componimento si faccia riferimento ad una visita presso una casa di tolle ranza – mista alla volontà di non cadere in tentazione – è opportuno sottolineare che l’idea di
morte qui evocata non deve valutarsi secondo parametri moralistici né, soprattutto, religiosi: il fulcro non è la dannazione o la redenzione dal peccato. La questione è tutta da riportarsi su un piano esistenziale: aprendo quella “piccola porta (verde)”, il poeta si ritrova davanti a una larva mortale dal quale sente il bisogno di fuggire: come il terrore che colse Munch sul ponte di Nord strand aveva fatto scaturire il paesaggio deformato dell’urlo, allo stesso modo il personale malessere di Caproni mostra davanti ai suoi occhi uno scenario di morte, nel quale lui è soggetto e oggetto.
IN PIMPIRIMPANA N. 8 DEL MAGGIO 2014
PAG.
5 DI 7
Quella porta “verde”, colore della primavera, una volta entrati, si trasforma nella porta della
“tomba”: scavare nell’oscurità del proprio destino è un itinerario affascinante e orribile, che con duce ad una sconfinata e indicibile solitudine (“All alone”, lo dice in inglese Caproni):
Entrai, non so dir come,
spinto da quel carbone.
Ma a un tratto mi sentii senza
più padre (senza più madre
e famiglia, e vittoria),
e, solo, nella tromba
delle scale, indietro
mi ritorsi, la tomba
riaprendo della porta
già scattatami dietro.
Ma di fronte a questo scenario di morte, scenario in discesa, il poeta punta tutto sulla vita in
salita!
Che fresco odore di vita
mi punse sulla salita!
Ragazze ormai aperte e vere
in vivi abiti chiari
(ragazze come bandiere,
già estive, balneari),
sbracciate fino alle ascelle
scendevano, d’arselle
e di cipria un odore
muovendo a mescolare
l’aria, dal Righi al mare.
Mentre prima era l’apparente scintillio del carbone a smuovere l’animo, adesso la spinta (“mi
punse”) viene da un “fresco odore di vita”. Le ragazze svolazzano come bandiere nel vento,
sbracciate, profumate: come quando vengono aperte le finestre o appunto le porte di casa, quindi,
si assiste ad un ricambio d’aria (“muovendo a mescolare / l’aria”), attraverso il quale la buia solitudine si trasforma in uno splendido sole (“mescolare”), ed ecco che, finalmente, quel vento che,
nella quinta strofa, era definito della “costernazione” (la cui etimologia, derivando dal latino
CONSTERNĔRE
‘coprire, spargere’, rimanda ad un senso di afflizione opprimente, proprio come
una cenere triste che tutto ricopre), al penultimo verso diviene aria di festa, vento (“ventilare”) di
gioia (“ventilare”).
IN PIMPIRIMPANA N. 8 DEL MAGGIO 2014
PAG.
6 DI 7
Il poeta abbandona la propria solitudine, ne esce fuori come se rinascesse, “seguendo lo sciamare / giovane” (l’etimologia di sciamare è da
EXIGĔRE,
‘cacciar fuori’) e parallelamente, anche
Genova, che avevamo visto “morta”, adesso sembra resuscitare, fino a ringiovanire: “giovane” – è
quasi un anagramma di “Genova”, città della giovinezza del poeta. La porta verde è verniciata di
fresco, dal di fuori: fuori è la vita randagia che aspetta il poeta e che vuole cantare.
IN PIMPIRIMPANA N. 8 DEL MAGGIO 2014
PAG.
7 DI 7