FANUM APOLLINIS Putre senescebat deserto in litore fanum, semirutae stabant hedera cingente columnae, muscus humi triglyphos circum lateresque linebat, iamque ipsum limen tenues effuderat herbas, et rubus implerat multapropagine lucum. Aeditumus morti servabat proximus aedem iam collabentem, veteres vetus ipse ruinas. At cellae in medio, taciti velut immemor aevi, arboris haerebat trunco modo puber Apollo. Iamdudum priscis aberant sua numina templis, templaque corruerant: terra caeloque repulsi daemones errabant, ventis et nubibus acti: deseruere Lares vicos et compita: passim deflebant fontes summisso murmure nymphas. Unus in occulto fani iuvenalis Apollo stabat agens aliud, subrepentique lacertae insidiabatur. Suspendit dextra sagittam: ipse silet: sese iamiamque lacerta deo dat. Dum cellam scopis verrit bene mane sacerdos et puero non nulla loquax edisserit ex re marmoreo... clari florebat lumine solis vividus... ecce fores paulum crepuere. "Quid?" inquit aeditumus "sonitum fecisse fores rear? Immo trabs fecit rimam, nisi si levis exsiluit mus". Mox cum securus deverrere pergeret aedem, pultatum est iterum. «Quis me vult?» inquit, et anceps apportans laeva scopas processit in aulam excussitque seram. Tum putres dextera valvas adduxit molita diu. Caprarius extra limen erat peramque humeris suspensus et utrem, haerebatque pedo connexis cruribus haedus. «Salvos sis» inquit. «Salve» respondet. «Oportet hoc fanum, ut quidam monstravit, Apollinis esse». «Est, vel potius fuit: hinc, reor, in tua pascua longe est». Explicitos pastor digitos intendit in auras, et per caeruleum circumtulit Apenninum. Olli abscondebat caulas mons concolor aethrae. «Quid cessas» inquit «divinam qui faciat rem huc unum quemvis arcessere? Iam satis haedus illisit laxum tergo caput. Estne sacerdos intus?» «Apud te adest». «Facis ergo munditias, qui idem sacra facis?» «Facio». «Miseranter». «Oportet quicquid di dant, ferre». «Senex, audire domi me dicentem memini proavum... Bene cascus et idem durus erat, quernus, minime cariosus... Is autem in caulis super hoc dicebat Apolline multa. "Hunc semel in vita, quae res bene vortat, adite: nam valet et pollet morbos defendere visos invisosque, luemque averruncare necemque, IL TEMPIO DI APOLLO II tempio in rovina, sulla spiaggia deserta, si faceva sempre più vecchio. Le colonne si ergevano semidiroccate e cinte d'edera, il muschio velava i trìglifi giacenti intorno e l'ammattonato; anche la soglia ormai traboccava d'erbe esili, le mille propaggini del rovo avevano riempito il bosco sacro. Il custode dell'edificio cadente era molto vicino alla morte, un vecchio tra vecchie rovine. Ma in mezzo al penetrale, come dimenticando il silenzio del tempo, s'appoggiava a un tronco d'albero un Apollo appena adolescente. Da lungo tempo le potenze divine erano fuggite dai loro antichi templi e i templi erano precipitati; scacciati dalla terra e dal cielo, erano dèmoni che vagavano sui venti e le nubi. I Lari avevano abbandonato villaggi e incroci di vie. Le fonti, sparse, con un mormorio basso, piangevano le ninfe. Solo quell'Apollo di giovinezza restava nel segreto del tempio, intento a tutt'altro: in agguato della lucertola che s'arrampicava lenta. La freccia è sospesa alla mano: non fiata. La lucertola sempre più si offre al Dio. È mattina presto, il sacerdote scopa accuratamente il penetrale, chiacchiera un po’ con quel ragazzo di marmo, sui fatti che corrono: era così vivo, fiorente nella luce d'un limpido sole! Quando si sente un piccolo battito alla porta. «Cosa mai?» fa il custode, «si batterebbe all'uscio? Macché, è una trave che si spacca, forse era il salto d'un topo svelto». Poco dopo, mentre scopava in pace e con impegno la casa, bussarono di nuovo. «Chi mi vuole?» fa e, perplesso, reggendo la scopa con la sinistra, passò nell'atrio, sbatté via il catenaccio, poi con la destra tirò faticosamente, lento, i battenti in rovina. C'era un capraio lì fuori, al limitare, con la bisaccia e un otre appesi alle spalle, e un capretto con le zampe legate appeso al vincastro. «Statti bene», fa. «Sta’ bene», gli risponde. «Bisogna che questo tempio sia quello d'Apollo, come mi ha insegnato quel tale». «Lo è, o per meglio dire lo era. E da qui ai tuoi pascoli, penso, ce n'è di strada». Il pastore drizza la mano aperta all'aria e la gira in cerchio su tutto l'azzurro Appennino; una montagna dello stesso colore del cielo alto lo separava dagli stazzi. Disse: «Che aspetti a far venire qui qualcuno per fare il rito sacro? Questo capretto è un pezzo che mi sbatte la testa ciondoloni sulla schiena. Il sacerdote c'è, dentro?» «Sta davanti a te». «Come, tu che fai le pulizie, fai anche i riti?» «Come vedi». «Che malinconia». «Bisogna prendere tutto ciò che gli Dei danno». «Vecchio, mi ricordo, a casa, il bisnonno che diceva (ne aveva di anni, ma era di quercia, sodo, senza neanche un tarlo) be', nello stazzo, lassù, mi raccontava tante cose di questo Apollo qui. "Andateci, una volta almeno nella vita, che vi dia la buona fortuna. È un grande Dio, forte, a tenere lontani i malanni che si atque bonam dare pastori pecubusque salutem". Haec avus et pater et patruus neglexit: at ipsi nulli sunt, nosmet reliqui, nati pecus uxor, vix vitam colimus. Scabies nunc temptat oves, nunc intereunt oppressa gelu mihi pabula, pupus aegrotat, resonant ululatus nocte luporum: neglectus nobis suscenset pastor Apollo. Quare in mente dapem hanc est pollucere deo, si iam parcat faveatque mihi deus, hac dape mactus». Dixerat, exanimemque revinctis cruribus haedum deposuit. «Quamquam vereor ne non satis aequus ipsi sit tibi, care senex, ita sunt inopes hic res nudaeque:» simul secum haec muttivit, «Agisne hoc, pater?» inquit «opus nunc est popa». Scalpere frontem aeditumus digito, dein respondere: «Quid haedo est opus? A cultris refugit genetivus Apollo. Cur non in luco verbenas, pastor, euntes tollimus? Est illic herbaeque et frondis abunde». Monstrabat lucum: stratum demisit in haedum mox oculos. «Quin solvis?» ait: «quam fune secatur! quam distorquetur! Sane sitis enecat aegrum consumitque fames. Est fons ibi dulcis aquae, sunt et rubus et ruscum. Vesci sine fraude licebit, quamvis in luco, summosque arrodere sentes». Haud mora: reptabant intra penetralia luci umbriferi, tremulis cum matutinus ab umbris sol viridaretur. Fungos humus acris olebat et frondes lapsas et lapsi temporis annos. Nil exaudiri, nisi quem, cum tunderet ornum, ediderat sonitum percusso corticc picus. Ibant per sacram tacita formidine silvam, nunc excerpentes de lauro germen odora, nunc de rore maris. Tum, si qui natus in umbra flosculus extulerat laetum caput, ecce legebant vincas pervincas et purpureas cyclaminos. Pone trahebat humo torpentia cruscula sospes haedulus, hic mordens paliuros, hic piger herbas de genibus circum tondens: paulumque moratus sectabatur erum cum perpetuo vagitu. Hinc redeunt ambo florem frondemque ferentes ad cellam: premit aeditumi vestigia pastor. Cominus insidias etiam faciebat Apollo bestioiae. Levis intus erat maris aestus anheli. Spiranti pectus puero salit: ecce sub ictu est! iamque hiat: et rosea pubescere luce videtur solis et aeterno suffundi sanguine corpus. Restitit upilio: quem sic affatur in ipso limine cunctantem summissa voce sacerdos: «Ne metuas: puer est deus, idem et pastor et is, quem puris exoret verbenis et prece pastor. vedono e quelli che non si vedono, a scongiurare peste e moria, a dar la buona salute al pastore e alle bestie". Nonno padre e zio non se ne sono dati pensiero. Adesso non ci sono più e siamo rimasti noi, figli bestie e donna, e tiriamo avanti a fatica. Una volta la scabbia prende le pecore, un'altra il pascolo mi muore per una gelata, il piccolo s'ammala, e la notte è tutta un ululare di lupi. Apollo è pastore, non ce ne diamo pensiero e lui sta offeso. Mi è venuta l'idea di offrire al Dio questo pranzo, a vedere se mi risparmia e mi fa del bene, il Dio, con l'offerta di questo cibo sacro». E con queste parole posò giù il capretto inerte, con le sue zampe legate. «Però ho paura che non voglia molto bene neanche a tè, caro vecchio, c'è tanta miseria al sole, qui...» Lo diceva tra i denti: «Dunque lo celebri, padre?» fece: «adesso ci vuole il popa». Si strofina la fronte con un dito, il custode, poi si decide e replica: «Che bisogno c'è del capretto? Non vuole saperne di coltelli, è l'Apollo della generazione. Pastore, perché non andiamo al bosco sacro, a prenderci i rami? Ce n'è tanta là di erba e di foglia». E gl'indicava il bosco. Poi abbassò lo sguardo al capretto disteso: «Ma liberalo!» dice. «Lo taglia quella corda. È una tortura, crepa di sete di sicuro, muore di fame. C'è una fonte d'acqua buona dove ci stanno rovi e rusco. Potrà nutrirsi senza far male a nessuno, anche in un bosco sacro, rosicchiare cimeli di pruno». Nessun indugio. Ed eccoli inoltrarsi lentamente nei segreti del bosco ombroso, col sole del mattino che filtrava verde tra le ombre mobili. Il terreno odorava forte di funghi, di foglie passate, di annate passate. Nulla si udiva tranne il picchio che percuoteva il frassino, il battito che mandava la scorza martellata. Andavano per la foresta sacra di silenzioso spavento, a volte spiccando un germoglio di lauro profumato o di rosmarino. E se c'erano fiorellini nati nell'ombra che levavano la testa allegra, loro coglievano vinche e pervinche e purpurei ciclamini. Dietro, il capretto tornato al mondo tirava le zampine intorpidite, ora mordendo la marruca e ora impigrito sui ginocchi rasando l'erba intorno; aspettava un po’ e veniva dietro al padrone con un incessante lamentio infantile. Tornano entrambi, recando fiori e frasche, al penetrale. Il pastore ricalca le orme del custode. E Apollo stava sempre in agguato del piccolo animale, vicino vicino. Dentro ansimava lento il moto del mare. Il petto del ragazzo si solleva inspirando il fiato: eccola a tiro. Schiude le labbra? Nella luce rosata del sole sembra vederlo crescere, circolare in quel corpo un sangue immortale. Si fermò il pecoraio. Esitava sulla soglia e il sacerdote gli dice a voce bassa: «Non aver paura. È un ragazzo il Dio, e poi è pastore e va bene che un pastore lo preghi con rami puri e orazioni. Mali e malanni che ti sono Quicquid enim tibi subrepsit domuique gregique advorsi vel pervorsi, viden? esse lacertam istam crede mihi, quam mox fixurus Apollo est. Nunc, quod sit faustum fortunatumque, favete, quisquis ades, linguis...» Tum vox audita: «Quis istic vivit adhuc? Lemuresne putem sagasque morari hic ad daemonicam, vivis procul omnibus, aram?» Cum multis aderat populi primoribus ipse consul ab oppidulo, steteruntque in limine cellae attoniti. Tutae catulos ubi ludere vulpis censuerant, en semiruta securus in aede lumine florebat iocundi solis Apollo. Semifer hinc tectus caprino veliere faunus astabat, pius hinc canenti crine sacerdos: ambo, purpureis onerata floribus ara, pergebant herbas et olentes tendere lauros. « Acti, vivis adhuc et spiras? Estne sepulcri. exitus, ac larvis das flores umbra? Sed umbram ipse facis, viso palles me consule: vivis. Immo sacrilegis audes operam dare sacris, fictilium sero cultor, pagane, deorum. Tempus erat, cives, istuc adducere nunc, qui haec stabili petrae sacraret rudera Christo. Presbyter, accedas! Antistes daemonis, exi!» Dixerat: obstupuitque senex, et pulsus abibat et solus secum sacris errabat in umbris horrentis nemoris. Nemus autem reddere voces argutas avium, domino veniente, Novi quid? et balare sagax auditis passibus haedus. Ille nihil: sed mentis inops huc fertur et illuc, donec in assueto deprendit limine cellae ipsum se stantem. Nemo non cesserat. Unus tantum erat, aeternis in lusibus omnis, Apollo, cellaque proiectis foliis sordebat, et auras suffierant dulci florum marcore coroliae. Progressus loquitur pius ultima verba sacerdos: «Mi deus, ecce abeo, tibi quem servire vides iam a pueris: sed nunc senior discedere cogor iamque mori sine te. Quin te male malleus ipsum mulcabit, scindent cunei tibi corpus, Apollo! Cur? Nec es informis, nec sunt haec obsita turpi membra situ. Puer es, mirum quarti pulcher, Apollo! Vi tè detrudent solio, tè limine templi pellent, dum ludis nec quemquam laedis: at ultro te scalpris laedent, tibi findent ora dolabris, dein te defodient et condent monte sub alto, nequiquam! Tu nempe micas ex aethere summo, cor caeli, tu res aeterno sanguino nutris: mens mundi, mentes ex te diffundis, ab igni utpote inextincto quae dissiliunt scintillae: astra puer cogis, claudis vaga sidera pastor, atque infinitum spatiaris per nemus, o Sol! » arrivati zitti zitti in casa e nel gregge, lo vedi? fidati, è come quella lucertola lì, che Apollo sta per infilzare. E ora questo dia buona fortuna e buona sorte, ognuno adori in silenzio...» Ma ecco s'udì una voce: «C'è ancora anima viva qui? Spiriti maligni, streghe, forse, che rimangono qui vicino all'altare d'un demone, lontani da tutti i viventi?» Era il console in persona del villaggio, con molti maggiorenti del popolo, e si erano fermati stupefatti sulla soglia del penetrale. Lì dove pensavano che fossero a giocare i piccoli d'una volpe senza sospetto, ecco, ecco un Apollo sereno, fiorente nella luce d'un sole allegro, dentro un tempio in rovina; con da una parte un fauno quasi belluino, coperto di vello di capra, dall'altra un devoto sacerdote coi capelli bianchi, tutti e due, caricato un altare di fiori purpurei, intenti a porgere erbe e lauri profumati. «Azio, sei ancora vivo, respiri? Si viene fuori dalla tomba o sei un'ombra che offre fiori ai fantasmi? Però sei tu che fai ombra e sei pallido perché vedi il console. Sei al mondo. Anzi osi occuparti di riti sacrileghi, o adoratore in ritardo di Dei d'argilla, pagano! Era tempo di far venire qui chi consacrasse questi ruderi al Cristo, pietra che non crolla, cittadini. Presbitero, fatti avanti. E tu, ministro d'un dèmone, vattene!» Disse così; e il vecchio restò senza parola. Scacciato, se ne andò tutto solo errando tra le sacre ombre del bosco che abbrividiva. E il bosco all'arrivo del padrone diceva suoni parlanti d'uccelli – che c'è che c'è – e il capretto udendo passi belava ammusando. Lui nulla. Andava qua e là, senza più pensiero, finché si scoprì che era lì, sulla soglia famigliare della cella. Nessuno era rimasto. C'era lui solo. Apollo, assorto nel suo gioco eterno, e la cella era tutta in disordine, con le frasche buttate giù, le coronane di fiori riempivano l'aria d'un dolce odore mézzo. Fa qualche passo il devoto sacerdote e poi dice parole di addio: «Dio mio, ecco me ne vado, dopo che mi vedi al tuo servizio da bambino. E adesso sono vecchio e mi obbligano a partire, a morire ormai senza di te. Peggio, ti storpieranno a martellate, spaccheranno con cunei il tuo corpo, Apollo. Perché? Sei così bello, queste tue membra non le ha guastate la tetra muffa. Sei un ragazzo, meravigliosamente bello, Apollo. Ti scacceranno dal tuo trono con la violenza, ti spingeranno fuori dalla soglia del : empio, mentre giochi e non fai male a nessuno: saranno .oro a far male a te, con gli scalpelli, ti infrangeranno il volto con i picconi, poi ti seppelliranno e ti nasconderanno in fondo al monte – invano! Perché tu brilli dall'alto .lei cieli, o cuore del cielo: tu nutri il mondo del tuo sangue immortale. Intelligenza dell'universo, sprigioni da te intelligenze come scintille sprizzanti da un fuoco che Ingressus tacito cellam pede presbyter audit haec tacitus, tandemque: «Senex, Deus est bonus» inquit «pastor, qui bene novit oves, qui diligit aequus, qui redimit, qui servat...» «Ais, peregrine, quod aio». «Immo alia». His dictis ambo siluere: sed alter alterius vultum et rugas lustrabat, et albam demirabantur nimis ampia fronte senectam. Mox alter graviter suspirans incipit : « Acti ! effigiem pueri, ceu subter nubila lunam, invenio... quam longa brevi dilabitur aetas... te puerum video, puer et comes addor eunti ad ludum: loculi crepitant: audimus eundem grammaticum: mihi das usum, si forte, libelli, ipse tibi cerae: quid dicam, subicis: amo, quid recites: unaque die vergente redimus, et mea te, tua me matercula blanda priorem stans in vestibulo compellat nomine, quod nunc ex animo fluxo nomen tibi decidit...» «Heron!» exclamatque senex amplexaturque sodalem. Desuper implexis senibus puer imminet, una in re defixus nec eos e marmore curat. At quasi per nebulam lacrimis manantibus illum aeditumus videt ac maerens afiatur amicum: «Heron, ergo ideo tu post oblivia rerum longa redis, ut sit qui nos expellat ab aris divineque deum meritum deturbet avorum? » Squalorem maestis oculis maciemque loquentis Heron et sensim fissi laquearia tecti respicit et recta cedentes sede columnas. «Nonne deos» inquit «credis SECURUM AGERE AEVUM ? Hoc memini nobis illum dictare magistrum. "Ex usu vitae est" suevit quoque dicere "credi res hominum curare deos..." » Hic Actius: « ALME SOL, idem docuit servantes pollicis ictum dicere: tum iuvit cantu mulcere deum, qui et celat promitque diem, qui nascitur idem atque alius, qui cuncta regit, quem floribus herbis arboribus vestita patrem cognoscere risu gaudet terra potens, gelidi quem murmurc fontes atque amnes atque alterno mare concinit aestu. Nos, quibus est melius nihil, omni ex parte beati, nos homines Solem merito privamus honore? » Dixerat haec tremulis labris, et macra rigabat ora senex lacrimis. «O felix semper homulli » hic Heron « genus » inquit. « Habent, reor, istud ab ipsis flebilibus cunis ad ineluctabile letum. Heu! cur insolitos vobis placet usque beatis vestigare deos? Ascitis undique cunctis, cur etiam sacras IGNOTO ponitis aras? Ignotus vere Deus est, qui sospitat unus, mai si spegne. Tu tieni raccolti gli astri, ragazzo, sei il pastore che porta all'ovile le stelle erranti, e spazi per pascoli infiniti, tu sei il Sole!» Entrato nella cella con passo silenzioso il presbitero ode in silenzio, e infine dice: «Vecchio, Dio è il buon pastore che conosce bene le sue pecore, le ama con giustizia, e ricompra, le salva...» «Dici le cose che dico anch'io, straniero». «No, diverse». Dopo queste parole tacquero tutti e due. Ma si andavano osservando l'un l'altro, la faccia, le rughe, il bianco della vecchiaia, la fronte tanto grande, e con stupore. Poi uno diede un sospiro profondo e cominciò: «Azio! Scopro il ritratto d'un ragazzo, come la luna tra le nuvole... una lunga età come passa in breve... Ti vedo ragazzo. Lo sono anch'io. Ti accompagno mentre si va a scuola. Il rumorino degli astucci... abbiamo lo stesso maestro. Capita che mi presti un libro, io la tavoletta. Mi dai una spinta nelle interrogazioni. Ti suggerisco quando ripeti il brano a memoria. Torniamo insieme, sul tardi. C'è mia mamma in piedi sull'atrio che chiama prima te o la tua chiama me, con dolcezza, per nome. Un nome che ora ti è caduto dal cuore dove tutto passa...» «Erone!» esclama il vecchio e abbraccia il compagno. Sui due vecchi abbracciati domina quel ragazzo sempre intento alla stessa cosa e, nel suo marmo, a loro non bada. Ma il custode lo guarda, l'amico, nel velo delle lagrime che gli cadevano, e gli parla con tanta tristezza: «Erone, tu allora, dopo tante cose, lunghe, dimenticate, torni così, quello che mi manda via dall'altare, abbatte un Dio dei nostri vecchi che ha fatto tanto bene con azioni divine?» Gli occhi tristi di Erone lo guardano mentre parla, così distrutto, smunto, poi, lentamente, i cassettoni rotti del soffitto, le colonne che deviavano dalla verticale. «Non credi tu» gli disse «che gli Dei vivono un'età senza angosci? Ricordo quando il maestro ce lo dettava. Una sua frase preferita: "La fede nella provvidenza divina nella vita è utile..."». E Azio: «"SOLE FECONDO..." ci insegnava anche a recitare battendo il verso col pollice. Che gioia allora con quel canto far piacere al Dio che nasconde e svela il giorno, e nasce uguale e nuovo, e tutto governa, e la terra signora, vestita di fiori erbe alberi lo saluta felice, sorridendo al padre suo, e le fresche fonti col loro mormorio, i fiumi, il mare con le sue maree e le onde cantano insieme per lui. E noi, che siamo la parte migliore del mondo, felici per ogni aspetto, noi uomini priviamo il Sole dell'onore che gli dobbiamo?» Gli tremavano le labbra parlando, le lagrime segnavano il suo scarno viso di vecchio... «Questa povera umanità» fa Erone «quant'è fortunata... È pacifico, mi pare, dalla culla in cui piange alla morte con cui non vale lottare. Ahimè: se siete felici, perché vi piace frugare sempre Dei singolari? Li avete acquisiti tutti da tutte le parti: perché allora elevate altari al NON CONOSCIUTO? Davvero non conosciuto è Colui che solo qui reficit recreatque bonus, qui morte redemit. Nam frangit labor et dolor, et nos decipit error et post assiduos luctus inamoena manet mors. Heu! scelus antiquum luimus, vitamque venenat serpens ille vetus, moritur qui vulnere Christi! » Haec Heron, supplex cui blanda voce sacerdos: «Aspice, sis, puerum. Deus est, mihi crede,... videri. Hic quoque serpentem figit. Quin hunc sinis aede hic gaudere sua?... Quivis satis angulus huic est. Incolumem puerum mutato nomine serva, aut latebris, Heron, si mavis, occule, si quid tunc te dilexi puerum puer... » Haesitat Heron, annuit. At magno ruit ingens turba tumultu, deiciunt statuam, diffringunt, fragmina raptant, dein scopulum scandunt. Praeceps idolon in undas mittitur, atque haustum placido tegit aequore pontus. Mobilis ut primum discessit turba, sacerdos ascendit scopulum. Directi lumine solis fulgebat tremulum late mare. Despicit exspes in litus: stantem videt ipso in limine templi semiferum faunum venerabundumque subire tecta Dei. Radios roseis subtraxit ab undis Sol: oculi Solem tum prospexere cadentem postremo. Mare paulatim nigrescit, aguntque nocturnae rauco cum murmurc daemonas aurae. Tum fanum lychnis splendet pendentibus et nox vieta micat flammis: adque aures pervenit hymnus: «Tu lux vera oculis, tu maior sole, diem qui restituis de nocte novum, tu, dux bone, Christe...» Deinde silet fanum nigraque absconditur umbra, et tacitum lapsu percurrunt sidera caelum. Quaerentis matrem balatus tum tremere haedi... salva, e conforta e rida la vita per bontà e redime dalla morte. Pena e dolore ci spezzano, l'errore ci tradisce, e poi, dopo aver sempre pianto, ci aspetta la morte, che non è bella. Poveri noi, scontiamo un antico delitto, l'antico serpente ci avvelena la vita, quello che muore per la piaga del Cristo!» Così Erone, e il sacerdote, con voce mite, pregandolo, dice: « Guardalo quel ragazzo, ti prego: è un Dio, fidati. A vederlo. Anche lui trafigge un serpente. Perché non gli lasci godersi la sua casa? Gli basta un angolo qualunque. Conservalo intatto quel ragazzo, gli cambi nome, oppure, Erone, se ti par meglio, lo metti in qualche nascondiglio, per l'affetto che avevo per te da ragazzi...» Erone è perplesso, fa cenno di sì – Ma una folla enorme prorompe tumultuando, butta giù la statua, la frantuma, arraffa i frammenti, poi sale la rupe: l'idolo è fatto piombare tra le onde, il mare lo inghiotte e lo copre sotto la sua distesa tranquilla. Appena la mutevole folla fu dispersa, il sacerdote ascese la rupe. Il mare, sotto la luce radente del sole, splende- va e palpitava, immenso. Guarda giù verso riva; non c'è domani per lui. Scorge il fauno quasi belluino, dritto sul- la soglia del tempio, entrare nella casa del Dio, bisognoso d'adorare. Alle onde rosee del mare il Sole sottrasse i suoi raggi, e gli occhi allora guardarono il Sole calare, per l'ultima volta. Il mare s'annera lento, le brezze della notte bisbigliano sorde portando i dèmoni. Ed ecco il tempio brilla tutto di lumicini appesi, la notte è vinta e scintilla di fiammelle, un inno viene a lui: « Tu luce di verità alla vista, tu più grande del sole, che dalla notte rifai il giorno nuovo, tu Guida di bontà. Cristo...» – Poi il tempio zittisce, si apparta nel nero delle ombre e le stelle passano veloci nel cielo silenzioso. Un belato allora trema, un capretto che cerca la madre...
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