calabrese_serio ludere - Dipartimento di Scienze della

COME OTTENERE
UN GRANDE SUCCESSO LETTERARIO
Sarò presuntuoso. Come si conviene, del resto, a chi inizia a
scrivere con «io». E come si conviene a chiunque osi fare presupposi­
zioni come quelle previste dal titolo. Le riassumerò per brevità, e
come chiave di quanto ancora a seguire. Prima presupposizione: una
teoria del successo letterario evidentemente non esiste, se si avanza
l'ipotesi che la si possa finalmente svelare ai tanti che non la conosco­
no. Insomma, è implicito che quasi quasi mi ci proverò io a sviluppar­
la. Seconda presupposizione: il successo letterario può essere teorizza­
to; cioè, visti ed esaminati successi letterari precedenti, si può dire
qualcosa che preveda successi letterari prossimi venturi. Altro corolla­
rio: il successo letterario (ma forse ogni altro successo) è sottoposto
allora a leggi che noi possiamo inferire, e non al puro caso o alla
comparsa trascendentale di un «genio» ideale. Ovverosia: studiando
alcuni casi concreti, si potranno prevedere altri fenomeni che si iscri­
vano nella stessa serie. Ma qui ecco il primo problema: quali sono i
fatti pertinenti a una teoria del successo letterario? Dirò che essi sono
sostanzialmente di due ordini: testuale, cioè che riguardano il testo e
basta, la sua fattura, la sua scrittura, i suoi contenuti; extra testuale (o
sociale), cioè che hanno a che fare con la sua produzione, la sua
distribuzione, il suo consumo.
Terza presupposizione, ed è così importante che decido di anda­
re a capo: il termine «successo» presuppone una fortuna del testo, e
dirò subito che non è la fortuna critica, ma quella di pubblico. Ag­
giungerò che non si tratta delle ragioni di una grande vendita osserva­
te con occhio distaccato. «Successo» per me contiene anche una con­
notazione positiva: contiene le motivazioni del grande consumo a par­
tire dall'idea che esso dipenda dal piacere del pubblico. Roland Bar­
thes? Piacere del testo? Nient'affatto. TI piacere che intendo io è un
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piacere che lega i due ordini di fenomeni citati al paragrafo preceden­
te, quelli testuali e quelli extratestuali, e non si limita per nulla alla
macchina letteraria in sè.
E cosÌ, direi, mi sono messo nei guai. Non accetto analisi del
prodotto letterario in termini di organizzazione del consenso: non mi
riesce, cioè, pensare al pubblico come un pubblico organizzato dall'al­
to e basta, che consuma perché vi sono strategie che lo spingono verso
scelte già fatte. E però non voglio qui accettare neppure analisi in
termini di puro messaggio, di testo in quanto macchinario di strategie
comunicative. (Ipotesi che ritengo corretta, ma non per lo scopo che
qui mi propongo). Mi rendo conto, però, che una teoria del successo
letterario in quanto teoria del piacere testuale ed extratestuale è un'ipo­
tesi avventurosa, per la quale non dispongo di strumenti adeguati, né
delle necessarie ricerche. E mi rendo conto, peraltro, che non dispon­
go neppure del linguaggio specifico (un linguaggio critico: un metalin­
guaggio dunque) adatto per descriverla. È per questo che ho comin­
ciato a scrivere con «io»: non mi sento di assumere il tono dell'ogget­
tività del discorso scientifico o pseudoscientifico, non mi sento di
essere un <dui»; preferisco la strada della soggettività (la strada della
letterarietà?). E pertanto, da adesso io fingerò un altro «io» (come
Rimbaud, «j'est un autre»), un «io» che scriverà un giorno un roman­
zo (un romanzo di successo), e che fin da adesso vi si prepara, sapen­
do - o meglio avendo appreso da Umberto Eco - che «di ciò di cui non
si può teorizzare, si deve narrare».
Dunque. Voglio scrivere un romanzo. Certo: a dirlo si fa presto.
Scrivere è un'altra cosa. lo, poi, non credo di saper bene neppure che
cosa sia, un romanzo. Anzi, addirittura ne ho letti abbastanza pochi in
vita mia, e quelli che ho letto io «credo» che siano romanzi, ma non
«so» se siano romanzi da nient' altro che la fascetta di copertina, o le
parole del critico letterario sul mio giornale preferito.
L'idea non mi è venuta di colpo. La coltivo piuttosto come incon­
fessata fantasia da quando avevo tre anni. Ma sÌ: da quando in casa
volevano fabbricare un genio in laboratorio, e invece di lasciarmi
giocare, come si conviene a ogni fanciullo di questo mondo, mi inse­
gnavano a leggere, scrivere e far di conto. Mia nonna, maestra elemen­
tare e mio personalissimo vate, diceva sempre: «da grande farai lo
scrittore». E le si illuminavano gli occhi al pensiero, mentre mi vedeva
tracciare con mano ferma splendide, eleganti, drittissime aste. È vero
che altrettanto spesso mi diceva: «da grande farai il Presidente della
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Repubblica», oppure: «da grande farai lo scienziato». E ciononostante
non mi è mai restata impressa nella memoria, e quindi nella speranza,
l'idea di essere un giorno il Presidente della Repubblica, o tantomeno
quella di studiare da scienziato.
Mi scuso per queste lungaggini (si chiamano «excursus», però, e
rientrano nelle regole del gioco). Quel che volevo dire è soltanto che
non mi sono svegliato stamattina con l'idea di scrivere un romanzo, ed
oplà il romanzo comincia. L'idea è antica, tutto qui. Ma, devo aggiun­
gere, mi si confà particolarmente. In fin dei conti, uno scrittore non è
nient' altri che uno che scrive. E io scrivo, e mi piace scrivere quasi
quanto giocare a ping-pong. (Solo, il ping-pong è più creativo).
Ho il preciso ricordo, ad esempio, di me bambinello alle prese
con quelle interminabili aste. Esercizio fecondo, lo ammetto, e di
grossa soddisfazione quando in seguito incontravo un certo e non
demeritato successo nei salotti della fine del '52. Però, via!, un po'
ripetitivo. Al punto che giudicavo con malcelato fastidio le torpide
menti di coloro che con le bocche rotonde d'ammirazione leggevano
pagine e pagine delle mie aste. Così, talora preso da sadica passione
per l'estraniamento e le poetiche d'avanguardia, mi davo a mutare il
senso direzionale di quei pallidi trattini, o volutamente introducevo
l'errore (un tremolio, una macchia, un pallino), programmato per
stimolare la critica e· suscitare il dibattito. Nulla: il mio successo era
tale che nessuno osava accorgersene. Credo che quelle prime espe­
rienze letterarie mi abbiano convinto, con assoluta e incrollabile cer­
tezza, della superiorità della mia intelligenza. Ed è per questo, credo,
che leggo poco o nulla.
Non che mi piaccia l'idea del talento naturale e spontaneo, per
carità. No, leggere, bisogna leggere. Purché lo scopo non sia quello di
leggere, che mi parrebbe del tutto tautologico. Ci sono tanti splendidi
scopi per la lettura. Leggere per addormentarsi, ad esempio, la trovo
un'invenzione divina. Un po' meno, ma sempre dignitosa, è quella
strana abitudine di alcuni di leggere al cesso, voi capite bene a quale
fine. Leggere in treno per accorciare i tempi del viaggio è poi una
necessità: altrimenti devi guardare il paesaggio e far finta che ti piaccia
come le cartoline illustrate; oppure intrecciare stupide conversazioni
con disgustosi sconosciuti; o vergognarti perché la bella signora può
pensare che la stai concupendo, mentre al contrario ti interessa sapere
di che marca sono le sue scarpe (anche se, devo dire, io in treno
concupisco continuamente); o ancora impazzire di dissociazione per il
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troppo guardare l'orologio e contare il ritardo del convoglio; o infine
morire per l'arsura, dal momento che, come è noto, se non leggi ti
viene sete, il bibitaro non c'è mai. e nelle stazioni il carrello capita
sempre all'altezza di vagoni tragicamente distanti dal tuo.
Lei, a questo punto, scuote la testa. E chiaro chi è «lei»: è la
donna, occasionale o duratura, alla quale io faccio leggere i pezzi di
romanzo, il mio romanzo. Non crediate che il suo giudizio mi interes­
si. Lei legge, su mia richiesta e perciò senza potersi opporre con
qualche esito, perché si stabiliscano le giuste gerarchie. Lei legge per­
ché il mio Narciso esploda. Lei legge perché io voglio sedurla, o
perché crede che io voglia sedurla. o perché vuole essere sedotta.
Magari dopo faremo all'amore, e tutto ciò sarà molto letterario, e io
l'ho già scritto in anticipo senza conoscerla, o conoscendola ma senza
conoscere in anticipo il fatto, e fare all'amore diventa, con questa
frase, inevitabile e sicuro. Devo sceglierla bene, che mi piaccia. lo non
posso non piacerle: qui c'è l'alibi pronto, !'intelligenza se non le sem­
bro bello, la mia bellezza come scusa per smettere di annoiarsi leggen­
do se le sembro bello e il romanzo brutto, e tutto ciò funziona come
un efficacissimo doppio vincolo.
Un istante, non vorrei perdere il segno. Mi sembra che stavo
dicendo che uno scrittore è tale perché scrive. Lapalissiano. non si
può negare l'evidenza. Ma, certo, persino un volgare apprendista come
me avverte che per scrivere un romanzo non basta essere uno scritto­
re, cioè uno-che-scrive. C'è sicuramente dell'altro, anche se per ora
non so essere più preciso. Posso dire soltanto che, faticosamente tra­
endo dalla memoria. ricordo di aver sempre considerato romanzo un
libro. Anzi, un libro grosso, con la copertina telata, e di solito una
figurina in sovracopertina. Un romanzo è un libro talmente grosso che
mi ha sempre dato l'impressione di dover essere noioso, e forse è per
questo che ne ho sempre letti pochi. Si. da piccolo ho letto Tolstoj,
Dostojevskij, Gogol, Verga, Hugo. Melville, De Foe, Hemingway, Stein­
peck. ed erano certamente noiosi oltre ogni limite, ma non li conside­
ravo romanzi. Come si fa a dire che Guerra e pace è un romanzo!
Guerra e pace è semplicemente Guerra e pace, e devi sapere come è
fatto esattamente come devi sapere che l'acqua bolle a cento gradi, o
che per andare in centro devi prendere il 14.
In seguito ho letto anche qualche romanzo italiano contempora­
neo, libri assolutamente insignificanti e letterariamente insulsi. Ma li
ho letti perché in quel periodo andavo spesso, non per colpa mia ma
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per pressione sociale, in certi salotti bene. E bisognava saperne qual­
che cosa, dal momento che la conversazione là dentro era fondata su
quei benedetti romanzi. In caso contrario, si finiva per tacere, e la
cosa mi sembrava sinceramente tediosa, oltre che imbarazzante. Non
puoi tacere davanti a uno che ti rimane antipatico, devi togliergli
spazio verbale, anticiparlo sull'emissione vocale, spezzargli lo scorri­
mento discorsivo, spostare il piano dell'argomentazione dove meno se
l'aspetta e dove è meno preparato, farlo sembrare improvvisamente e
definitivamente quello che è, cioè stupido.
In confidenza, ho avuto qualche altra avventura letteraria, ma
non vale la pena riportarla qui, perché non mi pare utile ai fini di
risolvere il problema centrale: capire che cosa è mai un romanzo.
Ecco, dirò solo che mi è piaciuto Marquez, anche se ho desistito
dalI'oltrepassarne la metà, perché era scritto molto piccolo come so­
vente accade nelle edizioni economiche, e per un numero inverosimile
di pagine. Ho pensato inoltre che, avendo tirato mezzo milione di
copie, potevo ben trovare qualcuno che me lo raccontasse.
Ecco un altro punto decisivo: un romanzo lo leggono molte più
persone di quante leggano, che so io, un saggio di psicanalisi o un
libro di poesia ermetica. Si dà certamente il caso di romanzi del tutto
privi di fortuna critica e di successo di pubblico, ma questa mi sembra
una variabile indipendente.
Che può essere spiegata con la più facile delle ragioni: il romanzo
era brutto. Ma allora non si vede perché mai un editore dovesse
pubblicarlo. O con la più romantica delle ragioni: l'autore non è stato
compreso. Ma ciò mi pare solo materia per scrivere altri cento poten­
ziali romanzi, o per ristampare con successo e senza diritti d'autore i
libri di un morto.
Infine c'è la ragione più logica: il romanzo è rimasto nel cassetto
dell'autore - il che mi pare un inutile snobismo, tanto più che romanzi
di tal fatta vengono poi sempre pubblicati a maggior gloria degli agen­
ti letterari che li «scoprono» - o è stato rifiutato dagli editori, e quindi
dopotutto non è un romanzo.
Del romanzo so ancora, per averlo studiato all'università, che ne
esistono diversi tipi. Due, li sanno riconoscere tutti: hanno quelle
tipiche copertine gialle o rosa, e quell'aspetto dimesso di cosa che poi
si butta via, non è degna di stare in biblioteca. So che per essere
democratico oggi dovrei dire che si tratta di opere assai spesso nobili,
ma sinceramente non me la sento. TI mio romanzo non avrà mal
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copertine gialle o rosa. E la costola, io la pretendo. Degli altri generi,
so poco o nulla. Per riconoscerli bisogna leggere i romanzi, e io non
sono, come ho detto, molto abituato. A dir la verità non ho chiaro
neppure se il genere bisogna sceglierlo prima (non so: io che scrivo,
l'editore che sceglie la collana) o va bene anche dopo (io che mi faccio
intervistare, il critico del giornale, la pubblicità, il lettore che sbaglia a
leggere). Se però è necessario dirlo prima, io un'idea ce l'ho: il mio
romanzo mi piacerebbe che fo�se d'avventura. Sì, perché è lì che un
romanzo rivela la sua romanzità. Nella trama, nella storia, nell'intrec­
cio, nella favola. Pensandoci bene, se non ci fosse la trama, io per
esempio, che leggo poco, non conoscerei quasi nessun romanzo, per­
ché nessuno me lo potrebbe raccontare; e le pagine letterarie dei
giornali sarebbero destinate all'estinzione; e l'ultimo anno di liceo
sarebbe incredibile senza promessi sposi, senza malavoglia e fontamare.
Le famose quindici pagine sono il limite invalicabile di tutti colo­
ro che cominciano un romanzo. La cosa sta così: tu scrivi di getto,
pieno di furore romanzesco; il furore poi si attenua col crescere della
noia, del callo alle dita, del caldo (non so perché, ma un romanzo si
scrive al caldo, ne sono sicuro). A pagina quindici ti fermi e rileggi.
Idiozie. Smetti. TI romanziere viene fuori alla distanza, viene fuori da
pagina sedici. Quanto a me, ho qualche difficoltà. So che posso anda­
re oltre, ma ho dei problemi di tempo, perché ho anche altre cose da
fare (bisogna pur mangiare, no?). Pertanto, dovrò darmi una discipli­
na. Vediamo: un romanzo per me deve avere almeno duecento pagine.
E deve essere diviso in capitoli, per prendere un attimo di respiro qua
e là, e per consentire qualche formuletta retorica applicabile soltanto
nelle chiusure e negli inizi (un po' di stlspence, ritmo, un po' di poe­
sia). Facciamo venti pagine per capitolo, sono dieci capitoli. Dunque,
mi occorre una trama spezzabile in dieci pezzi dello stesso peso. Poi la
trama la condirò con alcuni ingredienti, per il momento a me del tutto
ignoti, ma che di sicuro posso imparare per strada.
Si fa presto, però, a sostenere di «inventare una trama». lo di
trame ne conosco moltissime, perché sono un tramologo appassiona­
to. Però, più ci penso e più ogni trama mi pare irrimediabilmente
scritta prima. Banale semiotica d'attacco. Con una soluzione, tuttavia.
Certo conosco tante trame, vere o verosimili, false o falsificate, da non
essere più in grado di scegliere. Ma ci può essere l'aiuto dell'autobio­
grafia, che non è meno inventata delle altre, ma è più controllabile.
Ecco: ficcherò trame nella mia autobiografia, che in fondo ho raccon20
lIIille volte per conversazione, per interesse, per seduzione, per
�',IIIl'\l. lo mi sono romanzato e mi romanzo ogni giorno, ogni ora, ogni
lliilllllo, E ho sperimentato già cosa attira l'attenzione, e cosa suscita
'011 vinti consensi. Le mie trame, così, divengono inesauribili e svariate
Il seconda delle più diverse situazioni. Per un pubblico ingenuo, rac­
, .. Ilio la storia della mia esotica origine. Per un pubblico impegnato,
LI arricchisco con le fughe di mio padre dai campi di concentramento.
AI pubblico raccolto e intimista, ricordo con sguardo trasognato e
illiristito la mia infanzia solitaria, e la condisco con inibizioni, proble­
Illi con le donne, inaudite crudeltà materne. A chi ama il dolore, servo
il mio corpo malato e i miei incontri con la morte. Ai politici, ridipin­
go un mitico sessantotto. Ai sentimentali, fornisco dovizia di storie
infelici con donne stupende e crudeli, e conseguente stanchezza della
vita. Se devo fare il leader, offro le mie memorie, che non sono nulla
di diverso dai precedenti casi, ma contengono riferimenti, che so io, a
Barthes, Berlinguer, Bocca, Spadolini, Andreotti, Jakobson, Fellini.
(Beh', qui si può arrivare a seicento pagine) .
Perbacco, dimenticavo. Un romanzo deve avere i dialoghi, che
scandiscano l'azione, e soprattutto che facciano spazi bianchi e neri
irregolari. altrimenti si può credere che è un saggio di filosofia morale.
Esempio:
«Ciao».
«Ciao».
«Come stai?».
«Non c'è male, e tu?».
«Bene, bene».
Capisco, non sembra un granché come dialogo. Però c'è l'impli­
cito, no? Metti che la trama preveda che lei e lui si incontrano a casa
di lui, e sanno che ciò è molto compromettente, perché lui è sposato.
Ripensate al dialogo, allora, e mettiamo che lui sia io, mentre lei è lei.
Nelle righe dispari parlo io, in quelle pari lei:
«Ciao». lo sono evidentemente sulla porta di casa, reggo l'uscio
con una mano, e sto di fianco per farla passare con un gesto invitante.
Il mio ciao è un sussurro, non c'è bisogno infatti che la saluti, mi ha
telefonato prima se poteva venire. Il mio poi è un sussurro romantico:
carico di promesse, di sottintesi, di erotismo. Il mio ciao è un'introdu­
zione, languida e sensuale. Chiudo la porta. Lunghissimo bacio: sem­
pre più emozionante.
«Ciao». Riga pari, è lei che dice ciao, ma adesso è un ciao ridon10110
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dante, che esprime maliziosa soddisfazione, come per dire beh niente
male questo ciao, e dentro di sè riconferma il suo potere di seduzione.
«Come stai?». Banale, ma ridondo un po' anch'io. E chiaro che
sta benissimo, anzi a dire il vero è splendida. (Può non essere splendida
una donna che in un romanzo bacia qualcuno tanto sensualmente?).
«Non c'è male, e tu?». Ah, biricchina, figo pari è lei, continua la
schermaglia, e si dirige lentamerHe verso il divano, si toglie le scarpe,
si volta e sorride. Promessa, mascheramento, seduzione erotica. Non
si può dire altro, vietato ai minori.
«Bene, bene». Sì, qui c'è una caduta mia, ve lo concedo. Ma
intendiamoci, io adesso sto pensando ad altro. Sto pensando ad un
complesso problema teorico, quello di scrivere un romanzo che sia un
romanzo di successo. In gara, vedrete, farò di meglio.
Riprendiamo un attimo fiato. Il mio romanzo, mi sembra, comin­
cia ad esserci quasi tutto. Ci sono io, naturalmente, che come ho già
detto sono già un romanzo. C'è una trama, che sicuramente è già stata
scritta, ma non come tale, bensì in tanti piccoli pezzi sparsi chissà
dove, che io ricompongo come un gioco di meccano, e che verrà fuori
con tutta la sua originalità, esattamente come una partita a scacchi,
tutta prevedibile ma in ogni istante diversa da qualsiasi partita a scac­
chi finora giocata da chicchessia. Naturalmente c'è una scacchiera,
visto che siamo in metafora: cioè un luogo materiale dove la partita
avrà luogo. Il libro, i suoi capitoli, le sue pagine, i suoi spazi bianchi e
neri, la sua copertina, la sua costola, il suo indice. La sua scrittura
materiale.
Mancano gli «accidenti», e forse poco ne dirò, perché ho già
accennato che in fondo si possono raccogliere per strada. So che
l'accidente è importante, non è per sottovalutarlo che ne taccio. Solo
datemi fiducia, so quel che vi dico. lo nella metafora mi sento mae­
stro, e la metonimia per me non ha segreti. E so costruire i ritmi più
diversi e le assonanze più ardite, e capire come il tono porti la tragedia
o la commedia, e intendere come si debbano sincopare o diluire le
passioni. Quanto al lessico, mi permetto di sostenere che forse non ho
eguali al mondo: il mio vocabolario abbraccia i termini più inusitati, e
conosco dialetti e quel tanto di lingue straniere. Invento anche parole,
talora: il cui senso giunge al bersaglio laddove la lingua difetta, e la cui
forma è plausibile ancorché incerta e allusiva.
Rimarrebbe da stabilire chi leggerà il mio romanzo. Questione
fondamentale, all' apparenza, perché, se un romanzo deve dire qualco-
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sa a qualcuno, è bene sapere chi sia questo qualcuno. In confidenza,
vi dirò che il problema a me pare invece del tutto irrilevante. A me,
del nome e cognome del mio lettore importa ben poco, e per nome e
cognome intendo anche l'età, il sesso, la professione, 1'altezza, il peso,
l'educazione, la classe, il numero di scarpe, il colore dei capelli. Dice
il mio obiettore: ma le parole selezioneranno il pubblico, e così le
frasi, e così 1'ardimento stilistico. Insomma: il sapere distribuito nel
testo entrerà in conflitto o in sintonia col sapere distribuito nella
società. Balle. Non ci sono testi tanto difficili, ermetici, poetici, quan­
to gli articoli sportivi di un quotidiano del mattino. Eppure le varie
gazzette dello sport tirano da matti. La parola complicata, l'incom­
prensibile metafora, la frase ellittica, la citazione colta navigano in un
testo, e dal testo vengono spiegate. Il vero testo incomprensibile quello che davvero seleziona i lettori è il testo noioso, il testo che
non sa spingere, attraverso l'avventura, allo sforzo contro la pigrizia
mentale. Tutto il problema è che la distribuzione dei saperi (ribadisco:
sapere del testo, sapere dei personaggi del testo, sapere del lettore) sia
giocata essa stessa come se fosse una trama. Sia perciò appetibile,
divertente, mossa, emozionante, incuriosente. Il romanzo è un roman­
zo di saperi e di passioni. Con un premio finale, il mio personale
sapere (che ancora non è un sapere vero e proprio perché non è
entrato in circolazione) sul quale il gioco si concluderà come in un
bersaglio. Godimento supremo: il mio sapere non è già saputo e viene
accettato come degno di essere saputo, ancorché non condiviso. Delu­
sione estrema: il mio sapere era scontatissimo, e non provoca neppure
il piacere della ripetizione ammiccata, che in fondo è anch'esso, e
sempre, una novità.
Capisco, e me ne scuso, che finora il mio romanzo non sia ancora
necessariamente un romanzo di successo. Me lo figuro certamente
ben scritto, colto quanto basta, appassionante oltre ogni legittima spe­
ranza. Me lo figuro lussuoso ma non costoso, di buon editore, di
giusta lunghezza; ben incartato, ben illustrato e pubblicato nella sta­
gione giusta (estate, feste natalizie). Ma non è tutto. Il mio nome
potrebbe essere già famoso per i più vari motivi. Ma neanche questo è
tutto. Gli manca qualcosa, un qualcosa che non è neppure un premio
letterario, ma una proprietà più generale. Una proprietà che è quella
che spinge caio e sempronio a comprare una copia dopo che ho vinto
lo Strega, dopo che è uscita la versione cinematografica, dopo che si è
vista la riduzione televisiva, dopo che per una settimana ne ha parlato
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un noto attore alla radio, dopo che sia uscita la mia fotografia su la
Repubblica. Senza che tutto ciò significhi necessariamente che il pub­
blico è debole, si fa convincere dalla propaganda, aspetta solo l'opi­
nione del leader, crede come un babbuino al lancio in laboratorio.
Questa proprietà è il piacere extratestuale del testo. Anch'esso è
un gioco, anch'esso ha delle regole per così dire genetiche, ma an­
ch'esso si svolge e viene letto c0!lle una partita, tutta prevedibile, ma
non per questo meno diversa da tutte le altre partite. Primo Tempo.
(Perché lo svolgimento è anche questo come un romanzo: c'è trama,
c'è azione, c'è emozione). Devo far sapere che sto scrivendo un ro­
manzo, anzi che l'ho già scritto e che tra poco sarà tra voi. Quanto
poco? Il calcolo è semplice: quel tanto che mi riuscirà di tenere accesa
l'attenzione prima che ci si stufi. Un anno perfino, se san bravo; tre
giorni se non valgo un granché. La scena: devo fare in modo che il
fatto che io scriva un romanzo appaia come un segreto, che chissà
come trapela. Cioè: io devo dire qualcosa per far sì che si pensi a un
segreto. In particolare devo dire qualcosa a qualcuno che sia istituzio­
nalmente un dipanatore di segreti. Un giornalista. Un agente lettera­
rio. Un grande critico. Amici potenti che lo diranno ad amici giornali­
sti, agenti e grandi critici. Amici che hanno amici potenti che...
I dipanatori di segreti cercano di dipanare anche il mio segreto.
Ma attenzione, quel poco che dirò deve davvero giustificare l'attesa di
segreto. Se Mario Rossi fa sapere che sta per scrivere un romanzo, per
quanto ciò sia segreto non è un vero segreto: non gliene frega nulla a
nessuno. Ma anche se Marquez fa sapere in segreto che sta per scrive­
re un romanzo ancora non è un segreto. Per quanto riguarda Mario
Rossi (che dovrà però cambiarsi anche il nome, altrimenti non è credi­
bile), il segreto dovrà essere qualcosa di veramente grosso, che so io il
fatto che il papà è una donna, che Spadolini da giovane amava i
ragazzini, o qualcosa di similmente scandaloso. Per Marquez il segreto
sarà inverso: per esempio che questo è l'ultimo romanzo che scrive, ha
deciso di smettere perché ha raccontato tutto il raccontabile.
In breve, quel che voglio dire è che ognuno sviluppa possibili
segreti. Ma che questi segreti possibili hanno a che fare con quello che
già si sa di lui. Il segreto dell'uomo ideale sarà quello di essere stato
sposato in gioventù e di raccontarlo in un libro. Il segreto del grande
saggista sarà quello di aver messo insieme una raccolta di poesie. E
così via. E ovvio che c'è chi è favorito nella istillazione di possibili (o
anche pseudo) segreti, l'uomo politico in testa a tutti, il grande giorna24
lista all'immediato inseguimento. (Toh, ma non sono costoro i candi­
dati tradizionali al libro di successo? Bocca, Biagi, Goldoni, Monta­
nelli, e poi Andreotti, Cossiga, il papa ... ).
La scena a questo punto si complica, e siamo al Secondo Tempo.
Il dipanatore di segreti entra in azione, e vi entra lavorando secondo
paradigmi indiziari, come Sherlock Holmes: fiuta, indaga, analizza,
induce e deduce, avanza ipotesi, e tira conclusioni. Ma, è questo il
bello, lavora anche d'azione, come nello hard boi/ed: intervista, foto­
grafa, provoca, guerreggia con la concorrenza, elimina le spie awersa­
rie. Trionfa chi pubblica per primo, e come è logico tutti pubblicano
per primi credendo di essere i primi (cioè: lo stesso giorno). Oppure
pubblicano dopo, ma qualcosa di più lungo e definitivo (la «vera»
intervista dell'autore, un pezzo di manoscritto trafugato, l'opinione in
esclusiva dell' editore).
Terzo Tempo, epifania. Il romanzo effettivamente esce dopo aver
tirato la corda il più possibile. E tutti fanno di tutto per considerare
questo momento come la resa dei conti. Il segreto infatti non è stato
svelato da nessuno, finora: lo si svela in pubblico, durante uno spetta­
colo, al quale sono chiamati alcuni eletti che hanno avuto il romanzo
in anticipo (la confidenza totale e incondizionata). C'è l'autore, colui
che sa per definizione, e ci sono i pochi che hanno già letto e dunque
sanno per informazione: l'autore non sfuggirà, non potrà mantenere
alcuna forma di segreto, perché ci sono altri che stanno n a smasche­
rarlo. I dipanatori di segreti, che, secondo le regole, non hanno anco­
ra dipanato nulla, saranno di necessità costretti a ritornare sul tema, o
quanto meno a assoldare loro propri sapienti che a loro volta sma­
schereranno, recensendo, tutti i segreti del pretendente al segreto.
Anche quelli che lui stesso non conosce, che sono i più segreti di tutti.
A questo punto l'opera può moltiplicarsi. E di fatto si moltiplica,
perché, nonostante il disvelamento di un numero altissimo di segreti
concernenti il romanzo sul romanzo, ne resta sempre uno che non
potrà essere svelato pena la concessione di uno spazio verbale identi­
co a quello del libro in oggetto. Insomma, resterà sempre il segreto
del romanzo, svelabile soltanto leggendolo alla prima all'ultima pagina.
La letteratura, insomma, alla lunga vince, e per quanto io sappia
benissimo che questo è un frusto luogo comune, lo ribadisco. Alla
lunga, la letteratura vince. Pensate anche al più tradizionale degli
happy end per un romanzo di successo: la trasposizione cinematografi­
ca e televisiva (di gran lunga più redditizia di un premio letterario).
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Essa dà corpo ai fantasmi della narrativa, rende visibile un intreccio,
svela (a modo suo, figurativizzandoli) alcuni altri tipi di segreti stavol­
ta del romanzo. Dà un volto ai personaggi, rende le descrizioni dei
ritratti, concretizza l'astrazione. Esibisce, insomma, ciò che è più im­
maginario: e lo rende pertanto più commestibile. Ma, di nuovo, l'im­
magine così concreta, così individuabile, così «pubblica» non giunge­
rà mai a svelare ogni segreto de� romanzo. Resta sempre qualcosa, un
residuo intangibile, da svelare del tutto. Perché il romanzo, per il suo
essere parola, è esso stesso sempre segreto. La parola non dirà mai
tutto: selezione del linguaggio e nel linguaggio, essa tacerà, alluderà,
segmenterà, impliciterà. La cooperazione del lettore non potrà mai
avere surrogati per il disvelamento del segreto. Perché la letteratura è
sempre in qualche modo il territorio dell'ignoto. Perché la letteratura
è soltanto un gioco.
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