TRA QUALCHE MESE SARANNO 4O anni DALLA CADUTA DI SAIGON. MA LE NUOVE GENERAZIONI DI TEENAGER INDOSSANO MAGLIETTE E ASCOLTANO MUSICHE AMERICANE. E NON È CHIARO CHI ABBIA VINTO LA GUERRA di Vittorio Lingiardi – Psichiatra - Il Venerdì di Repubblica - 4 luglio 2014 HANOI. Nel testamento chiedeva di essere cremato, ma gli hanno disubbidito. Ho Chi Minh, uno dei quattro corpi imbalsamati del comunismo, una volta all'anno viene mandato da Hanoi a Mosca per restauri tanatoestetici. È bianco e sottile, come da vivo. Il suo mausoleo è circondato da guardie giovanissime, che marciano un passo dell'oca che per un attimo tradisce un passo dì danza: inconsapevole nota queer dentro il sepolcro. In Vietnam si festeggiano i sessantanni della sconfitta francese a Dien Bien Phu: fine del colonialismo e della «guerra francese». Ragazzi e ragazze si fotografano con gli smartphone vicino a una gigantografia dì zio Ho. Uno di loro, direi di campagna, gli accarezza il viso. Qualcosa mi turba e mi occorrono parecchi secondi per capire che cosa: il ragazzo indossa una t-shirt a stelle e strisce. A pochi passi dal mausoleo l'austerità sovietica svanisce e inizia una lunga distesa di banchi zeppi di memorabilia, Nel parco, secondo turbamento, grandi schermi proiettano le immagini della marcia di Washington del 15 ottobre 1969, la Moratoria per la Fine della Guerra in Vietnam. Bob Dylan, Joan Baez, Arlo Guthrie e due milioni di pacifisti occidentali. La sorella maggiore di mia madre, alla fine degli anni Sessanta, era una delle animatrici della sede milanese dell’Associazione Italia-Vietnam. Mi raccontava che, nel 1933, Ho Chi Minh aveva lavorato come lavapiatti all'osteria della Pesa della nostra città (oggi una targa lo ricorda), a Natale mi abbonava alla campagna, antimalarica e antimperialista, Chinino per Vietnam, la domenica mi raccontava le imprese del generale Giap, nome che non poteva non incantare un undicenne. Che rimase però scosso dalla visione di una foto di un neonato bruciato dal napalm che la zia non aveva fatto in tempo a nascondere. È questo il mio Vietnam intoccabile, fermo nella memoria degli anni Settanta. Tutt'al più attraversato, qualche anno dopo, da L'amante di Marguerite Duras (riletto, una delusione) e da Un americano tranquillo di Graham Green (libro noioso, film magnifico). Vietnam che oggi, con vicinanze emotive favorite da esperienze di viaggio e ideologie meno epiche e assai messe alla prova, inizia a muoversi in altre forme di verità. Forme che ho trovato, per esempio, leggendo Riva di Thuy Kim (edizioni nottetempo), memoir di una profuga saigonese del dopoguerra comunista, rifugiata in Canada come molti boat people, che tenta di «guardare lontano, lontano in avanti» senza perdere le tracce del passato, «frammenti, cicatrici e barlumi» che tentano di riannodare i fili di una storia interrotta e divisa in due. Diario che, in una lingua ipnotica sa raccontare il trauma, la dissociazione e la rinascita. «Sono venuta al mondo durante l'offensiva del Tet, mentre lunghe trecce dì petardi appese davanti alle case esplodevano in polifonia con il suono dei mitragliatori. Ho visto la luce a Saigon, dove i frammenti dei petardi scoppiati in mille pezzi coloravano il suolo di rosso come i petali di ciliegio, o come il sangue dei due milioni di soldati schierati, sparsi nelle città e nei villaggi di un Vietnam dilaniato in due». Ancora oggi, nel Paese riunito, quella che per noi è «la guerra del Vietnam» ha due nomi: al nord si chiama guerra locale, al sud guerra civile. Presi dalla riunione politica ci eravamo dimenticati la divisione psichica. Eppure la ritrovo nella letteratura scientifica che frequento tutti i giorni, nella diagnostica psichiatrica americana così profondamente influenzata dagli studi sui veterani del Vietnam al punto da creare una nosografia specifica, il disturbo da stress post-traumatico, il Ptsd, destinato a marchiare con il suo acronimo cantilenante, ogni storia di abuso, dissociazione, paura, ricordi intrusivi. I gave them a good boy and they made him a murderer (gli ho dato un bravo ragazzo e ne hanno fatto un assassino) il grido della madre di uno dei marines responsabili della strage di My Lai. Lo raccontano i giornalisti e registi inglesi Michael Bilton e Kevin Sim in Four Hours in My Lai: «Un libro magnifico, un grande servizio alla storia» dice Martha Gellhorn, grande corrispondente di guerra. Come ricorda la psicoanalista Giara Mucci in Trauma e perdono (Cortina), non possiamo studiare e curare le esperienze traumatiche, ancor più quelle di guerra, senza comprendere la portata della loro trasmissione transgenerazionale, la formazione inevitabile di memorie custodite in reti neurali come Dna inconsci. Per questo Wislawa Szymborska scrive: «I tuoi geni hanno un passato politico/ la tua pelle una sfumatura politica/ i tuoi occhi un aspetto politico./ Ciò di cui parli ha una risonanza,/ in un modo o nell'altro politica». Mi domando dove si nasconde il trauma, al di là delle celebrazioni e degli spazi museali, nelle nuove generazioni di teenager vietnamiti che indossano magliette e ascoltano musiche americane. Mi domando chi ha vinto la guerra. Se ha prevalso il perdono o la giusta voglia di dimenticare, dì affidare alla biologia silenziosa della memoria la trasmissione traumatica dei ricordi. Dei nonni, dei genitori, degli zii che hanno ucciso e sono stati uccisi. L'anno prossimo il Paese attende un altro anniversario: 40 anni dalla caduta di Saigon (30 aprile 1975), fine dell’american war. Oggi Saigon è Ho Chi Minh City, sei milioni di scooter, guidati da donne con il volto coperto. Burqua anti-pollution, ma anche outfit eliorepellente, poiché la pelle di ragazza indocinese, quando si scurisce, è meno apprezzata. Nonostante queste convinzioni sulla bellezza femminile (che una raccoglitrice di riso difficilmente potrà incarnare), il Vietnam tiene in alta considerazione la forza delle donne e la racconta, dalle madri tribali alle guerriere vietcong nel Museo delle donne vietnamite. Ma è al Museo dei Resti della guerra che trovo una parziale risposta alle mie domande. Sapevo di trovare elicotteri abbattuti e foto spettrali di villaggi distrutti, ma non un'aia dedicata alla/jietós verso il nemico, dove le immagini dei soldati americani feriti sembrano pensate più per un museo contro la guerra che per un museo contro l’America. E mai avrei immaginato di vedere bambini che giocano a guerre stellari su bombardieri arrugginiti e coppie domenicali che si fotografano in pose sorridenti vicino a un carro armato. Mausoleo di Ho Chi Minh (con corona di fiori) anche per Matteo Renzi il 9 giugno scorso, la prima volta che un premier italiano visita il Vietnam. «Oggi in Europa siamo il nono Paese per investimenti in Vietnam e noi per il Vietnam siamo il terzo. Dobbiamo recuperare posizioni». «L'obiettivo è raggiungere un interscambio di 5 miliardi di dollari (3,7 miliardi di euro) con il Vietnam, che per noi è un Paese strategico. Questo è l'anno del cavallo. Dobbiamo essere ancora più veloci». Veloci in una terra ancora poco industrializzata, grande produttrice di riso e ora anche di caffè (molto promosso, qualità credo non pregiata, ma gusto amabile di cioccolato). Veloci in un Paese che Amnesty International (online la pubblicazione Silenced Voices. Prisoners of conscience in Vietnam, 2013) tiene d'occhio per violazione di diritti umani soprattutto per buddisti, cattolici e minoranze etniche. Veloci in un Paese dove da poco il governo ha aperto alle coppie di fatto anche omosessuali, tanto che si dice che il Vietnam contende alla Thailandia il futuro primato di prima nazione asiatica che potrebbe legalizzare i matrimoni tra persone dello stesso sesso. Un pediatra newyorkese in pensione ad Hanoi gestisce un bel negozio di arti minori in un quartiere dove attraversare la strada è un'impresa. Conosce bene il Vietnam e alla mia domanda Come vive un americano ad Hanoi?, risponde: «Magnificamente». Nonostante gli effetti dell'agente arancio non siano ancora svaniti? «I vietnamiti sono nemici dei governi, non dei popoli. E se ce l'hanno con qualcuno, ce l'hanno con i cinesi». Un'avversione millenaria che non impedisce al Vietnam di oggi, social -capitalista, di assomigliare a una piccola Cina. Forza di lavoro giovanile, disciplina, slancio commerciale. Ma è una somiglianza che si dissolve in fretta per lasciare spazio a un'altra fisionomia. Di Paese lungo e magro, da sempre dominato, da poco riunito. La cui storia è più complicata dello schema buoni/ cattivi che ricordiamo dai nostri semplici anni rivoluzionari e si intreccia con memorie di antichi conflitti tra nord e sud, comunisti, cattolici e buddisti, contadini e borghesi, sullo sfondo feroce delle occupazioni cinesi e francesi. Il cui presente è più complesso del maniacale investimento sul turismo che anestetizza il dolore e imbalsama la memoria. Due immagini della cerimonia dello scoprimento di una targa ricordo della presenza di Ho Chi Minh a Milano, all’esterno dell’Antica trattoria della Pesa, dove il futuro presidente ha lavorato durante il suo esilio.
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