XXVI domenica TO A 2014

XXVI domenica TO A
Ez 18,25-28; Sal 24; Fil 2,1-11; Mt 21,28-32
Prima Lettura Ez 18, 25-28
Se il malvagio si converte dalla sua malvagità, egli fa
vivere se stesso.
Dal libro del profeta Ezechiele
Così dice il Signore:
«Voi dite: “Non è retto il modo di agire del Signore”.
Ascolta dunque, casa d’Israele: Non è retta la mia
condotta o piuttosto non è retta la vostra?
Se il giusto si allontana dalla giustizia e commette il male
e a causa di questo muore, egli muore appunto per il
male che ha commesso.
E se il malvagio si converte dalla sua malvagità che ha commesso e compie ciò che è retto e giusto, egli fa
vivere se stesso. Ha riflettuto, si è allontanato da tutte le colpe commesse: egli certo vivrà e non morirà».
Seconda Lettura Fil 2, 1-11 (Forma breve Fil 2, 1-5)
Abbiate in voi gli stessi sentimenti di Cristo Gesù.
Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Filippesi
[ Fratelli, se c’è qualche consolazione in Cristo, se c’è qualche conforto, frutto della carità, se c’è qualche
comunione di spirito, se ci sono sentimenti di amore e di compassione, rendete piena la mia gioia con un
medesimo sentire e con la stessa carità, rimanendo unanimi e concordi.
Non fate nulla per rivalità o vanagloria, ma ciascuno di voi, con tutta umiltà, consideri gli altri superiori a
se stesso. Ciascuno non cerchi l’interesse proprio, ma anche quello degli altri.
Abbiate in voi gli stessi sentimenti di Cristo Gesù ]:
egli, pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio,
ma svuotò se stesso assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini.
Dall’aspetto riconosciuto come uomo, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte
e a una morte di croce. Per questo Dio lo esaltò e gli donò il nome che è al di sopra di ogni nome,
perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra,
e ogni lingua proclami: «Gesù Cristo è Signore!», a gloria di Dio Padre.
Vangelo Mt 21, 28-32
Pentitosi, andò. I pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio.
Dal vangelo secondo Matteo
In quel tempo, disse Gesù ai principi dei sacerdoti e agli anziani del popolo: «Che ve ne pare? Un uomo
aveva due figli; rivoltosi al primo disse: Figlio, và oggi a lavorare nella vigna. Ed egli rispose: Sì, signore;
ma non andò. Rivoltosi al secondo, gli disse lo stesso. Ed egli rispose: Non ne ho voglia; ma poi, pentitosi,
ci andò. Chi dei due ha compiuto la volontà del padre?». Dicono: «L'ultimo».
E Gesù disse loro: «In verità vi dico: I pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio.
E` venuto a voi Giovanni nella via della giustizia e non gli avete creduto; i pubblicani e le prostitute invece
gli hanno creduto. Voi, al contrario, pur avendo visto queste cose, non vi siete nemmeno pentiti per
credergli».
1
Nella prima lettura (Ez 18,25-28) il profeta Ezechiele (Yechezkel, «Dio dà forza», nato intorno al 620
a.C. dal sacerdote Buzi. Fu deportato a Babilonia nel 597 a.C. assieme al re Ioiachin e si stabilì nel villaggio di
Tel Aviv sul fiume Chevar), contesta l'opinione degli esuli di Babilonia che interpretavano la loro
situazione come conseguenza delle colpe dei padri, senza interrogarsi sulla propria condotta. Ma, nello
stesso tempo, ribadisce che coloro che si dispongono alla conversione potranno confidare nel Signore e nella
sua volontà di salvezza.
Ez 18,25: Voi dite: “Non è retto il modo di agire del Signore”. Ascolta dunque, casa
d’Israele: Non è retta la mia condotta o piuttosto non è retta la vostra? (wa´ámarTem lö´
yiTTäkën Deºrek ´ádönäy šim`û-nä´ Bêt yiSrä´ël hádarKî lö´ yiTTäkën hálö´ darkêkem lö´ yiTTäkëºnû, lett. «E
dite: Non è corretta via del Signore. Ascoltate orsù, casa di Israele: Forse via mia non è corretta? Forse non via vostra non è
corretta?»).
- Voi dite: “Non è retto il modo di agire del Signore” (wa´ámarTem lö´ yiTTäkën Deºrek ´ádönäy). I bene galutà, «i
figli dell’esilio», vivono con amarezza il presente attribuendo la catastrofe alle colpe del re che «fece ciò che è
male agli occhi del Signore». La lista dei re corrotti si ritrova nel secondo libro dei Re. Re di Israele: Ioram,
Acazia, Ioas, Amasia, Zaccaria, Menachèm, Pekachia, Osea. Re di Giuda: Manasse, Amon, Ioacàz, Ioiakìm,
Ioiakìn, Sedecìa. La teologia del tempo spiegava che i crimini compiuti dai capi del popolo avevano
raggiunto il colmo e oltrepassato la misura della misericordia divina; a Dio non restava che manifestare la
sua ira (af) per punire e purificare il suo popolo. Ma quale responsabilità poteva avere la generazione degli
esiliati? Se Dio tiene conto dei delitti dei padri, perché non tiene conto di chi «fece ciò che è retto agli occhi del
Signore» (Re di Giuda: Davide, Asa, Ioas, Amasia, Azaria, Iotam, Giosia, Ezechia)? L'obiezione: «Non è retto il
modo di agire del Signore» stava sulla bocca di coloro che credevano nella fatalità degli eventi. Dio risponde a
tale obiezione, perché si sente coinvolto nel rib «controversia bilaterale, disputa» che precede l'appello in
tribunale. Gli esiliati rivendicano la loro innocenza e considerano ingiusta la giustizia di Dio (cf Ger 12).
- Ascolta dunque, casa d’Israele (šim`û-nä´ Bêt yiSrä´ël). In Ez 18 Dio interpella sei volte la Bêt yiSrä´ël «casa
di Israele» (74x in Ez), segno del rapporto intimo che il Signore mantiene anche nel tempo della sventura,
dell'esilio (galut). Il popolo non è più Bêt-hammeºrî «genìa di ribelli» (lett. «casa di ribellione», Ez 12,2.19).
L'esortazione di Dio è rivolta a un popolo che si dispone a un nuovo inizio con senso di responsabilità.
18,26: Se il giusto si allontana dalla giustizia e commette il male e a causa di questo
muore, egli muore appunto per il male che ha commesso (Büšûb-caDDîq miccidqätô wü`äºSâ
`äºwel ûmët `álêhem Bü`awlô ´ášer-`äSâ yämût, lett. «Il tornare del giusto dalla giustizia sua e fa iniquità e muore,
per esse, per iniquità di lui che fa, morirà»).
18,27: E se il malvagio si converte dalla sua malvagità che ha commesso e compie ciò che
è retto e giusto, egli fa vivere se stesso (ûbüšûb räšä` më|riš`ätô ´ášer `äSâ wayyaº`aS mišPä†
ûcüdäqâ hû´ ´et-napšô yüHayyè, lett. «E il tornare l'empio da empietà sua che fece, e fa giudizio e giustizia, lui,
anima sua vivrà»).
- egli fa vivere se stesso (hû´ ´et-napšô yüHayyè). Questa espressione dà l'impressione che il peccatore si salvi
da sé, in verità ciò avviene perché egli ascolta la parola di Dio, portatrice di grazia.
18,28: Ha riflettuto, si è allontanato da tutte le colpe commesse: egli certo vivrà e non
morirà (wayyir´è (wayyäšôb) [wayy亚ob] miKKol-Püšä`äyw ´ášer `äSâ Häyô yiHyè lö´ yämût, lett. «E
vede e torna da tutte trasgressioni sue che fece, vivere vivrà, non morirà»).
Un mashal «proverbio» circolava tra gli esiliati: I padri han mangiato uva acerba e i denti dei figli si sono allegati
(18,2). Il principio della responsabilità personale, enunciato in maniera perentoria nel capitolo 18, è
strettamente legato al messaggio che Ezechiele rivolge agli esiliati: il tempo che Dio concede loro, non è un
tempo per attendere una liberazione da parte di chi era rimasto a Gerusalemme. È invece tempo per
convertirsi: Convertitevi e vivrete (18,32).
2
Gerusalemme è stata distrutta dai Babilonesi il 15 agosto del 587 a.C. La notizia sarà
arrivata a Babilonia mesi dopo. Nel frattempo il profeta aveva perso la parola, era diventato come muto. Il
proverbio I padri han mangiato uva acerba e i denti dei figli si sono allegati (18,2) che la gente ripeteva, alle
orecchie del profeta risultava ingannevole, perché era un modo per affermare che la speranza era svanita.
La falsità del proverbio viene denunciata dal profeta perché risultava un'accusa contro Dio e nascondeva il
risentimento di quella generazione nei confronti dei padri e di Dio stesso. Con questo stato d'animo non
si riusciva a prendere alcuna decisione, si era come paralizzati.
L'idea che i peccati dei padri potessero pesare come un destino fatale sui figli, per Ezechiele risulta
superato. Il profeta perciò sostiene il principio della responsabilità personale. Ora, la parola di Dio rende
possibile un nuovo inizio. Il cambiamento interiore sarà la grande novità. Al ritorno dall'esilio, Israele
guarderà di nuovo verso il futuro, verso la comunità dallo spirito nuovo. L'ultima parola resta la promessa
della vita che proviene solo da Dio.
La seconda lettura (Fil 2,1-11) ci propone l'accorata esortazione che Paolo fa ai cristiani di Filippi,
antica città della Tracia, attigua alla Macedonia e non distante dal mare Egeo. La Lettera ai Filippesi è una
delle sette lettere autoriali di Paolo (Rom, 1-2Cor, Gal, Fil, Fl, 1Ts). Filippesi è ritenuta la «lettera della gioia»,
il testamento in cui il bene inestimabile del vangelo, che è Cristo, è consegnato alla comunità che Paolo ha
amato di più e la prima che ha fondato in Europa. I cristiani di Filippi sono chiamati ἀγαπητοί, agapetoí
«amati», ἐπιπόθητοι, epipóthētoi «desiderati» (hapax legomenon nel greco biblico), «amati intensamente» (4,1).
Il clima positivo di questa Lettera è testimoniato anche dal fatto che riporta solo un elenco di virtù e non di
vizi (4,8).
Fil 2,1: Se dunque c’è qualche consolazione in Cristo, se c’è qualche conforto, frutto della
carità, se c’è qualche comunione di spirito, se ci sono sentimenti di amore e di
compassione, (Εἴ τις οὖν παράκλησις ἐν Χριστῷ εἴ τι παραμύθιον ἀγάπης, εἴ τις κοινωνία πνεύματος,
εἴ τις σπλάγχνα καὶ οἰκτιρμοί,).
- Se dunque (Εἴ τις οὖν). Il discorso di Paolo inizia con quattro frasi ipotetiche, introdotte dalla congiunzione
εἴ «se», che segnano il passaggio tematico che affronta le relazioni comunitarie dei Filippesi.
- consolazione in Cristo (παράκλησις ἐν Χριστῷ). All’inizio della lista delle virtù ecclesiali è collocata la
παράκλησις ἐν Χριστῷ, paráklēsis en Cristōi, «consolazione in Cristo». Il sostantivo paráklēsis può assumere
diverse sfumature: «consolazione» (cf 2Cor 1,3-7), «conforto» (cf Rm 1,8), «esortazione, supplica,
incoraggiamento» (cf 1Cor 14,3). In questo caso la vicinanza del sinonimo παραμύθιον, paramýthion
«conforto» restringe il significato di παράκλησις: si tratta dell’incoraggiamento e dell’esortazione che
scaturiscono dal loro condividere la morte e risurrezione di Cristo. Pertanto i destinatari sono incoraggiati da
Paolo a riscontrare in Cristo la ragione fondante del loro incoraggiamento comunitario.
- conforto, frutto della carità (παραμύθιον ἀγάπης). In continuità con l’esortazione in Cristo è collocato
παραμύθιον ἀγάπης «il conforto dell’amore», nel senso che l’agápē di Dio rappresenta la ragione e la
fonte del conforto dei Filippesi. Anche se il sostantivo παραμύθιον è ἅπαξ λεγόμενον , hápax legómenon
«una volta solo detto» nel NT (nella LXX si trova solo in Sap 3,18), tuttavia sono attestati sia il sinonimo
παραμυθία «consolazione, conforto» (1Cor 14,3) e sia il verbo παραμυθέομαι «incoraggio, consolo,
conforto» (1Ts 2,12; 5,14; Gv 11,19.31) che assumono lo stesso significato del binomio παράκλησιςπαρακαλέω.
- comunione di spirito (κοινωνία πνεύματος). L’elenco delle virtù prosegue con la κοινωνία πνεύματος
«comunione di spirito». Il sostantivo koinōnía, nell’epistolario paolino, caratterizza la comunione dei
credenti con Gesù Cristo (cf 1Cor 1,9), con il suo corpo e il suo sangue (cf 1Cor 10,16), oltre che con le sue
sofferenze (cf Fil 3,10), mentre per indicare la comunione reciproca fra i credenti Paolo utilizza il semplice
pronome ὑμῶν, hymōn «vostra» (Fil 1,5). L’unico parallelo di 2Cor 13,13, in cui si accenna alla «comunione
dello Spirito Santo», orienta decisamente verso la portata teologica di πνεῦμα, pneũma: in questione non è
semplicemente la comunione spirituale fra i credenti bensì quella che relaziona allo Spirito di Cristo.
3
- sentimenti di amore e di compassione (σπλάγχνα καὶ οἰκτιρμοί). L’ultima condizionale apparente del v. 1
interrompe il ritmo incalzante delle precedenti virtù per soffermarsi su «viscere e misericordie», due
sostantivi che caratterizzano nella LXX la vicinanza compassionevole e l’amore intenso del Signore per il
suo popolo (LXX: οἰκτιρμός, oiktirmós cf 2Re 24,14; Ne 1,11; 9,19; Sal 50,1; 68,16; 102,4; σπλάγχνα splágchna
cf Pr 12,10; 26,20; Sap 10,5; Sir 30,7; Ger 28,13. Entrambi i sostantivi traducono l’ebraico rachamim. Sull’amore
compassionevole (τῶν οἰκτιρμῶν) di Dio cf Es 34,6; Dt 4,31; 2Cr 30,9; Ne 9,31; Sal 24,6; 50,3; Sir 2,11; Is 63,15;
Os 2,21; Gn 4,2; Zc 1,16). A prima vista i due termini potrebbero esser considerati come un’endiadi, ma non
tutte le «viscere» sono di «misericordia» (cf Col 3,12), infatti possono attestare anche la poca disponibilità
nell’accoglienza dell’altro come dimostra la carenza di spazio nelle σπλάγχνοις, splánchnois dei Corinzi nei
confronti di Paolo (cf 2Cor 6,12). Per questo sono le οἰκτιρμοί, oiktirmoí o le «misericordie» a qualificare la
portata positiva delle «viscere», per cui possiamo rendere il binomio con «viscere di misericordie». Il
sostantivo οἰκτιρμός, oiktirmós è quasi esclusivo di Paolo nel NT: vi compare 4 volte (cf 2Cor 1,3; Rm 12,1;
qui e in Col 3,12) su 5. E poiché Dio è «padre delle misericordie e di ogni consolazione» (2Cor 1,3) dove si
offre lo spazio alle viscere di misericordie fra i credenti si rende presente ed operante la sua misericordia per
tutti gli esseri umani.
2,2: rendete piena la mia gioia con un medesimo sentire e con la stessa carità, rimanendo
unanimi e concordi (πληρώσατε μου τὴν χαρὰν ἵνα τὸ αὐτὸ φρονῆτε, τὴν αὐτὴν ἀγάπην ἔχοντες,
σύμψυχοι, τὸ ἓν φρονοῦντες,).
- rendete piena la mia gioia (πληρώσατε μου τὴν χαρὰν). Il verbo πληρώσατε, impt. aor. di πληρόω «riempio,
colmo, compio», è quello principale su cui convergono le virtù elencate da Paolo. La sua gioia, l’accento cade
sul possessivo μου, mou «mia», perviene alla pienezza perché sa che il loro essere in Cristo è confermato
dalla consolazione dell’amore, dalla comunione dello Spirito e dalle viscere di misericordie. L’esortazione a
completare la sua gioia introduce la seconda lista delle virtù, introdotta dalla congiunzione ἵνα hina
«affinché».
- medesimo sentire e con la stessa carità, rimanendo unanimi e concordi (τὸ αὐτὸ φρονῆτε, τὴν αὐτὴν ἀγάπην
ἔχοντες, σύμψυχοι, τὸ ἓν φρονοῦντες,). Interessante è la disposizione chiastica dei quattro valori
comunitari segnalati: (a) lo stesso sentire, (b) avendo lo stesso amore, (b’) unanimi, (a’) l’unico sentire. Il
centro del chiasmo (b-b’) è occupato dalla corrispondenza tra l’agapē e l’aggettivo σύμψυχος «unanime»;
l’amore, da cui scaturisce la consolazione comunitaria, caratterizza adesso le relazioni interpersonali fra i
Filippesi. Di particolare rilevanza è l’aggettivo composto σύμ-ψυχοι, sým-psykoi che non compare mai
altrove in tutto il greco biblico e che per alcuni studiosi è di fattura paolina. L’insistenza cade più sulla
preposizione «con» σύν, sýn che sul sostantivo ψυχή, psyké, anche se in seguito saranno utilizzati il verbo
εὐψυχέω «sono di buon animo» (Fil 2,19) e l’aggettivo ἰσόψυχος «lo stesso animo» (Fil 2,20). Diversi sono i
termini composti con la preposizione «con» σύν, sýn che Paolo utilizza nel corso della Lettera ai Filippesi:
συγκοινωνός «compagno» (cf Fil 1,7), συναθλέω «lotto insieme» (cf Fil 1,27; 4,3), συγχαίρω «mi rallegro, mi
congratulo» (cf Fil 2,17.18), συνεργός «collaboratore» (cf Fil 2,25; 4,3), συστρατιώτης «compagno di lotta» (cf
Fil 2,25), συμμορφόω «mi conformo» (cf Fil 3,10) e συγκοινωνέω «condivido, compartecipo» (cf Fil 4,14).
Tutti pongono in risalto la comunione dei credenti con Cristo e fra loro. Pertanto avere lo stesso amore
significa, di fatto, essere unanimi per proseguire «con un’anima sola nel combattimento per la fede del
vangelo» (cf Fil 1,27). Il verbo φρονῆτε, cong. pres. di φρονέω «penso, considero, valuto, nutro sentimenti,
ho stima», coinvolge non soltanto il pensare ma anche il sentire e l’operare, come se si trattasse di un’unica
persona: «Come infatti il corpo è uno solo e ha molte membra, e tutte le membra del corpo, pur essendo molte, sono un
corpo solo, così anche il Cristo» (1Cor 12,12). Nell’orizzonte ecclesiale, Paolo intende evidenziare non
l’abolizione dei diversi modi di pensare, bensì l’unicità della fede in Cristo, che si trova all’origine delle
diversità dei carismi e dei ministeri. In tal senso l’aggettivo numerale τὸ ἓν, tò hèn, «l'uno» svolge un ruolo
di primo piano nell’ecclesiologia paolina, poiché di fronte a qualsiasi tensione comunitaria Paolo cerca
sempre di ricuperare l’unità originaria da cui scaturisce la diversità.
2,3: Non fate nulla per rivalità o vanagloria, ma ciascuno di voi, con tutta umiltà,
consideri gli altri superiori a se stesso (μηδὲν κατ’ ἐριθείαν μηδὲ κατὰ κενοδοξίαν, ἀλλὰ τῇ
ταπεινοφροσύνῃ ἀλλήλους ἡγούμενοι ὑπερέχοντας ἑαυτῶν).
4
- Non fate nulla per rivalità o vanagloria (μηδὲν κατ’ ἐριθείαν μηδὲ κατὰ κενοδοξίαν). La lista delle virtù è
interrotta da una proposizione in cui si trovano contrapposti i due vizi della «rivalità» e della «vanagloria»
contro il valore dell’umiltà. Il sostantivo ἐριθεία, eritheía «ambizione, briga, contesa, rivalità» è già stato
utilizzato in Fil 1,17 e in 2Cor 12,20; Gal 5,20; Rm 2,8. La rivalità tende a minare la comunione fra i credenti
e il loro «unico sentire» (v. 2). La κενοδοξία, kenodoxía «vanteria, vanagloria» è hapax nel NT (cf Gal 5,26). Il
sostantivo è composto dalla radice verbale kenó-, che significa all’attivo «svuotare» e al passivo «essere vano»
o «essere vanificato» (cf 1Cor 1,17), e dal termine dóxa «gloria, stima», per cui può essere tradotto con
«vanagloria». Nell’inno cristologico di Fil 2,5-11: Cristo Gesù… ἐκένωσεν «svuotò se stesso», cioè rinunciò a
ogni vanagloria; perciò Dio lo ὑπερύψωσεν «sovraesaltò» (v. 9), in vista della sua partecipazione
all’autentica δόξα divina (v. 11).
- ma ciascuno di voi, con tutta umiltà, consideri gli altri superiori a se stesso (ἀλλὰ τῇ ταπεινοφροσύνῃ ἀλλήλους
ἡγούμενοι ὑπερέχοντας ἑαυτῶν, lett. «ma con umiltà gli uni gli altri reputando essenti superiori di se stessi»). Il
sostantivo ταπεινοφροσύνη «umiltà» (7x nel NT di cui 5 nelle lettere di Paolo) è la virtù che anticipa la
condizione di Cristo resosi servo: ἐταπείνωσεν «umiliò» se stesso (v. 8). Mentre il valore dell’«unico sentire»
trova diversi riscontri nella letteratura greco-romana antica, quello dell’umiltà è tipicamente biblico. La
figura dell'`änî «umile, afflitto» (Is 66,2) corrisponde al Servo che ripone nel Signore la propria fiducia.
Nella letteratura greca quella dell’umile più che una virtù è considerata una condizione di sudditanza. Per
questo, nelle poche attestazioni della tapeinophrosýnē al di fuori del NT, autori come Epitteto e Flavio
Giuseppe, la considerano più come un vizio da accostare all’adulazione e alla viltà che una virtù. Scrive
Flavio Giuseppe a proposito di Galba: «… come accusato dai soldati di abiezione (tapeinophrosynēi), fu
trucidato in mezzo al foro di Roma» (Guerra 4,9,2). Soltanto nell’orizzonte della fiducia nel Signore, l’umiltà
assurge a valore (cf Lc 1,48) al punto da essere inserita nella lista delle virtù di Col 3,12 e di Ef 4,2. La
connotazione positiva dell’umiltà è attestata anche dalla letteratura qumranica: «E tutti quindi staranno in
una comunità di verità, di buona umiltà, di amore misericordioso e di giusto pensiero, uno accanto all’altro
nel consiglio santo, membri di una società eterna» (1QS 2,24-25; cf 1QS 4,3: «È uno spirito di umiltà, di
pazienza, abbondante misericordia, bontà eterna, intelligenza, comprensione, sapienza …»; 1QS 5,3,24-25:
«Ciascuno rimproveri il suo vicino riguardo alla verità, all’umiltà, all’amore misericordioso per l’uomo»).
Secondo l’apocrifo Testamento di Gad 5,3 «la giustizia espelle l’odio, l’umiltà (ταπείνωσις) elimina l’invidia».
Testamento di Ruben 6,10: «Avvicinatevi a Levi nell’umiltà del vostro cuore, affinché riceviate benedizione
dalla sua bocca» (cf anche Testamento di Giuda 19,2; Testamento di Giuseppe 10,2; Lettera di Aristea 257; 262-263).
Vivere l'umiltà nella Chiesa significa ἀλλήλους ἡγούμενοι ὑπερέχοντας ἑαυτῶν «gli uni gli altri reputando
essenti superiori di se stessi», stimare gli altri superiori a se stessi. Interessante è l’uso del verbo ἡγέομαι che
significa «considero, stimo, valuto». Di Cristo è detto οὐχ ἁρπαγμὸν ἡγήσατο τὸ εἶναι ἴσα Θεῷ «non
ritenne un privilegio l’essere come Dio» (v. 6). Così l’umiltà non è valutata tanto dall’auto-considerazione o
dall’autostima bensì dalla relazione di reciprocità e di corrispondenza, espressa dal pronome ἀλλήλους
sul quale Paolo insiste più volte nelle sezioni esortative del suo epistolario (1Ts 4,9.18; 5,11.15; 1Cor 16,20;
2Cor 13,12; Gal 5,13.15.17.26; 6,2; Rm 12,5.10.10.16; 13,8; 14,13.19; 15,5.7). Considerare gli altri superiori a se
stesso significa avere una giusta misura di sé, secondo «il metro dell'affidabilità ricevuto dal Signore» (cf
2Cor 11,13; Rm 12,3), senza lasciarsi vincere o corrodere da atteggiamenti di rivalità e d’invidia che rischiano
di minare la profonda comunione fra i credenti.
2,4: Ciascuno non cerchi l’interesse proprio, ma anche quello degli altri (μὴ τὰ ἑαυτῶν
ἕκαστοι σκοπουντες, ἀλλὰ καὶ τὰ ἑτέρων ἕκαστοι).
- Ciascuno non cerchi l’interesse proprio (μὴ τὰ ἑαυτῶν ἕκαστοι σκοπουντες). Paolo preferisce indugiare
ancora sul valore dell’umiltà. In forma antitetica, Paolo da una parte esorta a non badare ai propri interessi,
dall’altra a porre attenzione anche su quelli degli altri. Formule analoghe si riscontrano nell’etica paolina:
«Nessuno cerchi il proprio (vantaggio) bensì quello dell’altro» (1Cor 10,24); e l’agápē «non cerca le proprie
cose» (1Cor 13,3). Nella stessa Lettera ai Filippesi Paolo elogerà Timoteo perché si è preoccupato «delle cose
che riguardano gli stessi destinatari» mentre «tutti cercano i propri interessi, non quelli di Gesù Cristo» (cf
Fil 2,20-21). L’intera esortazione di Fil 2,1-4 non si sofferma minimamente sull’attenzione agli interessi
personali, bensì sulla partecipazione dei credenti nella comunità.
Il caso di Evodia e Sintiche, due sorelle in discordia tra di loro, turba l’assemblea (cf Fil 4,2). Perciò
l'esortazione paolina non è astratta, ma tiene conto di una difficoltà concreta della comunità.
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2,5: Abbiate in voi gli stessi sentimenti di Cristo Gesù: (τοῦτο φρονεῖτε ἐν ὑμῖν ὁ καὶ ἐν Χριστῷ
Ἰησοῦ, Pitta: «Questo valutate in voi che (è) anche in Cristo Gesù»).
Una formula esortativa introduce l'inno cristologico. Il verbo φρονεῖτε crea un importante aggancio con il
paragrafo precedente dove «lo stesso sentire» e «l’unico sentire» (v. 2) hanno caratterizzato l’esortazione
paolina. Per questo la traduzione con il verbo «sentire», più che con il sostantivo «sentimenti», esprime
meglio le relazioni buone che i Filippesi devono stabilire. L'espressione ἐν ὑμῖν, en hymĩn può essere intesa
in diversi modi: «in voi», con accentuazione personale dei destinatari, o «fra voi» con l’insistenza sulle
relazioni ecclesiali. Entrambe le accezioni possono essere sostenute, anche se in Fil 1,6 e in Fil 2,13 domina
l’orizzonte comunitario della formula, come d’altro canto nell’intero paragrafo di Fil 2,1-4. Tipica è
l'espressione ἐν Χριστῷ Ἰησοῦ, en Christỗ Iesoũ, che rimanda alla relazione tra i credenti e Cristo. Non è
semplice stabilire la portata della formula ἐν Χριστῷ Ἰησοῦ. Diverse sono le sfumature della relazione tra i
credenti e Cristo, comunque dal modo di pensare di Cristo scaturisce quello dei credenti.
Il commento ai vv. 6-11 si possono leggere nella liturgia della Domenica delle Palme (A).
Il vangelo (Mt 21,28-32) ci parla di Gesù che, entrato trionfalmente a Gerusalemme e acclamato dalla
folla come il figlio di Davide (21,9), purifica il Tempio dichiarandolo «casa di preghiera» (21,13). I capi dei
sacerdoti e gli scribi sdegnati protestano contro Gesù (21,15), che si ritira a Betania per trascorrere la notte
(21,17). Il giorno dopo, mentre insegna nel Tempio viene affrontato dai capi dei sacerdoti e dagli anziani del
popolo che gli chiedono: «Con quale autorità fai queste cose?» (v. 23). Gesù risponde con una controdomanda interrogandoli sull'origine dell'autorità di Giovanni Battista (21,23-27). Questa è la prima di cinque
controversie avvenute tra Gesù e i suoi avversari. La serie dei dibattiti è interrotta da tre parabole che
hanno per tema il giudizio associato al rifiuto di Cristo da parte dei capi dei sacerdoti e degli anziani del popolo
(21,28-22,14). Ci soffermiamo sulla prima parabola, quella dei due figli.
Mt 21,28: «Che ve ne pare? Un uomo aveva due figli. Si rivolse al primo e disse: “Figlio,
oggi va’ a lavorare nella vigna” (Τί δὲ ὑμῖν δοκεῖ; ἄνθρωπος εἶχεν τέκνα δύο. [καὶ] προσελθὼν τῷ
πρώτῳ εἶπεν• τέκνον, ὕπαγε σήμερον ἐργάζου ἐν τῷ ἀμπελῶνι, lett. «Cosa a voi sembra? Un uomo aveva figli
due ed essendosi avvicinato al primo disse: Figlio, va' oggi lavora nella vigna»).
- Che ve ne pare? (Τί δὲ ὑμῖν δοκεῖ;). Gli interlocutori di Gesù nel dibattito sono i capi dei sacerdoti e gli
anziani del popolo. Il loro tentativo di far pronunciare a Gesù una dichiarazione blasfema viene sventato dal
suo controinterrogatorio sull'origine del battesimo di Giovanni. La critica ai capi dei sacerdoti e agli anziani
prosegue in questa prima parabola (21,28-32), ove si allude all'accoglienza riservata a Giovanni Battista:
alcuni hanno creduto e altri non hanno creduto alla predicazione del Battista; dunque la distinzione si
consuma all'interno del popolo ebraico.
- Un uomo aveva due figli (ἄνθρωπος εἶχεν τέκνα δύο). La trasmissione della parabola dei due figli è molto
confusa. Alcuni testimoni importanti, come il codice Vaticano (B), invertono l'ordine dei due figli. Questo
cambiamento potrebbe essere dovuto a una ragione ideologica centrata su una certa visione della storia della
salvezza: il primo figlio che dice di andare ma poi non va, veniva identificato con i Giudei, mentre il secondo
figlio che dice di non voler andare ma poi va, veniva identificato con i pagani. Sul piano della critica testuale è
da preferire l'ordine della traduzione più condivisa, anche dalla CEI: il testo attuale si fonda su
testimonianze importanti, come il codice Sinaitico, di Efrem riscritto (C), il codice Regio (L), di Cipro (K), di
Washington (W) e diverse versioni antiche.
- nella vigna (ἐν τῷ ἀμπελῶνι). Il simbolismo della vigna (ἀμπελών, ῶνος, ὁ) è ben attestato in Is 5 e ripreso
da Matteo più volte. La parabola può essere riferita a quanto precede: domanda sul battesimo di Giovanni
Battista (21,23-27) o alla parabola dei vignaioli omicidi che segue (21,33-46).
21,29: Ed egli rispose: “Non ne ho voglia”. Ma poi si pentì e vi andò (ὁ δὲ ἀποκριθεὶς εἶπεν• οὐ
θέλω, ὕστερον δὲ μεταμεληθεὶς ἀπῆλθεν, lett. «Egli allora rispondendo disse: Non voglio! In seguito però essendosi
pentito andò»).
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- Ma poi si pentì (ὕστερον δὲ μεταμεληθεὶς). Il verbo μεταμεληθεὶς, aor. part. med. di μεταμέλομαι «mi
pento, ritratto», ritorna altre due volte in Matteo, in 21,32 e in 27,3: Allora Giuda – colui che lo tradì –, vedendo
che Gesù era stato condannato, preso dal rimorso, riportò le trenta monete d’argento ai capi dei sacerdoti e agli
anziani. Nella parabola è messo in rilievo non solo il ποιεῖν, il «fare», la prassi, bensì anche quella forma di
resipiscenza che viene chiamata «pentimento». Il verbo μεταμέλομαι, metamélomai (6x NT; 3x Mt; 2x 2Cor;
1x Eb) è meno radicale di μετανοεῖν, metanoeĩn, «convertirsi». Il primo figlio dice di non voler andare a
lavorare «ma alla fine (ὕστερον), pentitosi, vi andò». Ai capi religiosi del suo popolo Gesù rimprovera di
non essersi pentiti «neppure alla fine» (ὕστερον, hýsteron: v. 32). Nessuno dei due figli, neppure il primo,
può vantare un'obbedienza perfetta, una piena corrispondenza tra il dire e il fare, tra la parola e la prassi.
Ma ciò non è determinante. La salvezza non è data dalla perfetta conformità della prassi alla parola: l'unica
possibilità di salvezza deriva dalla capacità di ricredersi, dal coraggio di contraddirsi: è il pentimento che
deve sopraggiungere almeno «alla fine», che deve diventare la sorgente ispiratrice della decisione finale.
21,30: Si rivolse al secondo e disse lo stesso. Ed egli rispose: “Sì, signore”. Ma non vi andò
(προσελθὼν δὲ τῷ δευτέρῳ εἶπεν ὡσαύτως. ὁ δὲ ἀποκριθεὶς εἶπεν• ἐγώ κύριε καὶ οὐκ ἀπῆλθεν, lett.
«Essendosi avvicinato poi all'altro disse allo stesso modo. Egli rispondendo disse: Io signore (vado). Ma non andò»).
21,31: Chi dei due ha compiuto la volontà del padre?». Risposero: «Il primo». E Gesù disse
loro: «In verità io vi dico: i pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio (τίς
ἐκ τῶν δύο ἐποίησεν τὸ θέλημα τοῦ πατρός; λέγουσιν• πρῶτος. λέγει αὐτοῖς ὁ Ἰησοῦς• ἀμὴν λέγω ὑμῖν
ὅτι οἱ τελῶναι καὶ αἱ πόρναι προάγουσιν ὑμᾶς εἰς τὴν βασιλείαν τοῦ θεοῦ, lett. «Chi dei due fece la volontà
del padre? Dicono: Il primo. Dice a loro Gesù: Amèn dico a voi che i pubblicani e le prostitute precedono voi nel regno dei
cieli»).
- Chi dei due ha compiuto la volontà del padre? Risposero: «Il primo» (τίς ἐκ τῶν δύο ἐποίησεν τὸ θέλημα τοῦ
πατρός; λέγουσιν• πρῶτος). Ancora una volta gli avversari di Gesù sono costretti a fare un'ammissione con
la quale condannano se stessi. Si sono dimostrati meno ricettivi nei confronti dei profeti di Dio, Giovanni
e Gesù, di quanto non lo sia stata la feccia della società giudaica. La non corrispondenza tra il dire e il
fare, comune a entrambi i figli, viene risolta dalla parte del ποιέω, poiéō «fare»: il dire rimane sempre
ambiguo, solo il fare è decisivo. I rabbini non insegnano diversamente e infatti gli interlocutori di Gesù
sanno rispondere esattamente alla domanda: Chi dei due ha fatto la volontà del padre? Non chi ha detto di
sì, ma chi ha lavorato nella vigna.
- In verità io vi dico: i pubblicani e le prostitute (ἀμὴν λέγω ὑμῖν ὅτι οἱ τελῶναι καὶ αἱ πόρναι). La parabola
diventa profeticamente provocante: il giudizio di Gesù causa un rovesciamento inatteso nei destinatari del
regno: οἱ τελῶναι καὶ αἱ πόρναι «i pubblicani e le prostitute» προάγουσιν ὑμᾶς «vi passano avanti» εἰς τὴν
βασιλείαν τοῦ θεοῦ «nel regno di Dio», cioè «prendono il vostro posto». Il verbo προάγουσιν è ind. pres. di
προάγω «porto avanti, precedo, progredisco». Esattori di imposte e prostitute non erano soltanto «pubblici
peccatori», erano anche i peggiori collaborazionisti col potere d'occupazione romano e i meno interessati al
«regno di Dio».
21,32: Giovanni infatti venne a voi sulla via della giustizia, e non gli avete creduto; i
pubblicani e le prostitute invece gli hanno creduto. Voi, al contrario, avete visto queste
cose, ma poi non vi siete nemmeno pentiti così da credergli (ἦλθεν γὰρ Ἰωάννης πρὸς ὑμᾶς ἐν
ὁδῷ δικαιοσύνης καὶ οὐκ ἐπιστεύσατε αὐτῷ, οἱ δὲ τελῶναι καὶ αἱ πόρναι ἐπίστευσαν αὐτῷ• ὑμεῖς δὲ
ἰδόντες οὐδὲ μετεμελήθητε ὕστερον τοῦ πιστεῦσαι αὐτῷ, lett. «È venuto infatti Giovanni a voi in via della
giustizia e non credeste a lui, ma i pubblicani e le prostitute credettero a lui. Voi, invece, avendo visto neppure vi siete pentiti
in seguito per credere a lui»).
- ma poi non vi siete nemmeno pentiti così da credergli (οὐδὲ μετεμελήθητε ὕστερον τοῦ πιστεῦσαι αὐτῷ).
L'ultimo versetto applica la parabola ai capi dei sacerdoti e agli anziani, che vengono contrapposti alle classi
più disprezzate della società giudaica. L'avverbio ὕστερον «poi» è importante, perché crea il collegamento
con il v. 29 («dopo, pentitosi...»), facendo rilevare la differenza di atteggiamento del figlio nella parabola
rispetto a quello dei capi dei sacerdoti. I pubblicani e le prostitute ὕστερον «alla fine» si sono pentiti e in tal
modo hanno fatto di più per il regno di quanti vi hanno creduto solo a parole. La partita per il regno si
gioca tutta nell'accoglienza e nell'adesione alla predicazione penitenziale del Battista. Benché la venuta di
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Giovanni sia distinta da quella di Gesù, sono entrambe interdipendenti e coordinate nella storia del regno. Il
verbo πιστεύειν «credere», in questo contesto, denota obbedienza alla ὁδός δικαιοσύνης, alla «via della
giustizia» predicata da Giovanni, che è la stessa ὁδός τοῦ θεοῦ «via di Dio» insegnata da Gesù (22,16), cioè è
la volontà del Padre che è nei cieli. La vera fede, in altre parole, non è solo adesione interiore. La mancanza
di fede è già di per se stessa una mancanza di «giustizia», di obbedienza e quindi di buone opere. La
somiglianza fra Gesù e Giovanni, che è molto rimarcata da Matteo, sta precisamente nel compimento di
πᾶσα δικαιοσύνη «ogni giustizia» (3,15), che è il loro mandato comune. Perciò si può dire che la mancanza
di fede in Giovanni è anche mancanza di fede in Gesù, e questa parabola è la migliore spiegazione della
contro-domanda di Gesù ai capi dei sacerdoti: τὸ βάπτισμα τὸ Ἰωάννου πόθεν ἦν; «Il battesimo di
Giovanni da dove veniva?» (21,25).
La parabola della vigna e dei due figli (21,28-32). La parabola dei due figli o della vigna (la
seconda; la prima si trova in 19,30-20,16) fa parte del materiale proprio di Matteo. Composta di tre soli
versetti, è incorniciata da due domande che provocano l'attenzione dell'interlocutore: «Che ve ne pare?» (v.
28), tipica formula classica rabbinica; «Chi dei due?» (v. 31). Precedentemente Gesù ha formulato un'altra
domanda sul valore del battesimo di Giovanni, rivolta ai capi dei sacerdoti e agli anziani del popolo: Il
battesimo di Giovanni da dove veniva? Dal cielo o dagli uomini? (v. 25). Il valore del saper porre domande, tipico
della cultura ebraica, rimane tuttora di estrema attualità.
L'interpretazione della parabola è controversa: varia sin dall'antichità a seconda degli autori, che si
soffermano sulle figure dei due figli di cui parla Gesù.
1) Per alcuni Padri, il figlio che non va a lavorare nella vigna è Israele. Questa lettura ha veicolato
quella teologia detta «della sostituzione» secondo la quale per il popolo dell'alleanza non vi sarebbe più
alcun ruolo nella storia della salvezza, ruolo che verrebbe assunto dalla Chiesa. Ma Gesù non sta
discutendo con il popolo di Israele, ma solo con alcuni dei suoi leader (i capi dei sacerdoti e gli anziani del
popolo, 21,23.45). È a questi che Gesù parla, dicendo poco più avanti: «il regno di Dio sarà tolto a voi e sarà dato
a una nazione che produce i suoi frutti» (21,43). Questa prima interpretazione viene riconosciuta da Ilario di
Poitiers (300-368), ma solo per i farisei. Tuttavia qui Gesù si sta rivolgendo ai Sadducei e agli anziani del
popolo e non ai farisei.
2) A guardar bene, la parabola è centrata sul rapporto tra il «dire» e il «fare». Compiere la volontà
del padre, per Gesù non è semplicemente una questione di parole, quanto piuttosto di fatti: «Non chiunque mi
dice "Signore, Signore" entrerà nel Regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli» (7,21). I
leader religiosi a cui si rivolge la parabola, che credono di poter servire Dio e di essere fedeli alla Torà, di
fatto non gli obbediscono. Per questo Gesù li rimprovera di non aver ascoltato il messaggio del Battista,
venuto ἐν ὁδῷ δικαιοσύνης «sulla via della giustizia» (21,32), mentre paradossalmente l'hanno ascoltato e
messo in pratica coloro che sono considerati incapaci di seguire i comandi di Dio: οἱ τελῶναι καὶ αἱ πόρναι
«i pubblicani e le prostitute» (21,31-32). Sono questi i figli che vanno a lavorare nella vigna e che
entreranno per primi nel Regno. Sotto questo aspetto, la parabola è molto vicina alla concretezza della
Lettera di Giacomo, soprattutto quando insiste sulla contraddizione tra l'avere la fede ma non le opere (cf Gc
2,14-17).
A conclusione della parabola Gesù dice che Giovanni era venuto ἐν ὁδῷ δικαιοσύνης «sulla via
della giustizia» (v. 32), con una metafora che potrebbe riferirsi o alla storia della salvezza nella quale è
inserito anche il Battista, in quanto precursore di Gesù, oppure al comportamento giusto, conforme alla
volontà di Dio, che ha connotato la vita di Giovanni. Il concetto di giustizia per Matteo, diverso da quello di
Paolo, assume un significato specifico e diventa quasi il suo «concetto-guida». Matteo infatti descriverà
Gesù, durante la sua passione: Mentre egli sedeva in tribunale, sua moglie gli mandò a dire: «Non avere a che fare
con quel giusto, perché oggi, in sogno, sono stata molto turbata per causa sua» (cf 27,19), come aveva già detto del
Battista. La «giustizia» è sin dall'inizio del vangelo il programma che Gesù ha deciso di adempiere e che è
stato espresso nelle sue prime parole, pronunciate davanti a Giovanni in occasione del battesimo nel
Giordano: Lascia fare per ora, perché conviene che adempiamo ogni giustizia (3,15). Per Matteo dunque è
importante soprattutto «compiere», praticare la giustizia (6,1), come mostra di fare il figlio della parabola
che compie la volontà del padre.
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