Mt 5,1-12 - Villa Elena da Persico

5° - 2013/14
Don Franco Mosconi
“MESSOSI A SEDERE... LI AMMAESTRAVA”
(Mt 5,1)
LETTURA SAPIENZIALE DEL VANGELO DI MATTEO
L E B E A T I T U D I N I (MT 5,1-12)
- TERZA
PARTE -
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Affi – Villa Elena, 15 febbraio 2014
Don Franco Mosconi
Affi, 15 febbraio 2014
Iniziamo con la preghiera:
Gesù, tu hai detto
che le tue parole sono Spirito e vita.
Fa che le parole su cui meditiamo
siano anch’esse per noi forza di Spirito Santo,
apertura di vita concreta;
siano meditate per essere praticate,
così che possiamo seguire e imitare Te,
nostro Signore,
nostra guida,
nostra via;
che vivi e regni con il Padre,
nell’unità dello Spirito Santo,
per tutti i secoli dei secoli.
Amen.
Proseguiamo nella nostra carrellata di meditazioni sulle Beatitudini. Siamo arrivati ai:
“Beati i puri di cuore,
perché vedranno Dio”.
Cerchiamo di affrontare anche questa beatitudine, allargando il più possibile la prospettiva, per
capire fino in fondo cosa voleva dire Gesù con questa espressione.
11. BEATI I PURI DI CUORE
[8] Beati i puri di cuore,
perché vedranno Dio.
É la prima volta che compare il nome di Dio, mentre in tutto il testo delle beatitudini due sole volte si
nomina Dio:
·
in questa in cui si dice che “...essi vedranno Dio” e
·
nella beatitudine successiva, quando si parla degli
“Operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio”.
“...vedranno...” : per chi si impegna con cuore puro,
Dio costituisce un’esperienza vitale.
“...vedranno...” : cioè vedere come esperienza di vita.
Mentre nelle beatitudini precedenti si descrive cosa l’uomo riceverà, per esempio: “ riceveranno il Regno,
saranno consolati, erediteranno la terra, la sazietà, la misericordia”, cioè riceveranno un effetto preciso
dell’opera di Dio, in questa sesta beatitudine invece si riceverà Dio stesso. I puri di cuore e gli operatori di
pace avranno il dono della comunione con Dio, perché vedere Dio vuol dire questo.
La sesta beatitudine va molto più al cuore della finalità ultima della vita dell’uomo: egli non riceve qualcosa,
ma riceve il tutto di Dio. Quasi a dire che nelle beatitudini precedenti, il dono del regno, della giustizia, della
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consolazione, della terra, tutti i doni promessi sembrano essere propedeutici, introduttivi all’ultimo dono:
quello di Dio stesso.
Egli, Dio, è la ricchezza dell’uomo; è la sua consolazione; è la sua sazietà; Dio è la sua eredità ultima.
Come abbiamo fatto anche con le altre beatitudini, cerchiamo di comprendere i termini di questa
beatitudine.
Spiegherò il significato di almeno tre termini:
- cuore
- purezza
- visione di Dio.
▪ Cos’è il cuore?
Nel greco profano il termine è kardia viene usato proprio in senso letterale, per indicare l’organo centrale
del cuore umano, fonte della vita fisica; è inoltre usato in senso traslato per indicare la sede degli impulsi
psichici, la fonte della vita spirituale.
Nel Primo Testamento, il vocabolo più antico nell’ebraico per indicare il cuore è la parola leb, che poi i
Settanta - quelli che hanno tradotto la Bibbia ebraica in greco - traducono con kardia e gli danno il
medesimo significato detto sopra.
In particolare il cuore è la sede dei sentimenti, siano essi di gioia o di dolore (il Deuteronomio parla di gioia,
Geremia parla anche di dolore), oppure sede di tranquillità (nel libro dei Proverbi). Il cuore è anche sede di
agitazione, è la sede dell’intelletto, della conoscenza, degli impulsi, delle facoltà intellettuali, come delle
fantasie, delle visioni. Ma anche la stoltezza (il libro dei Proverbi) e i cattivi pensieri si annidano nel cuore
(sono solo alcune citazioni che troviamo nell’A.T.).
Dal cuore provengono anche la volontà, l’intenzione e la decisione pronta a passare all’azione.
Il cuore, però, più che le singole funzioni, indica nell’Antico Testamento l’uomo con tutti i suoi impulsi,
l’uomo nella sua interezza. Se il cuore è il centro della vita interiore dell’uomo, ciò che da esso proviene lo
rende responsabile.
Di fronte alla parola e all’azione di Dio, il cuore è l’organo con il quale l’uomo prende posizione nella fede
come nell’indurimento: o tu apri o c’è l’indurimento.
Il cuore è anche la sede del timore, ed è anche la sede dell’adorazione di Dio. Il cuore dell’uomo pio è
fedelmente affezionato alla legge di Dio (dice Isaia); quello dell’empio è indurito, lontano da Dio.
La conversione a Dio avviene nel cuore. (Pensate al Salmo 50).
Sono tutti elementi che troviamo nell’Antico Testamento.
Nel Nuovo Testamento molto frequenti sono i passi in cui il termine kardia appare come sede della vita
spirituale interiore, in contrasto con l’apparenza esteriore.
Nel cuore s’incontrano le facoltà dello spirito: l’intelletto, la volontà, i moti dell’anima, i sentimenti, le
passioni, gli istinti.
Il cuore, insomma, raffigura l’io dell’uomo, cioè la sua stessa persona.
Il significato più importante di kardia nel Nuovo Testamento compare quando si tratta della posizione
dell’uomo di fronte a Dio, il punto in cui Dio si rivolge all’uomo, cioè il luogo del dubbio e dell’indurimento,
come della fede e dell’obbedienza.
Per esempio in Marco: «dal cuore vengono i cattivi pensieri».
Nella lettera ai Romani: «nel cuore si annidano concupiscenze vergognose». É il cuore ad essere indurito e
impenitente, a volte perverso, incredulo, duro a capire, vittima delle tenebre.
Come abbiamo detto, il cuore è sede della incredulità, ma anche della fede.
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La parola di Dio non colpisce soltanto l’intelletto o il sentimento, ma penetra nel cuore dell’uomo. Non solo,
ma negli Atti (2,37) è Dio che apre il cuore dell’uomo e vi fa risplendere la sua luce.
Quando lo Spirito si stabilisce nel cuore dell’uomo, questi non è più schiavo del peccato, ma figlio ed erede
di Dio, dice Paolo ai Gàlati.
Nel cuore Dio riversa il suo amore.
Nel cuore la fede viene conservata nell’obbedienza, nella pazienza; come pure viene conservata la parola di
Dio.
Quante volte Maria conserva nel cuore la Parola!
E nel cuore la pace di Cristo incomincia a stabilire il proprio dominio.
Questa purezza di cuore, però, ha un solo fondamento: Cristo.
É Lui a purificarlo col proprio sangue (lettera agli Ebrei), a prendervi dimora mediante la fede.
Anche Matteo parla del cuore e possiamo verificarlo brevemente in alcuni passi:
Mt 9,4:
al paralitico portato davanti a Lui, Gesù perdona anzitutto i suoi peccati. «Gli scribi e i
farisei incominciarono a pensare: “Costui bestemmia” (quando Gesù perdona il
paralitico) Ma Gesù, conoscendo i loro pensieri, disse: “Perché mai pensate cose
malvagie nel vostro cuore?”», quindi il cuore come la sede delle cose malvagie.
Mt 13,15:
Gesù sta spiegando ai suoi discepoli perché parla in parabole e alla fine cita Isaia 6, che
dice: «Perché il cuore di questo popolo si è indurito, son diventati duri di orecchi...».
Mt 15,8:
Gesù citando una profezia di Isaia dice: «Questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo
cuore è lontano da me».
Vedete quante volte questa parola emerge nelle Scritture?
Mt 24,48:
Gesù sta narrando la parabola del “servo fidato e prudente”, preposto dal padrone ai suoi
domestici e dice: «Ma se questo servo malvagio dicesse in cuor suo: Il mio padrone
tarda a venire, e cominciasse a percuotere i suoi compagni e a bere e a mangiare con gli
ubriaconi...» ...dicesse in cuor suo...
Anche in questi passi di Matteo il cuore appare come il centro della vita intellettuale, volitiva, emozionale
dell’uomo; cioè aggettivi per dire la totalità dell’uomo, l’importanza che la Scrittura dà al cuore.
A proposito del cuore così inteso, come centro interno dell’uomo, Gesù dice: “deve essere puro”.
Qui incominciamo a capire: “Beati i puri di cuore”.
Tutti abbiamo un cuore, ma fino a che punto si realizza questo lavorìo di purificazione?
Finora abbiamo accennato all’Antico e al Nuovo Testamento, per capire l’importanza che ha il cuore, e
perché esso, così inteso dal punto di vista Scritturistico - e certamente Gesù sapeva molto bene tutto
l’Antico Testamento - sia centro interno dell’uomo e perché questo centro dell’uomo, dice Gesù, debba
essere puro.
A questo punto c’è un’altra parola che volevo sottolineare:
▪
la purezza. Cos’è?
Dobbiamo osservare che in passato c’è stata una prevalenza, una sovrabbondanza di concezione di purezza
riferita al 6° e al 9° Comandamento, al grande e infinito mondo della sessualità dell’uomo, e questo ha
ridotto di molto la concezione di purezza.
Qui invece noi dobbiamo vedere che cosa Gesù intende per purezza, perché anche a suoi tempi la purezza
aveva un significato ristretto.
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Per purezza s’intendeva il rapporto con le leggi di purità, quindi era un concetto quasi esclusivamente
legalista (ricordate: lavarsi le mani). Ma anche questa concezione legalista della purezza aveva un suo
fondamento che vorremmo cercare di capire un po’, facendone una brevissima storia.
Il concetto di puro e il suo contrario di impuro è presente nella storia di tutte le religioni: ogni volta che
l’uomo entrava in contatto con forze negative, pericolose, con dei tabù, poteva essere contagiato ed era
pertanto necessaria una purificazione, una catarsi, per allontanare queste forze malefiche.
Esisteva, dunque, un sistema di purificazione basato su scongiuri, su gesti rituali, come ad esempio lavarsi le
mani accompagnando tale gesto con degli scongiuri, con delle preghiere contro le forze malefiche presenti
nelle cose. In quei tempi queste cose c’erano.
Nell’Antico Testamento i concetti di puro e impuro vengono visti principalmente in senso cultuale, direi
tutt’altro da come pensiamo noi, proprio solo in senso cultuale.
Si parte dal concetto che impuro e Jahvè sono due opposti irriducibili: l’impurità è un elemento che separa
dal servizio di Dio e dal popolo, perciò viene combattuta e si cerca di sradicarla come una cosa orribile.
Lv 13:
La malattia, soprattutto la lebbra, rende impuro l’uomo e fa parte dei compiti del sacerdote
dichiarare pura o impura la persona colpita dalla lebbra, per mezzo della cosiddetta “formula
dichiaratoria”.
É qui che ha la sua radice quello stretto legame tra peccato e malattia nella fede per gli Ebrei.
Il massimo grado d’impurità è quello di un morto, che non poteva essere toccato, altrimenti si diventava
impuro e l’impurità si comunicava a tutte le persone presenti (Nm 19).
Nel Levitico troviamo un elenco di animali puri o impuri che possono o non possono essere mangiati. Il
territorio di un Paese straniero, dove si veneravano divinità straniere, era considerato anch’esso impuro.
Capite la valenza che aveva nell’Antico Testamento questa parola e come noi l’abbiamo ristretta?
In quella realtà il Tempio, l’Altare, il Santo dei Santi, in quanto luogo di Jahvè, luogo della massima purità e
santità, avevano bisogno di regolare purificazione ed espiazione, a causa dell’impurità degli Israeliti: «Chi
salirà il monte del Signore, chi starà nel suo luogo santo? Chi ha mani innocenti e cuore puro»! (Sal 24).
Per venire al Nuovo Testamento, Gesù ha sviluppato il suo concetto di purità nella lotta contro i farisei.
Vedremo che Egli rifiuta l’osservanza delle prescrizioni rituali, perché riguardano una purità solo esteriore.
Dietro la prassi dei farisei si nasconde il malinteso di un’impurità proveniente dalle cose, come se queste
potessero colpire l’uomo e rendere impura la persona. Mentre è vero il contrario. Gesù dirà: «Ciò che esce
dall’uomo, questo sì rende impuro l’uomo» (Mc 7,20).
Per tale ragione Gesù contrappone, ad esempio, alla purità farisaica delle mani, la richiesta della purità del
cuore: è infatti più facile lavarsi le mani che purificare il cuore.
Vediamo come Matteo, in particolare, ci introduca alla comprensione del termine “puro”.
Il senso del termine puro = katharos è: genuino, non mescolato, nel senso del “non confuso con ad altre
cose”. Vuol dire anche sincero, schietto.
Matteo usa diverse volte questo termine. Usa il termine puro, ma ancora di più usa il suo contrario impuro.
E, focalizzando il significato di quest’ultimo, ci si chiarisce anche il senso di puro.
·
Una prima volta, per esempio, Matteo parla della malattia della lebbra come impurità, cioè la malattia
della lebbra rende l’uomo impuro, lo esclude dalla comunità del culto, tant’è che la guarigione dalla
lebbra, viene chiamata purificazione. Pertanto essere guarito dalla lebbra vuol dire “essere reso puro”.
Qui il senso di purità ha un significato quasi esclusivamente sociale, una accezione che riguarda il
consorzio umano per una questione sanitaria, per evitare il contagio.
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·
Poi c’è un secondo punto dove Matteo usa questo termine, all’inizio del capitolo 10, parlando dei
demoni: Matteo li chiama “spiriti impuri”, e qui ci avviciniamo alla concezione religiosa, dove il puro
non ha tanto un valore etico, quanto un valore religioso: il puro è ciò che è in conformità con Dio, che
appartiene alla sfera di Dio, che a Lui è gradito.
Questi spiriti sono detti “impuri” perché sono forze opposte a Dio.
Possiamo capire quanti significati ha questa parola!
Qui purità e impurità non hanno una valenza morale, non riguardano l’agire, riguardano la posizione
dell’essere uomo o spirito nei confronti di Dio: essere nella sfera di Dio, o essere nella sfera opposta,
quindi con un valore religioso.
La vittoria su queste forze, la vittoria su questi spiriti impuri è il segno dell’arrivo del regno di Dio (Mt
12).
Perciò in questo secondo significato purezza vuol dire “appartenenza alla sfera di Dio”.
Poi c’è un terzo momento nel quale Matteo parla di purità o impurità.
Nell’elenco dei «Guai a voi scribi e farisei», il famoso capitolo 23 di Matteo, nel penultimo «Guai»,
Gesù paragona gli scribi e farisei a dei sepolcri che esternamente sono puliti. Qui non dice puri, dice:
«sono imbiancati, ma dentro sono pieni di ossa di morti e di ogni immondizia» (Mt 23,27).
Di conseguenza, per tradurre letterariamente il termine, dovremmo dire: “pieni di ogni impurità”,
poiché tutto ciò che appartiene all’ambito della morte viene qualificato in Israele come impuro.
Questi sepolcri sono detti impuri non perché dentro c’è il marciume, ma perché dentro c’è il segno della
morte. É il concetto di morte che rende impura quella realtà che, in quanto tale, è esclusa dal culto.
Poi c’è un’ultima affermazione, la quarta, dove si parla di impurità, e questa dà il via alla spiegazione, se
volete, della beatitudine.
Al capitolo 15 di Matteo, troviamo descritta la disputa dei farisei che rimproverano ai discepoli di Gesù
di mangiare a tavola senza prima aver compiuto le abluzioni rituali. Gesù risponde:
«Non capite che tutto ciò che entra nella bocca, passa nel ventre e va a finire nella fogna? Invece ciò
che esce dalla bocca proviene dal cuore. Questo rende immondo l'uomo. Dal cuore, infatti,
provengono i propositi malvagi, gli omicidi, gli adultèri, le prostituzioni, i furti, le false testimonianze,
le bestemmie» (Mt 15,17-19).
Questo pronunciamento di Gesù è vicinissimo alla nostra beatitudine.
Quindi Gesù stabilisce il principio che la purezza dell’uomo non dipende né dai cibi, né dallo stato di pulizia
esterna, ma da quanto proviene dal cuore.
Noi ci diciamo queste cose perché ci sia anche da parte nostra una purificazione, un lavorìo, per rendere
sempre più pulito e semplice il cuore, naturalmente il cuore inteso secondo quel significato di cui
parlavamo prima.
Gesù interviene con le sue parole e afferma, mi pare, due cose fondamentali:
Le realtà esterne, tutte le cose non hanno niente di malefico. Non è vero che sono impure, non è vero che
contaminano l’uomo, non è vero che le cose sono possedute da forze magiche o sinistre che allontanano da
Dio.
La realtà esterna, allora, è ricondotta alla purezza del momento della Creazione. Quando Dio ha creato «...e
vide che tutto era buono».
Le realtà esterne non c’entrano niente; c’è una specie di redenzione della Creazione che si differenzia dalla
concezione ambigua dell’ uomo.
La realtà non è impura, la realtà è recuperata da una profanità che la opponeva al sacro, e basta!
La realtà è elemento di koinonia, di comunione e non elemento da esorcizzare.
In questa prima affermazione è presente il recupero della purezza della Creazione.
La seconda affermazione : Gesù non nega la presenza del male nel mondo, ma ne scopre la radice: essa è
nel cuore dell’uomo.
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La vera catarsi o purificazione, allora, non è lo scongiuro sulle cose, ma è la cacciata di ogni male dal proprio
cuore, perché se il male è cacciato dal cuore dell’uomo, è cacciato dalla storia e dal mondo.
Mi pare che ci siano elementi su cui riflettere!
Allora, purezza di cuore che cos’è?
La purezza del cuore riguarda dunque una pulizia interiore che non va solo sulla linea della sensualità, dei
sensi, ma direi sulla linea della dirittura, della rettitudine.
La purezza è il perseguire la rettitudine da parte della persona.
In questo senso la beatitudine allora vuol dire:
Beati quelli nei quali non vi è mescolanza di secondi fini, di seconde intenzioni. Beati quelli che perseguono
la rettitudine della vita, perché hanno cacciato ogni rospo dal cuore.
(Ogni rospo non solo quello della sensualità).
Gesù dice che ormai l’uomo gioca tutta la qualità della sua storia nel cuore : ciò è decisivo per la purezza
dell’uomo.
Dunque dal cuore dell’uomo dipende se egli appartiene alla sfera di Dio e a Lui piace, oppure se appartiene
alla sfera contraria.
Se facciamo un parallelo fra l’enumerazione delle azioni che rendono il cuore impuro nel brano di Matteo
15,18-20 e il decalogo come è espresso dal capitolo 20 dell’Esodo, ci accorgeremo che Matteo nelle
Beatitudini segue lo stesso ordine dell’Esodo, partendo dal 5° Comandamento, perché dal 1° al 4° non si
parla di azioni dell’uomo. Pensate ai Comandamenti: i primi riguardano il rapporto con Dio, dal 5°
Comandamento in poi l’elenco delle azioni descritte da Matteo è sullo stesso ordine degli ultimi sei
Comandamenti.
Da questo allora risulta che il cuore puro è quello che è conforme alla parola di Dio, che è libero da ogni
male, che è libero da tendenze e impulsi che spingono ad azioni contrarie alla volontà di Dio.
Ugualmente in greco il termine puro vuol dire anche libero; perciò nell’idea che spiega il termine “purità”
c’è anche qualcosa di “libertà”, ed è intuibile.
Se i puri di cuore sono quegli uomini che sono pervasi dalla conformità alla volontà di Dio manifestata nella
Sua parola, essi sono liberi: liberi da ogni male, liberi da quelle tendenze e impulsi che spingono ad azioni
contrarie alla volontà di Dio.
Pare sia interessante questo legame con la libertà.
I cuori puri sono i cuori indivisi, diciamo “tutti di un pezzo”; non certo quelli degli ipocriti che Gesù
paragona a sepolcri imbiancati, né quelli di coloro che pagano le decime, ma trasgrediscono le prescrizioni
più gravi della legge: la giustizia, la misericordia, la fedeltà.
In altre parole ancora, la purezza consiste nella sincerità, nella verità, nella rettitudine del cuore.
La beatitudine si riferisce alla vita intera e riguarda non solo il problema della castità, ma anche quello della
schiettezza, dell’atteggiamento verso il denaro, della sincerità e della semplicità nel parlare.
Capite quante implicanze ha questa parola? Essa si contrappone direttamente all’ipocrisia. Può essere
compresa in modo corretto solo in connessione con l’amore vero.
Purezza di cuore è appartenenza a Dio, è atteggiamento di lealtà e sincerità nei confronti di Dio. É puro il
cuore nuovo.
«Crea in me o Dio un cuore nuovo», oggetto dell’antica promessa di Dio. Lo richiede con fede il peccatore
pentito nella preghiera del Miserere, Salmo 51. Addirittura anche nel Salmo 24 è usata la stessa espressione
«Cuore puro», che ci può aiutare a dilatare il significato di questa purezza di cuore. Il Salmo 24 dice:
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Del Signore è la terra e quanto contiene,
l'universo e i suoi abitanti.
É lui che l'ha fondata sui mari,
e sui fiumi l'ha stabilita.
Chi salirà il monte del Signore,
chi starà nel suo luogo santo?
Chi ha mani innocenti e cuore puro,
chi non pronunzia menzogna,
chi non giura a danno del suo prossimo.
Otterrà benedizione dal Signore,
giustizia da Dio sua salvezza.
Ecco la generazione che lo cerca,
che cerca il tuo volto, Dio di Giacobbe.
Sollevate, porte, i vostri frontali,
alzatevi, porte antiche,
ed entri il re della gloria.
Chi è questo re della gloria?
Il Signore forte e potente,
il Signore potente in battaglia.
Sollevate, porte, i vostri frontali,
alzatevi, porte antiche,
ed entri il re della gloria.
Chi è questo re della gloria?
Il Signore degli eserciti è il re della gloria.
É un testo sapienziale mirabile, molto bello, e al centro di questi versetti c’è proprio il cuore puro. Per
comprenderne la portata, bisognerebbe leggerlo e spiegarlo tutto e ne verrebbe un significato molto
illuminante; ma non lo si può fare adesso. Tuttavia in breve diciamo questo: il Salmo ha tre parti, nella
prima parte si parla del Dio Creatore e Signore dell’Universo, e l’ultima parte contiene la teofania, cioè la
rivelazione di Dio nel Tempio e la sua Maestà.
Tra queste due espressioni “il Dio Creatore dell’Universo” e “il Dio che si rivela nel Tempio”, c’è la seconda
parte che descrive l’incontro dell’uomo con questo Dio e l’incontro dell’uomo comincia con questa
domanda: “Chi si può incontrare con Dio?”.
Nella risposta troviamo questa espressione:
“Per incontrarsi con Dio bisogna avere anche il Cuore puro”.
In seguito ne troviamo delle altre:
“Mani innocenti” e “Non pronunciare menzogna”.
Allora sembrano tre le condizioni per incontrarsi con Dio:
1. «Cuore puro» = intenzioni oneste;
2. «Mani innocenti» = azioni oneste;
3. «Non pronunciare menzogna» = parole oneste.
Quindi è un Salmo strettamente connesso con la beatitudine che noi abbiamo davanti, almeno per diversi
motivi.
Beatitudine e Salmo parlano delle condizioni per vedere (incominciare a “vedere”) Dio e per incontrarsi con
Lui; parlano della purezza esterna secondo la legge, ma parlano anche di purezza che viene dal di dentro.
Tutto rispecchia l’esigenza, l’aspirazione dell’animo religioso a incontrare Dio e a poterlo vedere.
Come riteniamo puro un metallo libero da scorie, così riteniamo “cuore puro” quello dell’uomo senza
scorie, senza contaminazioni, integro, senza secondi fini.
La stessa insistenza sulla rettitudine e l’assenza della falsità le troviamo in un altro Salmo, il Salmo 15:
Signore, chi abiterà nella tua tenda?
Colui che cammina nell’integrità,
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agisce con giustizia e dice la verità nel suo cuore.
Pregando Dio di creare in lui un cuore puro, il salmista nel Miserere, chiede a Dio di essere libero da ogni
perversità nei suoi giudizi, nelle sue aspirazioni e nei suoi voleri.
E, alla fine, vedranno Dio. Dopo tutto questo discorso - molto allargato, forse fin troppo - vedranno Dio.
Cosa vuole dire?
La visione di Dio è riservata a chi ha un rapporto limpido e sincero con la verità della propria vita.
Ma cosa vuole dire “vedere Dio”?
É una di quelle espressioni contrastanti nel suo significato, soprattutto nell’Antico Testamento, perché non
si può vedere Dio e vivere: si sa che chi vede Dio muore.
Da un lato si dice che non si può vedere Dio senza morire, perché Dio è troppo grande, Dio consuma: nel
momento in cui l’essere lo vede, viene consumato da Dio.
Pensiamo al famoso capitolo 33 dell’Esodo.
Dice Mosè: “Fammi vedere la tua Gloria!”. “No, tu non la puoi vedere (risponde il Signore), però qualcosa ti
voglio far vedere” .
Allora Dio prese Mosè e lo mise dentro uno scavo nella roccia, poi coprì la caverna con una mano e Dio
passò.
Mentre Dio passava, Mosè sentì il grido: “Il Signore, il Signore, Dio misericordioso e pietoso” ...con un lungo
elenco di attributi.
Poi Dio toglie la mano, Mosè guarda, e il testo dice: “Vide Dio alle spalle” ...come dire: ha visto solo i segni
del passaggio di Dio, ma non ha visto Dio.
É una delle descrizioni più suggestive dell’esperienza di Dio.
Comunque questo passo, come altri, dicono appunto che Dio non si vede e questo è ribadito anche nel
Nuovo Testamento, in Giovanni 1,18: «Dio nessuno l'ha mai visto: il Figlio suo ce lo ha rivelato». Quante
volte Gesù dirà, specialmente in Giovanni: «Chi vede me, vede il Padre».
Però, c’è la testimonianza di grandi uomini della Storia della Salvezza che attestano di aver visto Dio; grandi
uomini che dicono di aver avuto un’esperienza di Dio.
- Pensiamo ad Abramo, nel querceto di Mamre, sul mezzogiorno.
- Pensiamo a Giacobbe che addirittura lottò con lui, di notte, al torrente Iabbok. Dopo che l’angelo di
Dio scomparve, Giacobbe disse: «Ho visto Dio faccia a faccia».
- Pensiamo alla vocazione di Isaia: «Vidi il Signore seduto su un grande trono».
E qui tocchiamo un altro punto:
▪ vedere Dio e servire Dio.
L’espressione “vedere Dio” non ha sempre lo stesso significato, perché anche il servizio del culto nel
Tempio era chiamato “vedere Dio”.
In questa accezione vedere Dio può voler dire anche servire Dio attraverso il culto, attraverso la
disponibilità della propria persona.
Pensiamo, per esempio, al Salmo 42: «Quando verrò e vedrò il volto di Dio?» dice il salmista che è lontano
dalla sua città. Questo salmista era un levita lontano dal Tempio e sognava di ritornare a fare il servizio
cultuale nel Tempio: «Quando verrò e vedrò il volto di Dio?» “Quando ritornerò di nuovo a fare il servizio
nel Tempio?”. Quindi in questo caso vedere Dio significa servire Dio.
Nei testi del Nuovo Testamento si accentua il tempo futuro della visione di Dio; infatti già la nostra
beatitudine dice «...vedranno Dio».
Ma questo futuro è confermato anche da altre citazioni di Paolo: nella 1^ ai Corinzi mette in
contrapposizione lo stato attuale che lui chiama “imperfetto”, con lo stato futuro che è “perfetto”, quando
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dice: «Vedremo Dio faccia a faccia». Quindi un’esperienza piena della visione di Dio è riservata per il
tempo ultimo escatologico.
Ecco allora che noi potremmo riassumere la beatitudine di Gesù e dire che in essa si assommano tutti
questi significati.
L’adesione alla volontà di Dio purifica il cuore.
Lo esercita la carità teologale come conseguenza: un cuore puro, non può che portarci ad amare.
La visione e il servizio di Dio nella Gerusalemme Celeste.
Nell’Apocalisse Giovanni dice: «I beati servono l’Agnello». La visione ultima non è una contemplazione
passiva, ma è anche un servizio.
Per noi è un po’ difficile definirlo. Che cosa vuol dire?
Potremmo anche percepirlo come l’espressione di un dinamismo di amore che loda Dio. Il come non lo
sappiamo e non ci interessa nemmeno saperlo, ma già fin d’ora l’uomo ha la possibilità di servirlo, cioè di
vivere questa dimensione del “servo fedele”; servirlo nel culto e nella vita, e questo servizio è un anticipo
della beatitudine. L’uomo cioè gode di sentirsi al servizio di Dio, sia con gesti cultuali della comunità, sia col
proprio vivere.
Il grande amico defunto, il biblista Jacques Dupont, chiama questa beatitudine “La Beatitudine Liturgica”,
dando a questo termine “Liturgico” non solo la dimensione di culto, ma anche quello della vita.
Dice:“La profonda limpidezza di cuore che occorre per stare vicino all’altare di Dio è la stessa che ci
permette di servirlo in tutta la realtà quotidiana. L’accoglienza sincera, integrale, autentica della
logica del Vangelo introduce ad una esperienza di verità, di dono, di vita divina già in questa vita, e
nell’altra vita riserva la visione beatifica di Dio come esperienza della pienezza di vita”.
Sono cose che il biblista Dupont diceva.
Il significato della purezza di cuore va dunque molto al di là di coloro che pensano alla concezione
moralistica, che forse ci è stata propinata per tanti anni, ma che è molto ristretta. É chiaro che non esclude
quella, però è sbagliato circoscrivere il discorso unicamente alla sfera etica.
Il grande monaco antico Pacomio, grande maestro di vita monastica, commentando questa beatitudine,
dice:
“Quando un cattivo pensiero ti viene allo spirito, si tratti di odio, di malvagità, di invidia, di disprezzo
verso un fratello, di vanagloria umana,…
(e qui troviamo l’interpretazione del pensiero cattivo diversa da certi cataloghi dei nostri catechismi, e
come pensiero cattivo intendo dire pensiero impuro nel senso del sesto Comandamento)
...ricorda immediatamente e dì a te stesso: «Se acconsento a una di queste cose, non vedrò il
Signore»”.
Vivere questa beatitudine è impegnarsi sulla limpidezza della propria vita, della propria persona, della
dirittura del proprio agire. La dirittura forse esprime già l’agire esterno, ma coinvolge anche le intenzioni
interiori della persona.
Potremmo a questo punto chiederci: “Ma io so veramente gustare, apprezzare la gioia di una coscienza
limpida, anche se talvolta acquisita con fatica?”
E qui uno potrebbe tirar fuori tante altre motivazioni per arrivare ad una coscienza purificata.
Mi pare che la beatitudine dei “puri di cuore” sia quella che più di tutte rischia di essere fraintesa; non a
caso ho cercato di allargare il discorso. Mi sembra che oggi, quando diciamo “puri di cuore” ci siano tanti
elementi di significato che vi concorrono.
Nel linguaggio evangelico la purezza di cuore è la semplicità, la trasparenza, ma anzitutto è la totalità.
Nel linguaggio del costume del tempo passato, la purezza aveva un’ accezione cultuale e rituale.
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Per Gesù ha un significato anche morale, parlando Egli della purezza della persona, non delle cose, né
semplicemente delle azioni.
Il puro di cuore è un uomo che cerca Dio con tutto se stesso, un cuore indiviso, tutto orientato in questa
unica direzione.
Questo è un ideale già presente nel Primo Testamento: «Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore,
con tutta l’anima, con tutto te stesso». Un Salmo poi esorta a camminare con cuore integro.
La differenza tra il Santo e il mediocre è tutta qui.
- Il Santo è tutto proteso alla ricerca di Dio; l’uomo delle beatitudini è impegnato, persino
indaffarato, ma è fisso in Dio.
- Il mediocre, sembra dire, è invece un uomo diviso: qualcosa a Dio, qualcosa a se stesso.
Per comprendere che cosa Matteo intenda per “purezza” è opportuno tornare al famoso capitolo 23, quello
che è molto intransigente: il contrario del puro di cuore è chi filtra il moscerino e ingoia il cammello; colui
che paga le decime e poi trascura la giustizia, la misericordia e la fedeltà che sono i veri luoghi della ricerca
di Dio, del riconoscimento del Suo primato.
Il puro di cuore sa dove cercare Dio e ne coglie il centro; chi non è puro di cuore, invece, si perde nelle
minuzie, smarrisce il centro.
Infatti è un uomo ipocrita, cieco, che scorge le cose esterne e non quelle interne, non il cuore. Si illude di
essere puro perché pulisce l’esterno (come facevano gli Ebrei), dimenticando che invece la purezza nasce
dal di dentro. «Fariseo cieco (dice Gesù) pulisci prima l’interno del bicchiere, perché anche l’esterno
diventi puro».
Il puro di cuore è l’uomo che lascia trasparire la sua verità; tutto il contrario dell’uomo doppio che fuori è in
un modo e dentro è in un altro; questi sono i «sepolcri imbiancati».
La totalità è inclusa nel concetto stesso di purezza del cuore, quindi la purità rituale che mette in gioco le
pratiche, la purità del cuore e l’intera persona.
Il puro di cuore è anche l’uomo trasparente, proprio il contrario dell’ipocrita; l’uomo che non porta la
maschera, che non recita.
Il puro di cuore è l’uomo trasparente, il cui occhio è luminoso, non vede il male dappertutto, non sospetta
di tutti.
É una questione interiore «Se il tuo occhio è chiaro (si legge nel Vangelo di Matteo) tutto il tuo corpo sarà
nella luce. Se il tuo cuore è ammalato, tutto il corpo sarà tenebroso».
Il puro di cuore è trasparente nello sguardo, trasparente nelle parole. Questa trasparenza nei rapporti, non
solo con Dio, ma anche con gli uomini, esige un capovolgimento: non più relazioni che si reggono
sull’interesse, sulla diffidenza, ma rapporti che si reggono sul coraggio della fiducia.
Ho detto “coraggio” perché la fiducia è sempre a rischio.
Si comprende a questo punto come a una persona così trasparente sia legata anche la promessa più bella
delle beatitudini:
«Vedranno Dio».
12.
BEATI GLI OPERATORI DI PACE
[9] Beati gli operatori di pace,
perché saranno chiamati figli di Dio.
11
Mi sono dilungato sulla beatitudine dei “puri di cuore” forse un po’ troppo, ma era necessario per cogliere
almeno un senso vero su che cosa era ed è la purità, altrimenti ci fossilizziamo solo sull’aspetto sessuale di
questo termine. Forse la degenerazione delle nostre Chiese ha concentrato l’attenzione sull’aspetto
sessuale della purità. Certo c’entra anche lei, ma il discorso è molto più largo; ce ne siamo accorti
stamattina.
“Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio”.
Quindi Dio chiamerà “suoi figli” gli operatori di pace.
É un’espressione questa di “operatori di pace” o “facitori di pace” che sintetizza due elementi che
sembrano opposti:
operatore, facitore, dice: attività di dinamismo operativo focalizzato su un obiettivo specifico,
preciso. Chi opera ha uno scopo, un movimento verso cui dirige il proprio operare.
A questo primo termine si affianca l’altro:
pace, che a prima vista sembra dire quiete, tranquillità più che dinamismo. Il termine già al primo
approccio dice del finale riassuntivo di una vita, di un fatto, di una storia, di un evento; la pace è là dove
tutti vorrebbero arrivare, dove finalmente sentire il respiro.
In questa sintesi degli opposti c’è il pensiero di Dio che vuol dirci che la pace è solo frutto di un’opera
faticosa, poiché deve passare attraverso la redenzione dell’uomo dal suo peccato, dal suo male, e questo
non avviene che con fatica.
▪
Cos’è la pace?
In ebraico sapete bene che la pace è lo shalom, e la sua grafia ha tre lettere poiché le vocali nella lingua
ebraica non hanno alcun valore. La prima lettera “S” è il simbolo della montagna; la “M” è il mare, è
l’abisso; la “L” che è in mezzo è l’uncino o il pungolo.
Sembra che con questa raffigurazione di “shalom”, l’attività, la tensione dell’uomo verso la pace corra fra
due confini utopici, irraggiungibili del vivere: la cima della montagna e l’abisso del mare. La pace è qui
dentro. Questo sfata l’idea di una pace facile. Poi il fatto che l’attività dell’uomo sia espressa proprio dal
pungolo, dall’uncino, sta a dire che non è facile.
L’infinito spazio della vita è il campo di lotta per la pace: questa è l’idea che sta dietro la grafia di queste tre
lettere “shalom”.
Per quanto riguarda il linguaggio biblico occorre fare una precisazione, perché il nostro termine pace,
nell’uso corrente, è molto più povero rispetto ai termini usati dall’Antico e dal Nuovo Testamento. Siamo
troppo abituati a pensare e a configurare la pace come semplice assenza di guerra.
Secondo la Bibbia la pace non è soltanto questo, ma certamente molto di più. In tutto l’Antico Testamento
ebraico la parola shalom abbraccia molteplici significati, quali : star bene; benessere nel senso più ampio;
fortuna; prosperità, anche in riferimento agli empi (vedi il Salmo 73); salute fisica; contentezza;
soddisfazione; andare in pace, cioè essere contenti; morire in pace, cioè pacificati; coricarsi in pace, cioè
rapporto pacifico di intesa tra popoli e persone; vuol dire anche salvezza.
Gli Israeliti non solo si salutano con la formula shalom, ma anche nella preghiera chiedono la pace e la
augurano alle persone, specialmente agli abitanti di Gerusalemme. In questi casi la pace è strettamente
connessa con la benedizione.
Quando Dio benedice il suo popolo, il suo segno è la pace.
E shalom non è mai un bene destinato al consumo individuale, ma è sempre un bene promesso ai poveri,
atteso dai poveri, capito solo dai poveri.
Destinatario dello shalom è il popolo di Dio, il popolo dei poveri, degli umili, dei curvati, di quei poveri che
tutto attendono da Dio.
12
Quindi la pace biblica non è un’utopia, né risiede in un passato perduto, ma è una possibilità che Dio offre
all’uomo, è una pace nella storia. Essa, rientrando proprio nell’annuncio profetico, è frutto e risultato
dell’alleanza con Dio, il Dio fedele che fa scendere sui contraenti del Suo patto ciò che solo da Lui può
venire, cioè la vita, la pace, la salvezza.
Pace e salvezza diventano sinonimi di quel grande annuncio dell’Evangelo contenuto nella profezia di Isaia
52:
Come sono belli sui monti
i piedi del messaggero di lieti annunzi
che annunzia la pace,
messaggero di bene che annuncia la salvezza,
che dice a Sion: «Regna il tuo Dio».
E Isaia 54:
La mia grazia non ti abbandonerà,
il patto della mia salvezza non vacillerà.
Questo è solo per un accenno, come già per gli Ebrei, del significato che aveva questa parola.
Il tema della pace non è marginale, anzi diventa nettamente centrale nel Nuovo Testamento. Considerando
il testo di Matteo possiamo rilevare due linee di senso alla beatitudine degli “operatori di pace”: la
riconciliazione e l’amore per i nemici.
a)
La riconciliazione.
“Operatori di pace” sono coloro che si impegnano attivamente a stabilire o ristabilire la pace là dove gli
uomini sono divisi tra loro. Pensate al famoso testo che leggeremo più avanti, sempre al capitolo 5°, nel
discorso della Montagna: «Se dunque presenti la tua offerta sull'altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha
qualche cosa contro di te, lascia lì il tuo dono davanti all'altare e va prima a riconciliarti con il tuo fratello
e poi torna ad offrire il tuo dono» (Mt 5,23-24).
Pace come riconciliazione: si tratta di un chiaro invito a prendere l’iniziativa della riconciliazione,
anche se non siamo responsabili di una rottura di rapporti.
b)
L’amore per i nemici.
Le due antitesi che troviamo, sempre al capitolo 5° di Matteo, ci pongono di fronte all’invito di Gesù
a compiere gesti positivi nei confronti dei nemici: gesti di amore che si concretizzano nel pregare per loro,
nell’essere benevoli, accondiscendenti, così da trasmettere quella pace che risulta carente in queste nostre
relazioni.
Un ultimo sguardo lo possiamo dare anche al capitolo 10 di Matteo, là dove vengono impartite da Gesù le
direttive sul modo di dispensare la pace da parte dei missionari del Vangelo.
In questo testo Matteo dice che gli annunciatori del Vangelo hanno con sé la pace. Quanto a dispensare
questa pace, dipende anche dalla reazione dei loro interlocutori.
É molto suggestiva la seguente espressione che fa anche molto pensare, perché dice così: «Se quella casa
ne sarà degna, la vostra pace scenda sopra di essa; ma se non ne sarà degna, la vostra pace ritorni a voi»
(Mt 10,13), quasi a dire che il dono della pace dipende dalla reazione dell’interlocutore.
Più avanti, sempre nello stesso discorso, Gesù dice: «Non crediate che io sia venuto a portare la pace sulla
terra; no vi dico, ma la spada» (Mt 10,34). Quante volte fa discutere questo testo! Quest’ultimo detto di
Gesù sembra in contrasto con il senso di questa nostra beatitudine.
Ma qui Gesù sta introducendo l’affermazione dell’assoluta priorità dell’amore alla Sua persona. Nei versetti
al capitolo 10 Gesù parla, infatti, dell’assoluta priorità che il discepolo deve avere circa l’amore verso il
Maestro.
Essere operatore di pace non significa pace ad ogni costo, dove ad ogni costo possa anche voler dire
sacrificare l’impegno verso Gesù, verso i valori evangelici.
13
In questo capitolo 10 di Matteo almeno due cose si dicono sulla pace:
-
Essa dipende dall’atteggiamento da ambedue le parti, e questo è molto più importante di quello che
pensiamo, perché a volte ci sentiamo carichi di colpe, che forse non abbiamo.
Ci crucciamo oltre misura per il fatto che chi ci sta vicino ed è un obiettivo del nostro annuncio, non lo
accetta e ci angustiamo per delle colpevolizzazioni che sono eccessive.
In poche parole, non esiste una pace unilaterale, ma essa dipende dall’atteggiamento di ambedue le
parti.
-
E una seconda cosa: Gesù può essere elemento di disturbo di questa pace, perché la sua non è una
pace pacifica, giacché sfida il male. Passa a volte attraverso lotte acute facendo esplodere
contraddizioni laceranti.
É la pace dell’Agnello sul quale si abbatte la violenza dei lupi, ben diversa dalla pace ambigua di chi si
adegua al male.
La spada che Gesù userà non sarà quella che userà Pietro, ma sarà la fiducia nella parola del Padre,
una Parola che come spada affilata entra nel caos del peccato, pervade e irrompe in ogni relazione.
Di “pace” parla anche S. Paolo in molti suoi passi.
Ne vediamo due:
In Col 1,19, è un far la pace riferito a Gesù:
«Piacque a Dio per mezzo di lui riconciliare a sé tutte le cose, rappacificando (facendo la pace) con
il sangue della sua croce, le cose che stanno sulla terra e quelle nei cieli».
Questo testo paolino è facile e non ha bisogno di grandi spiegazioni. Colui che riconcilia tutta la Creazione è
Dio: Egli opera, però, attraverso il Figlio diletto. Allora il primo operatore nel piano di pace di Dio è Cristo.
Il profeta Isaia l’aveva previsto quando ha descritto il Messia futuro, proprio con lo stesso compito
specifico: “si chiamerà «Principe della pace», stabilirà la pace messianica”.
Ricordiamo quella bellissima espressione altamente poetica di Isaia 11,6:«Il lupo dimorerà insieme con
l'agnello, la pantera si sdraierà accanto al capretto; il vitello e il leoncello pascoleranno insieme e un
fanciullo li guiderà».
Per lunghi secoli la voce profetica ha invocato l’avverarsi di un tale evento. Questo è il tempo e noi siamo
anche dei responsabili di tutto questo.
Tornando a Paolo, Efesini 2: si riafferma con forza il ruolo pacificatore di Cristo, tanto che all’inizio Gesù
viene chiamato “la nostra pace” (Ef 2,14-16):
«Egli infatti è la nostra pace, colui che ha fatto dei due un popolo solo, (Ebrei e pagani),
abbattendo il muro di separazione che era frammezzo, cioè l'inimicizia, annullando, per mezzo della sua
carne, la legge fatta di prescrizioni e di decreti, per creare in se stesso, dei due, un solo uomo nuovo,
facendo la pace, e per riconciliare tutti e due con Dio in un solo corpo, per mezzo della croce,
distruggendo in se stesso l'inimicizia».
Ciò significa ancora che la nostra pace sotto tutti gli aspetti è dovuta a Lui.
L’opera concreta di Gesù per la pace, secondo questo testo degli Efesini, si può descrivere così:
›
“Egli toglie l’inimicizia”.
La prima opera di pace è questa: togliere le cause delle divisioni. Infatti il nemico della pace è chiamato
il divisore (il diavolo), il quale è la forza negativa che disperde le realtà umane, producendo il suo frutto
più visibile che è l’uomo disintegrato, l’uomo disperso.
›
“Egli toglie l’inimicizia”.
Non solo, ma riunisce in se stesso i due che prima erano nemici. Chi sono? I due popoli: Giudei e pagani.
14
Questa per noi sembra un’affermazione scontata, che va da sé, ma ai tempi in cui si scriveva questa
lettera (Efesini), ai tempi di Paolo, non era affatto scontata: c’era il mondo giudaico che affermava la
netta divisione tra il mondo giudaico e il mondo dei gentili, dei pagani.
Invece la rifondazione dell’unità della famiglia potremmo chiamarla “l’opera della pace”, e la famiglia
umana ritrova l’unità nel prototipo dell’uomo nuovo che è appunto Cristo, “Principe della pace”.
›
“Di tutti fa un solo uomo, li riconcilia con Dio”.
Come dire, l’uomo rientra nella dimensione dell’essere figlio, quindi l’uomo recupera la dimensione
della familiarità.
E tutto questo lavoro a Cristo, il Principe della pace, quanto costa? Costa la croce. La croce è il prezzo di
questo lavoro.
Una pace, dunque, secondo Paolo che non solo ha reso possibile l’amicizia fra gli uomini, ma ha ripristinato
pure quella con Dio.
Quindi sappiamo che come l’annuncio di pace, con la voce che proviene dall’alto «Pace agli uomini che Dio
ama» ha aperto la vita di Gesù al momento della sua nascita, così sappiamo pure che l’annuncio di pace
chiude anche la vita di Gesù; difatti nell’ultimo commiato, agli Apostoli Gesù dice: «Pace a voi, vi lascio la
mia pace».
L’annuncio di pace fa dunque da cornice a tutta la vita di Gesù, e lo fa di dovere, perché Lui è il “Principe
della pace”, è il grande “Operatore della pace”, secondo l’ampia descrizione di Efesini 2.
Con Cristo essere operatori di pace è possibile! Non da soli!
Con Cristo essere operatori di pace è possibile, anche se è faticoso come lo è stato per Lui.
Per questo Paolo esorta nella 2^Corinzi: «Vivete in pace e il Dio dell'amore e della pace sarà con voi»
(2Cor 13,11).
Qui la pace che Dio dà è unità, ed è assieme all’amore: Dio nella dimensione dell’amore.
Ciò è molto significativo e ricorda due caratteristiche:
l’amore è l’atteggiamento di Dio e la pace è il dono di questo atteggiamento. Dio dà la pace, perché ama.
La pace non nasce da trattati sterili, da pezzi di carta. Dio ha dato la pace all’uomo in Cristo, perché ha
amato l’uomo fino al punto che Cristo rappresenta il grande segno esterno dell’amore di Dio.
Se l’uomo vuole diventare operatore di pace deve amare: la pace presuppone l’amore.
Ecco «perché saranno chiamati figli di Dio».
Forse è più evidente il significato se diciamo: “Dio li chiamerà suoi figli” (anche se ci costa, però Dio ci
chiamerà suoi figli), li riconoscerà apertamente, li riconoscerà pubblicamente come suoi figli, li tratterà
come suoi veri figli, li accetterà nella sua stessa vita di Padre che vive con il Figlio e lo Spirito Santo.
In tal modo veniamo coinvolti nel mistero Trinitario.
Su questa espressione: «saranno chiamati figli di Dio», facciamoci una domanda: perché un appellativo
così preciso “figli di Dio” ?
É riferito proprio agli “operatori di pace”!
Se continuiamo nella lettura di questo capitolo 5 di Matteo, più avanti, vv.44-48, vediamo le caratteristiche
dei figli di Dio, in particolare questa: “nel loro agire seguono l’esempio del Padre”.
Ad un certo punto Matteo dice: «amate i vostri nemici, perché siate figli del Padre vostro celeste».
Da questa constatazione si può concludere che gli operatori di pace seguono in modo particolare l’esempio
del Padre - i figli sono tali quando seguono l’esempio del Padre -. Inoltre in essi Dio vede prolungarsi nella
storia la missione di Gesù, il suo Unico Figlio.
Gli operatori di pace sono il prolungamento del grande pacificatore che è Cristo. Sono figli nel Figlio, il quale
«è la nostra pace, colui che ha fatto dei due un popolo solo, (come detto prima in Efesini 2) per creare in
15
se stesso, dei due, un solo uomo nuovo, facendo la pace, e per riconciliare tutti...». Cristo è il grande
pacificatore, è il nostro grande Maestro, ma è anche il nostro Fratello.
Quindi, se gli «operatori di pace sono chiamati figli di Dio», essi sono figli in modo tutto particolare.
Però c’è un prezzo da pagare, il prezzo della pace.
Non dobbiamo pensare che l’impegno per la pace sulla esemplarità di Cristo sia qualcosa di idilliaco; coloro
che annunciano ed operano per la pace evangelica saranno simili al Figlio di Dio nella sua vicenda terrena e
saranno assimilati anche al destino storico di Cristo, il quale per la pace finì sulla croce.
Questa intuizione che vedeva dietro l’impegno per la pace un forte quoziente di prezzo da pagare, era già
nota nell’Antico Testamento. Ci sono dei testi di rabbia: pensiamo alla vocazione di Gedeone, capitolo 6°
del libro dei Giudici.
La vicenda è questa: Gedeone sta trebbiando il grano sull’aia dentro un tino per non farsi vedere dai
Madianiti che sono sempre lì in agguato per assalire e predare. Passa l’Angelo di Dio dicendo: «Il Signore
sia con te, uomo di Dio».
Gedeone risponde: «Sì, se il Signore è con me, perché non mi libera dei Madianiti?». E già comprendiamo
lo stato d’animo di quest’uomo.
E l’Angelo gli dice: «Vai tu a liberare Israele dai Madianiti!».
«Come? Io? Io sono l’ultimo figlio della tribù di Israele» (è un Beniaminita). E incomincia la lotta della
scelta della vocazione: «Vai!» «Non vado!». Alla fine dice: «Se proprio il Signore mi chiama, facciamo un
patto»: mette una pelle di pecora per terra e dice: «Cada la rugiada tutta attorno e rimanga la pelle
asciutta». Il mattino dopo avviene proprio così. Gedeone, però, non è ancora persuaso: «Facciamo un altro
patto, accada anche il rovescio: cada la rugiada sopra la pelle e tutto intorno resti asciutto». E avviene
anche questo.
Gedeone, persuasosi, parte per essere il liberatore.
Là dove a Gedeone appare l’Angelo - da cui incomincia tutto il dramma della chiamata e della difesa dalla
chiamata e poi della scelta che è un dramma interiore molto vivo - là Gedeone innalza un altare, che chiama
“Jahvè-shalom”.
É un episodio molto bello. Tutto ciò che prima si era rivelato tutt’altro che sotto il segno della pace, perché
era un tormento per la fede, questo luogo verrà chiamato proprio “pace”. É una splendida immagine del
significato di pace all’interno della fede.
Tuttavia non vuol dire essere esentati dal travaglio: la pace è questa consapevolezza di aver raggiunto la
chiarezza di una verità interiore, ma attraverso la sofferenza dell’uomo.
E qui comprendiamo quando Gesù dice: «Vi lascio la mia pace, vi do la mia pace. Non come la dà il
mondo, io la do a voi». (Gv 14,27).
Cosa vuol dire “Non come la dà il mondo”? Ci sono forse paci diverse? Certamente sì, sono molto diverse:
C’è una pace fittizia che è la tranquillità dell’ordine, come dicevano i Romani dopo aver distrutto tutto.
C’è la pace di Cristo che è questa crescita interiore nella verità “Jahvè-shalom”. E la stessa cosa avviene con
Cristo.
Il vero operatore di pace è assimilato alla vicenda storica, al destino storico del primo grande operatore di
pace che è Gesù Cristo.
Spesso non c’è tempo per godere di quello che si dona.
Certamente avrete letto il famoso testo di Bernanos: “Dialoghi delle Carmelitane”. Bernanos narra in
questo libro che quando nel Monastero di queste suore arriva l’Ispettore dello Stato, egli rimane
impressionato dal silenzio che c’è in quel luogo .
Allora dice: “Oh, che casa di pace è questa!”.
E la priora risponde: “La nostra casa, signore, non è una casa di pace, è una casa di preghiera”.
Cioè le persone consacrate a Dio non si raccolgono fra di loro per godere la pace, ma cercano (dice
Bernanos) di meritarla anche per gli altri. “Non c’è tempo di godere di quello che si dona” .
16
Questo Bernanos lo scrisse pochi mesi prima di morire.
Il Cardinal Martini scriveva:
“Gesù non parla di coloro che comunemente sono detti ‘pacifici’, perché vogliono vivere in buona
armonia col mondo intero, ma di coloro che lavorano per la pace, che accettano il dialogo come
strumento per raggiungere la pace; un dialogo senza frontiere tra gli altri popoli; un dialogo come
accettazione dell’altro in atteggiamento di riconoscimento, di stima, di aiuto, di servizio; un dialogo
come contestazione del prepotente, dell’oppressore”.
É la sfida che consiste nel non mettere al primo posto ciò che è generatore di violenza.
Vorrei in qualche modo riassumere un po’ il tutto, attraverso questo interrogativo: alla fine cosa dobbiamo
dire?:
“Gesù è l’unico vero grande Beato”,
“Gesù è l’ Uomo delle Beatitudini”.
13.
CONCLUSIONE: GESÙ L’UOMO DELLE BEATITUDINI
Tra il cristiano e ciascuna espressione delle Beatitudini c’è il Cristo, il Maestro, dietro cui il discepolo si pone
alla sequela.
Per essere l’uomo delle beatitudini, il cristiano deve camminare dietro a Gesù, prendere atto di questa
verità: al centro della sequela sta non l’etica evangelica, ma la persona di Gesù.
Mai dimenticare questo: noi siamo alla sequela di Cristo. Certamente poi la mia vita diventerà anche
un‘etica, però non c’è una norma cui adeguarmi, c’è una Persona.
Vivere le beatitudini presuppone l’accettazione di Gesù in se stesso e non solo la contemplazione di Lui
come portatore di una dottrina etica; il vero cristiano è colui che non attualizza tanto una norma, ma
interiorizza lo spirito di Cristo nella propria vita; è colui che persegue non tanto i valori spirituali, ma la loro
stessa fonte primaria, costituita da Gesù.
Nella sequela si vive la stessa vita pasquale del Signore in virtù dello Spirito. Noi siamo abitati dallo Spirito,
ed è lo Spirito che ci spinge e ci stimola a seguire il Cristo. Ma per vivere questa vita occorre conformare la
propria condotta alle Sue parole e ai Suoi gesti; ed è così che il discepolo arriva alle beatitudini.
La sequela lega alla Persona e questo legame può essere una docilità di apprendimento, di assimilazione
educativa, di una Parola che il discepolo vede realizzata nel Maestro.
Ecco allora che la conoscenza della persona di Gesù chiarisce il senso e la portata della sua Parola.
Egli è stato il primo “Uomo delle Beatitudini”: Lui è la prima concreta beatitudine del Regno e tutte le
beatitudini trovano in Lui il prototipo completo. Esse sono un sommario della Sua persona, della Sua
esistenza.
Ormai è la terza puntata che riflettiamo sulle beatitudini: direi che a questo punto andrebbero veramente
memorizzate, approfondite e possibilmente ampliata la riflessione su ciascuna, sebbene su ogni beatitudine
abbiamo sostato.
Nel Vangelo di Matteo la proclamazione delle beatitudini viene preceduta da un’annotazione riassuntiva
dell’attività di Gesù : capitolo 4°: intorno a Lui c’erano molti malati, ha cercato i poveri, li ha amati, li ha
preferiti.
Egli fu povero, sofferente, affamato, perseguitato. Poi da Risorto diventa partecipe della beatificante gloria
del Padre.
17
1.
Gesù è l’esempio del “povero” davanti a Dio.
La povertà fu il Suo stile di vita.
É mirabile notare come Gesù abbia vissuto la povertà esterna in modo diverso a seconda delle
situazioni in cui si trovava.
Nasce nella condizione dell’Ebreo errante; a Nazareth si mantiene lavorando con le proprie mani;
durante il suo peregrinare nell’attività missionaria non ha dove posare il capo. Accetta l’aiuto
economico da quelle donne che camminavano con Lui e che gli offrivano quello che avevano.
Ha accettato anche l’ospitalità degli amici, come Marta e Maria. Nel momento della passione è solo,
spogliato.
Ma la povertà di Gesù, fu soprattutto questa assoluta e totale fiducia in Dio.
Se dovessi riassumere “Beati i poveri” direi: “Beati quelli che si fidano totalmente di Dio”.
Sottolineo ancora il Battesimo, quel primo momento quando Gesù arriva sulle rive del Giordano.
Chi è Dio? Chi è Dio!? E’ quest’uomo che ha trent’anni, che fa il falegname, che non è sposato, che si
mette in fila con i peccatori. Davvero Lui non aveva bisogno di questo Battesimo, eppure in questa
condizione così povera, precaria, quasi umiliante che perfino il Battista si scandalizza, si spalanca il
cielo e si ode la voce del Padre: “Questi è mio Figlio. State attenti a scegliere il Messia!”.
Sottolineiamo ancora la povertà di Gesù e soprattutto questa assoluta e totale fiducia nel Padre.
2.
Gesù è stato “afflitto” e “mite”.
Soffrì l’angoscia dell’agonia ed Egli stesso attesta di essere “mite ed umile di cuore”.
3.
La “giustizia” è un po’ il contenuto del Suo annuncio e la tensione della Sua persona: “Mio cibo è fare
la volontà di Colui che mi ha mandato”.
Sulla croce venne riconosciuto come “giusto” da un pagano.
4.
Gesù è stato la rivelazione della “misericordia” del Padre con la parola e con gesti concreti.
5.
La “purezza di cuore” è contenuta nell’ espressione di sfida di Gesù: “Chi di voi può convincermi di
peccato?” (Gv 8,46).
La limpidezza del dire e nel fare è stato un tratto caratteristico della sua persona.
6.
E “la pace” è il primo dono che Egli porta all’uomo: “Vi lascio la pace, vi do la mia pace”. Quando
arriverà nel Cenacolo dopo la Resurrezione, dona innanzi tutto la pace.
Gesù è veramente il prototipo dell’uomo descritto dalle Beatitudini.
Uno sguardo d’insieme tra le Beatitudini e la Buona Novella:
La domanda:
Riguardo alle beatitudini, ci si può chiedere: quale elemento si trova in primo piano ed è il principale?
É programma per le necessarie e più alte attività umane, un catalogo di norme, oppure la Buona Novella di
ciò che Dio realizza in favore degli uomini?
In altri termini: le beatitudini sono una legge o sono un vangelo?
Non sono formulate quali pure norme, ovvero:
- siate poveri in spirito,
- abbiate fame e sete di giustizia.
Nemmeno sono formulate quali pure promesse:
- vostro è il Regno dei cieli,
18
- sarete saziati.
Ma si presentano nella nostra struttura tripartita:
- Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli.
Perciò, nonostante l’essenzialità in tutte le parti della beatitudine, ci si può chiedere quale parte sia quella
principale.
Risposta:
Dopo aver indicato la risposta, presenteremo anche le ragioni che la fondono.
Principalmente le Beatitudini sono Vangelo, Buona Novella per gli uomini di Dio. Esse in qualche modo
esplicitano che si è avvicinato il Regno dei cieli (capitolo 4° di Matteo).
Mostrano che cosa Dio sia disposto a fare per gli uomini, quale futuro realizzerà per loro, quali possibilità
d’ora in poi abbia dischiuso.
Quindi non presentano in primo luogo un programma, dicendo quello che l’uomo deve fare per realizzare la
sua felicità ed il suo futuro. Le Beatitudini sono da comprendere e da leggere partendo dalla loro parte
finale.
Tali parti finali aprono lo sguardo alla pienezza delle azioni salvifiche di Dio, rivelano un futuro e un
compimento che l’uomo da sé non può immaginare e ancora meno può attendere.
Costituiscono un vero e lieto annuncio, la proclamazione di una gioia impensabile.
Esplicitando e leggendo continuamente queste terze parti, cogliamo questo messaggio:
-
Dio l’Onnipotente, Re e Pastore, è totalmente dalla nostra parte.
Dio vi consolerà.
Dio cambierà definitivamente il vostro destino doloroso in un’esistenza di gioia.
Dio, vostro Padre, con disposizione testamentaria ha destinato per voi la terra, lo spazio di una vita
tranquilla e sicura.
Dio vi sazierà, vi assicurerà la pienezza della vita.
Dio avrà misericordia di voi, vi perdonerà tutte le vostre colpe.
Dio uscirà dal suo stato velato e nascosto e vi presenterà un incontro personale immediato: vedrete
Dio.
Dio vi riconoscerà come suoi veri figli, vi assumerà nella sua famiglia.
Certamente la grandezza e il significato di un tale lieto annuncio è inesauribile. Ci si può avvicinare ad
un’iniziale comprensione nella misura in cui ci si rende conto del fatto che Dio è Colui del quale si parla e di
cui si annuncia questo tipo di fare, di agire.
Non dobbiamo minimamente trascurare d’altronde le seconde parti delle beatitudini che fanno presente
che questo agire divino non raggiunge la sua efficacia senza l’uomo, perché l’atteggiamento e il
comportamento umano sono di una decisiva importanza.
Queste seconde parti indicano le norme dell’agire umano, di un agire attraverso il quale l’uomo si dispone a
ricevere poi l’azione di Dio.
É un modo diverso di rileggere questi testi.
Potete essere consapevoli della vostra povertà, non dovete negarla, perché Dio Onnipotente è dalla vostra
parte.
Potete lasciarvi raggiungere anche dalla sofferenza, non dovete indurirvi, perché Dio vi consolerà.
Potete essere miti, non dovete affermarvi con la violenza, perché Dio ha già destinato per voi lo spazio di
vita: i miti possederanno la terra.
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Potete orientare tutta la vostra fame e sete verso la giustizia, non dovete preoccuparvi con affanno, perché
Dio vi assicura la pienezza di vita.
Potete perdonare i vostri debitori e avere ogni specie di misericordia, non dovete essere chiusi, ristretti,
angosciosamente concentrati sul vostro proprio interesse, perché Dio sarà generoso con voi:
siate misericordiosi perché Dio sarà misericordioso con voi.
Potete essere puri di cuore, determinati solo dalla volontà di Dio, ma non dovete avere altri interessi
perché Dio vi farà dono dell’immediato incontro con Lui: vedrete Dio.
Potete impegnarvi per la pace, non dovete ripagare le offese o i patimenti ricevuti perché Dio vi assume
nella sua famiglia: sarete figli di Dio.
Potete addirittura sopportare il rifiuto fino ad essere uccisi dagli uomini, perché Dio Onnipotente è dalla
vostra parte.
Quindi le norme dell’agire umano, fortemente inserite nella struttura delle Beatitudini, non possono essere
tolte dal loro posto, ovvero non si può formare un catalogo di norme di vita che non dipende più
dall’annunciato agire di Dio.
Prima c’è l’agire di Dio che è importante, che è la risposta ai nostri bisogni più profondi. Poi naturalmente
c’è anche la nostra parte.
L’epilogo di tutto qual è?
L’epilogo di tutte le Beatitudini è diventare “sale e luce”.
Chi vive le Beatitudini non può che diventare sale e luce per la storia, sale e luce per il mondo; dà sapore
alla vita, dà luce alla nostra storia.
Trasposizione da audio-registrazione non rivista dall’autore
Nota: La trasposizione è alla lettera, gli errori di composizione, le ripetizioni sono dovuti alla differenza tra
la lingua parlata e la lingua scritta.
La punteggiatura è posizionata ad orecchio e a libera interpretazione del testo da parte di chi trascrive.
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