I libri di “003 e oltre” - 17 - ANTEPRIMA GRATUITA – Altro Parnaso I libri di “003 e oltre” - 17 - Atti del convegno Pavese, Fenoglio, Calvino Il mestiere di vivere, il mestiere di scrivere Liceo “San G. Calasanzio” (Carcare, 5 aprile 2014) «Il varco è qui?» CONVEGNI LIGURI-PIEMONTESI - 10 - a cura di GIANNINO BALBIS e VALTER BOGGIONE ANTEPRIMA GRATUITA Liceo Calasanzio Carcare Pavese, Fenoglio, Calvino Il mestiere di vivere, il mestiere di scrivere © 2014 Matisklo Edizioni Prima edizione, dicembre 2014 ISBN: 978-88-98572-33-5 Matisklo Edizioni S.N.C. di Oddera Cesare & Vico Francesco Via Eremita 14 17045 Mallare (SV) [email protected] www.matiskloedizioni.com Alla memoria di Mario Siri Col patrocinio del DIRAAS (Dipartimento di Italianistica, Romanistica, An tichistica, Arti e Spettacolo) dell’Università di Genova e del Dipartimento di Studi Umanistici (StudiUm) dell’Università di Torino Questo volume è pubblicato con il contributo della Fondazione De Mari Atti del convegno Pavese, Fenoglio, Calvino Il mestiere di vivere, il mestiere di scrivere a cura di GIANNINO BALBIS e VALTER BOGGIONE ANTEPRIMA GRATUITA SOMMARIO Programma Saluto di Paola Salmoiraghi Torna la letteratura del Novecento ai Convegni liguri-piemontesi di Giannino Balbis La “fatica nera” di Beppe Fenoglio di Francesco De Nicola «Ingenuità» e «stupore» nel David Copperfield. Pavese traduce Dickens di Mariarosa Masoero Cesare Pavese e la commozione pittorica di Roberta Giordano Dalla dimensione del mito agli spazi del quotidiano. Pavese e la figura dell’eremita di Marino Boaglio Attualità e inattualità delle Città invisibili di Giorgio Bertone Calvino e la poesia di Giangiacomo Amoretti Il cannocchiale di Calvino: come la letteratura scrive il paesaggio di Chiara Lombardi Qualcosa di gelosamente mio: paesaggi della Resistenza nella narrativa di Italo Calvino di Alessandro Ottaviani Saluto Benvenuti al Liceo “Calasanzio”! Grazie a tutti i pre senti, ai presidenti e ai relatori che daranno vita a questa decima edizione dei Convegni liguri-piemontesi. Come abbiamo ricordato in più di un’occasione, il nostro Liceo – unico in questa “terra di varco” – da molti anni rappresenta un essenziale punto di riferimento cul turale per l’intera Val Bormida, promuovendo e ospitan do incontri di alto livello e favorendo così importanti occasioni di approfondimento e confronto. Quando il prof. Bárberi Squarotti ci ha proposto di dedicare il decimo Convegno a Pavese, Fenoglio e Calvi no, subito si è manifestato l’entusiasmato dei docenti di questo Liceo e di altre scuole del territorio, ed ora siamo ben lieti di fornire agli studenti qui presenti – e a quelli che, in futuro, leggeranno gli atti del convegno – l’oppor tunità di approfondire la conoscenza di tre grandi autori della nostra letteratura, grazie all’intervento di relatori di prim’ordine, contattati ed invitati dal prof. Balbis, a cui va un ringraziamento speciale, e dagli altri membri del prestigioso Comitato scientifico che presiede ai nostri Convegni (i proff. Giorgio Bárberi Squarotti, presidente, Giangiacomo Amoretti, Alberto Beniscelli e Valter Bog gione, delle Università di Torino e di Genova). Il Convegno è dedicato a Mario Siri, un docente di questo Liceo recentemente scomparso: oggi – me l’aveva confermato di persona l’ultima volta in cui ci siamo in contrati – sarebbe stato qui, come sempre, per amore della letteratura e della scuola. Paola Salmoiraghi Preside del Liceo “San G. Calasanzio” di Carcare Torna la letteratura del Novecento ai Convegni liguri-piemontesi Già presentando i convegni carcaresi dello scorso anno – “Maraviglia del mondo”. Letteratura barocca tra Liguria e Piemonte (maggio 2013) e L’alta Val Bormida linguistica. Una terra di incontri e di confronti (ottobre 2013) – abbiamo parlato di un “ritorno a casa” dei Conve gni liguri-piemontesi. Ma solo oggi, in verità, essi tornano davvero e definitivamente a casa, perché, in questo terzo appuntamento carcarese, ritrovano quella letteratura ligure e piemontese del Novecento che è il loro tema d’elezione, in ragione del quale sono nati nove anni fa ed al quale hanno dedicato le loro prime sette edizioni. Ed è un ritorno in grande stile, con tre autori – Pavese, Fenoglio e Calvino – fra i più importanti e di maggiore interesse del Novecento, in ambito non solo ligure-piemontese ma anche nazionale, e non solo per gli addetti ai lavori ma anche per i nostri studenti liceali, ai quali i convegni intendono guardare sempre con un occhio di riguardo. A nome del comitato scientifico, che ho l’onore di rappresentare, ringrazio i promotori e i sostenitori di que sto convegno, la Fondazione De Mari, il DIRAAS (Diparti mento di Italianistica, Romanistica, Antichistica, Arti e Spettacolo) dell’Università di Genova e il Dipartimento di Studi Umanistici (StudiUm) dell’Università di Torino, che ci concedono il patrocinio. Un ringraziamento particolare al Liceo “Calasanzio”, che ci ospita, e al suo dirigente scola stico, la prof.ssa Paola Salmoiraghi, che con entusiasmo e dedizione encomiabili accoglie i nostri convegni e si fa carico in prima persona della loro organizzazione. Dedichiamo questa giornata di studi e gli atti che ne seguiranno alla memoria di Mario Siri, un caro collega, a lungo docente di questo Liceo e assiduo amico dei nostri convegni, che recentemente ci ha lasciati. Lascio la parola a Giorgio Bárberi Squarotti per l’ini zio dei lavori. Grazie e buon convegno a tutti. Giannino Balbis FRANCESCO DE NICOLA La “fatica nera” di Beppe Fenoglio Nel 1960 Beppe Fenoglio era uno scrittore discreta mente conosciuto, non tanto dal grande pubblico dei lettori – che, in quegli anni di avvio del boom economico e quindi di superamento dei problemi postbellici, aveva riscoperto il fascino del romanzo storico, sulle ali del successo postumo del Gattopardo (1958) di Giuseppe Tomasi di Lampedusa –, ma certo dai critici e dagli editori. Dopo i due libriccini – I ventitre giorni della città di Alba (1952) e La malora (1954) – usciti nell’ormai conclusa collana einaudiana dei “Gettoni” diretta da Vittorini, assai prestigiosa ma elitaria (di ogni titolo venivano normalmente stampate solo 1.000 copie e non tutte erano vendute), nel 1959 Fenoglio aveva pubblicato il suo primo romanzo, Primavera di bellezza, presso un altro importante editore, Garzanti (che proprio in quegli anni aveva fatto conoscere i romanzi di Pasolini e il Pasticciaccio di Gadda) e il libro aveva avuto alcune buone recensioni, tra le quali una firmata da Eugenio Montale uscita sul “Corriere della Sera” del 30 giugno 1959. E proprio perché Fenoglio era scrittore discre tamente conosciuto il poeta e critico romano Elio Filippo Accrocca gli chiese di scrivere per lui una breve nota auto biografica destinata, come quelle di altri oltre duecento scrittori e critici italiani, ad essere inclusa nel suo volumedizionario Ritratti su misura di scrittori italiani che sareb be uscito appunto nel 1960 per le edizioni veneziane del So dalizio del libro. In realtà Accrocca non era stato il primo a chiedere a Fenoglio di raccontare in breve i dati salienti della sua vita, preceduto infatti da Italo Calvino che, per conto di Vitto rini, alla vigilia dell’uscita del già citato suo libro d’esordio nel 1952, gli aveva rivolto analoga richiesta che lo scrittore aveva esaudito con poche righe telegrafiche: “Circa i dati biografici, è dettaglio che posso sbrigare in un baleno. Nato trent’anni fa ad Alba (1° marzo 1922), studente (Ginnasio-Liceo, indi Univer sità, ma naturalmente non mi sono laureato), soldato nel Regio e poi partigiano: oggi, purtroppo, uno dei procuratori di una nota Ditta enologica. Credo che sia tutto qui” (IF, p. 4). Ma Vittorini, si sa, aveva in testa un suo preciso identikit degli scrittori che intendeva lanciare nei “Gettoni” e così, alle cinque righe ricevute da Fenoglio, apportò alcu ne lievi ma non insignificanti modifiche, evitando di ripor tare sia la notizia degli studi universitari interrotti “natural mente”, sia il “purtroppo” anteposto alla sua qualifica di procuratore di un’azienda vinicola; l’eliminazione dei due avverbi intendeva infatti evitare l’inconfessata insoddisfa zione dello scrittore albese, presentato invece come uomo volontariamente dedito [...] MARIAROSA MASOERO «Ingenuità» e «stupore» nel David Copperfield. Pavese traduce Dickens Molto si è detto e scritto sulla feconda e appassio nata attività traduttiva di Cesare Pavese (dal greco e dal la tino, dall’inglese e dall’americano, ma anche dal tedesco), prestando particolare attenzione ai suoi precoci e ben docu mentati interessi nei confronti della letteratura americana, frequentata come lettore, praticata in qualità di traduttore e usata nelle vesti di scrittore.1 Meno studiati gli approcci critici alla letteratura inglese, se si escludono le imprescin dibili osservazioni di Claudio Gorlier nel “mitico” numero della rivista «Sigma», interamente dedicato allo scrittore, gli utili riscontri di Maria Stella, di Carla Apollonio e di po chi altri.2 1 Per indicazioni bibliografiche dettagliate e complete si rinvia a LUISELLA MESIANO, Cesare Pavese di carta e di parole. Bibliografia ragionata e ana litica, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2007, pp. 60-65, 398-403. Ultimo in ordine di tempo il saggio di GABRIELLA REMIGI, Cesare Pavese e la let teratura americana. Una «splendida monotonia», Firenze, Olschki, 2012 (Biblioteca dell’«Archivum Romanicum», serie I: Storia, Letteratura, Paleografia, 387). 2 Cfr. CLAUDIO GORLIER, Tre riscontri sul mestiere di tradurre, in «Sigma», I, 3-4, dicembre 1964, pp. 72-86; MARIA STELLA, Cesare Pavese. Traduttore, Roma, Bulzoni, 1977 («Studi e ricerche» 6); CARLA APOLLONIO, Cesare Pa vese e la letteratura inglese, in «Otto/Novecento», X, 2, marzo-aprile 1986, Ma andiamo in ordine, prendendo avvio dall’idea stessa del tradurre coltivata da Pavese, per poi interrogarci sulle ragioni di una scelta, quella di Charles Dickens nella fattispecie, e dar conto infine dei tempi e dei modi della re sa in italiano. Forte di un faticoso tirocinio portato avanti con il la voro di tesi sulla poesia di Walt Whitman («sarò il primo italiano a parlare di lui distesamente e criticamente. Mi perdoni, quasi sarò io a rivelarlo all’Italia!»), 3 irrobustito nella pratica della lingua inglese dalle conversazioni con il giovane amico musicista italo-americano Antonio Chiumi natto,4 impegnato in primi studi sulle «cose d’America» e, pp 99-115. Circa le traduzioni giovanili da Percy Bysshe Shelley, si veda il volume curato da Mark Pietralunga, Prometeo slegato, Torino, Einaudi, 1997 («Collezione di Poesia» 260). 3 Cfr. CESARE PAVESE, Lettere 1924-1944, a cura di LORENZO MONDO, Torino, Einaudi, 1966, p. 159 (lettera ad Antonio Chiuminatto datata 29 novembre 1929; testo originale: «I’ll be the first Italian to speak at some extent and critically of him. Look me over, I’ll almost reveal him to Italy», ivi, pp. 156157). La tesi è stata pubblicata in CESARE PAVESE, Interpretazione della poesia di Walt Whitman. Tesi di laurea - !930, a cura di VALERIO MAGRELLI, Torino, Einaudi, 2006, pp. 1-158 (l’introduzione, dello stesso Magrelli, s’intitola Pavese laureato, pp.VII-XV). 4 Così Antonio Chiuminatto scriveva a Lorenzo Mondo il 25 giugno 1965: «Mi pare che nel 1926 o nei primi mesi del 1927 [un amico studente universitario] mi disse che due studenti dell’università, certi Massimo Mila e Cesare Pavese, avrebbero avuto piacere di conoscermi allo scopo di pra ticare la lingua inglese. Se non mi sbaglio ci siamo incontrati al Caffè Mugna di fronte a Porta Nuova. Da questo giorno, fino alla mia ripartenza nell’ottobre del 1929, ho avuto l’amicizia tanto del Mila quanto del Pavese, ma devo aggiungere, forse, che i nostri incontri furono sempre a scopo di qualche studio d’inglese. Non mi ricordo che io sia mai andato con loro a più in generale, sulla letteratura moderna di oltre confine, 5 Pavese sente di poter essere un traduttore «appassionato, di gusto e di competenza»; nulla di più logico, quindi, che farsi avanti e offrirsi a un editore, Bemporad di Firenze in prima istanza. La data è quella del 12 marzo 1930.6 Ha così inizio un’intensa stagione di bilanci critici affidati alle pagine della «Cultura» […] passare una serata con lo scopo di divertirci altrimenti. Ci davamo degli appuntamenti al caffè Mugna; altre volte andavamo a casa da Mila, dove mi ricordo come se fosse ieri, una volta ho letto a voce alta il Hiawatha di Longfellow. | Discutevamo la pronuncia inglese contrastata a quella ame ricana; poi le solite considerazioni di grammatica e sintassi. Poi facevo leggere da loro prosa e poesia» (ivi, pp. 158-159). 5 «Penso che Lei ricordi con quanta passione l’anno scorso io ammirassi e studiassi le cose d’America, e questa passione è andata crescendo. [...] | Quel che sto cercando ora è un sistema di studio, specialmente per la let teratura moderna» (ivi, pp. 159 e 160; testo originale: «I guess you remember yet how fond an admirer and a student of American things I was last year and such I have increased. [...] | What I am looking for now is some way of study, especially about your modern literature», ivi, pp. 156 e 157; lettera ad Antonio Chiuminatto del 29 novembre 1929). 6 Ivi, p. 185: «Egregio Signore, | leggo, nell’Appendice acclusa a un volume della Collezione Modernissima, gli scopi e il programma che Ella si propone nel Suo ciclo di traduzioni di opere straniere contemporanee e specialmente nord-americane. | [...] Ove Ella non avesse ancora intero il numero dei traduttori che Le occorrono, o la novità sempre crescente della materia ne chiedesse dei nuovi, vorrei renderle noto ch’io sono in grado di associarmi alla sua opera quale traduttore da romanzi nord-americani, possedendo al proposito una buona competenza e in più la possibilità di informarmi direttamente dagli Stati Uniti». ROBERTA GIORDANO Cesare Pavese e la commozione pittorica L’opera di Cesare Pavese, da Lavorare stanca fino a La luna e i falò, è satura di paesaggi, di studi di prospettiva, di chiaroscuri, di ritratti, di contrasti estetici tra il gioco dell’ombra e della luce, tutti elementi che garantiscono quelle valenze mitiche e simboliche, potenziate dalla scelta dei colori all’interno delle descrizioni, su cui si fonda la co stante intensificazione dello spessore ermeneutico proprio della scrittura pavesiana. Un tale fatto partecipa a mettere in rilievo il ruolo determinante che l’arte figurativa ha giocato all’interno dell’immaginario poetico dello scrittore piemontese, a partire dall’esperienza personale che l’autore aveva della pittura. Se, nell’Antologia Einaudi del 1948, ci tando i più importanti pittori dell’ultimo secolo, da Renoir a Daumier, da Picasso a Van Gogh, da Carrà a Matisse, Pavese associa la scelta delle illustrazioni nelle edizioni einaudiane a un “sottile lavoro di interpretazione e di il luminazione”, sostenendo che “sovente l’accostamento tra uno scrittore e un gusto figurativo preesistente vale un in tero saggio critico”7, Massimo Mila, nella presentazione a catalogo della mostra di Gaudenzio Nazario Homage a Ce 7 L’opera, compilata da Pavese, in cui si trova la citazione è l’Antologia Einaudi 1948, Torino, Einaudi, 1949, p. 225. Rinvio inoltre a A. CADIOLI, L’editore e i suoi lettori, Bellinzona, Casagrande, 2000, p. 35. sare Pavese, afferma che davanti a un bel quadro lo scritto re piemontese era capace di “restare un quarto d’ora immo bile in contemplazione, stringendo gli occhi dietro le lenti in un sorrisetto un po’ faunesco di beatitudine e di compia cimento”8. Ricordando quanto la lezione di rigore e di so brietà della pittura di Casorati avesse profondamente segnato l’esperienza pavesiana, Mila sottolineava inoltre l’importanza, all’interno di quello che definiva “il nostro gruppo”, della presenza di un pittore come Mario Sturani, “il cui studio era il quartier generale della «banda»: ogni suo nuovo lavoro veniva sottoposto al più estemporaneo giudizio collettivo nell’esercizio d’una critica quanto mai confidenziale”9. Affine soprattutto alla linea impressionista e simbo lista, Pavese riporta, nei resoconti dei taccuini giovanili, alcuni dei momenti trascorsi in collina con gli amici pittori, con i quali, come è noto, condivideva esperienze artistiche e personali. Ve n’è uno, in particolar modo, in cui lo scrittore si identifica nel personaggio [...] 8 Il riferimento è tratto da G. NAZARIO, Forme e colori in Cesare Pavese. Lettura di un pittore, in Corrado Alvaro e Cesare Pavese nella Calabria del mito. Atti del Convegno (Marina di Gioiosa, San Luca, Brancaleone: 2628 aprile 2002), a cura di A.M. MORACE e A. ZAPPIA, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2007, pp. 229-238: 232. 9 Ibidem. Come è noto, Pavese viveva a Torino le sue esperienze artistiche e personali insieme agli amici pittori, e in modo particolare insieme a Mario Sturani. Cfr. M. MIMITA LAMBERTI, La Torino dei pittori e la città di Pavese, in Cesare Pavese e la “sua” Torino. Catalogo della mostra a cura M. MA SOERO e G. ZACCARIA, Torino, Lindau, pp. 37-47. Si veda inoltre M. MIMITA LAMBERTI (a cura di), Mario Sturani 1906-1978, Torino, Allemandi, 1990. MARINO BOAGLIO Dalla dimensione del mito agli spazi del quotidiano. Pavese e la figura dell’eremita L’opera di Cesare Pavese è attraversata da una lunga sequela di figure emblematiche – il ragazzo in fuga, il vaga bondo, l’uomo solo, la donna (spesso ai margini sociali) che vuol bastare a se stessa – che sono altrettante dramatis personae di un conflitto ontologico e di una disperata ricer ca di senso. Incarnano la tensione ad andare al di là delle cose, del mondo sperimentato e sofferto, verso luoghi (reali, ma più spesso mentali) non giurisdizionali e non misurabili dalla storia. Si tratta di personaggi paradigmatici e non na turalistici, di ‘schermi’ poetici dietro cui agisce l’io dell’au tore, che solo una lettura frettolosa e parziale ha potuto scambiare per figure di preminente rilievo storico e sociale, dando avvio all’equivoco di un Pavese campione del neo realismo. Nella loro inquieta quête – che è sempre ricerca di senso, non di singole esperienze – perseguono l’ignoto, il non conosciuto, l’incontro con l’alterità (spesso di natura: la collina, il pantano, il mare) e aspirano a una suprema cono scenza, quella del profondo. In questa direzione, la presenza pavesiana più significativa è quella dell’eremita, di chi cioè ha scelto quale proprio destino la solitudine assoluta e la separatezza anche fisica dagli uomini, rinserrandosi in una Natura viva e pulsante. In lui, infatti, la fuga dal mondo delle apparenze sembra finalmente aver trovato una meta, che è l’altrove, dove si può vivere bastando a se stessi: in prossi mità del vero, del significato ultimo dell’esistenza, ma anche, proprio per questo, sul confine del nulla. Il personaggio dell’eremita fa la sua comparsa in una lirica del 1933, Paesaggio I,10 edita in Lavorare stanca, e poi ritorna (con altre significazioni) in un racconto di Feria d’agosto intitolato proprio L’eremita, scritto tra il 1938 e il 1941. Seguirne le valenze e gli slittamenti di significato dal l’uno all’altro testo può illuminare non soltanto la figura del deraciné, centrale nell’universo poetico pavesiano, ma an che le inquietudini e le reticenze (e le conseguenti rimozioni) dell’autore. *** Come spiega Pavese in Il mestiere di poeta, risalente al 1934, le due strofe di Paesaggio I sono costruite su un luogo “di alta e bassa collina, contrapposte e movimentate, e, centro animatore della scena, un eremita alto e basso, superiormente burlone [...] ‘colore delle felci bruciate’”. Al centro della lirica non sta dunque una descrizione di spazi o un rapporto di colori e di forme [...] 10 Nella prima edizione della raccolta la lirica si intitolava semplicemente Paesaggio. Il numero romano subentrerà nell’edizione Einaudi del 1943, per distinguerla dalle altre sette poesie con lo stesso titolo. GIORGIO BERTONE Attualità e inattualità delle Città invisibili È sempre difficile per me trovare il taglio e il regi stro giusto per incontri con il pubblico più giovane e, come in questo caso, liceale. Ne sento tutta la responsabilità. Da una parte avverto il rischio di offrire qualcosa di specia listico, un quasi-saggio, che come tale dà per scontata tut ta l’opera (in questo caso vastissima, di Calvino) e magari anche la bibliografia critica. Dall’altra il rischio di essere troppo didascalici e perfino banali. Li prendo sulle spalle tutti e due i rischi e i peccati: oralmente ho puntato su una panoramica veloce e, spero, chiara dell’opera calviniana; qui, mi parrebbe carta sprecata ripercorrere lo schema, per di più mancano le slides. E perciò consegno a voi tutti, – che ringrazio –, un testo che ebbi già tempo di meditare in altre occasioni, ma su cui credo valga la pena di dibat tere: coinvolge la nostra cultura in questi ultimi decenni. Che cosa ci dicono, che cosa ci suggeriscono, inse gnano Le Città invisibili a quarant’anni (più uno) dalla loro apparizione meravigliante? Sempre che se si voglia cogliere i pretesti aritmetici. Che cosa ci dicono, al di là dell’elegan za, del tenace e minuzioso gioco combinatorio, persino a scetico (la griglia precisa delle 55 città divise in 9 gruppi e loro volta divisi in rubriche cicliche: Le città e la memoria, Le città e i segni, Le città e i desideri ecc.), della perfezione stilistica e definitoria (“L’altrove è uno specchio in nega tivo. Il viaggiatore riconosce il poco che è suo, scoprendo il molto che non ha avuto e non avrà”), dell’agilità linguistica (“[Armilla] non ha nulla che la faccia sembrare una città, eccetto le tubature dell’acqua, che salgono verticali dove dovrebbero esserci le case e si diramano dove dovrebbero esserci i piani: una foresta di tubi che finiscono in rubinetti, docce, sifoni, troppopieni”), ancor oggi intatta, ammirevole, godibile, persino di per sé accresciuta nel valore pedago gico-sociale di una lingua che è l’opposto della banalità, dell’imprecisione quotidiana, anche scritta (nuovi sistemi di comunicazione digitale subito inclusi, perché primeg gianti), senza mai essere puro esercizio formale e retorico tanto la figura, l’emblema ci impegna la mente. C’è da registrare, intanto, la ricezione assidua da parte della critica specialistica anche recente – su cui di ne cessità sorvolo totalmente –, la fortuna anglosassone (tra duzione: The invisible cities, translated by William Weaver, 1974) e pure da parte di fruitori diversi. Per esempio, archi tetti e urbanisti. Moltissimi dei quali innamorati per colpo di fulmine di tutte le 55 città utopiche (però, attenzione!, nel contempo, distopiche) non senza qualche tornaconto: utilizzare la libertà fantastica e la fin troppo esaltata e ba nalizzata “leggerezza” calviniana [...] GIANGIACOMO AMORETTI Calvino e la poesia Questo intervento vuole rispondere a un interrogati vo che forse potrà essere giudicato non del tutto illegittimo, anche se certo non centrale nella valutazione dell’opera cal viniana: che rapporto volle intrattenere con la poesia uno scrittore che davvero, come Calvino, sembra nato per rac contare ed anzi sembra essere per così dire il tipo stesso del narratore in prosa: una sorta quindi – se vogliamo – di anti-poeta? Che cosa ne pensava della poesia? come la valu tava, come la interpretava? Cercherò qui di dare una breve ed essenziale rispo sta a queste domande, senza alcuna pretesa ovviamente di esaustività, limitandomi soltanto ai punti che mi sembrano fondamentali per comprendere il rapporto fra Calvino e la poesia. A tale scopo, il mio intervento sarà suddiviso in tre parti: dapprima cercherò di chiarire che cosa sia, a livello di teoria letteraria o di poetica, la poesia per Calvino o – che è lo stesso – quali rapporti vi siano per lui tra la poesia da una parte e la prosa narrativa dall’altra; in secondo luogo considererò, in modo inevitabilmente molto succinto, il no stro autore come critico o lettore di poesia; e infine porrò l’attenzione su alcuni dei pochissimi testi poetici da lui composti. *** Quando Calvino inizia a scrivere, subito finita la guerra, è evidente la sua partecipazione a un clima cultu rale in cui l’esigenza entusiastica di un drastico rinnova mento letterario si manifesta anche nell’auspicio di una forte politicizzazione della letteratura e quindi, per quanto riguarda la poesia, di una rapida fuoriuscita di essa dal l’ermetismo. Ed è con palese soddisfazione che Calvino re gistra la “conversione” a una nuova letteratura civile di tan ti poeti ermetici o vicini all’ermetismo. Si veda come, in un articolo del 1947, egli sottolinei compiaciuto la presenza, fra i vincitori di un premio letterario indetto allora da “L’Unità”, di un poeta come Giorgio Caproni: “Poi è molto importante che sia stato premiato Caproni, che è scrittore d’esperienze squisitamente letterarie e pure ha sentito il bisogno d’uscire dal castello incantato, di trovare un terre no d’incontro con gli uomini che faticano e soffrono; im portante perché questa necessità di mettersi al fianco delle masse popolari s’è posta in questi ultimi anni alla nostra letteratura d’avanguardia come l’unica via d’uscita per sal varsi dalla crisi e dall’isterilimento”11; e di nuovo si veda la soddisfazione – siamo nel 1949 – manifestata a seguito della pubblicazione [...] 11 ITALO CALVINO, Saggi 1945-1985 a cura di MARIO BARENGHI, tomo primo, Milano, Mondadori, 1995, p.1476. CHIARA LOMBARDI Il cannocchiale di Calvino: come la letteratura scrive il paesaggio I would like to be Mercutio. Among his virtues, I admire above all his lightness, in a world full of brutality, his dreaming imagination – as the poet of Queen Mab – and at the same time his wisdom, as the voice of reason amid the fa natical hatreds of Capulets and Montagues. [...] a Don Quixote who knows very well what dreams are and what reality is, and he lives both with open eyes. (I. Calvino, risposta alla doman da What character in fiction or nonfiction would you most like to be?, in “The New York Times”, LXXXIX, 49, December 2, 1984, p. 42) Al rapporto tra l’immaginazione, il linguaggio e la realtà, e alla tensione che collega scrittura e vita fuori dai li bri, Calvino dedica, tra gli altri, il saggio del 1985 Mondo scritto e non scritto, che riporta il testo di una conferenza tenuta all’Institute for the Humanities di New York. “La no stra vita è programmata per la lettura” – scrive l’autore, – “e mi accorgo che sto cercando di leggere il paesaggio, il prato, le onde del mare [...] Leggere, più che un esercizio ottico, è un processo che coinvolge mente e occhi insieme, un processo di astrazione o meglio un’estrazione di concre tezza”12. Si tratta di frantumare e ricomporre “in segmenti significativi, scoprire intorno a noi regolarità, differenze, ricorrenze, singolarità, sostituzioni, ridondanze”13. Ritroviamo qui l’equazione, già galileiana, tra il libro e il mondo fisico, il cosmo, il libro della natura14, che in Calvino è estremamente dinamica e duttile, collegata da una parte alla presenza della storia e della temporalità nello spazio – tempo che si manifesta anche sotto forma di ero sione, consumo, entropia15 – come leggiamo nelle pagine di Collezione di sabbia (in particolare La forma del tempo. Giappone); e, dall’altra, alle infinite possibilità combinato rie che accomunano la cosmologia e la fisica all’atto della lettura o della scrittura, o della riscrittura (scrittura del mondo, ma anche “scrittura di secondo grado” 16, palinsesto di altre voci, suggestioni, influenze). Sempre in La forma del tempo, Calvino scrive che viaggiare “serve a riattivare per un momento l’uso degli oc chi, la lettura visiva del mondo”17. Il rapporto tra paesaggio 12 I. CALVINO, Mondo scritto e non scritto, in Saggi. 1945-1985, a cura di M. BARENGHI, Milano, Mondadori, 1995, 2 voll., II, pp. 1865-1875, p. 1871. 13 Ibidem. 14 Cfr. G. POLIZZI, La letteratura italiana dinanzi al cosmo: Calvino tra Ga lileo e Leopardi, in «Lettere italiane», 62 (2010), 1, pp. 63-107. 15 Cfr. M. C. BARRADO, Los signos y los tiempos en México, en ‘Palomar’ y ‘Collezione di sabbia’. II: La entropia, in «Cuadernos de filología italiana», 2001 (8), 207-219. 16 G. GENETTE, Palinsesti (1982), Torino, Einaudi, 1997. 17 I. CALVINO, La forma del tempo. Giappone, in Saggi, cit., I, pp. 561-625, p. 566. e lettura, infatti, implica la relazione tra visione e interpre tazione del mondo, un’interpretazione che fa del racconto – sul modello di Sterne e Diderot18 – interrogazione, doman da, possibilità e non soluzione. Punto di partenza, scrive l’autore in una lettera del 1960 a François Wahl, è l’imma gine: “l’unica cosa che vorrei insegnare è un modo di guar dare, cioè di essere al mondo”19. Non trascurabile è, sulla concezione e composizione calviniana dell’immagine, la convergenza tra meditazione filosofica, letteratura e scien za, secondo una linea di percezione [...] 18 Si vedano le Lezioni americane. Sei proposte per il nuovo millennio, Mi lano, Mondadori, ed. 2002 (in particolare pp. 53-54) e il capitolo intitolato Denis Diderot. Jacques le fataliste, in Perché leggere i classici, Milano, Mondadori, ed. 2002, pp. 115-120. 19 In Lettere. 1940-1985, a cura di L. BARANELLI, Milano, Mondadori, 2000, pp. 668-669; cfr. M. BELPOLITI, L’occhio di Calvino, Torino, Einaudi, 2006. ALESSANDRO OTTAVIANI Qualcosa di gelosamente mio: paesaggi della Resistenza nella narrativa di Italo Calvino 25 aprile 1970. Sembrerà pure una suggestiva coin cidenza, ma quando Calvino concedeva a «Le Monde» una delle sue più note interviste, correva esattamente il venti cinquesimo anniversario della Liberazione: Ho vissuto i primi venticinque anni (o quasi) della mia vita dentro un paesaggio. Senza mai uscirne. È un paesaggio che non posso più perdere, perché so lo ciò che esiste interamente nella memoria è defini tivo. In seguito ho vissuto altri venticinque anni (o quasi) in mezzo alla carta stampata: dovunque mi tro vo, mi circonda un paesaggio ininterrotto di carta.20 Nato il 15 ottobre 1923, alla data dell’intervista Cal vino distava ancora tre anni e mezzo dal traguardo a cifra tonda dei cinquanta. Perché dunque aggiungere quegli anni all’esistenza fin lì trascorsa, dividerli in due periodi uguali 20 «Nous vivons désormais dans une métropole unique», intervista di Françoise Wagener, «Le Monde», 25 aprile 1970, in ITALO CALVINO, Sono nato in America... Interviste 1951-1985, a cura di LUCA BARANELLI, Introduzione di MARIO BARENGHI, Mondadori, Milano, 2002, pp. 154-155. di «venticinque anni» ciascuno e giocare sulle approssima zioni («o quasi»)? Se non si trattasse di Calvino si direbbe per como dità o si parlerebbe di un’innocente imprecisione dettata dalla natura di per sé estemporanea dell’intervista. O anco ra più probabilmente, neppure se ne parlerebbe. Ma di Calvino si tratta, ed è risaputa la sua inguaribile insoffe renza di fronte all’ingabbiante esattezza del dato biografi co,21 tale da indurlo in più occasioni a instillare nell’interlo cutore il dubbio sulla congruente attendibilità delle proprie attestazioni,22 o addirittura a giocare di anticipo preparan dosi con cura le risposte e arrivando in molti casi a scriversi lui stesso le domande.23 21 Basti ricordare quanto scriverà a Claudio Milanini il 27 luglio 1985, dopo aver messo mano alla propria biografia per l’edizione scolastica del Cava liere inesistente (Garzanti, Milano, 1986): «Ogni volta che rivedo la mia vita fissata e oggettivata sono preso dall’angoscia, soprattutto quando si tratta di notizie che ho fornito io. Così ho sentito il bisogno di riscrivere la prima pagina, non perché ci fosse qualcosa di sbagliato ma perché ridicendo le stesse cose con altre parole spero sempre di aggirare il mio rapporto nevrotico con l’autobiografia» (CALVINO, Lettere 1940-1985, a cura di LUCA BARANELLI, Introduzione di CLAUDIO MILANINI, Mondadori, Milano, p. 1538). 22 Cfr. la lettera a Germana Pescio Bottino del 9 giugno 1964: «io sono ancora di quelli che credono, con Croce, che di un autore contano solo le opere. (Quando contano naturalmente). Perciò dati biografici non ne do, o li do falsi, o comunque cerco sempre di cambiarli da una volta all’altra. Mi chieda pure quel che vuole sapere, e Glielo dirò. Ma non le dirò mai la verità, di questo può star sicura» (CALVINO, I libri degli altri. Lettere 1947-1981, a cura di GIOVANNI TESIO, con una nota di CARLO FRUTTERO, Einaudi, Torino, 1991, p. 479). 23 Esemplare il caso della pseudo-intervista concessa a Ferdinando Camon per il suo volume Il mestiere di scrittore. Conversazioni critiche (Garzanti, Considerato che il suo primo trasferimento da San remo a Torino – coincidente con i primi tentativi letterari di una qualche rilievanza24 – ebbe luogo con la maggiore età, un Calvino diligente autobiografo avrebbe dovuto divi dere la propria esistenza pregressa in un primo periodo di diciotto anni (1923-’41) e in un secondo di ventinove non ancora compiuti (1941-’70). Ma in questo modo sarebbe venuta meno la perfetta simmetria tra una metà vissuta «dentro» un paesaggio reale [...] Milano, 1973), soprattutto alla luce di quanto confessato a Edoardo Sangui neti in una lettera del 5 febbraio 1974: «Lo stato di consistenza delle mie idee oggi mi porta a preferire al genere saggio – e a quel tanto di perento rietà che esso esige – il genere dialogo, dialogo vero cioè discutendo con un interlocutore non fittizio, ma pur sempre dialogo finto cioè scritto facendo finta di parlare. (Integrando o meno una discussione a voce). Ho cominciato a praticare questo genere l’anno scorso scrivendo delle finte risposte parlate a Ferdinando Camon per la riedizione del suo peraltro non ameno libro Il mestiere di scrittore, cioè adattando o inventando le sue domande o obiezioni a mie risposte. E mi sono accorto che questo è il sistema più indicato per me per fare delle discussioni, dico farle per scritto con l’aria di chiacchierare» (CALVINO, Lettere, cit., pp. 1226-1227). 24 Nel maggio del 1942 aveva raccolto i propri racconti di sapore zavattiniano, iniziati la precedente primavera, e aveva provato temerariamente a proporli ad Einaudi con il titolo Pazzo io o pazzi gli altri. Su questa e le altre prove giovanili di Calvino, non soltanto in ambito narrativo, cfr. PIETRO FERRUA, Opere giovanili di Italo Calvino, in Italo Calvino la letteratura, la scienza, la città, Atti del convegno nazionale di studi di Sanremo (28-29 novembre 1986), a cura di GIORGIO BERTONE, Marietti, Genova, 1988, pp. 50-59; e la più recente ricostruzione, condotta a partire dalla corrispondenza con Eugenio Scalfari, nella preziosa monografia di FRANCESCA SERRA, Calvino, Salerno, Roma, 2006, pp. 33-44. ANTEPRIMA GRATUITA Col patrocinio del DIRAAS (Dipartimento di Italianistica, Romanistica, An tichistica, Arti e Spettacolo) dell’Università di Genova e del Dipartimento di Studi Umanistici (StudiUm) dell’Università di Torino Questo volume è pubblicato con il contributo della Fondazione De Mari
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