Richard Castle

Opere di Richard Castle
pubblicate da Fazi Editore
Heat Wave
Naked Heat
Heat Rises
Frozen Heat
I racconti di Derrick Storm
Storm Front
I edizione: aprile 2014
Castle © ABC Studios. All Rights Reserved
Originally published in the United States and Canada as Deadly Heat
by Richard Castle. This translated edition published by arrangement
with Kingswell, an imprint of Disney Book Group, LLC.
Fazi Editore srl
Via Isonzo 42, Roma
Tutti i diritti riservati
Titolo originale: Deadly Heat
Traduzione dall’inglese di Giuseppe Marano
ISBN 978-88-7625-579-3
www.fazieditore.it
www.ebookfazieditore.it
Richard Castle
Deadly Heat
traduzione di Giuseppe Marano
A KB:
Perché la danza non finisca
e la musica non si fermi mai
Uno
La detective della Omicidi del NYPD Nikki Heat
parcheggiò in doppia fila la Crown Victoria grigia dietro il furgone del coroner e si avviò a grandi passi verso la pizzeria dove l’attendeva un cadavere. Un agente
in divisa a maniche corte sollevò con un dito il nastro
giallo per farla passare, e quando lei raddrizzò la testa
dall’altra parte si fermò, lasciando cadere lo sguardo su
Broadway. In quel momento, venti isolati più a sud, il
suo fidanzato Jameson Rook stava ricevendo applausi
e congratulazioni a un evento per la stampa a Times
Square in cui si celebrava la pubblicazione del suo
nuovo grande articolo. Un articolo talmente importante che l’editore ne aveva fatto la storia di copertina per
il lancio del sito Internet della rivista. Heat avrebbe
dovuto esserne felice. Invece si sentiva come se le avessero strappato le budella. Perché quel grande articolo
parlava di lei.
Fece un passo per entrare, ma soltanto uno. Quel
cadavere non sarebbe andato da nessuna parte, e lei
aveva bisogno di un momento per imprecare contro se
stessa e la sua decisione di aiutare Rook a scrivere l’articolo.
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Qualche settimana prima, quando gli aveva dato il
benestare per una cronaca delle indagini sull’omicidio
della madre, le era sembrata una buona idea. Forse
non proprio buona, ma quantomeno saggia. La drammatica cattura dell’impensabile assassino dopo più di
dieci anni era una notizia calda e Rook l’aveva detto
senza mezzi termini: ne avrebbero scritto comunque.
Preferiva un giornalista vincitore del premio Pulitzer o
qualche scribacchino da tabloid?
Le interviste di Rook erano state intense ed erano
durate un intero fine settimana. Con un registratore digitale a farle da sentinella, Heat era partita dalla vigilia
del Ringraziamento del 1999. Lei e la mamma quel
giorno volevano preparare delle torte e Nikki l’aveva
chiamata dalla corsia delle spezie di un supermercato,
soltanto per sentire sua madre che veniva uccisa a coltellate durante la telefonata, mentre lei correva a casa,
sconvolta e impotente.
Gli aveva raccontato del cambio di corso di laurea
da arte drammatica a diritto penale per poter entrare in
polizia, invece di diventare un’attrice come aveva sempre sognato. «Un omicidio cambia tutto», aveva detto.
Heat aveva condiviso con lui la frustrazione nella
sua ricerca di giustizia durante il decennio successivo.
E lo shock di un mese prima, quando le era capitato un
colpo di fortuna e una valigia trafugata dall’appartamento della madre la sera dell’omicidio era ricomparsa
sulla scena di un delitto, con il corpo di una donna all’interno. Il percorso per risolvere il caso della signora
nella valigia aveva condotto Heat in un viaggio imprevisto nel passato nascosto della madre. La pista l’aveva
portata a Parigi, dove Nikki aveva appreso con stupore
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che Cynthia Heat era una spia della CIA. Fingendosi insegnante di pianoforte, la mamma sfruttava le lezioni di
musica come copertura per ottenere accesso alle case di
diplomatici e industriali e spiarne le attività.
Nikki aveva appreso tutto questo al capezzale del
vecchio supervisore alla CIA di sua madre, Tyler Wynn.
Ma poiché le spie sono spie, il vecchio aveva inscenato
la propria morte per depistarla. Nikki lo aveva scoperto a proprie spese quando il mentore della mamma era
riapparso, pistola in pugno, per sottrarle i documenti
segreti e incriminanti che avevano portato alla morte
di Cynthia Heat. Perché? Perché Cynthia Heat aveva
scoperto che il suo fidato amico, Tyler Wynn, era un
traditore.
Durante l’intervista, Nikki confessò che non c’era
stato bisogno di immaginare la sensazione di tradimento provata dalla madre. L’aveva sperimentata lei stessa
quando il suo ragazzo del college, Petar, era sbucato dal
nulla accanto a Wynn, puntandole una pistola addosso.
E, con maggior intensità, mentre la vecchia spia si dileguava con la borsa contenente le prove schiaccianti e
impartiva l’ultimo ordine all’ex di Nikki: ucciderla, così come aveva ucciso la madre.
A quel punto, Rook aveva messo in pausa il registratore Olympus per cambiare le batterie, ma in realtà voleva darle modo di riprendersi dall’emozione. Quando
ricominciarono, lei ammise di aver sempre dato per
scontato, in cuor suo, che una volta catturato l’assassino
della mamma quella ferita si sarebbe finalmente rimarginata. Invece si era riaperta e sanguinava. Il dolore non si
era attenuato e bruciava. Sì, era riuscita ad arrestare Petar, ma la mente dell’operazione era fuggita sparendo nel
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nulla. E Petar non sarebbe stato d’aiuto per rintracciarlo. Non dopo che uno dei complici di Wynn gli aveva
sfacciatamente avvelenato la cena nella cella del carcere.
Heat si era aperta a Rook con un’intimità che non
avrebbe mai potuto immaginare un anno prima, quando le avevano appioppato quel famoso giornalista che
voleva affiancarla sul campo per un’inchiesta. Prima di
Rook, Nikki aveva sempre creduto che al mondo esistessero due coppie di nemici naturali: guardie e ladri,
poliziotti e giornalisti. Quella convinzione si era ammorbidita durante l’ondata di caldo dell’ultima estate,
quando avevano finito per innamorarsi mentre si occupavano del loro primo caso. Ammorbidita, forse,
ma, anche da innamorati, tra poliziotti e giornalisti non
sarebbe mai stata facile. E quella relazione li metteva
costantemente alla prova.
La prima era arrivata in autunno, quando il frutto
della collaborazione di Rook con la Squadra Omicidi
era stato pubblicato come storia di copertina su una rivista a diffusione nazionale e il volto di Nikki aveva
campeggiato nelle edicole per un mese. Tutta quell’attenzione l’aveva messa a disagio. E vedere le sue esperienze private tradotte in prosa le aveva dato una sensazione angosciante sul suo ruolo di musa per Rook.
La vita che stavano vivendo era veramente loro, o era
solo materiale di ispirazione?
E adesso, con quel nuovo articolo che stava per travolgere la rete, quelli che una volta erano solo dei dubbi
sull’opportunità di esporsi in pubblico erano esplosi in
vera e propria ansia. Questa volta non per la paura di finire sotto i riflettori, ma per il timore di danneggiare le
indagini in corso. Perché per la detective Heat quel caso
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non era un dettaglio in sospeso: era un cavo scoperto, e
per Nikki la pubblicità era nemica della giustizia. E in
quel momento, a un chilometro e mezzo di distanza, a
Times Square, il genio stava per uscire dalla lampada.
Se non altro, Nikki era contenta di aver tenuto per
sé un grande segreto. Talmente esplosivo che non l’aveva confidato nemmeno a Rook.
«Vieni dentro?». Il detective Ochoa la scosse di colpo dai suoi pensieri, riportandola al presente. Era fermo dietro la porta di vetro del Domingo’s Famous e la
teneva aperta per lei. Heat esitò, poi abbandonò le sue
preoccupazioni e oltrepassò la soglia.
«Ne abbiamo una da segnare», disse il collega di
Ochoa, Sean Raley. I due detective, soprannominati
Roach con una fusione dei loro nomi, condussero Heat
oltre i tavoli di formica vuoti che si sarebbero riempiti
per pranzo poche ore dopo, non fosse stato per l’omicidio. Giunti in cucina, Raley disse: «Pronta per la novità?». Appoggiò la mano guantata sullo sportello più
alto del forno per la pizza e lo abbassò, mostrando la
vittima. O ciò che ne rimaneva.
L’uomo – tale sembrava – era stato infilato dentro sul
fianco, piegato per farlo entrare tutto, e carbonizzato.
Nikki guardò Raley, poi Ochoa e poi di nuovo il cadavere. Il forno emanava ancora un accenno di calore e il
corpo assomigliava a una mummia. Quando lo avevano
messo dentro era vestito. Brandelli di stoffa bruciata
pendevano dalle braccia e dalle gambe e avvolgevano
parti del busto come una coperta disintegrata.
L’espressione di macabro divertimento sul volto di
Raley svanì e il detective andò verso di lei. Ochoa lo
raggiunse, scrutando Heat. «Ti senti male?».
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«No, sto bene». Armeggiò per infilarsi un paio di
guanti azzurri usa e getta e poi aggiunse: «Ho solo dimenticato una cosa». Nikki lo disse con tono sbrigativo,
come se non fosse nulla di importante. Ma per lei lo era.
Quello che aveva dimenticato era il suo rituale. La piccola cerimonia privata a cui prendeva parte ogni volta
che arrivava sul luogo di un delitto. Qualche istante di
silenzio prima di entrare, per rendere omaggio alla vita
della vittima che stava per incontrare. Era un rituale generato dall’empatia. Un rito comune come la preghiera
prima di un pasto. E quel giorno, per la prima volta in
vita sua, Nikki Heat aveva dimenticato di osservarlo.
Quella dimenticanza la infastidiva, eppure forse era
inevitabile. Negli ultimi tempi, occuparsi di omicidi di
routine era diventata una distrazione che le impediva di
concentrarsi a fondo sul caso più importante. Naturalmente non poteva confidarlo a nessuno della sua squadra, però si era lamentata con Rook di quanto fosse difficile tentare di chiudere un capitolo quando continuavano ad aprirsene altri. Lui le aveva citato le parole di
John Lennon: «La vita è quello che ti capita mentre sei
impegnato a fare altri progetti».
«Il problema», aveva risposto lei, «è che a me capita la morte».
«Lo hanno trovato i cuochi, quando hanno aperto
la cucina», cominciò a dire Raley.
Ochoa s’inserì subito nel discorso. «Il forno caldo li
ha insospettiti. Hanno aperto lo sportello e hanno trovato il nostro arrosticino». I Roach si scambiarono un
sorriso compiaciuto.
«Sapete benissimo che, solo perché Rook non c’è, non
siete obbligati a farne le veci». Avvicinò le mani al forno.
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Sembrava caldo, ma non rovente. «Lo hanno spento loro?».
«Negativo», disse Raley. «Il cuoco ha detto che era
già spento, quando sono arrivati».
«Qualche idea su chi sia la vittima?», domandò Heat,
sbirciando all’interno del forno. I danni provocati dal
calore avrebbero reso difficile riconoscerlo.
Ochoa scartabellò i suoi appunti. «Presumiamo che
si tratti di un certo Roy Conklin».
Il medico legale, Lauren Parry, si alzò dal suo kit da
laboratorio. «Ma rimane un’ipotesi, finché non possiamo analizzare le impronte dentali e il DNA».
«Un’ipotesi ragionevole», precisò Ochoa. Heat colse la benevola punzecchiatura alla dottoressa Parry, fidanzata non troppo segreta del detective. «Abbiamo
trovato un portafogli». Indicò il sacchetto per i reperti sul banco d’acciaio della cucina, contenente un blocchetto di cuoio completamente deteriorato e una patente dello Stato di New York deformata.
«E le stranezze non finiscono qui», disse Raley,
prendendo una minitorcia dal taschino del giubbotto
e puntandola sul cadavere. Heat si spostò più vicino e
Raley disse: «È abbastanza strano?».
Nikki annuì. «Stranissimo». Al collo della vittima
era appeso il tesserino plastificato di Roy Conklin, dipartimento di Sanità e Igiene Mentale della città di
New York.
Ochoa si spostò accanto a lei. «Li abbiamo già sentiti. Sei pronta? Il corpo in quel forno è di un ispettore
sanitario della ristorazione».
«E quella è senz’altro una violazione». Tutte le teste
si girarono verso quella voce familiare. E quella battu-
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ta. Jameson Rook entrò senza fretta, apparendo di
fronte a Nikki nel suo completo blu di Hugo Boss dal
taglio perfetto, con la cravatta antracite e viola che gli
aveva scelto lei. «Questo locale si ritroverà una bella
multa in vetrina entro stasera, state a vedere».
Heat gli andò vicino. «Non che non apprezzi il tuo
aiuto, ma che cosa è successo? Non mi dire che ti sei
annoiato del tuo grande evento mondano».
«Nient’affatto. Volevo restare per qualche saluto
dopo la ressa, ma poi Raley mi ha mandato un messaggio per avvertirmi. E grazie a Dio. Perché stare a gingillarsi con strette di mano e sorrisi, quando hai l’occasione di vedere…». Sbirciò nel forno. «Mio Dio. Un
alieno dall’Area 51».
I Roach apprezzarono l’umorismo macabro. Lauren
Parry non molto. «Che cos’hai sulla spalla, dei lustrini?», disse la dottoressa. «Fuori, prima che mi inquini
la scena».
Rook sorrise. «Se prendessi un nichelino ogni volta
che lo sento dire». Poi però si allontanò verso la sala da
pranzo e lasciò il soprabito sullo schienale di una sedia.
Ritornò proprio mentre due tecnici dell’OCME stavano
rimuovendo il corpo dal forno. Ochoa gli porse un
paio di guanti azzurri di nitrile perché li mettesse.
«Da’ un’occhiata a quel tesserino», disse Raley.
Heat si abbassò su un ginocchio accanto a lui per guardare più da vicino. Il cartellino identificativo di Conklin e il cordoncino non mostravano il minimo segno di
bruciatura o di fusione.
Rook si inginocchiò accanto a loro. «Questo significa che chi lo ha ucciso ha aspettato che il forno si raffreddasse o è tornato più tardi per metterglielo al collo».
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Nikki si voltò e lo guardò. «Ehi, non è giusto. Quella è
la tua faccia delle congetture azzardate. Non mi dire che
adesso romperai pure le palle per un tempestivo riepilogo dei fatti».
Ochoa, che era in piedi davanti al forno, disse: «Detective?». Heat si rialzò e seguì il raggio di luce della
torcia. Nell’angolo in fondo, dove il cadavere ne impediva la vista, c’era un cappotto piegato. Come il tesserino e il cordoncino, non mostrava segni di bruciatura.
Il detective Ochoa usò una lunga pala da pizza per sollevarlo. Quando lo fece scivolare verso di loro, nessuno
proferì parola. Rimasero con gli occhi fissi sul cappotto e su quello che c’era sopra: un laccetto rosso arrotolato e un topo morto.
Il detective Feller aveva già finito di interrogare il
cuoco e l’aiuto cameriere, quando Heat, Rook, Raley e
Ochoa uscirono dalla cucina. «Le loro versioni quadrano», riferì. «Hanno servito gli ultimi dolci a mezzanotte, hanno sparecchiato in fretta e all’una hanno
chiuso. Poi sono tornati alle nove e hanno trovato la
vittima». Sfogliò velocemente alcune pagine di appunti. «Nessuna attività insolita nei giorni precedenti, nessun segno di furto o di scasso. Hanno un impianto di
telecamere a circuito chiuso, ma si è guastato la settimana scorsa. Nessuna grana con clienti o fornitori.
Quanto all’ispettore sanitario, il nome e la foto di
Conklin non dicono niente a nessuno dei due. Non ho
specificato come avete scoperto l’identità, ovviamente,
ma quando ho chiesto, in modo generico, se avessero
toccato o spostato il corpo, la risposta è stata un duplice no».
«Appena recuperiamo una foto migliore dalla fami-
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glia o dal dipartimento sanitario, fagliela vedere. Nel
frattempo, lasciali pure andare».
Stabilire la causa e l’ora esatta del decesso sarebbe
stato complicato, perché un cadavere carbonizzato alterava le strutture cellulari e le temperature corporee.
E così, mentre lasciava che la sua cara amica dottoressa portasse la salma a 30th Street per l’autopsia, Heat
pianificò le prime mosse dei suoi uomini. Ochoa avrebbe messo in campo una squadra di agenti per battere a
tappeto il quartiere con delle copie della fototessera di
Conklin scattate al cellulare. Una volta avviati, Ochoa
si sarebbe recato a casa della vittima per avvisare i familiari e vedere cosa si poteva apprendere da loro. Raley avrebbe svolto la solita perlustrazione alla ricerca di
telecamere di sorveglianza che potevano aver ripreso
qualcosa. Heat mandò il detective Feller al dipartimento di Sanità per procurarsi i documenti di lavoro di
Conklin e informarsi con il dirigente sul suo impiego
specifico e i rapporti con l’ufficio. Quanto a Rook, si
offrì di partecipare come cervello in più alla riunione
della squadra e Nikki non poté trattenersi dal dire:
«Certo, anche se ti sopravvaluti».
Quando uscirono dal Domingo’s Famous, Rook
scrollò il capo con sdegno davanti all’assembramento
di persone dietro il nastro giallo. «Sai, Nikki, non riesco proprio a capacitarmi dei curiosi che si accalcano
per il gusto tetro di vedere un sacco caricato su un furgone. È una roba da guardoni».
Una voce si levò dalla folla. «Jameson? Jameson
Rook?». Si fermarono. «Eccomi, di qua!». Il braccio
che si agitava apparteneva a una giovane donna dalla
capigliatura voluminosa, con dei pantaloni di pelle ne-
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ra e dei tacchi a spillo che, per usare un eufemismo, si
potevano definire “provocanti”. Si fece largo a spintoni tra gli astanti e schiacciò tutte le rotondità del suo
giubbino leopardato contro il nastro giallo. «Posso farmi una foto con te?… Ti prego».
Imbarazzato, Rook mormorò a Nikki: «Mi viene in
mente che, dopo la cosa a Times Square, forse ho scritto su Twitter che stavo venendo qui…».
«Sbrigati». E mentre Rook si dirigeva verso la donna, Nikki aggiunse: «E adesso capisci perché Matt
Lauer si disinfetta sempre le mani».
Heat aspettò in macchina mentre Rook si metteva
in posa non solo con quella fan, ma anche con altre tre
bambole che si erano materializzate dalla folla. Perlomeno stavolta non stava autografando seni.
Nikki controllò rapidamente le email. «Sììì», esclamò
ad alta voce nell’auto vuota quando ne vide una dall’investigatore privato di cui aspettava notizie. «Hai finito?»,
disse quando Rook si sistemò sul sedile del passeggero.
«La foto era solo l’inizio. Ha voluto che la postassi
su Twitter io stesso, con l’hashtag #belloevirile». Inclinò il capo sul poggiatesta e disse: «A quanto pare,
sono già un trending topic».
Nikki avviò il motore. «Ti ricordi Joe Flynn?».
Rook si tirò su a sedere. «Chi, l’investigatore che
sbava per te? No».
«Be’, quell’investigatore mi ha fatto il favore di scavare nei suoi archivi e ha trovato delle vecchie foto di
mia madre. Vuole vedermi a pranzo».
«Mi pareva che avessi convocato una riunione tra
un’ora per parlare di Krusty il Cadavere». E poi aggiunse solennemente: «Riposi in pace».
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Heat tamburellò con la punta delle dita sul volante,
avvertendo ancora una volta il conflitto con il solito
tran tran di un omicidio. Fece un rapido calcolo. «Gli
diremo che dev’essere un boccone veloce».
«OK», disse Rook con un’occhiata in tralice alla scena del crimine. «Ma niente pizza. Tanto per dire».
Dato che Heat e Rook non avevano tempo di rimanere bloccati in un ristorante per due ore di chiacchiere
e aneddoti da dessert, Joe Flynn aveva organizzato un
buffet freddo nella sala riunioni della Quantum Recovery, la sua agenzia investigativa d’élite con sede in cima
all’esclusivo Sole Building. Si era fatto portare un vassoio di affettati da Citarella, con prosciutto di Parma,
roast beef, Jarlsberg e Muenster, accompagnati da mostarde rustiche e maionese alle erbe. Rifiutarono cortesemente le birre artigianali che spuntavano dai cestelli di
ghiaccio tritato e optarono per l’acqua minerale Saratoga, che il loro ospite si premurò di versare nei bicchieri.
«Ne hai fatta di strada dagli inizi, Joe», disse Rook,
sgranocchiando un cetriolino di fronte all’enorme vetrata che dava su Midtown Manhattan.
«Da quando facevo le poste agli adulteri negli alberghi a ore per trecento dollari al giorno, vuoi dire?».
Raggiunse Rook e ammirò la giornata di primavera insieme a lui. «Direi che il recupero delle opere d’arte mi
ha facilitato un po’ la vita. E poi non sento più il bisogno di una doccia dopo aver incassato l’assegno».
Prima che Joe Flynn arrivasse ai piani alti e agli ascensori rapidi che li accompagnavano, la mamma di Nikki
era stata oggetto di una delle sue investigazioni per adul-
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terio, commissionata dal papà di Nikki. Preoccupato per
la vita sempre più misteriosa di Cynthia Heat, nel 1999
il marito aveva ingaggiato Flynn perché sospettava che
la moglie avesse una relazione. Flynn non aveva mai trovato prove di infedeltà, ma durante gli appostamenti
aveva scattato delle fotografie che adesso potevano rivelarsi utili per la ricerca di Tyler Wynn.
Proprio mentre Nikki si avvicinava timidamente, incapace di resistere alla vista dell’Empire State Building
e, in lontananza, tra i grattacieli, di un lembo di Staten
Island, Rook ricevette una telefonata al cellulare e uscì
dalla stanza per rispondere, scusandosi. Appena la
porta si chiuse, Joe Flynn disse: «Beato lui». Nikki si
voltò e se lo trovò con gli occhi fissi su di lei, raggiante
come uno speranzoso venditore di Antiques Roadshow
in attesa del verdetto del perito. Nikki sperò che squillasse anche il suo telefono. Invece cambiò discorso.
«Le sono grata per aver cercato quelle foto».
«Oh, giusto». Flynn cacciò di tasca una penna USB
e se la rigirò fra le dita di una mano, senza dargliela.
«Ho cercato l’uomo e la donna di cui mi ha mandato
le foto la settimana scorsa», disse, alludendo alle immagini di Wynn e della sua complice, Salena Kaye, che
Heat gli aveva inviato via SMS. «Qui dentro non li ho
visti». Poi le sorrise di nuovo, aggiungendo: «Sua madre era una bellissima donna».
«Già».
«Proprio come la figlia».
«La ringrazio», rispose lei con il tono più neutro
possibile.
Finalmente Flynn capì l’antifona e le porse la chiavetta. «Posso chiederle chi sono, i due che sta cercando?».
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«Mi dispiace, vorrei, ma sono informazioni riservate».
«Non mi biasimi se glielo chiedo. La curiosità fa
parte del mio mestiere, giusto? Non posso mica spegnerla».
Oh, Nikki era d’accordissimo.
In quelle foto sperava di trovare degli elementi che
schiudessero nuove piste su Tyler Wynn e Salena Kaye,
ma non solo. Cercava anche un indizio per risolvere il
suo grande segreto.
Alcune settimane prima, Nikki aveva scoperto per
caso una serie di strane annotazioni a matita che la madre aveva inserito nei suoi spartiti musicali. Era convinta che fosse un messaggio in codice. I punti, le linee
e i ghirigori non seguivano schemi riconoscibili. Aveva
cercato su Google il codice Morse, i geroglifici egiziani, l’alfabeto maya, perfino i graffiti di strada, senza approdare a niente. Per soddisfare la sua obiettività da
poliziotta, aveva fatto perfino delle ricerche volte ad
appurare se quei simboli non fossero semplicemente
delle abbreviazioni stenografiche su come suonare la
musica. Ma si era ritrovata nell’ennesimo vicolo cieco.
Aveva bisogno di aiuto per decifrarlo, ma, perfettamente conscia della sua delicatezza – quel codice poteva
essere il motivo per cui Tyler Wynn aveva fatto uccidere la madre –, Heat capì che era necessario tenerlo segreto. Assolutamente segreto. Valutò l’idea di parlarne
con Rook, sapendo che Mister Complotto si sarebbe
gettato anima, corpo e fantasia iperattiva nel tentativo di
venirne a capo. Poi però decise di tenere tutto per sé,
per il momento. Non si trattava solo di un segreto.
Era un segreto mortale.
Dopo l’incontro alla Quantum Recovery, Heat firmò
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il registro delle uscite per lei e per Rook al banco della
sicurezza nell’atrio. Si avviò verso Avenue of the Americas, ma poi si accorse che Rook tergiversava. «C’è un
cambiamento di programma», disse lui. «Quella telefonata… Era Jeanne Callow, sai, la mia agente?».
«Fissata con la palestra, truccatissima, Jeanne the
machine, quella Jeanne Callow?».
Lui sorrise per quel tono stizzito e continuò: «Proprio lei. Ad ogni modo, me la faccio a piedi fino al suo
ufficio sulla Fifth Avenue, così possiamo pianificare la
pubblicità per il nuovo articolo».
Un artiglio familiare si piantò nel diaframma di Nikki,
ma lei sorrise e disse: «Non c’è problema».
«Ti raggiungo da te stasera?».
«Certo. Possiamo esaminare queste foto?».
«Uhm, sì. Si può fare».
Heat tornò in auto al distretto da sola, riconfermando l’istinto di nascondere il codice a Rook.
Dalla sua scrivania, Nikki scoccò un’occhiata carica
di tensione da una parte all’altra della sala e ancora una
volta si sentì combattuta tra il caso principale e l’ennesimo omicidio. La squadra di detective che aveva convocato per il delitto Conklin se ne stava seduta a girarsi i pollici perché proprio lei era in ritardo per la riunione che aveva indetto. Nel disperato tentativo di trovare una pista su Tyler Wynn, Heat aveva pensato di
poter infilare quella telefonata prima del briefing, ma
si era ritrovata con un portiere che la tirava per le lunghe. «Senta, è la quarta volta che cerco di contattare il
signor Kuzbari», disse, tentando di non far trapelare la
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rabbia. «Si rende conto che è una richiesta ufficiale del
dipartimento di Polizia di New York?».
Fariq Kuzbari, addetto alla sicurezza presso la delegazione siriana all’ONU, era uno dei clienti delle lezioni di pianoforte della madre. Heat aveva cercato di interrogarlo alcune settimane prima, ma lui e i suoi gorilla armati avevano opposto un secco rifiuto. Lei però
non intendeva darsi per vinta. Uno come Fariq Kuzbari poteva benissimo gettare un po’ di luce su un collega di spionaggio come Tyler Wynn.
«Il signor Kuzbari è fuori dal paese per un periodo
non precisato. Vuole lasciare un altro messaggio?».
Nikki avrebbe voluto sbattere il telefono sulla scrivania e urlare qualcosa di molto poco diplomatico.
Contò in silenzio fino a tre e poi disse: «Sì, grazie».
Heat riattaccò e colse alcune occhiate d’impazienza
tra i membri della sua squadra. Mentre si avviava verso
l’ingresso della sala cominciò a formulare delle scuse
per averli fatti aspettare, ma quando raggiunse la lavagna bianca e si voltò verso di loro, la dirigente della
Squadra Omicidi aveva già deciso che la telefonata e il
ritardo rientravano nelle attività di indagine. E al diavolo John Lennon, pensò. Poi la detective Heat si tuffò
subito nel vivo.
«OK, quindi ci stiamo occupando di Roy Conklin,
maschio, quarantadue anni…», esordì, riepilogando
rapidamente gli elementi base della scena del crimine.
Dopo aver affisso sulla lavagna gli ingrandimenti del
tesserino della vittima e di una foto a colori del volto
presa dal sito Internet del dipartimento di Sanità, continuò. «Ora, questo caso presenta a dir poco qualche
complicazione. A cominciare dalle condizioni e dalla
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collocazione del cadavere. Un forno per la pizza non
capita tutti i giorni, in un omicidio».
Il detective Rhymer alzò una mano. «Sappiamo già
se è morto dentro o se il forno è servito soltanto a disfarsi del cadavere?».
«Buona domanda», disse Heat. «L’OCME sta ancora
facendo analisi per stabilire sia la causa che l’ora del
decesso».
Il detective Ochoa disse: «Il medico legale ci ha comunicato che sono state trovate tracce di cloroformio
sul lato anteriore della giacca». Heat si girò di scatto
verso di lui. Quello non lo sapeva. Di colpo, si ricordò
di una chiamata persa da parte di Lauren Parry mentre era alle prese con la delegazione siriana. Il fidanzato della dottoressa annuì con un piccolo cenno del capo, riportandola alla realtà.
«Quindi…», Nikki riprese alla svelta il resoconto,
«è possibile che il signor Conklin sia stato narcotizzato
sul luogo del delitto, oppure prima, e poi trasportato
lì. Finché non si accerta la causa del decesso non sapremo se sia entrato in quel forno vivo o morto. Se era
vivo, possiamo solo pregare che fosse completamente
privo di sensi per il cloroformio». Nella stanza calò il
silenzio mentre i poliziotti pensavano agli ultimi istanti di Roy Conklin.
Nikki ricominciò. «Le altre complicazioni sono gli
oggetti non bruciati posti sopra e accanto al corpo». Li
elencò mentre attaccava le foto della Scientifica sulla
lavagna: «Il cordoncino e il tesserino al collo; il cappotto piegato; il laccetto rosso con il topo morto – non
carbonizzato – messo di lato. Come minimo, questo
bizzarro modus operandi fa pensare a una perversione,
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una vendetta o un omicidio su commissione. Non dimentichiamo che si trattava di un ispettore sanitario
della ristorazione, non solo ucciso in un ristorante, ma
potenzialmente anche da uno strumento di cottura. La
presenza del topo e la conservazione del tesserino di
lavoro significano qualcosa. Esattamente cosa, dobbiamo scoprirlo».
Ochoa riferì che i suoi agenti erano tornati a mani
vuote dalla ricerca di testimoni oculari. E il sopralluogo nell’appartamento della vittima non aveva rivelato
segni di colluttazione, scasso o altro. Il custode del condominio aveva detto che la moglie di Conklin era via
per un viaggio di lavoro e gli aveva dato un numero di
cellulare. Raley aveva trovato una mezza dozzina di telecamere di sorveglianza nella zona ed era pronto a cominciare la navigazione tra i filmati. Feller, tornato dal
dipartimento di Sanità e Igiene Mentale, aveva parlato
con il dirigente di Conklin, che lo aveva definito un impiegato modello, usando termini come «motivato» e
«coscienzioso» e definendolo «uno di quei tipi rari, che
faceva il suo lavoro e non sforava mai con l’orario».
«Eppure, dobbiamo capire di cos’altro si occupava», disse Heat. Assegnò a Rhymer il compito di verificare i movimenti bancari per vedere se risultavano irregolarità, con particolare attenzione verso grosse somme versate, grandi vacanze o spese superiori ai suoi
mezzi. Incaricò Feller di scavare più a fondo con i colleghi e capire se c’erano lamentele nei suoi confronti
da parte dei locali che aveva ispezionato. «Rales, oltre
a vagliare i filmati, mettiti in coppia con Miguel e fatevi i ristoranti e i bar nella lista di Conklin. Sentite che
vi dicono su abitudini, vizi, nemici… Conoscete la
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prassi. Io telefono alla moglie per cercare di incontrarla in mattinata».
Poi, tornata alla scrivania, Nikki studiò il fogliettino con il nome di Olivia Conklin e il numero di cellulare scritto sotto. Mise la mano sul telefono, ma prima
di alzare la cornetta si fermò. Solo dieci secondi. Per
onorare la salma. Dieci secondi e basta.
Quando rientrò nel suo appartamento, trovò Rook
intento a svitare la gabbietta metallica della bottiglia di
Louis Roederer che FirstPress gli aveva mandato per
omaggiare il suo ruolo nel lancio del sito Internet. «Dopo la fantastica giornata che ho avuto, Nik, avrei proprio voglia di aprire questo affare con una sciabolata. È
una cosa che ho sempre voluto provare. Non avresti
mica una sciabola, per caso?».
Mentre lui riempiva i flûte, Nikki disse: «Non mi
hai raccontato niente della cerimonia. Ho visto soltanto i lustrini sulla spalla».
«Devo ammettere che è stata divertente. Naturalmente ho fatto finta che fosse una gran rottura, ma in
realtà… è stata una figata. Eravamo tutti dietro un cordone sul marciapiede, a Broadway, proprio di fronte
agli studi di Good Morning America. Io, il sindaco, i
Green Day, la direzione della rivista…».
«Aspetta un attimo. C’erano pure i Green Day?».
«Be’, non tutti. Soltanto Billie Joe Armstrong. American Idiot debutta al St James questa settimana e doveva assolvere i suoi doveri di pubbliche relazioni. Comunque, quando arriva il momento, la caporedattrice,
Elisabeth Dyssegaard, fa la mia presentazione. Flash e
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telecamere si mettono in funzione e io premo questo
enorme pulsante rosso».
«Come quello per far scendere la sfera di Capodanno?».
«Mah… somigliava di più a quello della pubblicità
di Staples. Ma tutto il senso della cosa stava nel fatto
che schiacciando quel tasto ho pubblicato il primo articolo di FirstPress.com».
«Complimenti».
Rook alzò il calice. «A “Ecco a voi Nikki Heat”». Il
titolo dell’articolo le provocò un repentino crampo allo stomaco. Però sorrise lo stesso, brindò con lui e sorseggiò il Cristal.
Mentre mangiavano il cibo da asporto di SushiSamba, Rook continuò a sproloquiare dell’altissimo numero di contatti che il suo articolo aveva già fatto registrare sul sito. Poi le chiese dell’omicidio della pizzeria
e Nikki glielo riepilogò per sommi capi, ma abbandonò presto l’argomento per sfogare la frustrazione di
non riuscire a contattare Fariq Kuzbari.
«Vuoi scommettere che si trova davvero all’estero?»,
disse Rook. «I miei amici corrispondenti in Egitto e Tunisia mi dicono che la situazione è piuttosto agitata, da
quelle parti. Probabilmente lo avranno richiamato in Siria perché un pitbull della sicurezza come lui avrà parecchio da fare. Tante torture, e così poco tempo».
Heat posò le bacchette e si pulì la bocca con un tovagliolo. «Lasciamo perdere Kuzbari. Rimangono altre due
persone informate sui fatti che non sono più riuscita a ricontattare. Uno sta partecipando a un concorso fuori
dallo Stato con i suoi cani da esposizione e l’altro ha fatto muro tramite il suo avvocato. A proposito di pitbull».
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«Vuoi sentire un’idea vincente? Manda l’avvocato a
scambiarsi il posto con Kuzbari. Mentre lei strapazza i
siriani, tu avrai due soggetti a disposizione».
«Mi fa piacere che lo trovi divertente, Rook». Heat
spinse via il piatto. «Sto solamente cercando di catturare l’uomo che ha ordinato l’esecuzione di mia madre,
OK?». Lui perse il sorriso e fece per parlare, ma lei lo
zittì. «E chiaramente, visto che Tyler Wynn ha provato a far ammazzare anche me in quel tunnel della metropolitana, o quel pezzo di merda nasconde ancora
qualcosa di compromettente che riguarda il passato,
oppure sta per succedere qualcosa di brutto. Perciò se
vuoi trattare questa storia come se fosse tutta una roba
da ridere, dopo che ti ho aperto l’anima per il tuo prezioso articolo, tienitelo per te».
Lo lasciò impallidito al tavolo della sala da pranzo e
sperò che l’urto della porta sbattuta della camera da letto gli facesse venire un infarto. Quando andò da lei,
dieci minuti più tardi, Rook non accese la luce e lei non
alzò la faccia dal cuscino. Lui si mise seduto sul letto,
accanto a lei, e parlò sommessamente nel buio. «Nikki,
se io credessi per un solo istante che Tyler Wynn sia
una minaccia per te, mollerei tutto e sposterei cielo e
terra per proteggerti. E per trovarlo. Ma il fatto è che
Tyler Wynn ha già ottenuto quello che voleva quando
ha messo le mani sulla borsa che avevi trovato in quella
stazione fantasma della metro. Fidati, la sua preoccupazione maggiore è sparire e diventare un fantasma anche lui. Ricomparire per farti del male lo esporrebbe
soltanto a dei rischi. E poi la Sicurezza Nazionale, l’FBI,
l’Interpol, gli stanno tutti addosso. Lascia che se ne occupino loro, sono esperti. Però ti chiedo scusa per aver
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parlato a vanvera. Non credo affatto che sia uno scherzo, e non avrei mai e poi mai voluto ferirti».
Ci fu un momento di silenzio. Poi lei si tirò su a sedere e, nella luce fioca che si riversava dal soggiorno, intravide un luccichio sotto un occhio di Rook. Gli asciugò
delicatamente la lacrima col pollice e lo strinse a sé. Rimasero abbracciati così a lungo che il tempo evaporò.
Alla fine, quando il silenzio completò la sua opera
di guarigione, Rook parlò. «Hai detto “pezzo di merda”. Ti ho sentito. Hai detto che Tyler Wynn è un pezzo di merda».
«Mi ero innervosita».
«Non dici mai parolacce. Cioè, quasi mai».
«Lo so. Tranne quando…». Lasciò la frase in sospeso
e sentì il calore che le saliva sul volto. Poi il battito cardiaco aumentò e le rimbombò nell’orecchio nel punto
dove poggiava sul collo di lui. Si voltarono per guardarsi in faccia senza un cenno, bastava l’intesa, e si baciarono. Fu un bacio tenero, all’inizio. Lui assaporò la vulnerabilità di lei, e lei la sua dolce premura. Ma ben presto,
mentre condividevano il fiato e lo spazio, la passione
colmò Nikki. Si schiacciò contro di lui. Rook inarcò la
schiena e lei gli cinse il sedere fra le mani tirandolo a sé.
Poi fece scorrere la punta delle dita fino all’inguine e
sentì il palmo riempirsi. Anche lui la trovò con la mano
e lei gemette. Poi si ritrasse sotto il corpo del compagno
per lasciare che il suo peso la trovasse tutta lì per lui.
Più tardi, dopo essersi assopiti l’uno fra le braccia
dell’altra, lui uscì dalla stanza, offrendole una splendida vista del suo magnifico sedere. Ritornò con due flûte di Cristal, che sorseggiarono seduti. Le bollicine erano ancora fitte e lo champagne scorreva sulla lingua.
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Si accoccolarono l’uno contro l’altra e Rook disse:
«Stavo pensando all’inferno che hai passato in questi
dieci anni».
«Dieci e più», lo corresse lei.
«Sai cosa vorrei tanto? Non vedo l’ora che questa
vicenda di Tyler Wynn si concluda, così potrò portarti
via da qualche parte dove ce ne staremo io e te da soli,
a vegetare. Insomma, a dormire, fare l’amore, dormire,
fare l’amore… Che te ne pare?».
«Mi sembra un ottimo programma».
«Il migliore. Da interrompere soltanto per buttarsi
sulla sabbia dei tropici con un cocktail al rum in una
mano e un bel romanzo di Janet Evanovich nell’altra».
«Torniamo alla parte dell’amore».
«Oh, su quello contaci».
«Intendo dire adesso», fece lei. E appoggiò i calici
di champagne sul comodino.
La svegliò un tuono distante. Nikki gettò un’occhiata dietro le tende e dalle luci della città vide che le
strade e i tetti di Gramercy Park erano asciutti. Il banco di nubi basse balenò di rosa, probabilmente per un
fulmine molto più a est, su Long Island.
Sul divano, a gambe incrociate in vestaglia, con il
portatile appoggiato sulle cosce, Nikki cliccò su FirstPress.com e rimase col fiato in gola appena vide il suo
volto che campeggiava sotto il titolo:
ECCO A VOI NIKKI HEAT
Era un’istantanea, scattata da un fotogiornalista men-
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tre usciva dal distretto dopo la drammatica esperienza
nella metropolitana la sera che aveva arrestato Petar. Il
volto mostrava tutta la stanchezza, l’asprezza e la gravità
che aveva sopportato. Le sue foto non le piacevano mai,
ma quella almeno era più guardabile, rispetto allo scatto
in posa per la copertina della rivista a cui l’avevano costretta per il primo articolo di Rook.
Diede una scorsa al pezzo, non per leggerlo – l’aveva già fatto giorni prima – ma per assimilare il dato di
fatto della sua esistenza. Alcuni geni escono fuori strofinando le lampade, altri stappando bottiglie di Cristal
in omaggio. Quello ormai era lì fuori e lei sperò soltanto che non le rovinasse l’indagine.
Nikki Heat si preparò a sopportare un nuovo giro
di notorietà. E il lieve fastidio che Rook avesse pubblicato piccoli frammenti del suo gergo investigativo, come «cercare il calzino spaiato» e ispezionare il luogo di
un delitto «con occhi da principiante». Se era quello il
peggio che poteva venire da quell’articolo, poteva anche farcela.
Il mattino dopo, per curare un cervello che aveva
macinato a vuoto tutta la notte, Nikki si fermò allo Starbucks del suo quartiere mentre si recava alla metropolitana. Una volta non si sarebbe mai sognata di bere un
caffè che costava quanto un biglietto del cinema. Tutta
colpa di Rook. Era lui che le aveva fatto prendere il vizio. Al punto che, quando lui aveva regalato alla squadra una macchina da espresso, lei aveva imparato a spillare una dose in venticinque secondi esatti.
Quando ordinò il solito, provò quell’inspiegabile piacere di sentire «Un caffellatte scremato grande, due
schizzi, vaniglia senza zucchero per Nikki» che veniva
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pronunciato ad alta voce e poi rimbombava sul whoosh
del vaporizzatore per il latte. Sono quei piccoli rituali
che ti fanno sapere che Dio è nei cieli e tutto va bene nel
mondo.
Gettò un’occhiata alla sala e sorprese un tipo sulla
ventina, in giacca e cravatta, che la fissava. Lo sguardo
del ragazzo tornò di colpo sul suo iPad e poi di nuovo
su di lei. Poi sorrise e alzò il suo caffè macchiato per fare un brindisi. Si comincia, pensò Heat.
Il barista gridò: «Caffellatte scremato grande per
Nikki», ma quando lei si spostò lungo il bancone per
prenderlo, Giacca e Cravatta la bloccò, mostrando l’iPad
con il suo volto che riempiva lo schermo. «Detective
Heat, lei è un mito». Sorrise e le guance si infossarono.
«Ah, be’, grazie». Accennò un mezzo passo, ma il
fan raggiante indietreggiò, restandole vicino.
«Non mi sembra vero. Ho letto questo articolo due
volte, ieri sera… Porca miseria, mi farebbe un autografo sulla tazza?». Colta alla sprovvista, Nikki disse di
sì, solo per levarselo di torno. Il ragazzo le porse una
penna che probabilmente era un regalo di laurea ma,
prima che la detective potesse prenderla, una sedia di
legno si ribaltò, seguita da un coro di rantoli.
Dall’altra parte della sala, vicino al distributore delle bevande, un clochard si contorceva sul pavimento in
preda a spasmi e convulsioni, scalciando violentemente le gambe contro la sedia rovesciata. I clienti attoniti
fuggivano dai tavoli e indietreggiavano. «Chiama i soccorsi», disse Heat al barista e corse a fianco dell’uomo.
Mentre si inginocchiava, il clochard smise di dimenarsi e alle spalle della detective si levò un urlo. Aveva cominciato a perdere sangue dalla bocca e dal naso. Si
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mescolò con il vomito e con il caffè che si era sparso a
terra accanto a lui. Gli occhi si pietrificarono in uno
sguardo di morte e si diffuse un tanfo eloquente quando l’intestino si allentò. Heat gli tastò il collo e non
sentì alcun battito. Quando scostò le dita, la testa dell’uomo si piegò di lato e Nikki vide una cosa che aveva visto soltanto un’altra volta in vita sua, la notte che
Petar era stato avvelenato in cella.
La lingua del morto penzolava dalla bocca ed era
nera.
Heat guardò la bevanda che si era rovesciata sul pavimento accanto a lui. Una tazza di cartone con «NIKKI»
scarabocchiato a matita su un lato. Si rialzò per scrutare i presenti. E fu allora che scorse un volto familiare in
procinto di uscire dalla porta.
Salena Kaye incrociò il suo sguardo e fuggì via.
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Due
Nikki si precipitò verso l’uscita, urlando: «Polizia,
tutti fuori». Alcuni clienti sembravano ansiosi di avvicinarsi al cadavere, ma Heat si preoccupava del veleno
e voleva preservare la scena del crimine per possibili
indizi. Aprì la porta con uno strattone e gridò al barista col telefono in mano: «Di’ alla polizia che sto inseguendo un presunto omicida».
Heat si appiattì contro la parete del vestibolo e allungò il collo per sbirciare sul marciapiede: non voleva rischiare di catapultarsi fuori e cadere in un agguato. Eccola. Un lampo di Salena Kaye, che si allontanava facendosi largo tra i pedoni. Partì all’inseguimento.
Kaye non si voltò mai indietro e continuò a correre
decisa. E veloce. Nikki gettò una rapida occhiata sulla
23rd sperando di vedere una volante. In quella frazione
di secondo andò a sbattere contro due adolescenti che
uscivano da un alimentari, ridendo per i Twizzlers che
si erano infilati in bocca a mo’ di zanne. Riuscirono a
mantenersi tutti in equilibrio, ma quando Heat si liberò dei ragazzini scorse Salena che apriva la portiera
posteriore di un taxi.
Il veicolo era troppo distante per poterne leggere la
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targa o il numero di licenza. Heat memorizzò il paraurti con un pezzo mancante e la pubblicità di un
club per soli uomini sul tettuccio, sperando di ritrovarlo nel mare di taxi delle ore di punta in procinto di
inghiottirlo.
Si piazzò in mezzo alla strada, mostrando il distintivo agli automobilisti e facendo segno di fermarsi. Un
taxi fuori servizio fece strombazzare il clacson e proseguì a tutta velocità. Una Camry verde si fermò con uno
stridio di freni subito dopo averla superata. Nikki si affrettò a raggiungerla e aprì lo sportello del conducente.
L’anziano al volante la guardò sbigottito dietro un paio
di occhiali spessi che venivano da un altro decennio.
«Polizia, è un’emergenza. Mi serve la sua macchina.
Subito, per favore».
L’uomo rimase a bocca aperta e scese dall’auto senza proferire parola. Heat lo ringraziò, salì, vide la donnina anziana che la guardava dal sedile del passeggero
e partì a tavoletta.
«Si tenga forte», disse Nikki, svoltando bruscamente a sinistra sulla First Avenue. Per un attimo aveva avvistato su un tettuccio le XXX della pubblicità di quello
strip club e scrutò il viale di taxi davanti a sé per ritrovarle. La passeggera non disse nulla e si aggrappò al
cruscotto con le mani deformate dall’artrite mentre la
cintura di sicurezza entrava in modalità di blocco con
un suono metallico sordo. Più avanti, parzialmente nascosto alla vista da un’ambulanza, Heat scorse il paraurti rovinato del taxi e poi il volto di Salena Kaye che
sbirciava fuori dal lunotto posteriore.
Nikki pestò sull’acceleratore per superare il semaforo rosso all’incrocio con la 24th, cercando di rassi-
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curare la signora che aveva a fianco. «Non si preoccupi, l’ho già fatto altre volte». L’anziana la fissò con gli
occhi sgranati. Però annuì. La vecchietta era coraggiosa. «Ha un cellulare?».
«È un Jitterbug», rispose lei, mostrandole un telefono rosso fuoco. «Devo chiamare la polizia?».
«Sì, grazie». Heat cercò di ostentare tranquillità anche quando sterzava all’improvviso il volante e schiacciava il freno. Un indice nodoso picchiettò sul grande
tastierino a misura di anziani. «Dica che un’agente richiede aiuto». Mentre Heat si infilava nel traffico della parte alta della città, tenendo il passo del taxi, la passeggera ripeté alla centralinista i messaggi che Nikki le
dava di volta in volta, chiedendole di comunicare via
radio alle autopattuglie di portarsi davanti a loro, in
modo tale da incastrare il veicolo in una morsa. «È stata bravissima». Mentre la donna chiudeva di scatto il
suo Jitterbug, Heat le gettò un braccio davanti al corpo, per proteggerla. «Si regga forte».
Appena superato il Bellevue Hospital, Salena Kaye
si catapultò fuori dal taxi e continuò a correre nella
corsia d’accesso delle ambulanze. Heat controllò gli
specchietti, sterzò violentemente a destra sul marciapiede e si fermò. «Sta bene?».
L’anziana signora annuì. «Una favola».
La detective schizzò fuori dall’auto, scattando all’inseguimento della donna in fuga.
Nikki diede una rapida occhiata alla fila di ambulanze parcheggiate all’ingresso del pronto soccorso,
guardando al loro interno e tra l’una e l’altra mentre
correva, ma non vide traccia di Kaye. Proseguì a piccole falcate, rallentando per controllare dietro alcuni
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bidoni della lavanderia. Poi la individuò. Una figura
che scavalcava il muro nel vicolo cieco del parcheggio.
Per coprire il filo spinato Kaye aveva preso uno dei
reggischiena accatastati accanto alle ambulanze. Lo
usò anche Heat, fermandosi in cima per orientarsi prima di saltare giù sul marciapiede. Atterrò con le ginocchia piegate per attutire l’impatto e si lanciò sul
controviale che correva tra il centro medico della NYU
e la FDR.
Più avanti si estendeva un rettilineo di marciapiede.
E un’assassina in fuga.
Salena Kaye era abile. Correva seguendo uno schema a zigzag che rendeva inutile per Heat sparare da
quella distanza. Ma quella serie di scatti e di finte rallentava anche il suo avanzamento. Nikki aumentò lo
sprint finché non sentì bruciare i polmoni.
Giunti sulla 30th Street, subito oltre il tendone bianco che ospitava i resti dell’attentato dell’undici settembre, Heat capì di averla ormai in pugno. Abbastanza
vicina per rischiare un tiro, estrasse la pistola. «Salena
Kaye, ferma o sparo». La donna si bloccò, alzò le mani
e si girò verso di lei. Ma in quel momento due inservienti dell’istituto di medicina legale uscirono dal cortile posteriore per una pausa sigaretta. «Indietro!»,
gridò Heat. L’uomo e la donna si fermarono dov’erano, ostacolandole il tiro. Kaye si allontanò di scatto nel
traffico, infilandosi in un parcheggio coperto dall’altra
parte della strada.
Con la pistola in pugno puntata verso le travi d’acciaio verdi sul soffitto del parcheggio, Nikki Heat attraversò le ombre in punta di piedi, scrutando ogni
centimetro quadrato, ascoltando con attenzione sopra
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il rombo del traffico della FDR sovrastante per sentire
il minimo suono che avrebbe potuto tradire il nascondiglio di Salena. La detective si chinò per perlustrare
sotto le automobili, con l’unico risultato di ritrovarsi
un palmo sporco di fuliggine. Poi si rialzò e rimase immobile. Solo in ascolto.
Non sentì mai il colpo arrivare. Salena Kaye le piombò
addosso, lasciandosi cadere dalle travi d’acciaio del soffitto e prendendola di sorpresa.
Nikki sapeva bene che in un combattimento corpo
a corpo era meglio non restare giù. Spinse via Kaye e
balzò in piedi, pronta a puntare la Sig Sauer verso la
donna ancora a terra. Ma Salena evidentemente aveva
esperienza di combattimenti ravvicinati. La gamba destra sforbiciò verso l’alto in un batter d’occhio e il collo del piede arrivò al polso di Nikki. L’impatto, dritto
su un nervo, rese insensibile la mano e la pistola roteò
con fragore sul pavimento, rimbalzando sulla ruota di
un’auto prima di arrestarsi.
Kaye si tirò su, rapida come una ginnasta, e si avventò contro Heat assestandole un paio di colpi di polso sulle tempie, bum bum. La vista di Nikki si annebbiò e le ginocchia vacillarono. Resistette per non perdere i sensi e, quando si riprese, vide Salena che cercava di prendere la sua pistola. Heat le sferrò un calcio
laterale alle costole e la donna cadde a terra. Ma poi
colse di nuovo Nikki alla sprovvista con una chiave di
gamba da ju-jitsu – una presa che anche Heat aveva
eseguito – ma adesso era lei la vittima di un dolore immobilizzante mentre Kaye faceva leva sul ginocchio
per iperestenderlo. Impossibilitata a muoversi e incapace di liberarsi, vide la forma scura della Sig Sauer sul
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cemento e allungò la mano per tentare di prenderla.
Kaye la tirò indietro verso di sé, ma così facendo mollò la gamba di Nikki quel tanto che le bastava per divincolarsi dalla stretta. Heat si gettò in avanti addosso
a Salena, tempestandola di colpi alla clavicola e al collo. Kaye reagì tirando in alto entrambe le ginocchia,
rovesciando Heat proprio sopra di lei. Nikki atterrò
sulla schiena con violenza e perse il fiato.
«Ehi, che succede?», gridò la guardia giurata che
usciva dal gabbiotto. Nella frazione di secondo in cui
Salena si fermò per valutare la minaccia, Heat si rotolò
per afferrare la pistola. Si precipitò verso l’arma all’impazzata, agguantandola per la canna. Quando si
rialzò pronta a far fuoco, Salena Kaye si era già allontanata.
Heat partì all’inseguimento, zoppicando sul ginocchio dolente. Avanzò a scatti nonostante il dolore e avvistò Salena che svoltava a destra verso il fiume all’altezza della 34th Street.
E poi sentì l’elicottero.
Quando raggiunse l’incrocio, capì che era vicino. A
cento metri di distanza, un Sikorsky S-76 blu scuro
scaldava i motori sulla piattaforma dell’eliporto. Un
portello laterale era aperto e il pilota, in camicia bianca a maniche corte con le spalline, giaceva sull’asfalto
ai piedi di Salena Kaye, con le mani sul volto e il sangue che gli scorreva tra le dita.
Per la seconda volta nella mattinata, la detective
Heat estrasse l’arma d’ordinanza e le intimò di fermarsi. Kaye probabilmente non poteva sentirla sopra il
motore del velivolo, però la vide. Con un’occhiata prolungata e una lenta rotazione che sapeva di arroganza,
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salì all’interno dell’S-76 e chiuse il portello. Pochi secondi dopo, mentre Heat raggiungeva la piattaforma,
l’elicottero si sollevò di circa mezzo metro e poi ruotò
su se stesso, con il rotore posteriore che girava vorticosamente a meno di un metro da Nikki, costringendola a gettarsi a terra. Salena Kaye ruotò di nuovo, rivolgendo sfacciatamente il fianco dell’elicottero a Heat
quel tanto che bastava per mostrarle il dito medio. Poi
il velivolo si allontanò lentamente sopra l’East River,
facendo ribollire l’acqua in un cerchio di spruzzi.
Heat si appoggiò su un ginocchio e puntellò il gomito sull’altro, prendendo la mira con la Sig Sauer.
Pensò che se avesse svuotato tutto il caricatore contro
il motore, forse sarebbe riuscita a farlo cadere in acqua. Visualizzò il tiro e poi esitò.
Le venne in mente che forse poteva esserci un passeggero innocente a bordo.
Nikki rinfoderò la postola e chiamò il NYPD per richiedere un supporto aereo mentre osservava il Sikorsky che diventava un puntino contro il sole del mattino su Brooklyn.
Jameson Rook entrò precipitosamente nella sala
della Squadra Omicidi al Ventesimo, andò da Heat a
grandi passi e la strinse in un abbraccio. «Mio Dio, stai
bene?».
Nikki gettò un’occhiata imbarazzata alla sala e abbassò la voce per rispondergli. «Sto bene». Si sciolsero dall’abbraccio e lui le mostrò la tazza di Starbucks
che aveva in mano. «Ti ho portato un caffellatte».
«Grazie, magari dopo».
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«Lo assaggio io per te». Prese un sorso, lo fece mulinare nella bocca con un gesto ostentato e poi mandò
giù, completando il tutto con uno schiocco di labbra e
un «Ah» di soddisfazione. Lo porse a Nikki e disse:
«Vedi, è tutto a…». All’improvviso strabuzzò gli occhi,
emise un rantolo di soffocamento e portò la mano libera alla gola. Lei lo fissò con aria indifferente. Miracolosamente, si riprese. «Troppo presto?».
«Troppo tardi». Nikki indicò la sala, dove su ogni
scrivania era poggiata una grande tazza con la scritta
«NIKKI». «Questi idioti ti hanno preceduto».
«Mezzora fa, amico mio», disse Ochoa avvicinandosi. «Dovevi vedere Rhymer, dopo il sorso. Si è buttato per terra sbuffando e sgroppando come un cavallo». Sorrise. «La schiuma alla bocca è stata un colpo di
genio».
Rook disse: «Sai cos’ha l’umorismo da sbirri? È nerissimo. Sopra le righe. Troppo forte». Aveva imparato
dal primo giorno della sua collaborazione con Heat che
i poliziotti reagivano alla tristezza e allo stress in modo
diverso dalla maggior parte delle persone. Nascondevano le emozioni negli opposti. Tutte quelle battute,
quella messinscena di falsi avvelenamenti, non erano
solo allusioni pesanti o umorismo macabro; recavano
un messaggio di affetto che diceva: «Mi sono preoccupato perché per poco non ci hai rimesso la pelle». Oppure: «Ci tengo». Rook pensò che fosse lo stesso motivo per cui i Three Stooges non si abbracciavano mai.
Ochoa agitò il taccuino, preannunciando questioni
importanti. «Ho appena sentito una detective del Settantesimo su a Flatbush. Si trova nel campo da baseball dove si è posato il tuo elicottero a South Prospect
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Park. Meno male che non hai sparato. C’era un passeggero a bordo. L’AD di una casa di moda che arrivava
dagli Hamptons. Non ha avuto nemmeno il tempo di
slacciarsi la cintura quando sono atterrati e hanno subito il dirottamento».
«Tecnicamente, se erano già a terra, non dovrebbe
trattarsi di un sequestro?», domandò Rook. Avvertì le
loro occhiatacce. «Prego. Procedete pure».
«L’amministratore dice che Kaye ha fatto una telefonata mentre erano ancora sul fiume». Il detective
Ochoa ebbe il buon senso di non protrarre la suspense
e andò alla pagina con la dichiarazione del testimone.
«Ha detto: “Drago, sono io”, e poi qualcosa tipo “Il
gioco è saltato”, ma non è riuscito a capire bene. Kaye
non ha aggiunto altro, è rimasta in ascolto e poi ha
chiuso. Cinque minuti dopo se l’è filata verso est attraversando il Parade Grounds vuoto mentre il tipo è rimasto lì con i rotori che ancora giravano».
Ochoa si defilò verso la sua scrivania e Rook disse:
«Devo scuotere la testa riguardo a Salena Kaye. Pensare a tutto il tempo che quella donna ha passato nel mio
appartamento a farmi fisioterapia. Devo dire, però…
dei massaggi fenomenali». S’interruppe, fingendo di
carezzare un ricordo privato, e poi si fece serio. «Ovviamente rovina un po’ l’atmosfera, sapere che in realtà
era lì soltanto per piazzare delle microspie per Tyler
Wynn».
Al solo sentirlo nominare, Heat provò una fitta di
dolore. Non solo perché le ricordava il tradimento
compiuto dal mandante della morte di sua madre. Il
traditore della CIA aveva ancora qualche motivo per volerla morta e aveva inviato la sua temibile complice Sa-
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lena Kaye ad avvelenarle il caffellatte. Se Nikki riusciva
a evitare di farsi uccidere, forse avrebbe potuto perfino scoprire il perché.
Quel pensiero ottimistico le riempì la testa mentre
radunava la squadra attorno alla lavagna del delitto.
«Non c’è bisogno di sedersi», disse mentre scriveva in
stampatello «DRAGO» a lettere rosse sulla parte alta del
tabellone. «A quanto pare abbiamo un nome in codice
per il mandante di Salena Kaye».
«Non è Tyler Wynn?», domandò Rook.
«Si presume, ma mai darlo per scontato. Ormai dovresti saperlo». Poi Nikki rivolse la sua attenzione alla
detective Hinesburg. Immaginò che un compito semplice sarebbe stato a prova di Sharon, e così la incaricò
di cercare Drago e qualsiasi altra variante nel database
del Real Time Crime Center alla centrale. «Quando hai
finito, vedi se risulta qualcosa alla Sicurezza Nazionale,
all’Interpol o alla DGSE di Parigi». Assegnò al detective
Rhymer il compito di sentire i gestori di telefonia mobile per capire se si poteva recuperare un numero dalle torri vicino al fiume all’ora della telefonata di Salena
Kaye. Heat era sicura che Kaye avesse usato una scheda anonima usa e getta, ma doveva essere scrupolosa.
Rhymer, bonario come la sua città natia della Virginia,
sorrise e annuì. «Come se fosse già fatto», disse Opie.
Poi affisse un ingrandimento di Google Maps del
quartiere di Brooklyn dove era atterrato il Sikorsky. «È
improbabile che la sospettata avesse tempo di organizzare un recupero. E se vuoi chiamare un taxi in un distretto esterno, in bocca al lupo, giusto? Però guardate
qui». Heat indicò la mappa. «La stazione della metro di
Church Avenue si trova nella sua direzione di fuga. Ra-
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ley, da’ un colpo di telefono all’MTA. Comincia a estrarre
i filmati dalle telecamere di Church Avenue per vedere
se è salita su un treno e, se sì, in quale direzione. Poi
controlla le immagini delle fermate lungo la linea per vedere dove è scesa».
Quando voltò le spalle alla mappa, Heat colse Ochoa
che roteava gli occhi al collega. «Problemi, signori?».
Ochoa disse: «Ecco, lo so che Rales è il tuo re di
tutti i dispositivi di sorveglianza, e tutto il resto. Ma
stiamo mettendo un po’ troppa carne al fuoco. Dobbiamo ancora tornare sul campo a sentire altri titolari
dei ristoranti nell’elenco di Conklin».
«Dovrete giostrarvela tra tutti e due», disse Heat.
«Come facciamo tutti». Non ci fu bisogno di aggiungere altro. Poteva leggere l’effetto sui loro volti. Ogni
detective in quella stanza sapeva che la dirigente della
loro squadra non solo si destreggiava fra quei due casi: lo faceva mentre qualcuno stava seriamente tentando di ucciderla. Heat concluse la riunione, continuando a riflettere sul perché. Non aveva ancora una risposta, ma l’attentato di quella mattina le diceva una cosa.
C’era qualcosa che bolliva in pentola, collegato al complotto che aveva portato all’omicidio di sua madre dieci anni prima. Altrimenti, non avrebbero fatto tutti
quegli sforzi per ucciderla.
Durante il tragitto in auto con Rook verso City
Island, per interrogare la vedova di Roy Conklin, Nikki
si ritrovò con gli occhi sugli specchietti molto più spesso del solito. Quando sai che un professionista ti tiene
nel mirino, un po’ di vigilanza in più può darti la possibilità di vedere il giorno dopo.
Heat era in pericolo e nessuno l’avrebbe stimata di
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meno, se si fosse rinchiusa in un bunker. Il capitano
Irons era così preoccupato per la sua sicurezza che le
aveva perfino proposto di prendere un periodo di congedo o di ferie, se voleva. Nikki aveva immediatamente scartato l’idea. La poliziotta che era in lei non si sarebbe mai nascosta di fronte al pericolo personale.
Quello era il suo lavoro. Eppure, avvertiva un salutare
nervosismo. A chi non sarebbe capitato? E così Heat
fece quello che sapeva fare meglio: si divise in compartimenti. L’esperienza le aveva insegnato che l’unico
modo per andare avanti era mettere in gabbia la bestia
e riporre la paura in un cassetto. Qual era infatti l’alternativa? Chiudersi nel suo appartamento? Scappare
e nascondersi?
Non quella detective. Quella detective avrebbe reagito colpo su colpo. E controllato gli specchietti.
Il telefono squillò mentre attraversavano il ponte di
Pelham Bay, dove il fiume Hutchinson separava il
Bronx urbano dall’ampia zona verde che circondava
Turtle Cove. Nikki tirò fuori l’auricolare Jawbone dalla tasca laterale dello sportello e si prese una lavata di
capo dalla sua amica Lauren Parry. «Devo ricordarti
che ti ammazzo, se ti fai ammazzare?».
Heat ridacchiò. «No, sei abbastanza chiara. Come
sempre».
«Vedi?», scherzò Lauren, ma la preoccupazione da
sorella traspariva. «Ecco perché stai ancora camminando sulla terra di Dio. Perché ti vengo sempre dietro».
Terminata la ramanzina, la dottoressa aggiornò Heat
sull’autopsia di Roy Conklin. «È difficile definirla una
buona notizia», disse Lauren, «ma il signor Conklin era
già deceduto prima di entrare nel forno».
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Nikki ripensò al cadavere. Immaginò la temperatura di cottura all’interno del forno. «Quindi non ha sofferto?».
«Dubito. La causa del decesso è una .22 alla base
del cranio». Heat rispose allo sguardo indagatore di
Rook mimando una pistola col dito mentre la dottoressa aggiungeva: «Lì per lì le condizioni del cadavere
e il piccolo calibro mi avevano nascosto la ferita. Ho
trovato la pallottola quando l’ho aperto. Adesso è alla
balistica».
«E la vittima dell’avvelenamento da Starbucks?».
«È il prossimo».
«Mi raccomando, fai un controllo incrociato con la
sostanza che ha ucciso Petar», disse Nikki, memore
della precedente vittima avvelenata da Salena Kaye.
«Accipicchia, ma ti pare?», esclamò Lauren. «Lascia a me le autopsie. Tu pensa a restare viva».
Heat e Rook aspettarono pazientemente un altro giro di singhiozzi da parte di Olivia Conklin nel soggiorno dell’arioso trilocale a tema marino che non le sarebbe più sembrato lo stesso. L’appartamento, in un
complesso di eleganti villette di legno grigio con finiture bianche, si trovava sul litorale accanto alla scuola
di vela di City Island nel Bronx. In lontananza, oltre il
balcone, Long Island scintillava sotto il sole primaverile. La vista opposta, da Great Neck, avrebbe potuto
essere quella di Jay Gatsby quando contemplava la luce verde che risplendeva sull’acqua. Ma i simboli di luminosità, bellezza e ottimismo non trovavano posto in
quella stanza. La pioggia sarebbe stata più adatta.
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Per Olivia Conklin, che indossava ancora il completo sgualcito dopo il volo di ritorno notturno da un
seminario di formazione su un software a Orlando, l’unico conforto era che il marito fosse stato ucciso con
un colpo d’arma da fuoco. Quando la buona notizia è
quella, il resto è tutto in discesa.
Nonostante Heat disprezzasse quella parte del suo
lavoro, era quella in cui dava il meglio di sé. Riusciva a
stabilire una connessione, perché una volta si era trovata lei stessa su una poltrona simile a riempire kleenex. E quindi conduceva l’interrogatorio con delicatezza, pur prestando attenzione a ogni segno di rimorso, bugia e incongruenza. Purtroppo le consorti si rivelavano spesso degne di sospetto. Con tatto, scandagliò il matrimonio, il denaro, la salute mentale e gli indizi di infedeltà.
«Roy aveva soltanto un’amante», disse la donna. «Il
suo mestiere. Vi si dedicava completamente. So che
quando si parla di dipendenti pubblici si pensa subito
ai fannulloni. Non il mio Roy. Non lasciava mai il lavoro in ufficio. Prendeva la salute pubblica come un fatto personale. Li chiamava i suoi ristoranti e non voleva
mai assenze per malattia quando era di turno».
Tutto ciò confermava soltanto le ricerche che la squadra di Heat aveva condotto fino a quel momento. Le finanze di Roy Conklin erano in linea con il suo livello di
stipendio. Le verifiche dei Roach nei ristoranti rivelavano un uomo costantemente descritto come rigido ma
corretto. Né la moglie né i colleghi riferivano di possibili inimicizie, comportamenti stravaganti recenti o persone nuove nella sua vita.
«Non ha nessun senso», disse Olivia Conklin. Poi la
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neovedova proferì un gemito, e col cuore a pezzi, quella parola che Nikki sentiva dire da tutte le persone afflitte dall’improvviso furto di una vita. Quella parola
era il faro che orientava la detective Heat nel suo lavoro: «Perché?».
Mentre Heat e Rook tornavano all’auto, oltre la fila
ordinata di Sunfish sui rimorchi nel parcheggio della
scuola di vela, lo sguardo di Nikki spaziò sulle acque
aperte e luccicanti. Immaginò lo schiocco secco del
Dacron quando il vento avesse riempito la vela e lei
avesse virato verso il largo nello stretto di Long Island.
Poi pensò a Roy Conklin, che si trovava proprio lì nel
suo ultimo giorno di vita, e si domandò se avesse goduto anche lui di quella vista o se il suo cuore fosse
troppo gonfio di paura o di rimorso per qualche orribile segreto celato alla moglie. Un segreto che gli aveva
fatto perdere la vita e che aveva lasciato lei a chiedersi
il perché. O forse, ipotizzò Nikki, neanche il povero
Roy se l’aspettava? Poi il telefono squillò e trascinò
bruscamente Heat nell’altro caso. La vela avrebbe dovuto aspettare. Si ritornava a destreggiarsi.
La chiamata arrivava dalla polizia di Hastings-onHudson, un pittoresco villaggio a circa mezz’ora da
New York risalendo il fiume. Hastings disponeva soltanto di due detective nel suo piccolo dipartimento, e
Heat si manteneva in costante contatto con loro, per
verificare eventuali avvistamenti di uno dei residenti
del posto con cui aveva bisogno di parlare.
Vaja Nikoladze era solo una delle tante persone su
cui Heat aveva puntato le antenne, considerandole di
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interesse perché sua madre aveva dato lezioni di piano
nelle loro case prima dell’omicidio. Nikoladze, un biochimico di fama internazionale che aveva abbandonato
l’ex repubblica sovietica della Georgia, era stato eliminato dalla rosa dei sospettati. Ma poiché Tyler Wynn
spesso fissava gli impegni della madre per i fini spionistici della CIA, Heat voleva sapere se l’esule georgiano
avesse avuto contatti recenti con il fuggitivo.
Ma proprio come l’elusivo addetto diplomatico siriano all’ONU e gli altri clienti di spicco a cui Heat si
era rivolta, Nikoladze non aveva dato risposta, lasciandola frustrata, ad aspettare per settimane la possibilità
di un contatto che potesse aprire una breccia nell’indagine.
A Nikoladze concedeva il beneficio del dubbio. Era
stato cordiale e collaborativo quando Heat e Rook erano andati a fargli visita la prima volta tre settimane prima. Ma da allora Vaja era sempre fuori dallo Stato a esibire i suoi apprezzati pastori georgiani in vari concorsi.
Adesso il detective di Hastings stava chiamando per avvertirla che la persona di suo interesse era appena stata
avvistata in città. Contrariata per lo stravolgimento dei
piani ma decisa a non lasciarsi sfuggire l’occasione,
Heat accantonò per il momento la vicenda di Conklin
e si diresse verso nord. Appena imboccò la Saw Mill
Parkway, un fremito di trepidazione la riempì. Sapeva
che era meglio non correre subito a delle conclusioni,
ma si arrischiò a sperare di poter compiere finalmente
dei passi avanti dopo quasi un mese di inesorabili delusioni.
Quaranta minuti dopo, mentre lavava a vapore dei
tappetini di gomma davanti al canile sul retro del suo
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terreno, Vaja Nikoladze alzò gli occhi verso l’auto della polizia senza insegne che accostava sulla stradina a
due corsie tra i pascoli per cavalli del vicino e un’area
boscosa. Anche a distanza, quell’uomo minuto apparve sorpreso quando sentì scricchiolare la ghiaia del
suo parcheggio. Mentre attraversavano l’ampio prato,
rochi latrati rimbombarono all’interno del lungo fabbricato annesso prima ancora che Nikki parlasse. «Sera».
Nikoladze non rispose, tirò fuori una spazzola da
un secchio di acqua saponata e col vapore eliminò la
schiuma dalle setole. I due aspettarono, senza nemmeno provare ad attaccare discorso sopra il rumoroso getto vaporizzato della bocchetta pressurizzata. Quando
ebbe finito, staccò il vapore, appoggiò la spazzola al
muro e stese gli spessi tappetini neri sulla ringhiera decorativa, ad asciugare al sole. A differenza della cordiale visita di qualche settimana prima, Vaja aveva tutta l’aria di non voler avere nulla a che fare con la detective Heat e il giornalista che l’accompagnava.
«Ho un telefono, sa». Dopo più di vent’anni negli
Stati Uniti, l’accento georgiano rimaneva forte e alle
orecchie di Heat sembrava ancora russo.
«Passavamo da queste parti», disse Rook, ottenendo per tutta risposta uno sguardo torvo.
«È venuto a procurarsi altro materiale su di me per
il suo prossimo articolo, Jameson? Forse non tutti negli Stati Uniti hanno la smania della celebrità, non le
pare?». Quando Rook aveva accompagnato Nikki l’ultima volta, lui e Vaja erano andati molto d’accordo.
Nikoladze gli aveva offerto da bere, aveva scambiato
aneddoti, aveva perfino dato una dimostrazione d’ob-
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bedienza del suo miglior cane da fiera. Lo spazio che
Rook aveva dedicato al biochimico nel suo servizio per
FirstPress era stato minimo – un paio di righe al massimo – mero tessuto connettivo nel racconto della ricerca del killer intrapresa da Nikki. Evidentemente,
Vaja si era risentito di quella ribalta.
Heat non se ne curò. Rintuzzò subito. «Siamo qui
per dar seguito alle mie indagini ufficiali di polizia, signor Nikoladze. E il motivo per cui non l’ho chiamata
prima è che lei si è rifiutato di comunicare. Le ho lasciato troppi messaggi ed email senza risposta. Perciò
din don, compagno».
Rook girò in tondo per ammirare le Palisades, visibili sopra la linea degli alberi. Vaja lasciò da parte le
sue faccende e incrociò le braccia. «Ho delle foto che
vorrei mostrarle», disse Heat.
«Sì, così dicevano i suoi messaggi senza fine. Gliel’ho
già spiegato la volta scorsa, non conosco questo Tyler
Wynn».
Mentre faceva scorrere le immagini sul suo smartphone, Nikki disse: «Mi faccia la gentilezza. Vorrei che vedesse Tyler Wynn e anche questa donna, Salena Kaye, e
quest’uomo qui, Petar Matic».
Lui li degnò a stento di un’occhiata. «Non posso aiutarla».
«Significa che non li riconosce o che non può essere d’aiuto?».
«Tutte e due le cose». La fissò con fermezza mista a
impazienza. «Devo informarla che mi è stato detto di
non parlare con lei, pena il rischio di espulsione».
Rook completò il cerchio tornando al punto di partenza e incrociò lo sguardo di Nikki. Poi lei abbassò la
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fronte e si avvicinò di un passo a Vaja. «E di preciso,
chi le ha detto questo, signor Nikoladze?».
Quando udì il nome, Nikki andò su tutte le furie.
«Detective Heat, polizia». Mostrò il distintivo e aggiunse: «L’agente speciale Callan ci sta aspettando».
L’addetto alla reception dell’ufficio newyorchese del
dipartimento per la Sicurezza Nazionale si schiarì la
gola in modo talmente esagerato da distogliere l’attenzione di Rook dal soffitto. Stava contando le telecamere da quando erano entrati da Varick Street nell’atrio
dell’enorme edificio statale.
«Oh, mi scusi, Jameson Rook, cittadino modello».
Consegnò la patente e sussurrò a Nikki: «Più telecamere che in un Best Buy a Natale. Cinque dollari che
Jack Bauer sa già della nostra presenza».
«L’ascensore alla vostra destra», disse l’addetto,
porgendo due pass da indossare su cui era scritto «PIANO 6». Quando però entrarono nell’ascensore e spinsero il 6, le porte si chiusero, le luci si abbassarono e la
cabina cominciò a scendere.
Dopo un breve istante di smarrimento, Rook disse:
«Ascensore nero», e cominciò a schiacciare il tastierino, senza sortire il minimo effetto per fermare la discesa. Rinunciò e disse: «Carino».
Le porte si aprirono in un centro di comando hi-tech
sotterraneo. Decine di militari e personale in borghese
provenienti da tutte le divisioni lavoravano sui computer e scrutavano giganteschi schermi LED a parete. I megadisplay mostravano decine e decine di telecamere di
sorveglianza e delle griglie illuminate, una delle quali
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somigliava a una pista cifrata del Nordest degli USA.
Una coppia di agenti in attesa, abbigliati con completi
di Joseph A. Banks, li accompagnò lungo una parete
sul fondo fino a una sala operativa, dove l’agente speciale Bart Callan girò attorno al tavolo da riunione
vuoto per andar loro incontro sulla porta.
L’ultima volta che Heat lo aveva visto, era andata
come in un film di spionaggio degli anni Sessanta.
Nikki stava pranzando in solitudine sulla panchina di
un parco; l’agente Callan si era materializzato dal nulla e si era seduto accanto a lei proponendole di unirsi
alla sua squadra per aiutarli a rintracciare Tyler Wynn.
Lei aveva ascoltato il suo discorso fino alla fine, ma poi
aveva rifiutato. Non ne era certa, ma aveva avuto la
sensazione che poi Callan avesse tentato di aprire un
fronte personale, inviandole segnali di amicizia… e
forse di un interesse più profondo. Ma Heat aveva già
una relazione e, a parte quello, aveva bisogno di indipendenza dai federali. Il suo stile investigativo non si
prestava alla burocrazia, alla politica e alle lungaggini.
Ora, a giudicare dal sorriso raggiante che lo precedeva, l’agente speciale Callan chiaramente non aveva perso le speranze su di lei.
«Heat, mio Dio, non avrei mai pensato di vederla
quaggiù». Allungò di scatto la mano e, quando Nikki
la strinse, lui posò l’altra sopra la sua e la tenne esattamente un secondo in più oltre la cordialità. Il volto di
Bart Callan si illuminò attorno a un sorriso ruspante
che la fece arrossire. Poi si voltò e disse: «Ehi, Rook,
benvenuto nel bunker».
«Grazie. Ed è un piacere venire a trovarla di mia iniziativa». A Rook bruciava ancora quello che aveva de-
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finito “il grande dirottamento d’auto”. Alcune settimane prima, quando lui e Heat erano tornati da Parigi, un
agente che si era spacciato per autista di un autonoleggio aveva bloccato le portiere e portato la limousine in
un magazzino vuoto nei pressi della Long Island Expressway, dove l’agente Callan li aveva interrogati sulle
loro attività oltreoceano.
Poi Callan serrò un braccio intorno alle spalle di
Rook mentre li conduceva nella sala operativa. «Avanti, non porterà mica rancore per la nostra breve chiacchierata estemporanea, vero?».
Improvvisamente entusiasmato dalla sala hi-tech,
con il tavolo di mogano grosso quanto un ponte di volo e un’imponente schiera di schermi LED, Rook disse:
«No, se mi fa incontrare il Dottor Stranamore».
Lo zelante agente gli rivolse un’occhiata perplessa e
tornò rapidamente a voltarsi verso Nikki. «Si sieda, si
sieda». Indicò le poltrone di pelle dallo schienale alto,
ma lei rimase in piedi. Callan ebbe sentore di guai.
«OK, non si sieda…».
«Ha detto a un mio testimone – un soggetto coinvolto nel caso di mia madre – che non può parlare con
me. Pretendo di sapere perché sta interferendo nella
mia indagine».
Callan si allentò il nodo della cravatta. Si era già tolto la giacca e Heat vide i tricipiti contrarsi contro le
maniche delle camicia. «Nikki, questa dovrebbe essere la nostra indagine. Non deve far altro che salire a
bordo».
«Gliel’ho detto, io voglio autonomia, non un apparato federale che s’intromette nel mio caso».
«Troppo tardi», disse una voce femminile.
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Heat e Rook si voltarono verso la porta. La donna
che stava entrando senza preavviso aveva il portamento di chi detiene il comando e lo sa. E a giudicare dalla repentina perdita di affabilità di Callan, lo sapeva
anche lui. D’un tratto teso, disse: «Nikki Heat, le presento…».
Ma la snella brunetta in tailleur nero elegante lo interruppe, presentandosi da sé: «Agente Yardley Bell,
Sicurezza Nazionale». Squadrò Heat per un attimo e le
strinse la mano con forza. Poi si voltò verso Rook, che
aveva un’espressione mai vista prima da Heat.
«Scusi, come ha detto che si chiama?», domandò,
riuscendo a stento a celare un sorriso.
Al che lei esclamò: «Jameson Rook. Porca puttana».
I due si avvicinarono per stringersi la mano, ma a metà
strada optarono per un abbraccio. Poi Yardley Bell
sorprese Nikki – e Rook – baciandolo. Certo, glielo
stampò sulla guancia e non sulla bocca. Ma era pur
sempre un bacio.
Per un attimo, Heat dimenticò i suoi problemi con
la Sicurezza Nazionale.
Yardley Bell indietreggiò, ma non di molto. Continuò a tenere tutte e due le mani appoggiate sulle sue
spalle mentre rideva e disse: «Mi dispiace. Non è stato
molto professionale, vero?». Rook restò a bocca aperta, per una volta senza parole. Poi Callan, Heat e Rook
si misero seduti. L’agente Bell scelse un punto per appoggiarsi al muro dietro la sedia di Callan a capotavola. Nikki rifletté sul messaggio di potere che trasmetteva.
«Detective Heat», esordì Bell. «Sono in trasferta dalla nostra sede nella capitale. Sono venuta quassù per fa-
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re da collegamento con l’agente speciale Callan e portare a felice conclusione questa faccenda di Tyler Wynn in
cui si è ritrovata per caso. Sono al corrente del suo coinvolgimento emotivo in questo caso e ha la mia più
profonda solidarietà». Si interruppe solo per un attimo e
poi proseguì. «Tuttavia, a scanso equivoci, questa è
un’operazione grossa, niente lupi solitari. Ne sappiamo
più di quanto immagina, e abbiamo una strategia generale che non può riguardarla in quanto esterna. Però –
se decide di svegliarsi e si unisce al gruppo – forse troverà una risposta alle sue domande. Che ne dice?».
«Agente Bell, giusto?», disse Heat. «È un vero piacere conoscerla. Ma credo che la mia visita sia quasi
conclusa. Agente speciale Callan, grazie per il tour». Si
alzò. Rook esitò leggermente, ma poi scattò in piedi
anche lui.
Erano quasi fuori dalla porta quando Bell disse:
«Non vuole sapere della telefonata di Salena Kaye dall’elicottero?». Nikki si odiò per quello, ma si fermò e
si voltò. Un mastodontico schermo piatto a LED sulla
parete prese vita con una serie di grafici animati che
scansionavano una mappa di Lower Manhattan e
Brooklyn. Yardley Bell si spostò accanto al gigantesco
touch screen e fece scorrere la mappa con la punta delle dita per ingrandire il dettaglio dell’East River. Un riquadro oblungo con dei numeri in rotazione nell’angolo in alto a destra marcava il tempo della ricerca sulla griglia.
«Questo è stato registrato nel momento in cui Kaye
le è sfuggita e ha preso in prestito l’elicottero dell’aviazione civile». Toccò un’icona sul lato dello schermo
e il puntatore verde brillante trovò il centro del fiume
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lampeggiando incessantemente. «Questo è il segnale
del cellulare che si sposta verso il Brooklyn Navy Yard
a quaranta chilometri all’ora». Un’altra luce balenò
sullo schermo. «Questa è la cella di Red Hook che ha
preso la chiamata. Il tracciato, come potete vedere,
rimbalza su circa otto ripetitori nel Queens, a Staten
Island, poi torna a Brooklyn e così via». Bell si scansò
di lato mentre le luci lampeggiavano e tintinnavano
sullo schermo come un videogioco di seconda generazione, e poi si spensero. «Questo indica quattro cose.
Non era un cellulare usa e getta. Era un cellulare criptato. Ed era una trasmissione digitale sofisticata, fatta
apposta per non essere tracciabile e poi implodere».
«Sono soltanto tre cose», disse Heat.
«Oh, giusto. La quarta. È al di là della sua comprensione. Può unirsi a noi e avere accesso a risorse come questa, oppure restare fuori e sbattersi il culo per
niente».
Intuendo che si stava toccando un tasto delicato,
Bart Callan si alzò in piedi e si inserì nella conversazione. «Non è nulla di personale». Rimase vicino a
Nikki, rivolgendole il suo sorriso più conciliante. Per
essere un militare aveva una certa cordialità, ed ebbe
un effetto calmante.
Heat frenò la rabbia. «E di che si tratta allora?».
«Di pure e semplici risorse. Noi abbiamo le infrastrutture, gli uomini e l’esperienza per occuparcene come si deve. Quello che mi piacerebbe, personalmente…». Fece una pausa e si premette il palmo contro il
petto. «È che lei si unisse a noi e ci aiutasse con le sue
intuizioni e, per dirla tutta, con le sue notevoli capacità, detective Heat».
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Callan la guardò fisso negli occhi e Nikki sentì di
nuovo un fremito involontario dentro di sé. Si voltò
verso Rook, chiedendosi se se ne fosse accorto. Poi
guardò la splendida agente dall’altra parte della sala,
che sembrava semplicemente star lì ad aspettare che si
chiudesse la faccenda, e si domandò se quella fosse una
tecnica agente buono/agente cattivo che alternava aggressività e persuasione, o se Yardley fosse semplicemente un’emerita stronza. Heat ricambiò il sorriso affabile di Callan. «È stato molto utile, Bart. Devo dire
che ho cambiato idea. Ero venuta qui con un diavolo
per capello per sapere perché stavate interferendo con
la mia indagine, ma adesso…». Lui la guardò con trepidazione. «Adesso vi dico proprio di togliervi dalle
scatole».
Callan insistette per salire su con i due ospiti in modo da poter fare la sua proposta di un altro incontro,
dando a Nikki il tempo di sbollire e riflettere. Quando Heat e Rook uscirono nell’atrio, Callan rimase nell’ascensore, tenendo la porta aperta con la mano. «E
non si faccia impressionare dai modi bruschi dell’agente Bell. Mi sono adattato anch’io. Quando mi è
piombata nell’indagine ho dovuto tenermi un po’ a
freno».
«Non è lei il più alto di grado?».
«Appunto».
«A me invece sembra il contrario, agente speciale.
E lei vorrebbe farmi entrare in questa disorganizzazione politica?».
«Comportiamoci da professionisti. Sorvoliamo sul
siparietto a cui abbiamo appena assistito. L’agente Bell
ha un curriculum straordinario nel controspionaggio.
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Chieda pure al suo amico qui presente». L’allusione
portava con sé un’ombra di animosità che indusse Rook
a distogliere lo sguardo e colse Nikki in contropiede
mentre elaborava il rapporto tra Jameson e Yardley. Ma
poi si riprese subito e rintuzzò.
«Pretendo ancora una risposta alla mia domanda.
Vaja Nikoladze».
«OK», disse Callan. «Gliela darò come gesto di buona
fede. Il georgiano è un informatore. E preferiremmo che
rimanesse tale». Gettò un’occhiataccia a Rook. «Andrei
avanti, ma non voglio finire in un virgolettato».
Rook disse: «Be’, se fai rapire un giornalista e una
detective sulla Long Island Expressway, ti sei accaparrato un paragrafo nel mio articolo».
Callan non rispose. Chiese a Nikki di pensarci bene, poi lasciò la porta per scendere di nuovo giù.
Appena saliti in macchina, Heat disse: «OK, sputa
fuori. Chi è Yardley Bell?».
«È una forza, vero?».
«Rook, ti ha baciato. Comincia a parlare».
«Ci siamo conosciuti nel Caucaso cinque anni fa»,
esordì. «All’epoca in cui i miei primi servizi sui ribelli
ceceni cominciavano a fare rumore».
«Limitati a Yardley Bell, Rook», disse lei. «So tutto
dei tuoi servizi».
«OK, e così mi trovo sul posto, seduto nel caffè accanto al mio ostello, a scrivere un pezzo sul mio portatile, quando questa donna si siede di fronte a me e si
presenta come field producer per la radio pubblica. Dice che stava leggendo le mie cose e voleva aggregarsi
per fare del lavoro preliminare su un documentario.
Ho riflettuto e ho pensato, perché no?».
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«Perché era carina?».
«Perché sono un patito di All Things Considered. E
perché in sei settimane di viaggio con i ribelli non avevo incontrato neanche una persona che parlasse inglese, figurarsi un’americana». Poi scrollò le spalle, ammettendo: «E va bene, era pure carina».
«E quando hai scoperto che era della CIA?».
«Quella notte. Mi sono svegliato e l’ho sorpresa a
curiosare nel portatile e nelle Moleskine».
«Nel cuore della notte», disse Nikki.
«Sì».
«La prima notte».
«Consideriamo i fatti. Sei settimane, americana, carina».
«Capito».
«Avevo la mia deontologia professionale, però. Non
avrei mai viaggiato come copertura per una spia. E di
certo non avevo intenzione di bruciare la credibilità
che mi ero guadagnato con i signori della guerra. E così il mattino dopo l’ho mandata via – OK, la notte dopo
– ed è finita lì».
Heat svoltò verso nord lungo l’Hudson e disse:
«Non è vero, Rook. Interrogo i bugiardi di mestiere,
non mi freghi. Non su questo».
«Fammi finire. Pensavo che fosse finita lì, finché sei
mesi dopo non sono stato rapito su un sentiero di
montagna da un gruppo scissionista che mi accusava di
lavorare per i russi. Mi hanno massacrato di botte per
una settimana nelle loro caverne. E indovina chi mi ha
trovato e ha guidato la missione di soccorso?».
«Susan Stamberg».
«La migliore alternativa. Yardley è stata con me
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mentre mi rimettevo in salute ad Atene e alla fine ho
portato un po’ di cose in un appartamento che aveva a
Londra. Puoi tirare le somme. È stato molto divertente, ma era complicato. Lei faceva un lavoro di cui non
poteva parlare e io ne avevo uno di cui non volevo parlare. Abitavamo insieme ma eravamo sempre in viaggio
tutti e due». Si fermarono a un semaforo a Columbus
Circle, a pochi isolati dal distretto. «Non ti mentirò, è
stato bello finché è durato. Ma non è durato».
«Conflitto di interessi?».
«Il più grande. Ho conosciuto te». Nikki si voltò
verso di lui e si guardarono fisso negli occhi finché un
clacson non strombazzò dietro di loro quando scattò il
verde. Lei ripartì e lui continuò: «E allora ho smesso di
vederla».
Nikki ripensò all’affettuoso saluto di Yardley e alla
sua manifesta fisicità con Rook, e riconsiderò sotto
un’altra ottica l’interesse dell’agente Yardley Bell per
la sua indagine. Ma quell’incontro le aveva detto un’altra cosa più importante. Se la Sicurezza Nazionale stava tracciando le telefonate al cellulare di Salena Kaye
in una sala operativa sprofondata in un bunker, stava
sicuramente accadendo qualcosa di grosso con Tyler
Wynn e il suo gruppo di cospiratori.
Heat parcheggiò in doppia fila la Crown Victoria
insieme agli altri veicoli della polizia di fronte al distretto sulla West 82nd. «Io non la chiuderei», gridò
Ochoa. Lui e Raley sbucarono dal parcheggio recintato diretti verso la Roach-mobile. «C’è stato un altro
omicidio».
Nikki li conosceva e sapeva interpretare i segni: gli
occhi impazienti, il passo affrettato. La pancia le disse
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che le cose stavano per essere bruscamente scaraventate in una nuova dimensione. «Quindi?», domandò
senza aggiungere altro.
«C’è un laccetto», disse Raley.
Il collega aggiunse: «Pare che abbiamo a che fare
con un serial killer».
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