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IL ROMPIGHIACCIO
N. 10 del 25 febbraio 2014
a cura di Enrico Ascari
Roberto Russo
IL ROMPIGHIACCIO
25 FEBBRAIO 2014
EMERGENTI DIVAGAZIONI
Bell’affare i cosiddetti “emergenti”. Oggi ci dicono che chi avesse investito in un paniere di azioni
dell’area, ai tempi della crisi del Messico - la “tequila crisis” del 1994 - avrebbe guadagnato molto
meno rispetto all’alternativa dei paesi sviluppati. (cfr. figura 1, fonte The EM’s ‘fragile 8′ must save
themselves | Gavyn Davies). Il risultato però si ribalta se tracciamo la linea di partenza all’inizio
del millennio, l’era della massima euforia per la “New Economy” a Wall Street e dintorni. Tipici
giochetti numerici che stimolano divagazioni non troppo convenzionali sul rapporto tra gestori
professionali di portafogli e risparmiatori. Tutti soggetti a deviazioni comportamentali ben note,
ma con diversi livelli di consapevolezza. I primi, che operano sulla base di un mandato fiduciario,
dovrebbero agire nel migliore interesse dei clienti. Diciamo, minimizzando, che non sempre è così.
Clienti che, tra l’altro, sono troppo spesso vittime di una narrativa, spesso scarnificata in scolastico
ritornello, inadatta a rappresentare le complessità delle decisioni d’investimento. Ciò premesso, la
recente “debacle” dei mercati emergenti diventa l’occasione adatta per una rilettura critica di alcuni
sacri principi d’investimento.
Figura 1
AVVISO N. 1:
NON USATE (SOLO) LO SPECCHIETTO RETROVISORE
Non è certo guardando a rendimenti storici, come quelli evidenziati dal grafico, che si possono
trarre indicazioni utili per il futuro. I mercati finanziari sono complessi meccanismi di sconto
dell’incerto, guardano avanti. Che siano o meno efficienti è da decenni oggetto di irrisolti dibattiti
accademicii. L’evidenza empirica sembrerebbe indicare che, per periodi di tempo non brevi, i
prezzi possono divergere in larga misura da stime ragionevoli del valore intrinseco. Il motivo è
noto ed è qui che serve lo specchietto retrovisore: per non dimenticare le lezioni del passato. La
finanza comportamentale insegna che individui e istituzioni non sempre si comportano in modo
razionale. Manie, illusioni ottiche, euforia e panico sono fenomeni ciclici. Ben sfruttati dalle
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istituzioni finanziarie che, consapevolmente o meno, guidano o partecipano al banchetto, spinte
dagli incentivi distorti che sono la regola quasi ineludibile della moderna industria del denaro. È
nel corso di questi periodi dominati dall’eccesso che gli investitori di lungo termine fanno i
migliori affari: “Paghi un prezzo ma alla fine ottieni un valore” è una delle più citate massime di
Warren Buffett, forse l’investitore di maggior successo degli ultimi decenni. Mark Mobius, famoso
gestore di Franklin Templeton, riferendosi alla recente caduta dei mercati emergenti ha affermato
“La nostra risposta è di gioia e felicità perché così possiamo comprare azioni a prezzi molto migliori… siamo
al massimo della felicità quando i mercati scendono”.
AVVISO N. 2:
DIFFIDATE DELL’ORIZZONTE TEMPORALE
Pianificare gli investimenti in relazione alle future necessità, anche le più lontane nel tempo. Un
ottimo punto di partenza. La definizione dell’orizzonte temporale è l’ineliminabile paletto di
riferimento di tutti i manuali del buon risparmiatore. Condito da un corollario: il rischio azionario
si riduce con il passare del tempo, pietra miliareii della moderna teoria dell’investimento. Peccato
che i risparmiatori siano soggetti a miopia: ci vedono solo da vicino e sono avversi alle perditeiii;
anche la moltitudine degli investitori istituzionali ha orizzonti temporali sostanzialmente più
brevi di quelli richiesti perché una strategia d’investimento sia remunerativa. I periodi di
valutazione per gestori e imprese, sono dettati da scelte opportunistiche o dal mero istinto di
sopravvivenza. In breve l’ecosistema finanziario è sempre più dominato dalla mania del breve
termine. Che si tratti delle operazioni in proprio delle banche d’investimento, piuttosto che delle
complesse strategie dei fondi hedge, del comportamento opportunistico di migliaia di gestori di
fondi comuni o del trading algoritmico ad alta frequenza che lavora sui nanosecondi, il sistema,
con l’eccezione, non sempre, delle compagnie di assicurazione e dei fondi pensione, ha come
punto di riferimento le settimane, i giorni, le ore, i secondiiv. Con le note ricadute sui
comportamenti dei manager, condizionati e valutati con lo stesso metro di misura. Chi investe, a
maggior ragione se per conto terzi, dovrebbe pazientemente guardare lontano. Ma non c’è
orizzonte che tenga, neppure per l’investimento azionario, se si acquistano e vendono titoli a
prezzi macroscopicamente lontani dal verosimile ambito all’interno del quale può ricadere il
valore intrinseco. Ed è molto più probabile farlo seguendo le mode, dettate dal potere di
condizionamento dell’industria finanziaria. Che predica i lunghi orizzonti ma poi ci convince a
ruotare i portafogli a ritmi sempre più ravvicinati, magari con la scusa della “diversificazione”.
AVVISO N. 3:
INNOCENTI DIVERSFICAZIONI O SUBDOLE ROTAZIONI?
La tanto mitizzata diversificazione non è il Sacro Graal dell’investimento di successo. Riduce il
rischio complessivo di portafoglio, ma vanno valutati modi e tempi di esecuzione. In periodi di
crisi, quando il gioco sui mercati si fa duro, la diversificazione serve a poco, perché la correlazione
tra i rendimenti degli strumenti finanziari rischiosi si avvicina all’unità. Tradotto: si perde su quasi
tutto, tranne che sulle attività apparentemente sicure, che oggi rendono zero. Inoltre, diversificare
con equilibrio ha un senso logico; continuare a ruotare i portafogli sotto la spinta di emozioni
nostre o interessi altrui, no. E tutti, ma proprio tutti, gli studi statistici e comportamentali ci dicono
che proprio questo accadev. La storia finanziaria è piena zeppa di esempi in merito. E gli ultimi
tormentati anni non fanno eccezione, anzi. Gli imponenti flussi di risorse in fuga dai periferici
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europei nel biennio 2011-2012 hanno avuto, tra le mete preferite, valute e obbligazioni dei paesi
emergenti. Le prime spesso sopravvalutate in termini di parità dei poteri d’acquisto; le seconde
con rendimenti che avevano raggiunto livelli ridicoli.vi Tutta roba che dallo scorso mese di maggio
è in caduta libera. Morale: chi è rimasto troppo a lungo inebetito dalla narrativa prevalente dei
gran cerimonieri del marketing finanziario è rimasto, ancora una volta, con il cerino acceso in
mano. E ora scappa di nuovo. Si tratta di un fenomeno comune a tutte le latitudini. Secondo la
società di analisi TrimTabs, negli ultimi tre mesi i fondi indicizzati specializzati sui mercati
emergenti hanno subito riscatti pari al 15.8% degli attivi. Nel mese di gennaio, solo negli Stati
Uniti, i deflussi complessivi hanno superato i 20 miliardi di dollari. In otto mesi, dai fondi
obbligazionari emergenti sono usciti più di 24 miliardi di dollari, più che nel 2008. La storia ci
insegna che la maggior parte degli investitori ricomprerà a prezzi superiori quello che ha venduto.
AVVISO N. 4:
SI COMPRANO GLI STRUMENTI FINANZIARI, NON LE ECONOMIE
Periodicamente, le sirene della finanza “riscoprono” i paesi in via di sviluppo, cantandone le
magnifiche e progressive sorti. Se c’è un fatto certo è che negli ultimi trent’anni, grazie anche alla
poderosa spinta della Cina, i tassi di crescita di quei paesi hanno surclassato quelli del vecchio
occidente. Probabile anche che il processo di convergenza economica possa proseguire. Possibile
che rallenti, ma nulla di più. E allora come mai, come abbiamo visto, la dinamica relativa dei
prezzi azionari tra le due aree, sviluppata ed emergente, anche su periodi molto lunghi, è così
controversa? I motivi non mancano. Il primo: non si comprano le economie, ma strumenti
finanziari rappresentativi di debito o capitale di rischio di singoli o gruppi di emittenti. L’idea di
investire guardando il mappamondo è velleitaria a maggior ragione in un sistema economico nel
quale le corporations multinazionali sovrastano le singole giurisdizioni statali. Questo è anche il
motivo per cui i mercati azionari, ovunque, “sembrano” sempre più slegati dall'economia reale. Il
punto è che la crescita degli utili e dei margini dell’universo delle società quotate è stato negli
ultimi decenni di gran lunga superiore a quello medio del prodotto globale. E di ciò ha beneficiato
in larga misura le multinazionali del mondo sviluppato, che hanno conquistato nuove quote di
mercato nelle economie in sviluppo, oltre ai produttori – imprese e lavoratori – locali. C’è poi un
fattore legato al diverso livello di trasparenza, liquidità, accessibilità e complessità che differenzia i
mercati azionari delle aree a diverso livello di sviluppo, anche istituzionale. Malgrado i progressi,
la governance societaria è ancora a livelli ridicoli in molti paesi emergenti; spesso le strutture di
controllo sono piramidali e poco trasparenti; di frequente gli interessi degli azionisti di minoranza
sono trascurati; a volte le maggiori società sono ancora a proprietà pubblica o condizionate da
regimi regolatori predatori; talvolta l’acquisto diretto di azioni è complicato perfino per gli
investitori istituzionali. Tutti fattori che scoraggiano l’investimento diretto. Ma gli strateghi del
marketing finanziario non si sono persi d’animo e, malgrado le difficoltà, sono riusciti a
canalizzare enormi flussi di investimenti di portafoglio verso il sud est del mondo. Vediamo come.
AVVISO N. 5:
ATTENTI ALLE NARRAZIONI
È l’offerta finanziaria che si “inventa” la domanda, soddisfatta secondo modalità spesso discutibili
e opache. Il processo creativo passa per la costruzione di una sofisticata “narrazione”, che può
avere più o meno solide radici nel reale, declinata in slogan a effetto, distillata in idee “bomba”.
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Famosissima la felice intuizione di Jim O’Neill, l’inventore dell’acronimo “BRIC” (Brasile, Russia,
India, Cina), poi diventato BRICS, con l’aggiunta del Sud Africa. L’idea viene sfruttata a livello
commerciale con la costruzione di nuovi indici ai quali ben presto si associano gli ETF (Exchange
Traded Funds) vii che li replicano. Il giochino ha successo perché si rivela un pozzo di San Patrizio.
Da sfruttare anche nelle fasi di sboom. Se sotto tiro sono le periferie europee ecco l’invenzione dei
PIIGS; se qualche gruppo di paesi emergenti entra nel mirino della speculazione si serve in tavola
la novità dei “Fragile five” o “Big five” o “BIITS”( Brasile, India, Indonesia, Turchia e Sud Africa)
subito allargata ai “Fragile eight”, con l’aggiunta di qualche ulteriore potenziale vittima. Ma si parla
anche di “CIVET” e “MINT”, “G11”, “Nuova Frontiera” e così via. La necessità di inventarsi
sempre più fantasiose segmentazioni riflette l’imperativo categorico di un’industria sempre più
lontana dalla gestione professionale del risparmio e dominata dalla necessità di impacchettare e
“vendere” sogni. Remunerativi per chi?
AVVISO N. 6:
SEMPLICE È BELLO, O NO?
La recente fuga dai mercati emergenti ha numerosi precedenti. L’ultimo più clamoroso episodio è
quello della caduta delle “Tigri asiatiche” del ’97-98. È la prima volta però che il fenomeno si
manifesta prevalentemente attraverso l’utilizzo diretto o derivato degli ETF, che oggi cubano circa
300 miliardi di dollari su una capitalizzazione complessiva delle azioni dell’area di circa 1300
miliardi. Una dimensione fuori misura. E pensare che il maggiore ETF della categoria è stato
lanciato solo nel 2003 (Emerging markets are badly served by ETFs - FT.com). Gli ETF sono, tra le
innumerevoli innovazioni finanziarie, una delle meno discutibili degli ultimi decenni. Ma quelli
che replicano gli indici dei mercati emergenti, se offrono il vantaggio della semplicità operativa,
amplificano alcuni dei difetti tipici dello strumentoviii. Inoltre questi veicoli possono diventare
“autoreferenziali”: scollegati dalle specifiche dinamiche che influenzano economie e mercati dei
singoli paesi. Attirando gli enormi flussi di liquidità canalizzati dal consenso, si trasformano
velocemente da oggetti di culto in canali di scolo del panico, prodotti spazzatura scaduti,
ennesimo strumento di distruzione di massa e di amplificazione dei cicli finanziari. Facendo
riferimento agli indici dei mercati emergenti e agli ETF che li replicano, si costruisce e impacchetta
un numero enorme di prodotti strutturati, richiesti e disseminati nell’ecosistema finanziario e il cui
impatto esplosivo è moltiplicato dall’utilizzo della leva finanziaria. Inoltre sono nati come funghi
centinaia se non migliaia di fondi comuni, a gestione più o meno attiva, sui quali i principali asset
managers fanno confluire ingenti capitaliix. La conseguenza di tutto ciò è che, al di la delle
statistiche ufficiali che misurano i flussi in entrata e in uscita dai fondi, indicizzati o meno, le reali
dimensioni del fenomeno sfuggono completamente all’analisi. E la grandezza dei potenziali
riflussi diventa imprevedibile.
EMERGENTI DIVAGAZIONI
L’ecosistema della finanza negli ultimi decenni ha subito una mutazione genetica. Da canale,
prevalentemente locale, di trasferimento delle risorse dal risparmio all’investimento produttivo, a
riciclatore internazionale di flussi monetari, alimentati dalla creazione di debito e dalla parallela
accumulazione di ricchezza finanziaria. Troppe passività diffuse e troppa ricchezza concentrata in
poche mani. Con un’economia globale piagata da eccesso strutturale di offerta – di beni, forza
lavoro e moneta – le risorse sembrano intrappolate all’interno dell’enorme vasca del sistema
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finanziario, non trovando adeguati sbocchi nell’economia reale. Progressivamente l’ecosistema si è
adattato ed è diventato sempre più autoreferenziale, rischiando, nel 2008, l’implosione. Salvato
dall’intervento pubblico, apparentemente monitorato da occhiuti vigilanti, consapevoli portatori di
eclatanti conflitti d’interesse, ha ripreso vita mantenendo inalterate modalità di proliferazione.
Le conseguenze e i rischi, per il sistema nel suo complesso e, in particolare per i paesi in via di
sviluppo, non sono di poco conto. Sono due le più evidenti dimensioni critiche. Da una parte il
modello di business dell’industria della finanza è sempre più centrato sulla produzione e
commercializzazione globale di prodotti di massa e di nicchia destinati all’investimento, diretto o
gestito, di natura puramente finanziaria. Sotto la guida dei santoni del marketing finanziario si
inventano di continuo nuove tecniche, strumenti, classi di attività finanziarie, stili e modalità di
investimento. Dall’altra l’azione della Federal Reserve , in presenza di un sistema finanziario sempre
più integrato, determina volente o nolente, il ciclo del credito globale, anche in presenza di tassi di
cambio fluttuanti. Senza controllo dei capitali le periferie non dispongono più una politica
monetaria indipendente, anche perché le singole economie nazionali hanno dimensioni non
comparabili rispetto alla scala globale del leviatano finanziario. Inoltre i flussi di portafoglio sono
diventati molto più volatili, i travasi tra gruppi diversi di asset class più frequenti e violenti; nelle
fasi di stress finanziario la fragilità anche di economie relativamente forti può essere ampliata a
dismisura. Purtroppo le informazioni sui flussi finanziari globali sono poco conosciute,
difficilmente misurabili, impossibili da aggregare. Sono numeri molto costosi da reperire, spesso
riservati e non divulgati, perché chi li conosce ha un ovvio vantaggio competitivo e li usa a proprio
vantaggio.
CONCLUSIONI
I paesi emergenti sono di nuovo al centro del mirino. Disturbano il manovratore. Sono fuori moda.
Rischiano, con un’ulteriore possibile rovinosa caduta di cambi e borse, di far deragliare il treno dei
mercati occidentali che viaggia a tutta velocità. Situazioni già viste in passato. Gli ottimisti
guardano lontano e hanno validi motivi per sostenere che la crescita complessiva dell’area
proseguirà a ritmi maggiori rispetto ai quella dei paesi avanzati. Malgrado l’incognita del modello
di sviluppo cinese, che non è più sostenibile; malgrado le difficoltà economiche, politiche o sociali
di alcuni paesi, dall’Argentina al Venezuela, dall’Ucraina alla Turchia. D’altra parte la dimensione
degli squilibri (debito estero, credito interno, riserve in valuta ecc.) sembra minore di quanto non
fosse quindici anni fa, quando sono cadute le “tigri asiatiche”. Negli ultimi venti anni la quota del
GDP mondiale di pertinenza delle economie in via di sviluppo è raddoppiata, sfiorando il 50 per
cento. Ci sta un rallentamento, ma niente di più. I pessimisti guardano alle dimensioni dei capitali
in fuga e ai complessi effetti di contagio e corruzione della dinamica economica che possono
esercitare; alle incognite derivanti dall’opacità di un sistema finanziario dominato dai flussi di
portafoglio; alle ricadute, largamente ignote, derivanti dalla prossima fine del periodo di denaro
facile, garantito per anni dalle banche centrali. E, come spesso è successo in passato ipotizzano che
i conseguenti aggiustamenti strutturali comporteranno un declino dei prezzi delle attività
finanziarie che andrà ben oltre il giustificabile dai fondamentali. Siamo nel regno del “qui e ora”,
alla scommessa sull’imponderabile, al vaticinio sull’ignoto.
Entrambe le posizioni hanno valide giustificazioni, ma sono di relativo interesse per i
risparmiatori. I quali si devono ricordare tre cose. La prima: non lo ordina il medico di
diversificare il portafoglio usando i mercati emergenti. Se ne può fare a meno, a maggior ragione
considerando che numerose società quotate in occidente hanno una forte esposizione all’area. La
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seconda: contano le valutazioni assolute, non quelle relative. Gli ottimisti sostengono che
guardando al valore intrinseco rispetto ai mercati occidentali, quelli emergenti azionari e
obbligazionari, dopo le recenti delusioni, sarebbero relativamente sottovalutati. Dimenticano però
che i multipli dei primi sono sicuramente elevati, sostenibili solo se la crescita globale, che molto
dipende dalla Cina e non poco dalle dinamiche strutturali dell’occidente, sorprenderà in positivo.
La terza: per chi fosse comunque convinto, come è molto probabile, che gli emergenti prima o poi
torneranno di moda, la scelta quasi obbligata è quella dei fondi comuni a gestione attiva, non gli
ETF. Dalle statistiche infatti risulta che l’unica area dove molti gestori, negli ultimi anni, sono
riusciti a battere i replicanti degli indici, è proprio quella degli emergenti. Attenzione però: vanno
selezionati quelli di società specializzate nell’investimento nell’area, che hanno investito cospicue
risorse nell’attività di analisi e ricerca. Non certo quelli degli asset managers generalisti per i quali i
mercati emergenti non sono altro che l’ennesimo prodotto da mettere in vetrina.
NOTE
L'ipotesi di efficienza dei mercati (EMH -Efficient Market hypothesis), semplificando all’estremo,
postula che i prezzi di mercato, sotto determinate condizioni, siano la migliore stima disponibile
del valore attuale dei flussi di cassa attesi. In mercati efficienti i prezzi già incorporano
l'informazione disponibile e quindi non si può sperare di ottenere sistematicamente rendimenti
più elevati senza sopportare dosi maggiori di rischio.
ii Più lungo è il periodo di detenzione di uno strumento finanziario più alta è la probabilità di un
rendimento positivo (per attrarre capitali gli strumenti finanziari devono avere un rendimento
atteso positivo perché la scelta comporta rinuncia al consumo corrente). Inoltre, maggiore è il
rischio (volatilità dei rendimenti attesi) di uno strumento finanziario, maggiore sarà il suo
rendimento atteso. Punto di riferimento ineludibile della tesi è il libro “Stocks for the long run”,
scritto nel 1994 da Jeremy Siegel, professore di Finanza della Wharton School. Siegel, in estrema
sintesi, sostiene che, dato un sufficientemente lungo periodo di detenzione, di venti-trent’anni, le
azioni sono meno rischiose delle obbligazioni. L’analisi è di tipo empirico e si basa su dati relativi
al mercato americano raccolti dall’inizio dell’800.
iii È dimostrato che il rammarico per le perdite è di oltre il doppio rispetto all’attrazione che
esercita un guadagno di analoghe dimensioni. Quanto più frequentemente valutiamo il nostro
portafoglio più è probabile rilevare delle perdite e soffrire a causa dell’avversione alle stesse.
Viceversa, meno è frequente la valutazione del portafoglio, tanto più è probabile rilevare dei
guadagni.
iv L'aumento del peso del trading ad alta frequenza (HFT) ha cambiato volto ai mercati azionari.
L'HFT costituisce fino al 70% del volume di scambio in alcuni mercati. Nell’HFT il periodo medio
di detenzione di una posizione è di circa 10 secondi. Anche per gli investitori con un orizzonte a
medio termine il periodo di detenzione si è drasticamente accorciato: nel 1940 era di sette anni, nel
1960 di cinque, nel 1980 di due e oggi di soli sette mesi.
v Secondo Dalbar, società di ricerca americana, l’investitore tipo in fondi azionari USA ha ottenuto
un rendimento medio inferiore del 4 per cento per anno, rispetto all’indice S&P 500, nel periodo
compreso tra il 1993 e il 2012. Tra il 1984 e il 2002, a fronte di un rendimento medio annuo dello
S&P 500 di circa il 12,2%, la media dei fondi azionari che investono sullo stesso mercato ha reso il
9,6%, mentre l’investitore medio ha guadagnato solo il 2,6%. D’altra parte anche i “veri”
rendimenti medi ottenuti dai risparmiatori sul mercato dei bonds, non avrebbero superato il 4,2%
annuale, contro una performance del comparabile indice obbligazionario di circa l’11,7% all’anno.
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Conclusione: i risultati dell’investimento dipendono maggiormente dal comportamento dei
risparmiatori che dalla performance dei fondi e del mercato di riferimento e ciò dipende dalla
presunzione di “battere il mercato”, ruotando i portafogli tra le diverse classi di attivo, seguendo le
sirene dell’industria finanziaria (cfr. Quantitative Analysis of Investor Behavior study by Dalbar
Inc.).
vi Perfino il Ruanda si era permesso di affacciarsi sui mercati tra l’entusiasmo degli investitori
(istituzionali, va detto), emettendo debito con rendimento non di molto superiore a quello del
trentennale italiano di allora.
vii L’idea originaria, basata sulla EMH (Efficient Market hypothesis), aveva la finalità di offrire ai
risparmiatori prodotti competitivi, in termini di rapporto costo/rendimento, rispetto a quelli offerti
dai tradizionali gestori di fondi comuni, che operano sulla presunzione di potere “battere il
mercato”.
viii Per quelli di natura azionaria, l’indicizzazione basata sulla capitalizzazione di borsa impone una
concentrazione dei flussi finanziari verso emittenti che nelle giurisdizioni meno avanzate sono
spesso società controllate dallo stato, conglomerate oligopolistiche poco trasparenti e dalla
governance opinabile. Peggio ancora per i replicanti dei mercati obbligazionari, per i quali
l’indicizzazione inevitabilmente comporta una concentrazione degli investimenti su un aggregato
indistinto e totalmente disomogeneo di emittenti sparsi in giro per il mondo. Siano essi sovrani o
privati hanno un requisito comune: sono quelli con le emissioni più frequenti e di maggiore
dimensione; spesso, quindi, anche i più deboli come struttura finanziaria.
ix Pochi sono gestiti da team di professionisti dotati di adeguata preparazione, esperienza e
competenza. Qualità che, per essere con qualche probabilità efficaci, non possono che essere
dedicate con estrema specializzazione a sottoinsiemi limitati di strumenti finanziari dell’universo
magmatico degli emergenti. Assembrare team che coprano tutta l’area non è compito da poco.
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IL ROMPIGHIACCIO
“Il Rompighiaccio” è una rubrica di macroeconomia redatta da Assiteca S.I.M. S.p.A., a cura di
Enrico Ascari, che analizza le principali tematiche di attualità economico-finanziaria al fine di
valutare le relazioni tra le variabili del sistema economico e gli effetti delle stesse sulle decisioni di
investimento.
Tale approfondimento rientra nell’obiettivo di Assiteca S.I.M. S.p.A. di fornire ai propri Clienti e ai
risparmiatori in generale gli strumenti necessari a elaborare un giudizio sulle dinamiche
economiche indipendente, ponderato e libero da qualsiasi condizionamento esterno al fine di
evitare di assumere decisioni di investimento affrettate e dettate dall’emotività.
Assiteca S.I.M. S.p.A. nasce nel mese di settembre 2012 in seguito all’acquisizione del 100% del
capitale di Cofin S.I.M. S.p.A. dal sodalizio tra Alessandro Falciai, Roberto Russo e Assiteca S.p.A.,
la più grande società di brokeraggio assicurativo italiano indipendente da gruppi assicurativi e
industriali che ha deciso di investire per la prima volta nella sua storia nel settore finanziario per
proporre un servizio d’investimento professionale, trasparente e indipendente.
L’indipendenza e la totale assenza di conflitti di interesse sono gli elementi che
contraddistinguono l’intera attività di Assiteca S.I.M. S.p.A. e rappresentano un fondamentale
punto di partenza per mettere al servizio della Clientela l’esperienza professionale maturata in
anni di attività così da poter soddisfare ogni esigenza.
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