Una bella giornata per il clima Vertice Onu

Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino¶6 ottobre 2014¶N. 41
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Politica e Economia
Una bella giornata per il clima
Vertice Onu Cina e Stati Uniti, i due massimi responsabili del surriscaldamento generato dall’effetto serra, aprono
per la prima volta una via incoraggiante nella lotta ai cambiamenti climatici
Alfredo Venturi
Stati Uniti e Cina, dice Barack Obama, hanno il dovere di guidare tutti
gli altri Paesi nella lotta contro i cambiamenti climatici. Lo ha detto alle
Nazioni Unite, davanti a una platea di
capi di Stato e di governo riuniti in un
vertice straordinario dedicato all’emergenza clima. Poi Zhang Gaoli, vice
primo ministro cinese, gli fa il verso e
offre al mondo una primizia: la Cina,
fin qui riluttante a frenare la sua crescita impetuosa controllando le emissioni dei gas a effetto serra, riconosce
l’importanza e l’urgenza del problema
e s’impegna a una drastica riduzione del fenomeno entro il 2020. Cina e
America sono i due massimi responsabili del surriscaldamento generato
dall’effetto serra: senza il loro contributo il salvataggio del pianeta rimarrebbe un’utopia. Il doppio annuncio
partito dal Palazzo di vetro apre dunque una prospettiva incoraggiante,
proprio nel momento in cui una nuova
consapevolezza si fa strada nel mondo.
«Le Monde» riassume la situazione
con un gioco di parole: è mutato il clima a proposito del clima.
Nella giornata
dell’ambiente
si è presa di mira
anche la nuova tecnica
di fratturazione
idraulica giudicata
dannosa
Effettivamente il disastro ambientale non è più un’astrazione, uno slogan
buono al più per concitate assemblee
studentesche o per sparute manifestazioni di isolati profeti di sventure. Comincia a prenderne atto non soltanto
il governo di Pechino ma anche l’opinione pubblica degli Stati Uniti, fin qui
altrettanto indifferente al tema. Mentre
l’aria ormai irrespirabile di Pechino
deve avere fortemente contribuito alla
conversione cinese, a convincere sempre più americani che lo spettro evocato dagli ecologisti si è ormai trasformato in una tragica realtà è stata l’attualità
meteorologica: le inondazioni, gli uragani più tremendi che mai abbiano
colpito gli Stati Uniti, tutti quei morti
di Katrina e Sandy, le devastazioni costate miliardi di dollari. Ecco perché a
Manhattan, due giorni prima del vertice Onu, la prevista folla di centomila
persone si è moltiplicata per tre: una
città nella città in marcia nelle avenues
e una selva di cartelli con scritte come
«Non esiste un pianeta B», o «Le foreste
non sono in vendita». O ancora, evocando lo yes we can di Barack Obama,
«Sì, possiamo, ma non facciamo nulla».
Così i trecentomila celebravano la giornata mondiale consacrata all’ambiente
in pericolo, e non si manifestava soltanto a New York. Altre centinaia di migliaia di cittadini sono scesi in piazza in
decine di Paesi.
In un mondo ripiegato su se stesso
per le tensioni economiche e finanziarie, oppresso da emergenze come l’Isis
o ebola, la questione climatica ha atteso a lungo prima di irrompere nelle
agende politiche. Paradossalmente la
crisi produttiva non si è limitata a monopolizzare l’attenzione, distraendola da questo e da altri temi a torto o a
ragione considerati meno impellenti,
ha anche in qualche misura ridimensionato il fenomeno: meno produzione
industriale e meno consumi uguale
meno gas letali nell’atmosfera. Ma
poi la freccia ha ripreso a puntare verso l’alto e le previsioni degli scienziati
La stretta di mano fra il presidente americano Barck Obama e il segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon durante il vertice sul clima. (AFP)
parlano di un punto di non ritorno ormai vicino. Oltre quel punto, uno scenario apocalittico: scioglimento dei
ghiacci, innalzamento del livello dei
mari, aree costiere e interi arcipelaghi
trasformati in fondali marini, riduzione delle terre emerse proprio nel momento in cui la popolazione mondiale
cresce a ritmi incalzanti.
Nonostante l’impegno di uomini
come l’ex vicepresidente Al Gore, in
prima fila nel denunciare la catastrofe
incombente, l’opinione pubblica americana è stata a lungo refrattaria alle
ragioni dell’ambientalismo, e dunque
alla rivendicazione di energiche azioni
per correggere la funesta sbandata del
clima. Ancora pochi mesi or sono un
sondaggio ha rivelato che soltanto il 29
per cento degli americani considerava
la salvaguardia del clima una priorità
politica. Eppure gli uragani, le siccità
e le inondazioni hanno collocato questa emergenza sotto i riflettori dell’attenzione. E cominciano a influenzare
anche gli strati alti della società. Lo
conferma la notizia arrivata il giorno
dopo la grande marcia: il Gruppo Rockefeller, che fondò sul petrolio la sua
straripante fortuna, rinuncia a ogni
partecipazione all’industria e al commercio dei combustibili fossili. E con
Rockefeller una pletora di enti e fondazioni accademiche e culturali che
depurano i loro portafogli, eliminando azioni e obbligazioni connesse con
le energie inquinanti.
Chiamato personalmente in causa
dai manifestanti di Manhattan, il presidente Obama ha dunque potuto rispondere due giorni più tardi, quando
ha preso la parola alle Nazioni Unite. La
seduta si proponeva di rilanciare il faticoso processo che produsse il protocol-
lo di Kyoto, poi rimbalzato da un vertice all’altro senza che si conseguisse
altro che generici impegni a ridurre le
emissioni di anidride carbonica attraverso un complicato sistema di incentivi e compensazioni. La prossima tappa
è la conferenza che si svolgerà a Lima
in dicembre, chiamata a gettare le basi
dell’accordo che si dovrebbe finalmente raggiungere a Parigi l’anno prossimo. Cioè nel tempo limite, secondo gli
scienziati, prima che l’irreversibilità dei
fenomeni renda inutile ogni sforzo.
Il gruppo americano
Rockefeller ridurrà i suoi
investimenti in progetti
riguardanti le energie
fossili
Davanti ai delegati nel Palazzo di vetro
Obama ha dichiarato di volere raccogliere la sfida. Ma il suo impegno deve fare i
conti con i paralizzanti condizionamenti interni, a cominciare da quello della
destra repubblicana, tradizionalmente
ostile a iniziative che possano danneggiare il santuario del libero mercato. Forse confida che la decisione del Gruppo
Rockefeller potrà compiere il miracolo
di ammorbidire questa posizione. Per
aggirare l’ostacolo rappresentato dalla
difficoltà di ottenere il consenso parlamentare, Obama pensa a provvedimenti
di carattere esecutivo, che l’Amministrazione può adottare senza scomodare il
Congresso. Ma certo la necessità di sottrarre la materia al controllo parlamentare riduce di molto la portata delle misure possibili: per questo il suo impegno
è apparso non proprio perentorio.
Eppure non sarebbe la prima volta
che negli Stati Uniti un’iniziativa a tutela dell’ambiente partita dalla società
civile impone scelte politiche di rottura. Qualcosa del genere accadde oltre
mezzo secolo fa. Era il 1962 quando
Rachel Carson affidò a un libro, Silent Spring (primavera silenziosa) la
denuncia dei danni prodotti dall’uso
indiscriminato dei pesticidi sintetici
in agricoltura. Il movimento di opinione pubblica che ne seguì portò, nonostante la feroce opposizione dell’industria chimica, al bando dei prodotti
più pericolosi. Oggi non si parla di pesticidi ma dei gas generati dalla combustione di materiali fossili e assorbiti
sempre meno da un sistema forestale
in rapido diradamento. La scommessa
è sempre quella: intervenire prima che
sia troppo tardi.
Di questa necessità si rende perfettamente conto quel variegato campionario di umanità che a tutte le
latitudini e a tutte le longitudini ha
richiesto a gran voce la grande pulizia del pianeta. Al centro della mobilitazione un contrasto che si denuncia
ormai da troppi anni: da una parte la
sempre più rapida avanzata del fenomeno serra, sempre più anidride carbonica, metano e altri gas intrappolati
nell’atmosfera e il suolo e gli oceani
che si riscaldano puntando verso quella soglia fatale, oltre cui l’effetto diventa irreversibile condannando il
pianeta. Dall’altra parte la perdurante
indifferenza dei governi, divisi sulle
responsabilità e sui necessari sacrifici,
incapaci di concordare azioni condivise e incisive. Si tratta di un intervento
su due fronti: diminuire la combustione di materiali fossili che produce i gas
a effetto serra, combattere la defore-
stazione che riduce l’assorbimento di
anidride carbonica e la produzione di
ossigeno. Il problema sta in un’asimmetria storica: il compito di frenare le
emissioni tocca anche ai Paesi a economia emergente, che si sentono penalizzati in uno sforzo produttivo che
gli altri, l’Occidente sviluppato, hanno
potuto compiere senza alcuna remora
al tempo della prima industrializzazione. Ma l’urgenza della crisi richiede
che tutti facciano la loro parte per ridurre le emissioni e salvare le foreste.
È vero che questi interventi richiedono un forte impegno finanziario ma il
loro costo, per quanto altissimo, è infinitamente inferiore a quello dei danni
provocati dal suo progressivo deterioramento.
Nella giornata dell’ambiente si è
presa di mira anche una nuova tecnica di produzione di energia, lo shale
gas che si ottiene da certe rocce con il
sistema della fratturazione idraulica.
L’estrazione di questo gas è sempre più
praticata in America, mentre in Europa viene quasi dappertutto ostacolata.
Si fa notare che è doppiamente dannosa: sia perché sconvolge l’equilibrio
dei suoli e può innescare fenomeni
sismici, sia perché richiede l’impiego
di grandi quantità di acqua. Eppure
proprio con questa nuova fonte gli Stati Uniti aspirano a raggiungere quella
indipendenza energetica che permetterebbe di fare a meno del petrolio mediorientale, politicamente così
impegnativo. S’invocano le energie
alternative: sole, vento, maree, idrogeno. Con la speranza che possano affermarsi come un business capace di fare
concorrenza al petrolio e di sedurre
non solo gli ecologisti ma perfino gli
adoratori del libero mercato.