Anteprima gratuita - Matisklo Edizioni

I libri di “003 e oltre”
- 17 -
ANTEPRIMA GRATUITA
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Altro Parnaso
I libri di “003 e oltre”
- 17 -
Atti del convegno
Pavese, Fenoglio, Calvino
Il mestiere di vivere, il mestiere di scrivere
Liceo “San G. Calasanzio”
(Carcare, 5 aprile 2014)
«Il varco è qui?»
CONVEGNI LIGURI-PIEMONTESI
- 10 -
a cura di GIANNINO BALBIS e VALTER BOGGIONE
ANTEPRIMA GRATUITA
Liceo Calasanzio Carcare
Pavese, Fenoglio, Calvino
Il mestiere di vivere, il mestiere di scrivere
© 2014 Matisklo Edizioni
Prima edizione, dicembre 2014
ISBN: 978-88-98572-33-5
Matisklo Edizioni S.N.C.
di Oddera Cesare & Vico Francesco
Via Eremita 14
17045 Mallare (SV)
[email protected]
www.matiskloedizioni.com
Alla memoria di
Mario Siri
Col patrocinio del DIRAAS (Dipartimento di Italianistica, Romanistica, An­
tichistica, Arti e Spettacolo) dell’Università di Genova e del Dipartimento di
Studi Umanistici (StudiUm) dell’Università di Torino
Questo volume è pubblicato con il contributo
della Fondazione De Mari
Atti del convegno
Pavese, Fenoglio, Calvino
Il mestiere di vivere, il mestiere di scrivere
a cura di GIANNINO BALBIS e VALTER BOGGIONE
ANTEPRIMA GRATUITA
SOMMARIO
Programma
Saluto
di Paola Salmoiraghi
Torna la letteratura del Novecento ai
Convegni liguri-piemontesi
di Giannino Balbis
La “fatica nera” di Beppe Fenoglio
di Francesco De Nicola
«Ingenuità» e «stupore» nel David
Copperfield. Pavese traduce Dickens
di Mariarosa Masoero
Cesare Pavese e la commozione
pittorica
di Roberta Giordano
Dalla dimensione del mito agli spazi del
quotidiano. Pavese e la figura
dell’eremita
di Marino Boaglio
Attualità e inattualità delle Città
invisibili
di Giorgio Bertone
Calvino e la poesia
di Giangiacomo Amoretti
Il cannocchiale di Calvino: come la
letteratura scrive il paesaggio
di Chiara Lombardi
Qualcosa di gelosamente mio: paesaggi
della Resistenza nella narrativa di Italo
Calvino
di Alessandro Ottaviani
Saluto
Benvenuti al Liceo “Calasanzio”! Grazie a tutti i pre­
senti, ai presidenti e ai relatori che daranno vita a questa
decima edizione dei Convegni liguri-piemontesi.
Come abbiamo ricordato in più di un’occasione, il
nostro Liceo – unico in questa “terra di varco” – da molti
anni rappresenta un essenziale punto di riferimento cul­
turale per l’intera Val Bormida, promuovendo e ospitan­
do incontri di alto livello e favorendo così importanti
occasioni di approfondimento e confronto.
Quando il prof. Bárberi Squarotti ci ha proposto di
dedicare il decimo Convegno a Pavese, Fenoglio e Calvi­
no, subito si è manifestato l’entusiasmato dei docenti di
questo Liceo e di altre scuole del territorio, ed ora siamo
ben lieti di fornire agli studenti qui presenti – e a quelli
che, in futuro, leggeranno gli atti del convegno – l’oppor­
tunità di approfondire la conoscenza di tre grandi autori
della nostra letteratura, grazie all’intervento di relatori di
prim’ordine, contattati ed invitati dal prof. Balbis, a cui
va un ringraziamento speciale, e dagli altri membri del
prestigioso Comitato scientifico che presiede ai nostri
Convegni (i proff. Giorgio Bárberi Squarotti, presidente,
Giangiacomo Amoretti, Alberto Beniscelli e Valter Bog­
gione, delle Università di Torino e di Genova).
Il Convegno è dedicato a Mario Siri, un docente di
questo Liceo recentemente scomparso: oggi – me l’aveva
confermato di persona l’ultima volta in cui ci siamo in­
contrati – sarebbe stato qui, come sempre, per amore
della letteratura e della scuola.
Paola Salmoiraghi
Preside del Liceo “San G. Calasanzio”
di Carcare
Torna la letteratura del Novecento
ai Convegni liguri-piemontesi
Già presentando i convegni carcaresi dello scorso
anno – “Maraviglia del mondo”. Letteratura barocca tra
Liguria e Piemonte (maggio 2013) e L’alta Val Bormida
linguistica. Una terra di incontri e di confronti (ottobre
2013) – abbiamo parlato di un “ritorno a casa” dei Conve­
gni liguri-piemontesi. Ma solo oggi, in verità, essi tornano
davvero e definitivamente a casa, perché, in questo terzo
appuntamento carcarese, ritrovano quella letteratura ligure
e piemontese del Novecento che è il loro tema d’elezione, in
ragione del quale sono nati nove anni fa ed al quale hanno
dedicato le loro prime sette edizioni. Ed è un ritorno in
grande stile, con tre autori – Pavese, Fenoglio e Calvino –
fra i più importanti e di maggiore interesse del Novecento,
in ambito non solo ligure-piemontese ma anche nazionale,
e non solo per gli addetti ai lavori ma anche per i nostri
studenti liceali, ai quali i convegni intendono guardare
sempre con un occhio di riguardo.
A nome del comitato scientifico, che ho l’onore di
rappresentare, ringrazio i promotori e i sostenitori di que­
sto convegno, la Fondazione De Mari, il DIRAAS (Diparti­
mento di Italianistica, Romanistica, Antichistica, Arti e
Spettacolo) dell’Università di Genova e il Dipartimento di
Studi Umanistici (StudiUm) dell’Università di Torino, che
ci concedono il patrocinio. Un ringraziamento particolare
al Liceo “Calasanzio”, che ci ospita, e al suo dirigente scola­
stico, la prof.ssa Paola Salmoiraghi, che con entusiasmo e
dedizione encomiabili accoglie i nostri convegni e si fa
carico in prima persona della loro organizzazione.
Dedichiamo questa giornata di studi e gli atti che ne
seguiranno alla memoria di Mario Siri, un caro collega, a
lungo docente di questo Liceo e assiduo amico dei nostri
convegni, che recentemente ci ha lasciati.
Lascio la parola a Giorgio Bárberi Squarotti per l’ini­
zio dei lavori. Grazie e buon convegno a tutti.
Giannino Balbis
FRANCESCO DE NICOLA
La “fatica nera” di Beppe Fenoglio
Nel 1960 Beppe Fenoglio era uno scrittore discreta­
mente conosciuto, non tanto dal grande pubblico dei lettori
– che, in quegli anni di avvio del boom economico e quindi
di superamento dei problemi postbellici, aveva riscoperto il
fascino del romanzo storico, sulle ali del successo postumo
del Gattopardo (1958) di Giuseppe Tomasi di Lampedusa
–, ma certo dai critici e dagli editori. Dopo i due libriccini –
I ventitre giorni della città di Alba (1952) e La malora
(1954) – usciti nell’ormai conclusa collana einaudiana dei
“Gettoni” diretta da Vittorini, assai prestigiosa ma elitaria
(di ogni titolo venivano normalmente stampate solo 1.000
copie e non tutte erano vendute), nel 1959 Fenoglio aveva
pubblicato il suo primo romanzo, Primavera di bellezza,
presso un altro importante editore, Garzanti (che proprio
in quegli anni aveva fatto conoscere i romanzi di Pasolini e
il Pasticciaccio di Gadda) e il libro aveva avuto alcune
buone recensioni, tra le quali una firmata da Eugenio
Montale uscita sul “Corriere della Sera” del 30 giugno 1959.
E proprio perché Fenoglio era scrittore discre­
tamente conosciuto il poeta e critico romano Elio Filippo
Accrocca gli chiese di scrivere per lui una breve nota auto­
biografica destinata, come quelle di altri oltre duecento
scrittori e critici italiani, ad essere inclusa nel suo volumedizionario Ritratti su misura di scrittori italiani che sareb­
be uscito appunto nel 1960 per le edizioni veneziane del So­
dalizio del libro.
In realtà Accrocca non era stato il primo a chiedere a
Fenoglio di raccontare in breve i dati salienti della sua vita,
preceduto infatti da Italo Calvino che, per conto di Vitto­
rini, alla vigilia dell’uscita del già citato suo libro d’esordio
nel 1952, gli aveva rivolto analoga richiesta che lo scrittore
aveva esaudito con poche righe telegrafiche:
“Circa i dati biografici, è dettaglio che posso
sbrigare in un baleno. Nato trent’anni fa ad Alba (1°
marzo 1922), studente (Ginnasio-Liceo, indi Univer­
sità, ma naturalmente non mi sono laureato), soldato
nel Regio e poi partigiano: oggi, purtroppo, uno dei
procuratori di una nota Ditta enologica. Credo che sia
tutto qui” (IF, p. 4).
Ma Vittorini, si sa, aveva in testa un suo preciso
identikit degli scrittori che intendeva lanciare nei “Gettoni”
e così, alle cinque righe ricevute da Fenoglio, apportò alcu­
ne lievi ma non insignificanti modifiche, evitando di ripor­
tare sia la notizia degli studi universitari interrotti “natural­
mente”, sia il “purtroppo” anteposto alla sua qualifica di
procuratore di un’azienda vinicola; l’eliminazione dei due
avverbi intendeva infatti evitare l’inconfessata insoddisfa­
zione dello scrittore albese, presentato invece come uomo
volontariamente dedito [...]
MARIAROSA MASOERO
«Ingenuità» e «stupore» nel David
Copperfield.
Pavese traduce Dickens
Molto si è detto e scritto sulla feconda e appassio­
nata attività traduttiva di Cesare Pavese (dal greco e dal la­
tino, dall’inglese e dall’americano, ma anche dal tedesco),
prestando particolare attenzione ai suoi precoci e ben docu­
mentati interessi nei confronti della letteratura americana,
frequentata come lettore, praticata in qualità di traduttore
e usata nelle vesti di scrittore.1 Meno studiati gli approcci
critici alla letteratura inglese, se si escludono le imprescin­
dibili osservazioni di Claudio Gorlier nel “mitico” numero
della rivista «Sigma», interamente dedicato allo scrittore,
gli utili riscontri di Maria Stella, di Carla Apollonio e di po­
chi altri.2
1
Per indicazioni bibliografiche dettagliate e complete si rinvia a LUISELLA
MESIANO, Cesare Pavese di carta e di parole. Bibliografia ragionata e ana­
litica, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2007, pp. 60-65, 398-403. Ultimo in
ordine di tempo il saggio di GABRIELLA REMIGI, Cesare Pavese e la let­
teratura americana. Una «splendida monotonia», Firenze, Olschki, 2012
(Biblioteca dell’«Archivum Romanicum», serie I: Storia, Letteratura,
Paleografia, 387).
2
Cfr. CLAUDIO GORLIER, Tre riscontri sul mestiere di tradurre, in «Sigma»,
I, 3-4, dicembre 1964, pp. 72-86; MARIA STELLA, Cesare Pavese. Traduttore,
Roma, Bulzoni, 1977 («Studi e ricerche» 6); CARLA APOLLONIO, Cesare Pa­
vese e la letteratura inglese, in «Otto/Novecento», X, 2, marzo-aprile 1986,
Ma andiamo in ordine, prendendo avvio dall’idea
stessa del tradurre coltivata da Pavese, per poi interrogarci
sulle ragioni di una scelta, quella di Charles Dickens nella
fattispecie, e dar conto infine dei tempi e dei modi della re­
sa in italiano.
Forte di un faticoso tirocinio portato avanti con il la­
voro di tesi sulla poesia di Walt Whitman («sarò il primo
italiano a parlare di lui distesamente e criticamente. Mi
perdoni, quasi sarò io a rivelarlo all’Italia!»), 3 irrobustito
nella pratica della lingua inglese dalle conversazioni con il
giovane amico musicista italo-americano Antonio Chiumi­
natto,4 impegnato in primi studi sulle «cose d’America» e,
pp 99-115. Circa le traduzioni giovanili da Percy Bysshe Shelley, si veda il
volume curato da Mark Pietralunga, Prometeo slegato, Torino, Einaudi,
1997 («Collezione di Poesia» 260).
3
Cfr. CESARE PAVESE, Lettere 1924-1944, a cura di LORENZO MONDO, Torino,
Einaudi, 1966, p. 159 (lettera ad Antonio Chiuminatto datata 29 novembre
1929; testo originale: «I’ll be the first Italian to speak at some extent and
critically of him. Look me over, I’ll almost reveal him to Italy», ivi, pp. 156157). La tesi è stata pubblicata in CESARE PAVESE, Interpretazione della
poesia di Walt Whitman. Tesi di laurea - !930, a cura di VALERIO MAGRELLI,
Torino, Einaudi, 2006, pp. 1-158 (l’introduzione, dello stesso Magrelli,
s’intitola Pavese laureato, pp.VII-XV).
4
Così Antonio Chiuminatto scriveva a Lorenzo Mondo il 25 giugno 1965:
«Mi pare che nel 1926 o nei primi mesi del 1927 [un amico studente
universitario] mi disse che due studenti dell’università, certi Massimo Mila
e Cesare Pavese, avrebbero avuto piacere di conoscermi allo scopo di pra­
ticare la lingua inglese. Se non mi sbaglio ci siamo incontrati al Caffè
Mugna di fronte a Porta Nuova. Da questo giorno, fino alla mia ripartenza
nell’ottobre del 1929, ho avuto l’amicizia tanto del Mila quanto del Pavese,
ma devo aggiungere, forse, che i nostri incontri furono sempre a scopo di
qualche studio d’inglese. Non mi ricordo che io sia mai andato con loro a
più in generale, sulla letteratura moderna di oltre confine, 5
Pavese sente di poter essere un traduttore «appassionato,
di gusto e di competenza»; nulla di più logico, quindi, che
farsi avanti e offrirsi a un editore, Bemporad di Firenze in
prima istanza. La data è quella del 12 marzo 1930.6
Ha così inizio un’intensa stagione di bilanci critici
affidati alle pagine della «Cultura» […]
passare una serata con lo scopo di divertirci altrimenti. Ci davamo degli
appuntamenti al caffè Mugna; altre volte andavamo a casa da Mila, dove mi
ricordo come se fosse ieri, una volta ho letto a voce alta il Hiawatha di
Longfellow. | Discutevamo la pronuncia inglese contrastata a quella ame­
ricana; poi le solite considerazioni di grammatica e sintassi. Poi facevo
leggere da loro prosa e poesia» (ivi, pp. 158-159).
5
«Penso che Lei ricordi con quanta passione l’anno scorso io ammirassi e
studiassi le cose d’America, e questa passione è andata crescendo. [...] |
Quel che sto cercando ora è un sistema di studio, specialmente per la let­
teratura moderna» (ivi, pp. 159 e 160; testo originale: «I guess you
remember yet how fond an admirer and a student of American things I was
last year and such I have increased. [...] | What I am looking for now is
some way of study, especially about your modern literature», ivi, pp. 156 e
157; lettera ad Antonio Chiuminatto del 29 novembre 1929).
6
Ivi, p. 185: «Egregio Signore, | leggo, nell’Appendice acclusa a un volume
della Collezione Modernissima, gli scopi e il programma che Ella si propone
nel Suo ciclo di traduzioni di opere straniere contemporanee e specialmente
nord-americane. | [...] Ove Ella non avesse ancora intero il numero dei
traduttori che Le occorrono, o la novità sempre crescente della materia ne
chiedesse dei nuovi, vorrei renderle noto ch’io sono in grado di associarmi
alla sua opera quale traduttore da romanzi nord-americani, possedendo al
proposito una buona competenza e in più la possibilità di informarmi
direttamente dagli Stati Uniti».
ROBERTA GIORDANO
Cesare Pavese e la
commozione pittorica
L’opera di Cesare Pavese, da Lavorare stanca fino a
La luna e i falò, è satura di paesaggi, di studi di prospettiva,
di chiaroscuri, di ritratti, di contrasti estetici tra il gioco
dell’ombra e della luce, tutti elementi che garantiscono
quelle valenze mitiche e simboliche, potenziate dalla scelta
dei colori all’interno delle descrizioni, su cui si fonda la co­
stante intensificazione dello spessore ermeneutico proprio
della scrittura pavesiana. Un tale fatto partecipa a mettere
in rilievo il ruolo determinante che l’arte figurativa ha
giocato all’interno dell’immaginario poetico dello scrittore
piemontese, a partire dall’esperienza personale che l’autore
aveva della pittura. Se, nell’Antologia Einaudi del 1948, ci­
tando i più importanti pittori dell’ultimo secolo, da Renoir
a Daumier, da Picasso a Van Gogh, da Carrà a Matisse,
Pavese associa la scelta delle illustrazioni nelle edizioni
einaudiane a un “sottile lavoro di interpretazione e di il­
luminazione”, sostenendo che “sovente l’accostamento tra
uno scrittore e un gusto figurativo preesistente vale un in­
tero saggio critico”7, Massimo Mila, nella presentazione a
catalogo della mostra di Gaudenzio Nazario Homage a Ce­
7
L’opera, compilata da Pavese, in cui si trova la citazione è l’Antologia
Einaudi 1948, Torino, Einaudi, 1949, p. 225. Rinvio inoltre a A. CADIOLI,
L’editore e i suoi lettori, Bellinzona, Casagrande, 2000, p. 35.
sare Pavese, afferma che davanti a un bel quadro lo scritto­
re piemontese era capace di “restare un quarto d’ora immo­
bile in contemplazione, stringendo gli occhi dietro le lenti
in un sorrisetto un po’ faunesco di beatitudine e di compia­
cimento”8. Ricordando quanto la lezione di rigore e di so­
brietà della pittura di Casorati avesse profondamente
segnato l’esperienza pavesiana, Mila sottolineava inoltre
l’importanza, all’interno di quello che definiva “il nostro
gruppo”, della presenza di un pittore come Mario Sturani,
“il cui studio era il quartier generale della «banda»: ogni
suo nuovo lavoro veniva sottoposto al più estemporaneo
giudizio collettivo nell’esercizio d’una critica quanto mai
confidenziale”9.
Affine soprattutto alla linea impressionista e simbo­
lista, Pavese riporta, nei resoconti dei taccuini giovanili,
alcuni dei momenti trascorsi in collina con gli amici pittori,
con i quali, come è noto, condivideva esperienze artistiche e
personali. Ve n’è uno, in particolar modo, in cui lo scrittore
si identifica nel personaggio [...]
8
Il riferimento è tratto da G. NAZARIO, Forme e colori in Cesare Pavese.
Lettura di un pittore, in Corrado Alvaro e Cesare Pavese nella Calabria
del mito. Atti del Convegno (Marina di Gioiosa, San Luca, Brancaleone: 2628 aprile 2002), a cura di A.M. MORACE e A. ZAPPIA, Soveria Mannelli,
Rubbettino, 2007, pp. 229-238: 232.
9
Ibidem. Come è noto, Pavese viveva a Torino le sue esperienze artistiche e
personali insieme agli amici pittori, e in modo particolare insieme a Mario
Sturani. Cfr. M. MIMITA LAMBERTI, La Torino dei pittori e la città di Pavese,
in Cesare Pavese e la “sua” Torino. Catalogo della mostra a cura M. MA­
SOERO e G. ZACCARIA, Torino, Lindau, pp. 37-47. Si veda inoltre M. MIMITA
LAMBERTI (a cura di), Mario Sturani 1906-1978, Torino, Allemandi, 1990.
MARINO BOAGLIO
Dalla dimensione del mito agli spazi
del quotidiano.
Pavese e la figura dell’eremita
L’opera di Cesare Pavese è attraversata da una lunga
sequela di figure emblematiche – il ragazzo in fuga, il vaga­
bondo, l’uomo solo, la donna (spesso ai margini sociali) che
vuol bastare a se stessa – che sono altrettante dramatis
personae di un conflitto ontologico e di una disperata ricer­
ca di senso. Incarnano la tensione ad andare al di là delle
cose, del mondo sperimentato e sofferto, verso luoghi (reali,
ma più spesso mentali) non giurisdizionali e non misurabili
dalla storia. Si tratta di personaggi paradigmatici e non na­
turalistici, di ‘schermi’ poetici dietro cui agisce l’io dell’au­
tore, che solo una lettura frettolosa e parziale ha potuto
scambiare per figure di preminente rilievo storico e sociale,
dando avvio all’equivoco di un Pavese campione del neo­
realismo. Nella loro inquieta quête – che è sempre ricerca di
senso, non di singole esperienze – perseguono l’ignoto, il
non conosciuto, l’incontro con l’alterità (spesso di natura: la
collina, il pantano, il mare) e aspirano a una suprema cono­
scenza, quella del profondo. In questa direzione, la presenza
pavesiana più significativa è quella dell’eremita, di chi cioè
ha scelto quale proprio destino la solitudine assoluta e la
separatezza anche fisica dagli uomini, rinserrandosi in una
Natura viva e pulsante. In lui, infatti, la fuga dal mondo delle
apparenze sembra finalmente aver trovato una meta, che è
l’altrove, dove si può vivere bastando a se stessi: in prossi­
mità del vero, del significato ultimo dell’esistenza, ma anche,
proprio per questo, sul confine del nulla.
Il personaggio dell’eremita fa la sua comparsa in una
lirica del 1933, Paesaggio I,10 edita in Lavorare stanca, e poi
ritorna (con altre significazioni) in un racconto di Feria
d’agosto intitolato proprio L’eremita, scritto tra il 1938 e il
1941. Seguirne le valenze e gli slittamenti di significato dal­
l’uno all’altro testo può illuminare non soltanto la figura del
deraciné, centrale nell’universo poetico pavesiano, ma an­
che le inquietudini e le reticenze (e le conseguenti rimozioni)
dell’autore.
***
Come spiega Pavese in Il mestiere di poeta, risalente
al 1934, le due strofe di Paesaggio I sono costruite su un
luogo “di alta e bassa collina, contrapposte e movimentate,
e, centro animatore della scena, un eremita alto e basso,
superiormente burlone [...] ‘colore delle felci bruciate’”. Al
centro della lirica non sta dunque una descrizione di spazi o
un rapporto di colori e di forme [...]
10
Nella prima edizione della raccolta la lirica si intitolava semplicemente
Paesaggio. Il numero romano subentrerà nell’edizione Einaudi del 1943,
per distinguerla dalle altre sette poesie con lo stesso titolo.
GIORGIO BERTONE
Attualità e inattualità delle
Città invisibili
È sempre difficile per me trovare il taglio e il regi­
stro giusto per incontri con il pubblico più giovane e, come
in questo caso, liceale. Ne sento tutta la responsabilità. Da
una parte avverto il rischio di offrire qualcosa di specia­
listico, un quasi-saggio, che come tale dà per scontata tut­
ta l’opera (in questo caso vastissima, di Calvino) e magari
anche la bibliografia critica. Dall’altra il rischio di essere
troppo didascalici e perfino banali. Li prendo sulle spalle
tutti e due i rischi e i peccati: oralmente ho puntato su una
panoramica veloce e, spero, chiara dell’opera calviniana;
qui, mi parrebbe carta sprecata ripercorrere lo schema,
per di più mancano le slides. E perciò consegno a voi tutti,
– che ringrazio –, un testo che ebbi già tempo di meditare
in altre occasioni, ma su cui credo valga la pena di dibat­
tere: coinvolge la nostra cultura in questi ultimi decenni.
Che cosa ci dicono, che cosa ci suggeriscono, inse­
gnano Le Città invisibili a quarant’anni (più uno) dalla loro
apparizione meravigliante? Sempre che se si voglia cogliere
i pretesti aritmetici. Che cosa ci dicono, al di là dell’elegan­
za, del tenace e minuzioso gioco combinatorio, persino a­
scetico (la griglia precisa delle 55 città divise in 9 gruppi e
loro volta divisi in rubriche cicliche: Le città e la memoria,
Le città e i segni, Le città e i desideri ecc.), della perfezione
stilistica e definitoria (“L’altrove è uno specchio in nega­
tivo. Il viaggiatore riconosce il poco che è suo, scoprendo il
molto che non ha avuto e non avrà”), dell’agilità linguistica
(“[Armilla] non ha nulla che la faccia sembrare una città,
eccetto le tubature dell’acqua, che salgono verticali dove
dovrebbero esserci le case e si diramano dove dovrebbero
esserci i piani: una foresta di tubi che finiscono in rubinetti,
docce, sifoni, troppopieni”), ancor oggi intatta, ammirevole,
godibile, persino di per sé accresciuta nel valore pedago­
gico-sociale di una lingua che è l’opposto della banalità,
dell’imprecisione quotidiana, anche scritta (nuovi sistemi
di comunicazione digitale subito inclusi, perché primeg­
gianti), senza mai essere puro esercizio formale e retorico
tanto la figura, l’emblema ci impegna la mente.
C’è da registrare, intanto, la ricezione assidua da
parte della critica specialistica anche recente – su cui di ne­
cessità sorvolo totalmente –, la fortuna anglosassone (tra­
duzione: The invisible cities, translated by William Weaver,
1974) e pure da parte di fruitori diversi. Per esempio, archi­
tetti e urbanisti. Moltissimi dei quali innamorati per colpo
di fulmine di tutte le 55 città utopiche (però, attenzione!,
nel contempo, distopiche) non senza qualche tornaconto:
utilizzare la libertà fantastica e la fin troppo esaltata e ba­
nalizzata “leggerezza” calviniana [...]
GIANGIACOMO AMORETTI
Calvino e la poesia
Questo intervento vuole rispondere a un interrogati­
vo che forse potrà essere giudicato non del tutto illegittimo,
anche se certo non centrale nella valutazione dell’opera cal­
viniana: che rapporto volle intrattenere con la poesia uno
scrittore che davvero, come Calvino, sembra nato per rac­
contare ed anzi sembra essere per così dire il tipo stesso del
narratore in prosa: una sorta quindi – se vogliamo – di
anti-poeta? Che cosa ne pensava della poesia? come la valu­
tava, come la interpretava?
Cercherò qui di dare una breve ed essenziale rispo­
sta a queste domande, senza alcuna pretesa ovviamente di
esaustività, limitandomi soltanto ai punti che mi sembrano
fondamentali per comprendere il rapporto fra Calvino e la
poesia.
A tale scopo, il mio intervento sarà suddiviso in tre
parti: dapprima cercherò di chiarire che cosa sia, a livello di
teoria letteraria o di poetica, la poesia per Calvino o – che è
lo stesso – quali rapporti vi siano per lui tra la poesia da
una parte e la prosa narrativa dall’altra; in secondo luogo
considererò, in modo inevitabilmente molto succinto, il no­
stro autore come critico o lettore di poesia; e infine porrò
l’attenzione su alcuni dei pochissimi testi poetici da lui
composti.
***
Quando Calvino inizia a scrivere, subito finita la
guerra, è evidente la sua partecipazione a un clima cultu­
rale in cui l’esigenza entusiastica di un drastico rinnova­
mento letterario si manifesta anche nell’auspicio di una
forte politicizzazione della letteratura e quindi, per quanto
riguarda la poesia, di una rapida fuoriuscita di essa dal­
l’ermetismo. Ed è con palese soddisfazione che Calvino re­
gistra la “conversione” a una nuova letteratura civile di tan­
ti poeti ermetici o vicini all’ermetismo. Si veda come, in un
articolo del 1947, egli sottolinei compiaciuto la presenza,
fra i vincitori di un premio letterario indetto allora da
“L’Unità”, di un poeta come Giorgio Caproni: “Poi è molto
importante che sia stato premiato Caproni, che è scrittore
d’esperienze squisitamente letterarie e pure ha sentito il
bisogno d’uscire dal castello incantato, di trovare un terre­
no d’incontro con gli uomini che faticano e soffrono; im­
portante perché questa necessità di mettersi al fianco delle
masse popolari s’è posta in questi ultimi anni alla nostra
letteratura d’avanguardia come l’unica via d’uscita per sal­
varsi dalla crisi e dall’isterilimento”11; e di nuovo si veda la
soddisfazione – siamo nel 1949 – manifestata a seguito
della pubblicazione [...]
11
ITALO CALVINO, Saggi 1945-1985 a cura di MARIO BARENGHI, tomo primo,
Milano, Mondadori, 1995, p.1476.
CHIARA LOMBARDI
Il cannocchiale di Calvino:
come la letteratura scrive il paesaggio
I would like to be Mercutio. Among his virtues,
I admire above all his lightness, in a world full
of brutality, his dreaming imagination – as the
poet of Queen Mab – and at the same time his
wisdom, as the voice of reason amid the fa­
natical hatreds of Capulets and Montagues. [...]
a Don Quixote who knows very well what
dreams are and what reality is, and he lives both
with open eyes. (I. Calvino, risposta alla doman­
da What character in fiction or nonfiction
would you most like to be?, in “The New York
Times”, LXXXIX, 49, December 2, 1984, p. 42)
Al rapporto tra l’immaginazione, il linguaggio e la
realtà, e alla tensione che collega scrittura e vita fuori dai li­
bri, Calvino dedica, tra gli altri, il saggio del 1985 Mondo
scritto e non scritto, che riporta il testo di una conferenza
tenuta all’Institute for the Humanities di New York. “La no­
stra vita è programmata per la lettura” – scrive l’autore, –
“e mi accorgo che sto cercando di leggere il paesaggio, il
prato, le onde del mare [...] Leggere, più che un esercizio
ottico, è un processo che coinvolge mente e occhi insieme,
un processo di astrazione o meglio un’estrazione di concre­
tezza”12. Si tratta di frantumare e ricomporre “in segmenti
significativi, scoprire intorno a noi regolarità, differenze,
ricorrenze, singolarità, sostituzioni, ridondanze”13.
Ritroviamo qui l’equazione, già galileiana, tra il libro
e il mondo fisico, il cosmo, il libro della natura14, che in
Calvino è estremamente dinamica e duttile, collegata da
una parte alla presenza della storia e della temporalità nello
spazio – tempo che si manifesta anche sotto forma di ero­
sione, consumo, entropia15 – come leggiamo nelle pagine di
Collezione di sabbia (in particolare La forma del tempo.
Giappone); e, dall’altra, alle infinite possibilità combinato­
rie che accomunano la cosmologia e la fisica all’atto della
lettura o della scrittura, o della riscrittura (scrittura del
mondo, ma anche “scrittura di secondo grado” 16, palinsesto
di altre voci, suggestioni, influenze).
Sempre in La forma del tempo, Calvino scrive che
viaggiare “serve a riattivare per un momento l’uso degli oc­
chi, la lettura visiva del mondo”17. Il rapporto tra paesaggio
12
I. CALVINO, Mondo scritto e non scritto, in Saggi. 1945-1985, a cura di M.
BARENGHI, Milano, Mondadori, 1995, 2 voll., II, pp. 1865-1875, p. 1871.
13
Ibidem.
14
Cfr. G. POLIZZI, La letteratura italiana dinanzi al cosmo: Calvino tra Ga­
lileo e Leopardi, in «Lettere italiane», 62 (2010), 1, pp. 63-107.
15
Cfr. M. C. BARRADO, Los signos y los tiempos en México, en ‘Palomar’ y
‘Collezione di sabbia’. II: La entropia, in «Cuadernos de filología italiana»,
2001 (8), 207-219.
16
G. GENETTE, Palinsesti (1982), Torino, Einaudi, 1997.
17
I. CALVINO, La forma del tempo. Giappone, in Saggi, cit., I, pp. 561-625, p.
566.
e lettura, infatti, implica la relazione tra visione e interpre­
tazione del mondo, un’interpretazione che fa del racconto –
sul modello di Sterne e Diderot18 – interrogazione, doman­
da, possibilità e non soluzione. Punto di partenza, scrive
l’autore in una lettera del 1960 a François Wahl, è l’imma­
gine: “l’unica cosa che vorrei insegnare è un modo di guar­
dare, cioè di essere al mondo”19. Non trascurabile è, sulla
concezione e composizione calviniana dell’immagine, la
convergenza tra meditazione filosofica, letteratura e scien­
za, secondo una linea di percezione [...]
18
Si vedano le Lezioni americane. Sei proposte per il nuovo millennio, Mi­
lano, Mondadori, ed. 2002 (in particolare pp. 53-54) e il capitolo intitolato
Denis Diderot. Jacques le fataliste, in Perché leggere i classici, Milano,
Mondadori, ed. 2002, pp. 115-120.
19
In Lettere. 1940-1985, a cura di L. BARANELLI, Milano, Mondadori, 2000,
pp. 668-669; cfr. M. BELPOLITI, L’occhio di Calvino, Torino, Einaudi, 2006.
ALESSANDRO OTTAVIANI
Qualcosa di gelosamente mio:
paesaggi della Resistenza nella narrativa
di Italo Calvino
25 aprile 1970. Sembrerà pure una suggestiva coin­
cidenza, ma quando Calvino concedeva a «Le Monde» una
delle sue più note interviste, correva esattamente il venti­
cinquesimo anniversario della Liberazione:
Ho vissuto i primi venticinque anni (o quasi)
della mia vita dentro un paesaggio. Senza mai uscirne.
È un paesaggio che non posso più perdere, perché so­
lo ciò che esiste interamente nella memoria è defini­
tivo. In seguito ho vissuto altri venticinque anni (o
quasi) in mezzo alla carta stampata: dovunque mi tro­
vo, mi circonda un paesaggio ininterrotto di carta.20
Nato il 15 ottobre 1923, alla data dell’intervista Cal­
vino distava ancora tre anni e mezzo dal traguardo a cifra
tonda dei cinquanta. Perché dunque aggiungere quegli anni
all’esistenza fin lì trascorsa, dividerli in due periodi uguali
20
«Nous vivons désormais dans une métropole unique», intervista di
Françoise Wagener, «Le Monde», 25 aprile 1970, in ITALO CALVINO, Sono
nato in America... Interviste 1951-1985, a cura di LUCA BARANELLI,
Introduzione di MARIO BARENGHI, Mondadori, Milano, 2002, pp. 154-155.
di «venticinque anni» ciascuno e giocare sulle approssima­
zioni («o quasi»)?
Se non si trattasse di Calvino si direbbe per como­
dità o si parlerebbe di un’innocente imprecisione dettata
dalla natura di per sé estemporanea dell’intervista. O anco­
ra più probabilmente, neppure se ne parlerebbe. Ma di
Calvino si tratta, ed è risaputa la sua inguaribile insoffe­
renza di fronte all’ingabbiante esattezza del dato biografi­
co,21 tale da indurlo in più occasioni a instillare nell’interlo­
cutore il dubbio sulla congruente attendibilità delle proprie
attestazioni,22 o addirittura a giocare di anticipo preparan­
dosi con cura le risposte e arrivando in molti casi a scriversi
lui stesso le domande.23
21
Basti ricordare quanto scriverà a Claudio Milanini il 27 luglio 1985, dopo
aver messo mano alla propria biografia per l’edizione scolastica del Cava­
liere inesistente (Garzanti, Milano, 1986): «Ogni volta che rivedo la mia vita
fissata e oggettivata sono preso dall’angoscia, soprattutto quando si tratta di
notizie che ho fornito io. Così ho sentito il bisogno di riscrivere la prima
pagina, non perché ci fosse qualcosa di sbagliato ma perché ridicendo le
stesse cose con altre parole spero sempre di aggirare il mio rapporto
nevrotico con l’autobiografia» (CALVINO, Lettere 1940-1985, a cura di LUCA
BARANELLI, Introduzione di CLAUDIO MILANINI, Mondadori, Milano, p. 1538).
22
Cfr. la lettera a Germana Pescio Bottino del 9 giugno 1964: «io sono ancora
di quelli che credono, con Croce, che di un autore contano solo le opere.
(Quando contano naturalmente). Perciò dati biografici non ne do, o li do falsi,
o comunque cerco sempre di cambiarli da una volta all’altra. Mi chieda pure
quel che vuole sapere, e Glielo dirò. Ma non le dirò mai la verità, di questo
può star sicura» (CALVINO, I libri degli altri. Lettere 1947-1981, a cura di
GIOVANNI TESIO, con una nota di CARLO FRUTTERO, Einaudi, Torino, 1991, p.
479).
23
Esemplare il caso della pseudo-intervista concessa a Ferdinando Camon
per il suo volume Il mestiere di scrittore. Conversazioni critiche (Garzanti,
Considerato che il suo primo trasferimento da San­
remo a Torino – coincidente con i primi tentativi letterari
di una qualche rilievanza24 – ebbe luogo con la maggiore
età, un Calvino diligente autobiografo avrebbe dovuto divi­
dere la propria esistenza pregressa in un primo periodo di
diciotto anni (1923-’41) e in un secondo di ventinove non
ancora compiuti (1941-’70). Ma in questo modo sarebbe
venuta meno la perfetta simmetria tra una metà vissuta
«dentro» un paesaggio reale [...]
Milano, 1973), soprattutto alla luce di quanto confessato a Edoardo Sangui­
neti in una lettera del 5 febbraio 1974: «Lo stato di consistenza delle mie
idee oggi mi porta a preferire al genere saggio – e a quel tanto di perento­
rietà che esso esige – il genere dialogo, dialogo vero cioè discutendo con un
interlocutore non fittizio, ma pur sempre dialogo finto cioè scritto facendo
finta di parlare. (Integrando o meno una discussione a voce). Ho cominciato
a praticare questo genere l’anno scorso scrivendo delle finte risposte parlate
a Ferdinando Camon per la riedizione del suo peraltro non ameno libro Il
mestiere di scrittore, cioè adattando o inventando le sue domande o
obiezioni a mie risposte. E mi sono accorto che questo è il sistema più
indicato per me per fare delle discussioni, dico farle per scritto con l’aria di
chiacchierare» (CALVINO, Lettere, cit., pp. 1226-1227).
24
Nel maggio del 1942 aveva raccolto i propri racconti di sapore zavattiniano,
iniziati la precedente primavera, e aveva provato temerariamente a proporli
ad Einaudi con il titolo Pazzo io o pazzi gli altri. Su questa e le altre prove
giovanili di Calvino, non soltanto in ambito narrativo, cfr. PIETRO FERRUA,
Opere giovanili di Italo Calvino, in Italo Calvino la letteratura, la scienza, la
città, Atti del convegno nazionale di studi di Sanremo (28-29 novembre
1986), a cura di GIORGIO BERTONE, Marietti, Genova, 1988, pp. 50-59; e la più
recente ricostruzione, condotta a partire dalla corrispondenza con Eugenio
Scalfari, nella preziosa monografia di FRANCESCA SERRA, Calvino, Salerno,
Roma, 2006, pp. 33-44.
ANTEPRIMA GRATUITA
Col patrocinio del DIRAAS (Dipartimento di Italianistica, Romanistica, An­
tichistica, Arti e Spettacolo) dell’Università di Genova e del Dipartimento di
Studi Umanistici (StudiUm) dell’Università di Torino
Questo volume è pubblicato con il contributo
della Fondazione De Mari