Ero una delle educande... Era stato mio padre a decidere che sarebbe stato meglio per me continuare gli studi in collegio e c’era un buon motivo alla base di tale decisione che papà esponeva credo, con sincero dispiacere, a tutti quelli che gli chiedevano: “Ma …? Come mai? Perché?...” Non venivo allontanata da casa per mancanza di volontà o incapacità nello studio o perché indisciplinata, ma lo spazio insufficiente di cui potevamo disporre nella nostra piccola casa, composta da tre locali senza corridoio, era la causa del mio “allontanamento”. La camera da letto era una stanza di dimensioni normali però, dopo la nascita di mio fratello, diventò davvero insufficiente per quattro persone, troppe in una sola stanza. Inoltre, gli amici più cari mi riferirono, quando fui in grado di coglierne a pieno il significato, che io, entrata nella difficile età della pubertà, per la curiosità che mi ha sempre distinto, al minimo rumore notturno, ponevo ai miei genitori troppe domande. Ero, dunque, una delle educande che studiavano all’interno dell’ istituto di suore a cui eravamo state affettuosamente affidate dai genitori o da “chi ne faceva le veci”. L’istituto, “il collegio” che non era proprio un “college”, era in una buona posizione in collina, all’entrata del piccolo paese annoverato tra quelli che tutto il mondo conosce come “Castelli Romani” a poche decine di chilometri da casa mia. L’edificio era grande, a più piani, con un gran giardino dove si alzavano numerosi alberi secolari, pini e lecci che ci nascondevano alla vista dei paesani, come se l’alto muro di cinta non bastasse. Non ho altri ricordi del giorno in cui vi arrivai se non la sensazione di smarrimento in quegli ambienti enormi con delle grandi finestre protette da inferriate. Quando, nel grande dormitorio dove mi erano stati assegnati letto e armadietto, la suora che mi aveva accompagnato sparì per non so quale motivo, mi prese un groppo alla gola… Avrei voluto chiamare “Mamma” che sapevo contraria alla mia entrata in collegio, correre tra le sue braccia perché sicuramente stava vivendo il distacco con il mio stesso dolore. La suora si riaffacciò proprio in concomitanza del suono acuto e prolungato di una campanella che mi aveva fatto sussultare e messo in uno stato di ansia mai provato prima. Questa anima consacrata a Dio, senza troppi preamboli e con fare autoritario, mi disse che dovevo sbrigarmi e scendere per la cena al piano terra dove si trovava il refettorio. Vista la mia espressione interrogativa, poi, mi spiegò gentilmente che era la stanza dove tutte le educande consumavano ogni giorno i pasti principali. Quando fui pronta a scendere, però, il panico s’impadronì di me perché non trovavo la rampa delle scale che comunicava con i piani sottostanti! Continuavo a girare per tutti i corridoi cercando di ricostruire il percorso, inverso a quello fatto per salire, senza alcun risultato. Il tempo passava e il fatto che non incontrassi anima viva faceva salire la mia disperazione… ormai correvo in tondo, come in un labirinto, tornavo sempre allo stesso punto ma di scale non se ne vedeva nemmeno l’ombra. Quando finalmente riapparve la suora che mi aveva sollecitato a scendere, al suo “Ma dove vai? Dai, vieni con me!”, tornai a respirare di nuovo e lasciai cadere le lacrime che avevo trattenuto fino ad allora abbandonandomi ad un pianto liberatorio. Dopo questo primo impatto non proprio felice, cominciai a prendere più dimestichezza con il grande edificio e dopo pochi giorni già sapevo ben orientarmi in quello che all’arrivo mi era sembrato un labirinto. L’istituto ospitava bambine delle elementari, adolescenti di scuola media, come me, e “signorine” che frequentavano istituti superiori che però non erano in sede. Feci amicizia un po’ con tutti sia con le mie coetanee che con le “piccole” e con le “grandi” grazie anche al mio carattere aperto, disponibile ad ascoltare ed aiutare gli altri. Al terzo anno di permanenza ero perfettamente integrata, conoscevo e rispettavo senza difficoltà il regolamento interno, avevo buoni rapporti con tutte le suore anche se, non sempre, sapevo contenere la mimica facciale e gli sguardi che rivelano non solo il mio umore ma anche le mie simpatie ed antipatie. Nell’organizzazione quotidiana ero ricercata da molte suore che mi chiedevano aiuto per la mia manualità che raggiungeva velocemente gli obiettivi più ardui perché le mie piccole mani, la pazienza che mi ha sempre accompagnato ed anche l’intuito erano strumenti infallibili per esecuzioni ben fatte. Lavoretti, fiori di carta, cestini di rafia, ricami ed altro erano i miei preferiti… ma non disdegnavo il gioco! Quante partite a “palla avvelenata”! ... Frequentavo con buon profitto, dunque, la terza classe della scuola media la cui sede era all’interno del collegio. Non ero mai stata ripresa per motivi gravi o in qualche modo eclatanti e, se non ero una vera allieva “modello”, con un piccolo sforzo avrei potuto fregiarmi pure di tale titolo, ma … Nella vita ci sono sempre questi “ma” che, quando meno te l’aspetti, cambiano le carte in tavola e il corso degli avvenimenti. C’era, tra noi interne, una mia compagna di classe di cui non rammento il nome ma il cui ricordo è vivo perché si è legato al gusto amaro e dolce che mi procurò. Questa ragazza era taciturna e le nostre tutrici ci avevano precluso di istaurare con lei rapporti amichevoli e altri tipi di intrattenimento anche solo verbale. Le solite ben informate dicevano che era stata scaricata in collegio per prevenzione e le avevo sentite sussurrare “…a dodici anni è rimasta incinta!” Nel mese di aprile ero stata a lungo malata per la complicanza di una influenza mal curata e costretta a rimanere a letto e ad assentarmi da scuola. Ancora ho nelle orecchie lo sbuffare delle suore novizie che venivano a portarmi il pranzo su fino al quarto piano dove, nel grande dormitorio, dormivamo in tante. Quando, finalmente guarita, tornai a scuola era rimasto un solo mese per prepararmi agli esami e nessuna compagna libera e disponibile a studiare con me tranne la ragazza a cui non potevamo rivolgere la parola. Non ci pensai due volte ed, in modo noioso e insistente, tanto pregai la direttrice che riuscii a strapparle un consenso condizionato. Dunque potevamo studiare insieme solo ben in vista, sotto il controllo delle vigilatrici, nella stanza adibita a studio, senza fare “comunella” durante la ricreazione in giardino o nel grande spazio davanti al refettorio. Studiammo ma non le chiesi mai nulla del suo segreto, non volli sapere e non perché mi era stato proibito, ma per il rispetto che ho sempre avuto per l’altro, per quella che oggi chiamiamo “privacy”. Fu comunque dura. Mi sembrava di essere nel parlatorio di un carcere, sempre osservate, controllate e richiamate se ci scappava qualche sorriso o scambiavamo qualche parola non inerente all’argomento di studio. Perdevo a poco a poco tutta la considerazione positiva, il titolo di brava ragazza che mi ero conquistata negli anni precedenti e certe suore non mi cercavano più per i lavoretti che tanto amavo. Mi stavo affezionando a quella ragazza sempre di più e faticavo a non giocare e a non condividere le piccole gioie e i segreti di quella età con lei. Mancavano pochi giorni agli esami, noi educande eravamo molto tese nel grande dormitorio dove ci stavamo preparando per metterci a letto. La suora, una creatura asessuata e spigolosa, scarna ed alta, che ci aveva accompagnato e che avrebbe dormito con noi nel suo grande letto protetto da un tenda bianca, ci volle fare un regalo. Cominciò a raccontare una barzelletta che doveva, nelle sue intenzioni rilassarci, e predisporci ad un sonno tranquillo. Io non riuscivo a seguirla, mi giravo a guardare la mia amica, sola, seduta sul suo letto perchè non aveva voglia di unirsi a sentire le facezie della suora. Spesso aveva momenti di malinconia e si appartava, chissà quali pensieri le passavano per la testa, quali esperienze dolorose ricordava. Stavo male vedendola in quello stato, chiedevo aiuto con gli occhi alla suora che sicuramente aveva capito, ma che per tutta risposta non seppe far altro che alzare la voce e invitarmi a guardarla senza distrarmi. “Senza distrarmi!”… Non la ressi più, mi alzai e mi diressi verso la mia amica incurante dei suoi richiami e delle sue minacce. Sedute sul letto della mia amica, dopo il mio “Che fai?” e il suo “Niente” rimanemmo senza parlare e senza far altro che guardare nel vuoto. Quando cercavo il suo sguardo poche volte accettò il mio invito, ma io rimasi accanto a lei ugualmente, mi sembrava di aiutarla a portare un peso, anche in silenzio. Quando me ne andai a letto lei mi sorrise e questo sorriso mi ripagò di tutto, dei rimproveri e del resto, che consapevole delle conseguenze, mi ero guadagnata con il mio comportamento. Il giorno dopo, la domenica che precedeva gli esami, all’uscita della messa vidi la suora ossuta che parlava sottovoce alla direttrice che taceva scura in volto. Quando mi vide, mi fece un cenno di richiamo. Mi avvicinai e fui sottoposta ad una sfilza di domande sul perché del mio comportamento disubbidiente. Le mie risposte non le piacquero e cominciò a rimbrottarmi in modo energico… Alzai la voce per rivendicare i diritti umani di chi è in difficoltà e li difesi con forza senza piegare la testa neanche quando la direttrice mi sibilò che mi avrebbe espulsa. Mancavano poche ore alla visita dei parenti, in cui avrei potuto abbracciare papà, non mamma che rimaneva a Roma con mio fratello perché entrambi soffrivano il mal d’auto e i pullman di linea con i loro “odori” erano scatenanti. Trascorsi il tempo fremendo, ma senza pentirmi del mio comportamento. L’avrei fatto di nuovo ancora mille volte, pensavo solo al dolore che avrei dato ai miei se la direttrice avesse mantenuto la promessa. Speravo in un ripensamento, una riconsiderazione del mio agire in cui non riuscivo a individuare una grave mancanza, avevo disubbidito alle mie educatrici “solo” per confortare un’amica... La motivazione non fu sufficiente a giustificarmi e la direttrice mantenne la promessa.
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