C'è persino il morto, omicidio!, un innocente suicida per non finire in galera, un assassino inutilmente in fuga da tutto, meno che da se stesso (quindi fuga impossibile); il gran segreto della verità condivisa e taciuta per amore e contro legge; lei, puttana trattata con amore; e l'altra lei che per amore istantaneo e totale (alzi la mano chi non l'ha sognato; alzi la mano chi conosce qualcuno che l'ha vissuto) , si fa trattare da puttana e lo scopre un attimo dopo. Naturalmente, belle entrambe. Insomma, ne succedono di cose, in questo libro. Eppure, sembra che non succeda niente. Se dovessi riassumere questo romanzo con alcune sue frasi, sceglierei queste: “Tutto sembrava inutile nella sua vita sospesa”; “E tutto rimase sospeso, indifferente. Come se l’indifferenza fosse il massimo piacere che si potesse vivere”; “Parlavano ogni giorno delle stesse cose, come un libro di preghiere”; “Aveva l’anima spopolata”; “Tutti desideravano tacere, come se l’assenza di suoni potesse cancellare le colpe”. Cosa voglio dire? Che in questo libro le cose accadono in un attimo, pochi righi (cambia persino lo stile) e non succedono per decine di pagine, nel senso che le ragioni di quel che avviene, minuziosamente esposte, ma come se si parlasse d'altro, sono più importanti di quel che avviene. Per l'autore, mi sembra che la vera ragione del libro sia quello che sta “sospeso” (forse la parola più presente in questo testo) fra due fatti; e i fatti siano solo un obbligo professionale, per il narratore, per poter parlare di quello che li precede o li segue. Quindi, aspettatevi un lungo non succedere niente, poggiato su fulminanti accadimenti, liquidati in breve, come se le cose a lungo sospese, cadessero, precipitevolissimevolmente, appesantite da tanta attesa. E cadessero proprio mentre il lettore sta per dire: “Sì, vabbé, ma...?”. E zac! “Un moto confuso. Fu un attimo. Un balzo. Il coltello in mano. Un colpo deciso, ben vibrato. Al cuore. (...) Come un vecchio samurai. Il suo sangue si mischiò a quello dei capretti”. Sbrigata la pratica (ho saltato due righi, per non bruciare la trama), l'autore torna a occuparsi di quello che davvero lo interessa: il prima e il dopo, e soprattutto il perché. Che non è mai lineare, è confuso, magari irrazionale, contraddittorio, insomma mai davvero chiaro. Perché così siamo noi. E capisci come mai l'autore tratti così “male”, frettolosamente, i fatti: dal momento che accadono e sotto gli occhi di tutti, e sono facilmente descrivibili, i fatti sembrano affermare verità. I fatti sono o non sono. Le ragioni di quei fatti sono e non sono. Ecco perché tutto è così “sospeso”, perché mentre l'anima brancola verso ogni direzione, la vita pretende atti che ne percorrano solo una. Pretende una continua opera di amputazioni dell'infinito possibile, in cambio di una possibilità. Il racconto si svolge, a volte, nelle forme che sarebbero tipiche della narrazione orale, non di quella scritta. La prima, avendo necessità di memorizzare lunghi brani, procede per formule fisse (per questo, l'aurora, in Omero, ha sempre “le dita color di rosa”). E in questo libro, per esempio, piove a dirotto e di colpo, sempre allo stesso modo e sempre con le stesse parole: “Le strade si svuotarono. I bar si riempirono. Alcuni con passo veloce tornarono a casa. Balconi e finestre chiusi. I televisori si riaccesero”. Ma, dal momento che un romanzo deve cercare di sfuggire alla banalità, lo fa d'agosto. E non c'è rischio che ce ne dimentichiamo, dal momento che le pagine sono quasi fornite di termometro, perché veniamo informati quasi di ora in ora, di quanto caldo fa (“C’erano già trentanove gradi ”...). Naturalmente, l'autore fa uso di buon mestiere, nel senso che quando credi di aver capito cosa, infine, sta per accadere, lui ne predilige un'altra. Ché così siamo noi: prevedibili nel pensare, imprevedibili nel fare; e siamo anche il contrario di questo. Infatti, nel romanzo troverete chi fa proprio quello che ci si aspetta da lui e chi tutt'altro, proprio mentre vi augurate e vi siete convinti che stia per fare quello che a voi, a tutti, parrebbe giusto che facesse. La trama, per fortuna, sorprende. E, a volte, sembra ancora un pretesto per raccontare la Calabria, le sue dimenticanze, i suoi caratteri, e il rammarico, profondo, per molte cose, per tutto quel che potrebbe essere e non è. Un'amarezza che non uccide la passione per questa terra, ma che, nell'esaltarla, la rende dolorosa. Per la reazione tipica degli amori traditi, che incapaci di accettare la diminuzione del bene, ne distruggono, con astio, accanimento, anche il poco che ne rimane. Invece di ripartire da quello. E ve ne accorgete da molte cose, in questo libro; per esempio, quando l'autore si scopre, persino troppo, descrivendo: “Quegli uomini che la Calabria dovrebbe piantare al posto degli ulivi”. Buona lettura. Pino Aprile
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